Dopo un anno e mezzo di latitanza gli sgherri dei padroni
Centro di documentazione dei Movimenti F. Lorusso‑C. Giuliani – Fondo Franco Cenacchi
Centro di documentazione dei Movimenti F. Lorusso‑C. Giuliani – Fondo Franco Cenacchi
Centro di documentazione dei Movimenti F. Lorusso‑C. Giuliani – Raccolta periodici (marzo 1976 – n.6)
. Il desiderio giudica la storia. Ma chi giudica il desiderio?
. Indietro fino in fondo o A/traverso?
. Scrittura collettiva e movimento
. Bum Bum Bum
. Lavoro marginale e carovana desiderante
Centro studi politici e sociali – Archivio storico il sessantotto di Firenze
Giornale dei non-garantiti (praticamente tutti)
Centro di documentazione dei Movimenti F. Lorusso‑C. Giuliani – Raccolta periodici
di Diego Benecchi
Iniziò con una Jacquerie, quante volte ce lo siamo ripetuto, ed entrammo nella storia.
Volevamo eliminare tutti i miti, ne abbiamo distrutti tanti, ma anche costruiti di nuovi, a tal punto che finita la meravigliosa illusione, il sogno, ci siamo trovati schiacciati dalla storia, quella pubblica, degli altri. La nostra, fatta di tenerezze, scritte sui muri, cortei gioiosi e militari, tensioni, rimane nostalgico ricordo, per alcuni neanche consapevole memoria.
L’ironia spaventò il potere, l’incontrollabile lo spiazzò, ma con abilità esso iniziò il lungo corteggiamento, si rese disponibile, offri spazi. Tanti compagni rimasero invischiati, e, pure attraverso loro, il potere fattosi consumabile riadattò rapidamente le sue forme di controllo alla nuova realtà. La ricerca della mediazione e del consenso intellettuale, fra chi aveva già da tempo fatto le sue scelte, ridussero come un tumore maligno a storia borghese l’incommensurabile e mai trascrivibile poesia dei nostri gesti di rivolta.
Attualmente fioriscono i fogli, piacerebbe scrivere d’agitazione, ma non è possibile, altro non contengo-no che: privato, centri alternativi, qualche elucubrazione. La conoscenza si impone su tutto, giovani desiderosi di giocare a fare gli intellettuali, scrittori in erba, poeti in ritardo che parlano del ’77, dopo che i muri sono stati ripuliti, sono interessanti ma non sufficienti. Non ci si sente liberi quando solo si legge o si scrive o si seguono i vari dibattiti accademici, si è più liberi in un carcere organizzandosi con i detenuti, per migliorare le condizioni di esistenza, che continuare a circolare fra fantasmi lamentosi della mancanza di certezze.
Ebbene, mai come ora la situazione è eccellente, la fine delle ideologie costringe, finalmente, ad affrontare il sociale armati solo della nostra soggettività, e questa è l’arma migliore.
Non più passato né futuro, entrambi ci ricondurrebbero a cercare la mediazione mentre l’unica alternativa risiede nella ricerca di una continua rottura immediata e nella soddisfazione delle proprie azioni, siano esse pacifiche o violente, poco importa se gratuite. Non c’è più vita, a meno di essere Potere, senza ritorno alla prassi, alla sperimentazione della libertà attraverso l’autovalorizzazione dell’antagonismo quotidiano. L’autovalorizzazione (conquista di libertà, superamento degli schemi) è possibile se fondata sulla ripetizione ritmica, di massa, dei gesti che distruggono il Potere. Stiamo inoltre guarendo dalla malattia delle ideologie, di fronte al crollo dei punti di riferimento, dal niente realizzato altrove, possiamo ergerci consapevoli che l’unico vero ribaltamento è la rivoluzione del tutto. E’ in questo che sentiamo e viviamo lucidamente, che diveniamo storici ed entriamo in scena come protagonisti. Innanzitutto perché non stando con nessuno scegliamo la strada di chi dice no a qualsiasi potere-oppressione, quella dei rivoltosi. Da questa strada è difficile uscire, dato che la fonte delle lotte, le radici delle contraddizioni sono pure in noi, quando la si inizia bisogna percorrerla fino in in fondo. Chi vive lo sfruttamento tutti i giorni, chi non ha la possibilità di godersi un’esistenza decente, chi sente l’oppressione sul suo corpo, nella sua mente, nel suo sangue, non può che vivere senza riserve perché questa è la sua ultima possibilità. Chi lascerà la strada buttando via il fardello delle sue esigenze e della sua violenza di opposizione non potrà che finire avvelenato dalle proprie verità uccise. Per gli avvelenati sarà allora l’inizio del quotidiano della rinuncia, una morte senza fine, a questo vuole portarci il Potere.
