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La storia sempre in divenire degli anni Settanta

La storia sempre in divenire degli anni Settanta

La sto­ria ita­lia­na degli anni Set­tan­ta è da sem­pre argo­men­to con­tro­ver­so. Sarà per la rela­ti­va vici­nan­za tem­po­ra­le di quel decen­nio, per il vio­len­to scon­tro ideo­lo­gi­co e i feno­me­ni lace­ran­ti che anco­ra per­man­go­no, fat­to sta che la rico­stru­zio­ne di quel perio­do di pro­fon­da muta­zio­ne del nostro Pae­se rima­ne un ter­re­no mina­to. Mal­gra­do gli ormai nume­ro­si con­tri­bu­ti sto­ri­ci per la com­pren­sio­ne del­le sue dina­mi­che com­ples­se e con­trad­dit­to­rie, si ha la sen­sa­zio­ne che anco­ra mol­to vi sia da appro­fon­di­re, da recu­pe­ra­re, da ripor­ta­re alla luce.

In que­sta com­ples­sa impre­sa l’editore Deri­veAp­pro­di por­ta avan­ti da anni una ricer­ca degna di nota, pri­vi­le­gian­do la voce di chi que­gli anni li ha vis­su­ti sul cam­po (spes­so di bat­ta­glia), ana­liz­zan­do quin­di quel momen­to sto­ri­co dal pun­to di vista di colo­ro che vi ope­ra­ro­no, impe­gnan­do­si in una lot­ta siste­mi­ca e tota­liz­zan­te allo sta­tus quo. Si inqua­dra in quest’ottica la for­tu­na­ta serie dedi­ca­ta alla sto­ria degli Auto­no­mi, giun­ta al sesto volu­me, che rico­strui­sce la sto­ria dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io, nar­ra­ta da due tra i suoi prin­ci­pa­li pro­ta­go­ni­sti, Gia­co­mo e Pie­ro Despali.

È una vicen­da ini­zia­ta nell’autunno del 1974, dopo l’esaurimento dell’esperienza di Pote­re ope­ra­io. Come gli auto­ri ben espli­ci­ta­no in que­ste inte­res­san­tis­si­me pagi­ne, si trat­tò di un vero e pro­prio pro­get­to poli­ti­co mili­tan­te, con un pro­fon­do radi­ca­men­to ter­ri­to­ria­le, por­ta­to avan­ti da per­so­ne dota­te di una ric­ca for­ma­zio­ne teo­ri­co-cul­tu­ra­le di matri­ce ope­rai­sta. Quei mili­tan­ti crea­ro­no un auten­ti­co labo­ra­to­rio di idee e di pras­si, che si avva­le­va di una for­te pre­sen­za in ambi­to uni­ver­si­ta­rio, di una radio (“Sher­wood”) e di un perio­di­co (Auto­no­mia), e nel qua­le si ela­bo­ra­ro­no inchie­ste e ana­li­si sui pro­ces­si del­la ristrut­tu­ra­zio­ne pro­dut­ti­va in atto, che die­de­ro luo­go al con­cet­to del­la “fab­bri­ca dif­fu­sa”, pro­dut­tri­ce dell’“operaio socia­le”, cioè del­la figu­ra del moder­no pre­ca­ria­to desti­na­ta ad assu­me­re un ruo­lo sem­pre più cen­tra­le nei con­flit­ti poli­ti­ci di clas­se. A que­ste atti­vi­tà di stu­dio si accom­pa­gna­va un impe­gno inter­ven­ti­sta, con l’organizzazione di azio­ni poli­ti­co-mili­ta­ri di mas­sa con­tro fasci­sti, qua­dri del­le fab­bri­che e dell’apparato repres­si­vo, che sfo­cia­ro­no nel­le famo­se “not­ti dei fuo­chi”: deci­ne di attac­chi in con­tem­po­ra­nea in varie cit­tà del­la regio­ne vene­ta. L’operazione giu­di­zia­ria del 7 apri­le 1979, la pri­ma di una serie di rispo­ste del­lo Sta­to, poi minò e distrus­se quel­la rete orga­niz­za­ti­va stron­can­do il suo pro­get­to rivoluzionario.

Tut­to ciò è nar­ra­to dai fra­tel­li Despa­li, i qua­li, come scri­ve nel­la pun­tua­le intro­du­zio­ne il cura­to­re del volu­me, Mim­mo Ser­san­te, si sono resi “fon­te sto­rio­gra­fi­ca in pri­ma per­so­na”. In effet­ti, riguar­do alla rifles­sio­ne sto­ri­ca è fon­da­men­ta­le che a rac­con­ta­re il per­cor­so poli­ti­co ed esi­sten­zia­le degli Auto­no­mi sia­no colo­ro che quel­la sto­ria l’hanno fat­ta. Il loro pun­to di vista si affian­ca e arric­chi­sce le “veri­tà” uffi­cia­li su quel­le vicen­de – le car­te pro­ces­sua­li dell’inchiesta pado­va­na del 7 apri­le 1979 – e gli stu­di sto­rio­gra­fi­ci ope­ra dei ricer­ca­to­ri di pro­fes­sio­ne. La testi­mo­nian­za diret­ta dei pro­ta­go­ni­sti, i loro ricor­di, insom­ma la fon­te ora­le rima­ne impre­scin­di­bi­le se si vuo­le rico­strui­re con suf­fi­cien­te com­ple­tez­za quel com­ples­so panorama.

E la for­ma nar­ra­ti­va del “rac­con­to” si rive­la dav­ve­ro fer­ti­le, con la sua capa­ci­tà di coin­vol­ge­re il let­to­re, calar­lo nel­la tem­pe­rie di un’epoca ormai lon­ta­na, nei luo­ghi dell’anima oltre che in quel­li del­la poli­ti­ca. In tal modo, la macro­sto­ria dei col­let­ti­vi di cui qui si par­la si vena di uma­ni­tà, pren­de for­ma e vivi­dez­za con lam­pi di vita, emo­zio­ni e sus­sul­ti che per­mea­no di sé il discor­so sto­rio­gra­fi­co, com­ple­tan­do l’arazzo d’un luo­go e d’un tem­po che altri­men­ti gele­reb­be nel­le fred­de rico­stru­zio­ni intel­let­tua­li edi­fi­ca­te sul­le car­te. Dun­que, la nar­ra­zio­ne luci­da e par­te­ci­pa­ta dei fra­tel­li Despa­li resti­tui­sce un ele­men­to, fatal­men­te sbia­di­to (se non per­du­to) nel­le fon­ti scrit­te: la pas­sio­ne, l’indignazione che a quel­la lot­ta spin­ge­va­no, la “feli­ci­tà del com­bat­ten­te”. Insom­ma, per cita­re anco­ra Ser­san­te, “la cifra gio­io­sa di quel decen­nio”, soli­ta­men­te bol­la­to a fuo­co e inca­sel­la­to nel­la geli­da cate­go­ria degli “anni di piombo”.

Un ragaz­zo di oggi che voles­se, sana­men­te incu­rio­si­to, avvi­ci­nar­si a quel­la sta­gio­ne, ai gio­va­ni di allo­ra che inte­se­ro schie­rar­si e impe­gnar­si in uno scon­tro che defi­ni­va il pro­prio esse­re, la pro­pria iden­ti­tà, com­met­ten­do cer­to erro­ri, mal valu­tan­do deter­mi­na­te dina­mi­che, ma comun­que dedi­can­do­vi un impe­gno eti­co tota­liz­zan­te, per un gio­va­ne let­to­re di oggi insom­ma que­sto libro risul­ta quan­to mai istrut­ti­vo, anche e soprat­tut­to per rico­strui­re una tem­pe­rie emo­ti­va, un sen­so di appar­te­nen­za, una con­di­zio­ne altra da una glo­ba­liz­za­zio­ne allo­ra già inci­pien­te e oggi dram­ma­ti­ca­men­te per­va­si­va, una socia­liz­za­zio­ne e un modo di con­ce­pi­re la mili­tan­za poli­ti­ca e civi­le distan­te anni luce dal nostro tem­po. E non sareb­be cosa da poco.

Ma que­sto volu­me non si esau­ri­sce nel rac­con­to di Pie­ro e Gia­co­mo Despa­li: a esso seguo­no le testi­mo­nian­ze di alcu­ni loro com­pa­gni, ex mili­tan­ti di Col­let­ti­vi poli­ti­ci di altre cit­tà, uti­li per com­ple­ta­re un qua­dro così com­ples­so. Il testo è poi cor­re­da­to da note a piè di pagi­na espli­ca­ti­ve (poi­ché sva­ria­ti sono i con­te­sti e i rife­ri­men­ti, e lon­ta­ni nel tem­po), da un’appendice con sche­de di appro­fon­di­men­to, arti­co­la­te sul­le tre voci che han­no carat­te­riz­za­to il pen­sie­ro e ali­men­ta­to la pra­ti­ca poli­ti­ca di cui qui si par­la (ope­rai­smo, maoi­smo, leni­ni­smo), e infi­ne da una sezio­ne con­te­nen­te quat­tro docu­men­ti poli­ti­ci, che han­no scan­di­to la sto­ria dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti dal 1974, e che arric­chi­sco­no il mate­ria­le di pri­ma mano offer­to dal volume.

Sull’importanza di que­ste rico­stru­zio­ni sto­ri­che, anche e soprat­tut­to per il tem­po pre­sen­te – il nostro tem­po! – ci pia­ce chiu­de­re con l’epigrafe scel­ta dagli auto­ri, una fra­se di Ern­st Bloch: “È fecon­do solo quel ricor­do che al con­tem­po ci ram­men­ta quan­to anco­ra resta da fare”.

Da asso­cia­re alla let­tu­ra del libro si invi­ta a con­sul­ta­re il sito dedi­ca­to alla sto­ria dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti, l’intervista ai fra­tel­li Despa­li e il mate­ria­le sto­ri­co dell’intero ciclo di lot­te auto­no­me in Veneto.

I «pugni al cielo» di una generazione – di Alberto Pantaloni

I «pugni al cielo» di una generazione – di Alberto Pantaloni

Pub­bli­chia­mo la recen­sio­ne di Alber­to Pan­ta­lo­ni al volu­me di Dona­to Taglia­pie­tra, “Gli auto­no­mi. L’Autonomia ope­ra­ia vicen­ti­na. Dal­la rivol­ta di Val­da­gno alla repres­sio­ne di Thie­ne – volu­me V”, recen­te­men­te pub­bli­ca­to per Deri­veAp­pro­di, Roma, 2019.

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Se riflet­te­re sul pro­prio pas­sa­to equi­va­le a inter­ro­gar­si sul­la pro­pria iden­ti­tà, se l’importanza del­la memo­ria­li­sti­ca sta nel resti­tuir­ci il vive­re sog­get­ti­vo degli avve­ni­men­ti che han­no segna­to una comu­ni­tà, un popo­lo, una socie­tà, allo­ra il V volu­me sull’Autonomia ope­ra­ia e le sue decli­na­zio­ni ter­ri­to­ria­li, scrit­to da Dona­to Taglia­pie­tra, è un uti­le e bel libro di memo­rie, per­ché evi­den­zia il cre­sce­re e il matu­ra­re di una gene­ra­zio­ne den­tro le tra­sfor­ma­zio­ni, le cri­si, la vio­len­za gene­ra­le di un Pae­se e di un ter­ri­to­rio, in uno degli sno­di fon­da­men­ta­li del­la nostra sto­ria repub­bli­ca­na.
Dona­to Taglia­pie­tra è uno dei tan­tis­si­mi pro­ta­go­ni­sti e pro­ta­go­ni­ste di quel­la gene­ra­zio­ne che, lo scri­ve egli stes­so, nel­la con­flit­tua­li­tà socia­le di fine anni Ses­san­ta e poi nei Set­tan­ta del seco­lo scor­so si è schia­ra­ta atti­va­men­te, in manie­ra par­ti­gia­na, valo­riz­zan­do «quo­ti­dia­na­men­te que­sta appar­te­nen­za in tut­to il vive­re socia­le, in tut­te le rela­zio­ni pos­si­bi­li» (p. 24), poli­ti­che, socia­li, sen­ti­men­ta­li, insom­ma uma­ne. Egli oggi si occu­pa di anti­qua­ria­to, ma soprat­tut­to è sta­to pri­ma mili­tan­te nei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti nel­la secon­da metà degli anni Set­tan­ta, e poi, all’inizio degli anni Due­mi­la, ani­ma­to­re del movi­men­to «No Dal Molin con­tro la pre­sen­za del­la nuo­va base mili­ta­re ame­ri­ca­na a Vicenza.


Basan­do­si su mol­tis­si­mi docu­men­ti, scrit­ti e foto­gra­fi­ci, trat­ti dagli archi­vi per­so­na­li dei mili­tan­ti (e non solo) e rac­col­ti in una cospi­cua appen­di­ce, ma anche sugli arti­co­li del­la stam­pa e su diver­se inter­vi­ste bio­gra­fi­che ai pro­ta­go­ni­sti e alle pro­ta­go­ni­ste, l’autore rie­sce a resti­tui­re in modo chia­ro e ordi­na­to tem­po, spa­zio e con­te­sto dell’esperienza auto­no­ma vicen­ti­na, tan­to che ha ragio­ne Eli­sa­bet­ta Michie­lin, quan­do nel­la sua intro­du­zio­ne par­la di «buon esem­pio di rico­stru­zio­ne sto­ri­ca» (p. 7).