Certo ci offre i miraggi della produzione e del consumo. Non facciamoci fregare, non fermiamoci, liberiamo continuamente la passione creativa d’amore e di ribellione, questo l’unico modo per battere la diffusa coscienza a livello di massa delle costrizioni necessario.
L’industrializzazione, il necessario controllo limitativo dello sviluppo tecnico-scientifico da parte del Potere, lo costringono ad uniformare gli strumenti del controllo, dello sfruttamento, del dominio: parcellizzandoli, articolandoli, automatizzandoli. Ed è proprio in questa diffusione molecolare del potere che emerge la possibilità reale di una permanente lotta di liberazione, è la grande occasione storica per una battaglia per una libertà sostanziale. Non a caso è esistito un rapporto diretto, nel l’esperienza del ’77 e nelle recenti lotte degli ospedalieri, fra liberazione di creatività individuale e collettiva, fondamenti di nuove dinamiche di libertà e la disarticolazione del controllo diffuso e lo smascheramento delle pratiche di democrazia autoritaria portata avanti dai partiti.
Nella fase della mediazione, post-marzo ’77, i cavalli di troia del potere nel movimento hanno permesso a questi di recuperare allo spettacolo le forme più emergenti della creatività collettiva. Ma per fortuna nei sotterranei della nostra civiltà, nel nostro popolo, continua a procedere il fiume impetuoso di ciò che ognuno di noi fa nascondendosi. Quello che è emerso nel passato non è nulla rispetto al turbinare di contraddizioni, pensieri, energie che ci agitano ininterrottamente giorno dopo giorno.Questo fiume è ingovernabile ed ha ripreso a scorrere, è un fluido composito di fantasticherie, desideri insoddisfatti, idee, sensazioni, è la preparazione dell’irrazionale magmatico di razionali gesti sconvolgenti.
Consumare è accumulare di tutto: amore, danaro, miti, conoscenze, politica, questa la proposta per illuderci di essere liberi. Ma il tempo dell’illusione è breve ed effimero, crescono il senso di malessere e i conati di vomito, cresce la rete di libertà totale.Fare dimenticare all’uomo di essere un produttore, alienato nella creatività del lavoro forzato, dello sfruttamento, ecco le ragioni per cui il sistema ripiega nel consumo e nella piccola accumulazione bottegaia. Guai a farsi invischiare in questa dimensione, il cui centro progetta di controllare nello spazio di tempo libero dal lavoro, la creatività dell’uomo. Dobbiamo assolutamente finalizzare i nostri sforzi cercando una risposta credibile, di vita, per negare il controllo per tutto il tempo sulla nostra creatività.
Ciò è fondabile a partire dal rifiuto dell’ideologia del lavoro, non c’è alternativa senza questo essenziale presupposto che si concretizza, per ora, nella critica distruttiva dell’attuale assetto sociale e della struttura di produzione e consumo. Il potere cibernetico tenta di trasformare ciascuno in singolo organizzatore della propria disponibilità, sia alla produzione che al consumo. Rifiutiamo questo ruolo di passività con una ricerca continua di quei gesti spontanei, conseguenza della nostra canalizzazione della creatività. Questo è possibile attraverso una permanente e lunga resistenza alla penetrazione del potere in noi. Da qui riemerge quella autovalorizzazione, tanto necessaria per vivere. Diamo l’ultimo colpo di piccone affinchè il fiume torni in superficie per un’altra Jacquerie.
CONTRO L’ESISTENTE PER IL POSSIBILE
di Franco Berardi Bifo
Non sarà certo con ordine che procederemo. Procederemo per allusioni e approssimazioni. Per domande e per ipotesi.
In questa situazione in cui chi pretende di spacciare con arroganza nuove certezze è generalmente un imbecille, e chi si acqueta all’interno dell’incertezza facendone motivo di sicurezza, magari professionale e giornalistica è un opportunista.
Una osservazione per cominciare.
Molto simili per certi versi, sono i giorni presenti ai giorni che seguirono l’insurrezione di Mirafiori.
Due anni nei quali ogni battaglia si svolgeva su un terreno inadeguato, in cui il movimento reale non si riconosceva nelle rappresentazioni politiche (gruppi, organismi di massa) che.erano eredità del passato e ostacolo al movimento possibile.
Oggi certo la crisi che attraversiamo è più grave, più profonda. Coinvolge radicalmente il concetto stesso di rivoluzione, mette in crisi la possibilità di fondare il processo di autonomizzazione su un soggetto ben definito. Oggi si tratta di riconoscere lo scollamento e la distanza fra immaginario reale di massa e il simbolico trasformativo e rivoluzionario.
E su tutto questo si tratta di puntare senza pudore la nostra attenzione. Ma un dato appare analogo ad allora. E questo dato è la sclerosi culturale delle forme di rappresentazione (politica, ideologica) rispetto al movimento reale. E, se le forme di rappresentazione del dopo 68–69 erano i gruppi e i loro organismi di massa, oggi le forme di rappresentazione sono più complesse e sfrangiate ma non meno deformanti.
Guardiamo alla situazione di Bologna, per molti versi ancora la più vivace. Il «movimento di Bologna» è divenuto — nel complesso quadro che lo costituisce — una rappresentazione politica o militare che continua a parlare «a nome» di una base sociale che è scomparsa dai luoghi di aggregazione delegata, per fuggire in mille direzioni ben più interessanti di Piazza Verdi o di Radio Alice. Verso la fabbrica o verso la rete diffusa del lavoro nero o mobile, verso lo studio e la poesia, verso l’eroina o il punkrock, verso l’India o verso la deriva. È sconfortante, ma è così: il movimento di Bologna, che era il punto di aggregazione di forze suscitate per disgregazione, che era il punto di arrivo di una critica di massa alle forme di rappresentazione politica, in quanto tali ripetitive ed impotenti, ora finisce per riprodursi esattamente come rappresentazione politica, esattamente come ostacolo all’insorgere di nuove possibilità di ricomposizione e di invenzione.
La forma politica di rappresentazione che ci troviamo di fronte come ostacolo è in primo luogo l’Autonomia. E quando parliamo di autonomia organizzata non ci riferiamo ai diversi partiti realizzati o in pectore che a mala pena reggono al ridicolo, ma parliamo proprio di un atteggiamento, di un comportamento, di un modo di pensare all’organizzazione, che è diffusa fra i residui autonomi del movimento del ’77. Non è possibile non essere colpiti dalla rozzezza e dall’arroganza del quadro medio dell’autonomia, oggi. Ma questa non è che una conseguenza di una carenza analitica e strategica, di un rifiuto di misurarsi coi temi della controrivoluzione planetaria in corso, delle forme di rivoluzione dall’alto capitalistico, e della cosiddetta restaurazione culturale (o piuttosto della distonia fra immaginario reale delle masse e simbolico trasformativo). Sostituire a una analisi di questi processi assolutamente determinanti la cocciutaggine di una pratica arrogante e cieca non è che segno di arteriosclerosi galoppante o, il che è lo stesso, di infantilismo insuperabile.
Dobbiamo riconoscerlo e dirlo ad alta voce: l’autonomia possibile, la liberazione di processi di autonomizzazione trova oggi sulla sua strada come ostacolo attivo e non solo come ritardo l’autonomia esistente, rappresentazione politica e culturale del passato. Occorre rompere la crosta culturale e organizzativa dell’autonomia esistente il suo permanere nell’ambito della tradizione del «movimento comunista» se si vuole delineare il campo di emergenza dell’autonomia possibile.