Par­tia­mo dal tem­po: il perio­do che Taglia­pie­tra rico­strui­sce è quel­lo che va dall’aprile del 1968 (con le pri­me azio­ni ope­ra­ie di sabo­tag­gio alla Mar­zot­to) al giu­gno del 1979 e alla mor­te per sui­ci­dio in car­ce­re del gio­va­ne Loren­zo Bor­to­li, mili­tan­te dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci. Il tem­po, si sa, è una dimen­sio­ne sfug­gen­te, un flus­so che di per sé resta dif­fi­ci­le da fis­sa­re, da “cat­tu­ra­re”, però l’autore ci rie­sce mol­to bene, fis­san­do i momen­ti noda­li nel­la nasci­ta, evo­lu­zio­ne e poi repen­ti­no decli­no del­le lot­te auto­no­me nel vicen­ti­no. Se, infat­ti, la rivol­ta di Val­da­gno rap­pre­sen­ta per quel ter­ri­to­rio non solo l’inizio del­la ribel­lio­ne a una con­di­zio­ne di sfrut­ta­men­to por­ta­ta ormai alle estre­me con­se­guen­ze, ma anche il moto­ri­no di avvia­men­to di un pro­ces­so che in pochi anni avreb­be coin­vol­to miglia­ia di gio­va­ni ope­rai e ope­ra­ie, stu­den­ti e stu­den­tes­se mobi­li­ta­te intor­no a un pro­get­to di tra­sfor­ma­zio­ne radi­ca­le dell’esistente, rivo­lu­zio­na­rio, il famo­so pro­ces­so «7 apri­le» con­tro i/​le mili­tan­ti di Pote­re Ope­ra­io e Auto­no­mia Ope­ra­ia, ma soprat­tut­to le mor­ti di Anto­niet­ta Ber­na, Ange­lo Del San­to e Alber­to Gra­zia­ni, avve­nu­te l’11 apri­le 1979 a segui­to dell’esplosione di un ordi­gno che sta­va­no con­fe­zio­nan­do in una casa, e poi quel­la di Loren­zo Bor­to­li, com­pa­gno di Anto­niet­ta, nel­la not­te fra il 19 e il 20 giu­gno del 1979, con tut­to lo stra­sci­co giu­di­zia­rio e uma­no che tut­ti que­sti avve­ni­men­ti com­por­ta­ro­no, rap­pre­sen­ta­no l’epilogo del­la sto­ria di quel pro­ces­so, anche se, come Taglia­pie­tra tie­ne a pre­ci­sa­re con for­za nel­le con­clu­sio­ni, la sto­ria di quel­la ribel­lio­ne sareb­be anda­ta avan­ti e, pur con carat­te­ri­sti­che, inten­si­tà e rap­pre­sen­ta­ti­vi­tà mol­to diver­se, è con­ti­nua­ta alme­no fino alla pri­ma deca­de di que­sto seco­lo (pp. 202–203).
C’è poi lo spa­zio. Par­la­re di “vicen­ti­no” non può ren­de­re l’idea del­la com­ples­sa mor­fo­lo­gia pro­dut­ti­va, eco­no­mi­ca, socia­le di quel ter­ri­to­rio e l’autore rie­sce a rico­struir­la in modo chia­ro, rac­con­tan­do l’evolversi del­le mobi­li­ta­zio­ni ope­ra­ie, stu­den­te­sche, poli­ti­che di que­gli anni. Vicen­za ovvia­men­te – e i suoi quar­tie­ri popo­la­ri – ma poi Val­da­gno, Mara­no, Schio, Bre­gan­ze, Thie­ne, Montecchio/​Alte, Tris­si­no, Loni­go, Zanè, Bas­sa­no, Chiup­pa­no, ecc.: quel­la stra­na vir­go­la inca­sto­na­ta fra Pado­va e Tren­to, dove l’agricoltura ave­va lascia­to il cam­po a un’invasione indu­stria­le pul­vi­sco­la­re, pret­ta­men­te tes­si­le, con la ingom­bran­te e odio­sa pre­sen­za del­le “gran­di” dina­stie tes­si­li come i Mar­zot­to o i Ros­si, ma anche lega­ta alla mec­ca­ni­ca agri­co­la e alla moto­ri­sti­ca (ad esem­pio la Laver­da), alle offi­ci­ne o ai labo­ra­to­ri di pro­dot­ti smal­ta­ti (Westen), e dove alme­no fino alla fine degli anni Set­tan­ta si svi­lup­pò una gran­de quan­ti­tà di con­flit­ti ope­rai, spes­so duri, nel­le pic­co­le e medie fab­bri­che che carat­te­riz­za­no quel tes­su­to eco­no­mi­co.
Accan­to a una mor­fo­lo­gia pro­dut­ti­va c’è però anche una geo­gra­fia poli­ti­ca che ha segna­to la cre­sci­ta di quel­le gene­ra­zio­ne di mili­tan­ti poli­ti­ci. Il pro­ces­so di costi­tu­zio­ne di Lot­ta Con­ti­nua sul ter­ri­to­rio (1970) pas­sa dal­la Comu­ne di Mara­no all’apertura del­la pri­ma sede di Val­da­gno (che però sareb­be dura­ta poco) e poi di quel­la di Schio. Fra Thie­ne e Schio nasce uno dei più impor­tan­ti orga­ni­smi di lot­ta del perio­do, il Coor­di­na­men­to ope­ra­io. Il pri­mo Col­let­ti­vo auto­no­mo vie­ne costi­tui­to a Thiene/​Chiuppano, ver­so la metà degli anni Set­tan­ta, a segui­to del con­fron­to poli­ti­co ini­zia­to coi Col­let­ti­vi poli­ti­ci pado­va­ni. E poi anco­ra i col­let­ti­vi stu­den­te­schi che un po’ in tut­ta la pro­vin­cia vicen­ti­na affian­ca­no in for­ma mili­tan­te le lot­te ope­ra­ie, le radio libe­re e di movi­men­to che nasco­no fra il ’77 e il ‘78 (Sher­wood 3 a Thie­ne, Cen­to­fio­ri a Val­da­gno, Popo­la­re a Cal­do­gno, ecc.).  Ma soprat­tut­to c’è una mor­fo­lo­gia del­le ron­de ope­ra­ie che a par­ti­re dal 1978 e per cir­ca un anno e mez­zo, muo­ven­do­si fra le sta­ta­li e le pro­vin­cia­li del­la zona, bat­to­no e spes­so bloc­ca­no le pic­co­le fab­bri­che sul­le que­stio­ni dei saba­ti lavo­ra­ti­vi, degli straor­di­na­ri coman­da­ti, del­la noci­vi­tà, dei licenziamenti.