Occorre riconoscere nella rivoluzione dall’alto del capitale l’unico terreno interessante per una riorganizzazione della pratica rivoluzionaria della liberazione. Ogni riferimento ed ogni legame alle forme esistenti dell’ideologia socialista, del movimento e della classe non è che un blocco all’autonomizzazione. Che pratica autonoma è possibile svolgere, che processo di autonomizzazione è possibile suscitare, fin quando non avremo definitivamente spazzato via ogni residuo delle ipotesi che hanno prodotto il socialismo esistente, quello dell’URSS, della Cina, del Vietnam o della Cambogia? Fin quando non avremo riconosciuto che ogni identificazione del processo rivoluzionario col potere non è che violenza smisurata sulla vita, sulla socialità reale? Fin quando non avremo, in ultima analisi, riconosciuto che solo lo sviluppo del capitalismo, che solo la rivoluzione dall’alto ininterrotta è terreno percorribile dall’iniziativa di autonomizzazione.
Corrente trasversale e insurrezione
La ricchezza trasformativa ed innovativa che la forma dominio comprime, e che viene poi annichilita e svilita dall’organizzazione del lavoro che coniuga il massimo di decentramento produttivo con il massimo di concentrazione formativa e tecnico-scientifica (oltre che finanziaria) tende e premere contro le pareti del l’organizzazione esistente del Sapere e del Lavoro. E questa pressione, questa volontà di rompere la struttura esistente del Sapere è la forma in cui si darà il movimento rivoluzionario post-comunista, dopo la fine di ogni possibile ideologia sul socialismo o su una gestione del potere che non sia quel che è da sempre la gestione del potere: violenza, oppressione, menzogna, riproduzione dell’esistente. Su questo tracciato, di rottura del limite del possibile, deve riuscire a muoversi il percorso insurrezionale attraverso il quale l’autonomia possibile potrà emergere.
Ma proprio su questo nesso di problemi, sul concatenarsi della rottura insurrezionale con la rottura del Sapere e con la sperimentazione di altri sistemi semiotici possibili, si tratta di riprendere in mano il filo della proposta. Su questo terreno la corrente trasversale ha scoperto dal ’77 la sua specificità, rimanendo però finora incapace di liberarsi definitivamente dall’intralcio della politica, del movimento esistente, ed anche di garantire coerenza e continuità alla sua pratica disseminata e molteplice nella produzione d’immaginario. La corrente trasversale non è che l’insieme di operazioni, strumenti, rotture, spostamenti che determinano le condizioni di formazione di un terreno culturale capace di produrre l’emergenza e la ricomposizione nel soggetto e di esplicitare tutte le potenzialità che l’intelligenza sociale contiene. Questa emergenza si dà come insurrezione, cioè rottura dell’equilibrio esistente della forma dominio, e quindi dispiegamento delle potenzialità accumulate nell’intelligenza sociale.
Nel marzo ’77 credo siamo riusciti a concepire l’insurrezione in questi termini post-politici.
E questa curva teorica è tutta iscritta nel percorso teorico che va da «A/traverso» del ’75-’76 fino a Finalmente il cielo è caduto sulla Terra nel febbraio, aprile ’77, fino a La rivoluzione è finita abbiamo vinto del giugno ’77.
Dapprima il percorso sotterraneo di accumulazione delle condizioni di urgenza soggettiva della rottura; poi la forma e il senso della rottura del marzo; poi la percezione dell’impraticabilità di un passaggio necessario, indicato nervosamente, ma non esplicitabile praticamente, perché tutto da costruire attraverso la produzione delle condizioni di conoscenza della rottura.
L’ultimo numero di «Finalmente», nell’aprile ’77 indica già un’alternativa: o la capacità di ricomporre le forze sociali della trasformazione nella prospettiva dell’insurrezione o la prospettiva dello sfilacciamento della guerra civile.