Infi­ne, il milieu, fat­to dal­le rela­zio­ni, le espe­rien­ze, le pro­get­tua­li­tà poli­ti­che di que­sta gene­ra­zio­ne di uomi­ni e don­ne nata negli anni Cin­quan­ta del seco­lo scor­so in un ter­ri­to­rio come quel­lo vicen­ti­no, carat­te­riz­za­to già a par­ti­re dal­la metà degli anni set­tan­ta, da un for­tis­si­mo decen­tra­men­to pro­dut­ti­vo e da un altret­tan­to tota­le uti­liz­zo degli impian­ti e sfrut­ta­men­to del­la for­za lavo­ro. Si trat­ta di una gene­ra­zio­ne alta­men­te sco­la­riz­za­ta, che incon­tra la poli­ti­ca e le lot­te gra­zie alla gene­ra­zio­ne dell’operaio mas­sa, ma che ha di fron­te a sé l’unica pro­spet­ti­va di lavo­ra­re in una di quel­le pic­co­le o medie fab­bri­che che satu­ra­no il ter­ri­to­rio, con ora­ri mas­sa­cran­ti, straor­di­na­ri con­ti­nui, dispo­ti­smo azien­da­le estre­mo, fre­quen­ti rischi di inci­den­ti (anche mor­ta­li, come nel caso di Anto­ni­no Dal Zot­to), noci­vi­tà. È una gene­ra­zio­ne che ha cono­sciu­to la lot­ta col ’68, l’Autunno cal­do e i Grup­pi del­la Nuo­va Sini­stra (segna­ta­men­te Lot­ta con­ti­nua), ma che diven­ta pro­ta­go­ni­sta pro­prio gra­zie a quel con­te­sto di «fab­bri­ca diffusa»in cui cate­go­rie come «ope­ra­io socia­le», «rifiu­to del lavo­ro», «con­tro­po­te­re» e «con­trol­lo ter­ri­to­ria­le» pos­so­no esse­re mes­se a veri­fi­ca. I Col­let­ti­vi poli­ti­ci, i Grup­pi socia­li, i Comi­ta­ti e i Coor­di­na­men­ti ope­rai, i Comi­ta­ti d’agitazione stu­den­te­schi sono la car­ne e il san­gue di un pez­zo impor­tan­te di gio­ven­tù che, attra­ver­so lo sno­do impor­tan­te del ’77, met­te in cam­po un pro­get­to poli­ti­co rivo­lu­zio­na­rio tutt’altro che spon­ta­neo o spon­ta­nei­sta, che pun­ta a ricom­por­re i vari set­to­ri socia­li (ope­ra­io, stu­den­te­sco, pre­ca­rio) e i luo­ghi del­lo scon­tro socia­le (fab­bri­ca, scuo­la, casa, ecc.) dell’intervento mili­tan­te nel ter­ri­to­rio, anche sul ter­re­no dell’uso del­la vio­len­za, anche arma­ta, come dimo­stra­no non solo le nume­ro­se azio­ni del­le ron­de a cui si è accen­na­to in pre­ce­den­za, ma anche le vere e pro­prie azio­ni arma­te riven­di­ca­te attra­ver­so le sigle Orga­niz­za­zio­ne ope­ra­ia per il comu­ni­smo, Pro­le­ta­ri comu­ni­sti orga­niz­za­ti e Fron­te comu­ni­sta per il con­tro­po­te­re. Una vio­len­za arma­ta che non signi­fi­ca ridu­zio­ne alla clan­de­sti­ni­tà del movi­men­to, né sog­get­ti­vi­smo com­bat­ten­ti­sta, e qui la cri­ti­ca al pro­get­to e alle azio­ni del­le Bri­ga­te Ros­se, ma «ille­ga­li­tà di mas­sa. Quel­la del calo­re del­la comu­ni­tà e del pas­sa­mon­ta­gna cala­to» (p. 151).


Leg­gen­do il libro di Dona­to Taglia­pie­tra, dal­la qua­le si riscon­tra l’assenza di rife­ri­men­ti all’eventuale espe­rien­za del movi­men­to fem­mi­ni­sta nel­la zona, rima­ne il dub­bio – e que­sto non è cer­to col­pa dell’autore –  che que­sta espe­rien­za dell’Autonomia vicen­ti­na arri­vi for­se già fuo­ri tem­po mas­si­mo, quan­do le gran­di tra­sfor­ma­zio­ni del siste­ma pro­dut­ti­vo ita­lia­no sono già irre­ver­si­bi­li, dispie­gan­do­si al suo mas­si­mo nel bien­nio ’77-’78 pro­prio men­tre nel resto del Pae­se i movi­men­ti ini­zia­no a rin­cu­la­re, lascian­do il cen­tro del­la sce­na – o per meglio del­lo scon­tro – alla vio­len­za repres­si­va del­lo Sta­to e all’escalation del­le orga­niz­za­zio­ni arma­te. Si ha come l’impressione, alla fine, che pro­va­re ad accet­ta­re la sfi­da del­la ristrut­tu­ra­zio­ne pro­dut­ti­va di quel capi­ta­li­smo ita­lia­no sia come pro­va­re a «svuo­ta­re il mare con il cuc­chiai­no», espres­sio­ne che l’autore usa quan­do nar­ra i ten­ta­ti­vi di inchie­sta sul lavo­ro a domi­ci­lio a Vicen­za all’inizio del 1979. Un dub­bio, e tan­te doman­de intor­no, che non deve appas­sio­na­re solo gli sto­ri­ci, ma che ha for­ti atti­nen­ze col pre­sen­te e col futu­ro non solo di quel ter­ri­to­rio, ma di tut­ta l’Italia, come giu­sta­men­te ricor­da sem­pre Michie­lin nel­la sua intro­du­zio­ne, quan­do si chie­de come sia sta­to pos­si­bi­le che le stes­se zone che sono sta­te per­cor­se da mani­fe­sta­zio­ni, scio­pe­ri, ron­de con­tro il lavo­ro coman­da­to, sia­no oggi i san­tua­ri del leghi­smo (p. 9).  Al tem­po stes­so, però, la nar­ra­zio­ne ci resti­tui­sce tut­ta quel­la «ric­chez­za socia­le gio­va­ni­le costrui­ta quo­ti­dia­na­men­te, fos­se­ro i lin­guag­gi musi­ca­li, la con­tro­cul­tu­ra, e sostan­ze psi­co­tro­pe, i viag­gi» quell’amore e quel­la gio­ia di rap­por­ti in cui quel­la gene­ra­zio­ne ha pro­va­to, con entu­sia­smo, a costrui­re un oriz­zon­te di vita col­let­ti­vo, scon­tran­do­si con un siste­ma eco­no­mi­co e poli­ti­co che «ti espro­pria l’esistenza» (p. 24).

I «pugni al cielo» di una generazione – di Alberto Pantaloni

Storia dell’autonomia operaia vicentina

L’Autonomia ope­ra­ia vicen­ti­na dal­la rivol­ta di Val­da­gno alla repres­sio­ne di Thie­ne, Edi­zio­ni Deri­veAp­pro­di, Roma, 2019, pp. 256, € 19,00

A voler spie­ga­re come si scri­ve un testo docu­men­ta­to e rigo­ro­so, su un fram­men­to dei nostri anni ’70, sen­za melan­co­nie memo­ria­li­sti­che e nar­ci­si­smi bio­gra­fi­ci, il quin­to volu­me del­la serie “Gli auto­no­mi” potreb­be esse­re cita­to come esem­pio vir­tuo­so.
Il libro, dedi­ca­to all’esperienza del movi­men­to auto­no­mo nell’alto vicen­ti­no – una peri­me­tra­zio­ne solo appa­ren­te­men­te mar­gi­na­le, in real­tà ric­ca di impli­ca­zio­ni e con­nes­sio­ni gene­ra­li –, è scrit­to “al pre­sen­te”: nien­te nostal­gie, nien­te auto­com­pia­ci­men­to, meno che mai dis­so­cia­zio­ne. L’autore non fa mai astra­zio­ne dal suo pun­to di osser­va­zio­ne natu­ra­le: la durez­za spi­go­lo­sa e inaf­fer­ra­bi­le dei tem­pi d’oggi.