La Rivoluzione è finita indica la traccia di un percorso tutto da compiere: accumulare le condizioni di possibilità della rottura del limite. Conoscere la struttura del Sapere-controllo, simulare altre concatenazioni del Sapere. Ed è ancora su questa traccia che ci aggiriamo.
La rottura era intesa in modo esplicitamente post-politico.
Come il momento in cui la tensione e la dirompenza delle potenzialità della socialità reale giungono a premere incontenibilmente contro le condizioni determinate della forma data del dominio e debbono romperla, insorgendo, e dunque dandosi le possibilità di dispiegarsi e realizzandosi come soggettività. L’insurrezione esprime ciò che la socialità reale conteneva ed era compresso, ma al contempo moltiplica le capacità produttive dei soggetti sociali che scoprendo direzioni di dispiegamento possibile la forma dominio occultava.
Il marzo ’77 ha rotto la forma dominio del compromesso storico e della giunzione fra DC e PCI, la forma totalitaria della socialdemocrazia stalinista. Questo è un fatto. Ma il problema posto allora, dopo quella rottura resta interamente da svolgere, nella pratica teorica, nella critica del Sapere, e nella pratica di organizzazione delle forze sociali capaci di produrre un Sapere autonomo dalla valorizzazione.
La cosa più urgente per poterci muovere su questo terreno è però rimuovere l’ostacolo da questo vero e proprio oscurantismo che è oggi rappresentato dall’autonomia esistente che si oppone, con la sua pratica infantile ed arteriosclerotica ad un tempo, tanto più arrogante quanto più vuota, gradualista e minimalista, ad una rifondazione radicale dei processi di autonomizzazione.
Sballati produttivi e operai parassiti
È su una analisi della composizione di classe e delle sue modificazioni che, oggi come sempre, va fondata una critica delle forme di rappresentazione politica. Ebbene, proprio su questo terreno si fonda oggi la contraddizione fra autonomia possibile — ovvero i processi di autonomizzazione che la socialità reale può dispiegare — e autonomia esistente — ovvero il precipitato politico, organizzativo, sociale e culturale delle figure sociali emerse nel passato e travolte dalla rivoluzione dall’alto.
Vediamo ad esempio il tema della rigidità della forza-lavoro; su questo terreno si è costituito una sorta di «fronte garantista» che va da settori di sinistra sindacale, a settori della base anziana del PCI, all’area «estremista», intenta a difendere la struttura della forza-lavoro e la stabilità del posto di lavoro, e nello imporre al capitale il congelamento di condizioni produttive che perpetuano la struttura industriale al di là della sua obsolescenza tecnologica. Ovviamente si trattava di una battaglia difensiva tesa a coprire una incapacità operaia di rovesciare la ristrutturazione capitalistica nel suo stesso compiersi, e quindi si limitava ad opporsi puramente a questa ristrutturazione.
Ma come ogni battaglia difensiva non è riuscita a comprendere tutto lo spazio sociale su cui il movimento reale del capitale si svolgeva. E la resistenza operaia ha sortito un effetto paradossale ma profondissimo di ridislocazione della produzione nel corpo sociale, di cui oggi dobbiamo valutare a pieno la portata. La classe operaia di fabbrica ha finito per diventare un nodo troppo duro per essere piegato alla rivoluzione dall’alto, ma non, nel senso di una capacità autonoma di imposizione di condizioni offensive, di trasformazione, di liberazione dal lavoro; piuttosto nel seno di un sostanziale immobilismo che permette alla rivoluzione dall’alto del capitale di aggirare la resistenza operaia, di determinare un aumento della produttività media sociale attraverso uno smisurato allargamento dell’area del lavoro decentrato. Il risultato di questo aggiramento (che emerge, oggi, in forma apparentemente contraddittoria, con la ripresa degli indici di produttività media sociale mentre la produttività delle grandi fabbriche, considerata nel suo insieme salvo alcune eccezioni ristagna) è un risultato paradossale; la classe operaia di fabbrica diviene uno strato sociale semiparassitario dal punto di vista di produzione di plusvalore relativo, mentre gli strati che rifiutano (o che sono esclusi) dal lavoro fisso (i marginali, i giovani, i teppisti, i drogati, i vagabondi) sono i veri attori di una ripresa di produttività che passa attraverso una rete diffusissima di lavoro irregolare.