Il rac­con­to dell’autonomia vicen­ti­na pre­sen­ta dei trat­ti di vivo inte­res­se, innan­zi tut­to per la spe­ci­fi­ci­tà del ter­ri­to­rio. Quel­la rac­con­ta­ta da Dona­to Taglia­pie­tra, diri­gen­te dei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti, ex pri­gio­nie­ro degli infi­ni­ti pro­ces­si che segui­ro­no al 7 apri­le, è innan­zi­tut­to una sto­ria ope­ra­ia, anche e soprat­tut­to nel­la sua dimen­sio­ne di rifiu­to del­la fab­bri­ca: la cro­na­ca dell’emersione embrio­na­le di un “altro movi­men­to ope­ra­io”, in cui un pez­zo di gio­ven­tù di pro­vin­cia riget­ta la coa­zio­ne al lavo­ro e l’etica sacri­fi­ca­le del cot­ti­mo e del­lo straor­di­na­rio a cui i padri ave­va­no sacri­fi­ca­to la vita.

Non a caso il libro si apre con i fat­ti del­la rivol­ta di Val­da­gno qua­si a sot­to­li­nea­re la matri­ce pro­le­ta­ria (non gene­ri­ca­men­te ribel­le o con­tro­cul­tu­ra­le) di quel­la incu­ba­zio­ne che sul fini­re degli anni del boom, pre­pa­ra le con­di­zio­ni dell’esplosione del decen­nio successivo:

Nell’ambito del­la pri­ma indu­stria­liz­za­zio­ne ita­lia­na l’industria tes­si­le vicen­ti­na ha un ruo­lo di prim’ordine, tan­to da con­fe­ri­re a que­sta pro­vin­cia carat­te­ri strut­tu­ra­li che l’avvicinano di più all’esperienza del trian­go­lo indu­stria­le che a quel­la vene­ta e ita­lia­na […] A ren­de­re ori­gi­na­le il pro­ces­so di indu­stria­liz­za­zio­ne vicen­ti­no è sta­to il modo in cui la fab­bri­ca si inse­ri­sce nel­la strut­tu­ra socia­le pre­e­si­sten­te, appa­ren­te­men­te sen­za trau­mi né frat­tu­re net­te, anzi sal­va­guar­dan­do gli anti­chi equi­li­bri. Tut­to ciò ha fat­to par­la­re di uno spe­ci­fi­co model­lo di svi­lup­po: quel­lo vene­to. Fino all’aprile del 1968 alla Mar­zot­to di Val­da­gno (p. 11)

Sui fat­ti di Val­da­gno, mol­to si è scrit­to, col­lo­can­do­li addi­rit­tu­ra tra gli epi­so­di fon­da­ti­vi del ’68 ita­lia­no: la sta­tua del fon­da­to­re Gae­ta­no Mar­zot­to abbat­tu­ta, le ore di scon­tri con la poli­zia den­tro ter­ri­to­ri abi­tua­ti alla paci­fi­ca­zio­ne e a un’etica del lavo­ro asfis­sian­te. È l’autonomia di clas­se all’opera, pri­ma che si gene­ra­liz­zi l’uso stes­so del­la categoria.

Da quel fecon­do spar­tiac­que, nei gran­di comu­ni indu­stria­li di Thie­ne, Schio, Mara­no, Bas­sa­no, l’autunno cal­do evo­ca una gene­ra­zio­ne di gio­va­nis­si­mi qua­dri di movi­men­to – interni/​esterni al tes­su­to del­le fab­bri­che – che avvia­no un’altra pras­si e un’altra pro­get­tua­li­tà den­tro i ter­ri­to­ri. Si con­so­li­da un’area di con­trap­po­si­zio­ne ed estra­nei­tà ai due mon­di allo­ra ege­mo­ni: il Vene­to bian­co – con i suoi casca­mi cle­ri­ca­li e demo­cri­stia­ni – e l’opposizione uffi­cia­le, il Pci – con le sue stra­te­gie e ritua­li­tà paludate.

Ini­zia la sta­gio­ne dei grup­pi, l’emersione di un’“altra sini­stra” che pren­de for­ma pub­bli­ca, con le sue sedi, le sue sigle, le sue ini­zia­ti­ve. È una sta­gio­ne bre­ve, tut­to si con­su­ma in un lam­po: i tem­pi sono acce­le­ra­ti, den­si e straor­di­na­ria­men­te fecon­di. Pote­re ope­ra­io si è sciol­ta nel ’73, Lot­ta Con­ti­nua anna­spa den­tro la radi­ca­li­tà del­le sue con­trad­di­zio­ni e del­le aspet­ta­ti­ve che il con­flit­to ha evo­ca­to soprat­tut­to nel­le com­po­nen­ti più gio­va­ni­li. È il 1976, quan­do la nuo­va com­po­si­zio­ne gio­va­ni­le di movi­men­to nel­la bas­sa vicen­ti­na, matu­ra un pas­sag­gio di rottura:

Tem­po qual­che set­ti­ma­na e uscia­mo da Lot­ta Con­ti­nua. Sem­pli­ce­men­te, sen­za stra­sci­chi pole­mi­ci, anzi man­te­nen­do intat­to il patri­mo­nio rela­zio­na­le costrui­to nel­la mili­tan­za con­di­vi­sa. Nien­te por­te sbat­tu­te o accu­se incro­cia­te. D’altronde non por­tia­mo via le mas­se, sem­pli­ce­men­te una par­te rela­ti­va­men­te pic­co­la ma mol­to coe­sa e deter­mi­na­ta, non par­te­ci­pa più a quell’agire col­let­ti­vo e pro­get­tua­le dopo tre anni abbon­dan­ti di appar­te­nen­za. Andia­mo a costrui­re quo­ti­dia­ni­tà da un’altra par­te. Da quel momen­to sia­mo un’altra cosa […] Il nuo­vo rife­ri­men­to è l’Autonomia Ope­ra­ia, che non è un nuo­vo grup­po, ma un pro­get­to poli­ti­co e di lot­ta da costrui­re insie­me. Con un tem­pi­smo per­fet­to arri­va la pro­po­sta dei com­pa­gni dei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Pado­va­ni, fat­ta a tut­te le real­tà di movi­men­to del­la regio­ne, di incon­trar­ci per discu­te­re un pro­get­to di orga­niz­za­zio­ne regio­na­le. (p. 38)

Il vene­to bian­co ripro­du­ce le stes­se dina­mi­che socia­li e gene­ra­zio­na­li del resto d’Italia. Que­sta nuo­va com­po­si­zio­ne gio­va­ni­le, al di là del­le sigle di rife­ri­men­to, si col­lo­ca cul­tu­ral­men­te in una con­di­zio­ne di rot­tu­ra esi­sten­zia­le con il mon­do dei padri: il rifiu­to del­le ideo­lo­gie lavo­ri­ste – sia in sal­sa micro-capi­ta­li­sti­ca che ber­lin­gue­ria­na –, la ten­den­za a fare comu­ni­tà, costruen­do una nuo­va mili­tan­za che coin­ci­de con le scel­te di vita, la musi­ca, le spe­ri­men­ta­zio­ni psi­che­de­li­che, la libe­ra­zio­ne ses­sua­le. E il tema del­le legit­ti­mi­tà dell’uso del­la for­za – anche arma­ta – che ormai comin­cia diven­ta­re dirimente.

Nasce una mili­tan­za con carat­te­ri­sti­che nuo­ve, che agi­sce den­tro dina­mi­che e filie­re socia­li mol­to diret­te. Con Alqua­ti pos­sia­mo defi­nir­la di “medio rag­gio”, nel sen­so di un inter­ven­to poli­ti­co pub­bli­co, for­te­men­te con­di­vi­so, pra­ti­ca­to nel quo­ti­dia­no e in uno spe­ci­fi­co ter­ri­to­rio; con­di­zio­ne che per­met­te più facil­men­te di non sca­de­re nel lea­de­ri­smo e nel sog­get­ti­vi­smo per­ché impe­gna­ta alla orga­niz­za­zio­ne del­la for­ma pub­bli­ca dell’autonomia ope­ra­ia. Si trat­ta di orga­ni­smi pro­le­ta­ri di mas­sa, auto­no­mi da par­ti­ti e sin­da­ca­ti, dove la lot­ta per affer­ma­re i biso­gni e l’uso del­la for­za mar­cia­no di pari pas­so: si vuo­le esse­re qua­dri com­ples­si­vi, nel sen­so che non deve esser­ci sepa­ra­zio­ne tra il poli­ti­co e il mili­ta­re. Tra il ’76 e l’80 si regi­stra­no in Vene­to più di 500 atti di “uso ragio­na­to del­la for­za”. Nel­la mag­gior par­te dei casi sono azio­ni di sabo­tag­gio e dan­neg­gia­men­ti nei con­fron­ti del­le pro­prie­tà di fasci­sti, for­ze dell’ordine, poli­ti­ci demo­cri­stia­ni e baro­ni uni­ver­si­ta­ri. Fra­tel­lan­za e intel­li­gen­za, for­za e com­pli­ci­tà: que­sto diven­ta lo spa­zio dove si col­lo­ca la nuo­va mili­tan­za. (p. 51)

Tut­to si mesco­la fre­ne­ti­ca­men­te in mesi che val­go­no come anni, men­tre la cri­si ita­lia­na si avvi­ta sem­pre di più tra ten­ta­zio­ni auto­ri­ta­rie e il fosco oriz­zon­te del com­pro­mes­so sto­ri­co in gesta­zio­ne.
In una dimen­sio­ne di den­sa socia­li­tà e con­tro­po­te­re rea­le eser­ci­ta­to nei ter­ri­to­ri, si va a costi­tui­re quel­lo che l’autore defi­ni­sce “il labo­ra­to­rio vene­to” – un rap­por­to di for­za rea­le che misu­ra ogni gior­no la pro­pria ege­mo­nia; ma che costrin­ge anche a rein­ven­ta­re con­ti­nua­men­te for­me, lin­guag­gi e pra­ti­che, per rima­ne­re al pas­so con i tem­pi del­la crisi/​ristrutturazione che sta ridi­se­gnan­do la socie­tà vene­ta. L’allungamento del­la filie­ra pro­dut­ti­va – che oggi è assun­to come ele­men­to fon­da­men­ta­le di gerar­chiz­za­zio­ne del lavo­ro vivo – cono­sce in quel tes­su­to un suo cam­po fon­da­men­ta­le di avvio e spe­ri­men­ta­zio­ne. I gio­va­ni auto­no­mi vicen­ti­ni “inse­guo­no” davan­ti ai can­cel­li del­le fab­bri­che i loro coe­ta­nei ope­rai, orga­niz­zan­do le ron­de con­tro gli straor­di­na­ri o l’intervento con­tro i licen­zia­men­ti, ma devo­no anche nel con­tem­po costrui­re le loro “filie­re” alter­na­ti­ve – socia­li e anta­go­ni­ste – in cui ricom­por­re nel ter­ri­to­rio quel mon­do ope­ra­io che si va sfi­lac­cian­do, nel decen­tra­men­to pro­dut­ti­vo, nell’autosfruttamento dei capan­non­ci­ni e del lavo­ro a domicilio.

Tut­ta la sto­ria dell’Autonomia vicen­ti­na – per col­lo­ca­zio­ne, cul­tu­ra, memo­ria – è imper­nia­ta sul rifiuto/​superamento del­la con­di­zio­ne ope­ra­ia. L’esperienza sto­ri­ca dei Grup­pi Socia­li vive all’interno di que­sta dina­mi­ca diven­tan­do imme­dia­ta­men­te lo stru­men­to attra­ver­so il qua­le aggre­di­re e rom­pe­re la nuo­va costri­zio­ne al lavo­ro. In par­ti­co­la­re que­sto pro­get­to orga­niz­za­ti­vo tro­va soste­gno pie­no nel­la teo­ria dell’operaio socia­le che per­met­te a tut­ti – ope­rai, disoc­cu­pa­ti, stu­den­ti, pic­co­li com­mer­cian­ti, pre­ca­ri etc – di sen­tir­si diret­ta­men­te mes­si in pro­du­zio­ne […] Esi­stia­mo allo­ra come ope­rai e ope­ra­ie socia­li, non come figu­re socio­lo­gi­che ma in quan­to sog­get­ti poli­ti­ci capa­ci di tro­va­re solu­zio­ni che libe­ri­no con­flit­to di clas­se, nel­la sua for­ma post-for­di­sta. L’intervento mili­tan­te quo­ti­dia­no pri­vi­le­gia i nuo­vi distret­ti indu­stria­li, i nuo­vi labo­ra­to­ri, i pae­si dove i com­par­ti del­la gran­de fab­bri­ca ven­go­no decen­tra­ti. Il lavo­ro ci inse­gue sem­pre più den­tro il ter­ri­to­rio e noi lì lo abbia­mo aspet­ta­to. Per­ché que­sto è il ter­re­no in cui sia­mo più for­ti. (p. 93)

L’operaio socia­le è quin­di la cate­go­ria che sup­por­ta que­sto sfor­zo tut­to poli­ti­co: e nasce dal­la pra­ti­ca, dal­la neces­si­tà di “giu­sti­fi­ca­re” e siste­ma­tiz­za­re que­sti pro­ces­si. Orto­pras­si e spre­giu­di­ca­tez­za teo­ri­ca sono in que­gli anni due poli che mar­ca­no un pro­ces­so neces­sa­rio e vir­tuo­so di pras­si-teo­ria-pras­si (poi diven­te­ran­no sbra­ca­men­to solip­si­sti­co, man mano che il con­flit­to si essic­che­rà e reste­ran­no in cam­po solo i chiac­chie­ro­ni da semi­na­rio, ma que­sto è un altra storia).