Nessun orgoglio produttivo, naturalmente, da parte della base sociale del movimento degli emarginati. Diciamo semplicemente che il marginale è al centro, ma al centro della organizzazione capitalistica del lavoro. Ma se andiamo a considerare quali sono poi i settori su cui strategicamente questa sorta di convergenza fra settori di capitale più dinamici e strati di classe più mobili e più «autonomi» si configura come prospettiva strategica, scopriamo che questi settori sono proprio quelli dell’elettronica, del lavoro informativo e del lavoro intellettuale, della ricerca e della invenzione. Insomma sono i settori in cui viene occupato quel lavoro particolare che è il lavoro che sopprime lavoro…
Su questo terreno intelligenza proletaria e intelligenza capitalistica hanno già stabilito una convergenza di lungo periodo, mentre noi ci attardiamo dietro al garantismo sindacale, o all’elaborazione un pò idiota di nuovi socialismi veri contrapposti a quelli falsi, o di nuovi movimenti proletari dell’autonomia e chi più sciocchezze ha più ne metta. L’autonomia esistente, su questo terreno, ha prodotto infatti un discorso ed una pratica di sconcertante ottusità.
Da un lato difesa (sindacale e corporativa) della rigidità della forza-lavoro. Dall’altro «attacco ai covi del lavoro nero», cioè, esattamente, rivendicazione di un corretto funzionamento del mercato del lavoro. E nel frattempo i fratelli scemi di quel che resta del movimento del ’77 difendono la loro particolare rigidità: il diritto dei marginali a fare i marginali, a essere felici o disperati, a barricarsi in Piazza Verdi o farsi venire le malinconie. Gli autonomi cattivi vogliono restaurare un mercato del lavoro che non c’è più. I proletarizzati se ne fottono e circolano nel territorio complesso del lavoro diffuso. Senza organizzazione, senza identità culturale, senza autonomia, perché il movimento non ha saputo trasformarsi in organizzatore consapevole di questi strati di lavoro che sopprime lavoro. L’autonomia esistente diviene cosi rappresentazione politica un po’ ottusa perché non riesce ad individuare un asse strategico che colleghi la mobilità del lavoro irregolare all’insubordinazione, e soprattutto che colleghi questa insubordinazione alla forza-invenzione che questi strati possono sviluppare e autonomizzare fino al punto di scagliarla contro l’organizzazione del lavoro esistente, e di rompere in continuazione la forma del dominio che garantisce il funzionamento del Sapere dentro il limite della legge della valorizzazione. Ma la rottura deve essere continuamente legata all’apertura di possibilità di concatenazione produttiva intelligente e non mera pressione sindacale sulle condizioni di uso della forza-lavoro. È dunque nella potenzialità inventiva che il lavoro mobile (altamente scolarizzato, portatore dell’intelligenza tecnico-scientifica) esprime, e che la forma di dominio e di organizzazione del nesso Sapere-Tecnologia-Lavoro comprimono, che si tratta di puntare la nostra attenzione.
Dal momento in cui i proletari mobili e non garantiti non sono più intesi come marginali espulsi o autoespulsi dalla produzione, bensì come strati più altamente produttivi e più elastici, una volta che si veda come la mobilità consente ad un tempo di sottrarsi alla totale dipendenza salariale e di entrare come elemento fondamentale nella struttura produttiva, ecco che l’asse strategico che ci interessa all’interno della composizione di classe complessiva è quello che collega i proletari mobili ai produttori dell’innovazione ed ai detentori della conoscenza tecnico-scientifica.
Sottolineiamo per altro il fatto che il proletariato mobile viene per gran parte occupato nei settori a più alta composizione organica e dove più intensa è rinnovazione e l’applicazione del lavoro tecnico-scientifico, dunque il proletariato mobile è detentore di un alto grado di forza-invenzione, compressa e dissipata dalla forma del dominio capitalistico.
a cura di Bifo ( Franco Berardi )
Dossier di A/traverso – tesi e problemi del Movimento
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