L’autore ren­de pun­ti­glio­sa­men­te con­to dei pro­ces­si di for­ma­zio­ne del­le strut­tu­re auto­no­me – dai coor­di­na­men­ti ope­rai ai comi­ta­ti stu­den­te­schi, ricom­po­sti oriz­zon­tal­men­te nel­la figu­ra dei Grup­pi Socia­li – ‚così come del­le cam­pa­gne che scan­di­ran­no la for­za cre­scen­te dell’autonomia ope­ra­ia in vene­to e la sua pro­get­tua­li­tà nazio­na­le, in rap­por­to con l’area mila­ne­se di Ros­so.
Nasce Radio Sher­wood – con la sua reda­zio­ne vicen­ti­na – ed il set­ti­ma­na­le poli­ti­co Auto­no­mia: stru­men­ti indi­spen­sa­bi­li per ren­de­re con­to del­la ric­chez­za del­le ini­zia­ti­ve dif­fu­se sul ter­ri­to­rio.
Le ron­de ope­ra­ie “mobi­li” con­tro gli straor­di­na­ri, diven­ta­no model­lo di inter­ven­to nel socia­le, nel­la lot­ta per la casa e nel­le pri­me occu­pa­zio­ni di spa­zi socia­li. Il cre­scen­do del con­tro­po­te­re evo­ca un cre­scen­do di repres­sio­ne, che pro­va a rin­tuz­za­re, pal­mo a pal­mo, l’egemonia che gli auto­no­mi con­qui­sta­no su pez­zi impor­tan­ti di tes­su­to socia­le: i con­fe­de­ra­li e il PCI diven­ta­no par­te atti­va di que­sto sfor­zo di con­tra­sto all’autonomia ope­ra­ia, in un sus­se­guir­si di arre­sti, pro­ces­si e inchie­ste, che cul­mi­ne­ran­no, nel gran­de sho­w­do­wn fina­le del PM Calo­ge­ro (il libro ripor­ta anche l’imbarazzante e fami­ge­ra­to post pub­bli­ca­to nel 2017 da Umber­to Con­ta­rel­lo, all’epoca ven­ti­duen­ne segre­ta­rio del­la FGCI pado­va­na, che rac­con­ta di come Calo­ge­ro andas­se per­so­nal­men­te nei loca­li del­la Fede­ra­zio­ne del PCI ad istruir­lo sul­la ver­sio­ne che avreb­be dovu­to soste­ne­re come testi­mo­ne d’accusa al pro­ces­so con­tro l’Autonomia…).

Ma nel vicen­ti­no lo spar­tiac­que di un’epoca non è il 7 apri­le del ’79. È piut­to­sto la tra­ge­dia di Thie­ne, la mor­te ina­spet­ta­ta di tre gio­va­ni pro­le­ta­ri dei col­let­ti­vi vicen­ti­ni, Ange­lo del San­to, Alber­to Gra­zia­ni e Maria Anto­niet­ta Ber­na, e il suc­ces­si­vo assur­do sui­ci­dio in car­ce­re di Loren­zo Bor­to­li. Dona­to Taglia­pie­tra lascia capi­re che fu quell’evento a segna­re la fine di qual­co­sa: agli attac­chi repres­si­vi le strut­tu­re auto­no­me era­no abi­tua­te; ma i fat­ti di Thie­ne reca­no un segno auto­di­strut­ti­vo che dif­fi­cil­men­te avreb­be potu­to ricomporsi.

A Thie­ne, attor­no alle ore 17.00, un’esplosione pro­vo­ca la mor­te di tre com­pa­gni, mili­tan­ti dei Cpv. La sto­ria si inter­rom­pe e si capi­sce che nien­te più sareb­be sta­to come pri­ma. Esi­ste un pri­ma e un dopo l’11 apri­le ’79. (p. 163)

I tre mili­tan­ti sta­va­no rea­liz­zan­do un ordi­gno esplo­si­vo che sareb­be ser­vi­to den­tro la cam­pa­gna di rispo­sta alla maxi reta­ta del 7 Apri­le. Le strut­tu­re dell’autonomia vicen­ti­na riven­di­ca­no imme­dia­ta­men­te l’internità del­le figu­re e del per­cor­so dei tre gio­va­ni mili­tan­ti mor­ti e scri­vo­no in un comu­ni­ca­to usci­to subi­to dopo i fatti:

Nes­su­na dispu­ta di linea poli­ti­ca, nes­su­na dif­fe­ren­zia­zio­ne di impo­sta­zio­ne di ana­li­si den­tro il movi­men­to, può offu­sca­re, nega­re l’appartenenza dei com­pa­gni all’intero movi­men­to rivo­lu­zio­na­rio, a tut­ti i comu­ni­sti. L’intero movi­men­to di clas­se deve riven­di­ca­re a sé que­sti com­pa­gni cadu­ti. Per non dimen­ti­ca­re. Per ricor­da­re. (p. 164)

L’autore ci ripor­ta al cli­ma dram­ma­ti­co di quei giorni.

Quel­la che si sca­te­na con­tro una pic­co­la real­tà di pro­vin­cia è una repres­sio­ne sen­za egua­li. Cru­de­le e fero­ce. L’intento è quel­lo di sra­di­ca­re defi­ni­ti­va­men­te l’organizzazione auto­no­ma. Vie­ne mes­sa in cam­po da Dal­la Chie­sa attra­ver­so un’operazione che mili­ta­riz­za per un mese un inte­ra zona. (p. 167)

Man­da­ti di cat­tu­ra e per­qui­si­zio­ni pio­vo­no a tap­pe­to su tut­to il territorio:

Nel nostro caso nien­te vie­ne rispar­mia­to, fino alla con­te­sta­zio­ne a tut­ti del rea­to di omi­ci­dio. Non esi­ste un impian­to accu­sa­to­rio, non è mai esi­sti­to duran­te tut­ta la fase pro­ces­sua­le. La volon­tà di spar­ge­re ter­ro­re con la rap­pre­sa­glia è l’impianto accu­sa­to­rio. Scat­ta­no dap­per­tut­to posti di bloc­co, con­trol­li nei luo­ghi fre­quen­ta­ti dai com­pa­gni e nel­le loro abi­ta­zio­ni. Nei luo­ghi fre­quen­ta­ti dal movi­men­to i poli­ziot­ti si sca­te­na­no con­tro le com­pa­gne con pro­vo­ca­zio­ni ses­si­ste. (p. 168)

Le per­so­ne care alle vit­ti­me ven­go­no arre­sta­te o inqui­si­te. Tra loro Loren­zo Bor­to­li, affit­tua­rio dell’appartamento in cui avvie­ne la tra­ge­dia e com­pa­gno di Maria Anto­niet­ta. Dopo due mesi di iso­la­men­to, ves­sa­zio­ni, tra­sfe­ri­men­ti e pro­vo­ca­zio­ni, Loren­zo si sui­ci­da nel­la sezio­ne tran­si­ti del car­ce­re di Vero­na. Da set­ti­ma­ne è in pie­di una cam­pa­gna di opi­nio­ne per la sua libe­ra­zio­ne, visti i ten­ta­ti­vi di sui­ci­dio già mes­si in atto e lo sta­to di pro­fon­da pro­stra­zio­ne psi­co­lo­gi­ca pro­vo­ca­ta dal­la mor­te del­la com­pa­gna, oltre che dal­la deten­zio­ne. Il quar­to fune­ra­le a pugni chiu­si, nel­la pic­co­la stra­zia­ta pro­vin­cia vicentina.

Tra lati­tan­za, car­ce­re e pro­ces­si (le ulti­me pre­scri­zio­ni arri­va­no nel 2006!) la vicen­da poli­ti­co orga­niz­za­ti­va dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vicen­ti­ni ter­mi­na all’inizio degli anni ’80. Le scel­te di vita si divi­do­no, il ter­ri­to­rio muta segno rapi­da­men­te: l’eroina si dif­fon­de capil­lar­men­te anche nei pic­co­li cen­tri; ampi set­to­ri del Vene­to, soprat­tut­to fino al rapi­men­to Dozier, resta­no zone alta­men­te mili­ta­riz­za­te (a Pado­va cit­tà si riu­sci­rà a rom­pe­re il divie­to di mani­fe­sta­zio­ne solo nel 1985, dopo l’esecuzione sbir­re­sca di Pedro Gre­co). E cosa più impor­tan­te: la con­tro­ri­vo­lu­zio­ne socia­le accom­pa­gna la valo­riz­za­zio­ne capi­ta­li­sti­ca del “model­lo vene­to”, che pas­sa da dimen­sio­ne pro­dut­ti­va mar­gi­na­le e peri­fe­ri­ca, all’inserimento nel­le gran­di filie­re pro­dut­ti­ve tede­sche e mitteleuropee.

L’autore, a dif­fe­ren­za di altri che han­no con­tri­bui­to ai volu­mi pre­ce­den­ti del­la serie, ci tie­ne a ren­de­re ono­re ai tan­ti che han­no pro­se­gui­to, negli anni 80/​90 la con­ti­nui­tà di un’ipotesi poli­ti­co orga­niz­za­ti­va lega­ta all’autonomia.

Quan­do uscii le cose era­no cam­bia­te, ma mi sen­ti­vo anco­ra inter­no a una situa­zio­ne di lot­ta soli­da e impor­tan­te. La sto­ria con­ti­nua­va. Mai un gior­no a Pado­va, dagli stu­di di Vico­lo Pon­te­cor­vo, Radio Sher­wood era sta­ta in silen­zio. Accom­pa­gna­va soste­ne­va, difen­de­va e orga­niz­za­va lo spa­zio auto­no­mo. Nasce­va il Coor­di­na­men­to Nazio­na­le Anti­nu­clea­re Antim­pe­ria­li­sta, che tan­ta impor­tan­za ebbe in quel pre­ci­so momen­to, con­si­de­ran­do quan­to di dram­ma­ti­co sta­va suc­ce­den­do den­tro le orga­niz­za­zio­ni com­bat­ten­ti clan­de­sti­ne e nel­le car­ce­ri spe­cia­li. […] Da quel ciclo di lot­te pre­se­ro vita le pri­me occu­pa­zio­ni con l’avvio, lun­go gli anni Novan­ta del movi­men­to dei Cen­tri Socia­li. Nel 1988 a Pado­va, in via Tici­no, nasce­va il Pedro, l’anno dopo a Mestre il Rivol­ta, poi il Morion a Vene­zia, l’Aggro nel Tre­vi­gia­no, l’Emoprimodellalista nel­la bas­sa pado­va­na, fino allo Ya Basta di Vicen­za. […] Quel­lo fu mol­to som­ma­ria­men­te l’impianto di movi­men­to con il qua­le si arri­vò a Geno­va 2001. E dopo Geno­va il movi­men­to di lot­ta con­tro la base ame­ri­ca­na di Dal Molin, a Vicen­za, nel feb­bra­io 2007 por­tò in piaz­za una mani­fe­sta­zio­ne auto­no­ma di 200.000 per­so­ne. (p. 203)

Tut­to sto­ri­ca­men­te cor­ret­to. Ma non ci si può sot­trar­re alla doman­da più dolo­ro­sa, con cui fa i con­ti Eli­sa­bet­ta Michie­lin nel­la bel­la introduzione:

Aver visto giu­sto, aver guar­da­to al ter­ri­to­rio pone però un pro­ble­ma. Com’è potu­to acca­de­re che lo stes­so ter­ri­to­rio, lo stes­so rifiu­to del lavo­ro, han­no por­ta­to a un cam­bia­men­to di segno ina­spet­ta­to nel­la sua radi­ca­li­tà? Insom­ma, come e per­ché si è pro­dot­to l’uomo nuo­vo del­la Lega? Quei ragaz­zi che, piut­to­sto di entra­re in fab­bri­ca, ave­va­no deci­so di pren­de­re le armi, come sono diven­ta­ti gli sfrut­ta­to­ri di se stes­si nel­le miria­di di pic­co­li opi­fi­ci che han­no fat­to il mira­co­lo del Nord Est nel seco­lo scor­so? […] E anco­ra: che quel­la pro­du­zio­ne di sog­get­ti­vi­tà, mol­ti­pli­ca­tri­ce di liber­tà e di inven­zio­ne, abbia par­to­ri­to il mostro dell’autoreferenzialità e dell’esclusione, in una paro­la l’inimicizia asso­lu­ta nei con­fron­ti dell’altro e la com­ple­ta iden­ti­fi­ca­zio­ne con il lavo­ro? (p. 9)

Doman­de dolo­ro­se. Rispo­ste che meri­te­reb­be­ro ben più di un libro.

I «pugni al cielo» di una generazione – di Alberto Pantaloni

Quando l’operaio sociale si è fatto carne

Gigi Rog­ge­ro recen­si­sce L’Autonomia ope­ra­ia vicen­ti­na di Dona­to Tagliapietra

Thie­ne è un pae­se del vicen­ti­no, a una deci­na di chi­lo­me­tri da Schio, la pic­co­la Man­che­ster vene­ta. Negli anni Set­tan­ta ha una fio­ren­te atti­vi­tà com­mer­cia­le, rino­ma­ti mobi­li­fi­ci e un set­to­re indu­stria­le spe­cia­liz­za­to. Il ter­ri­to­rio non è domi­na­to dal­le gran­di fab­bri­che, come nel­la vici­na Schio; è inve­ce un esem­pio del­la fab­bri­ca dif­fu­sa, den­tro cui si for­ma una nuo­va com­po­si­zio­ne di clas­se: gio­va­ne, com­bat­ti­va, pron­ta a tut­to per non far­si inca­te­na­re dal lavo­ro sala­ria­to. È un pome­rig­gio di pri­ma­ve­ra a Thie­ne, quan­do una ter­ri­bi­le esplo­sio­ne squar­cia la vita di tre gio­va­ni com­pa­gni: Ange­lo, Alber­to, Maria Anto­niet­ta, a cui si aggiun­ge­rà un paio di mesi dopo Loren­zo, sui­ci­da­to in car­ce­re dal­la ven­det­ta del­lo Sta­to, sim­bo­leg­gia­ta dal 7 apri­le e dal vol­to pci­sta di Calogero. 

“Esi­ste un pri­ma e un dopo l’11 apri­le 1979”, ci dice Dona­to Taglia­pie­tra nel suo libro L’Autonomia ope­ra­ia vicen­ti­na. Dal­la rivol­ta di Val­da­gno alla repres­sio­ne di Thie­ne (fre­sco di stam­pa per Deri­veAp­pro­di, quin­to volu­me dedi­ca­to dal­la casa edi­tri­ce a Gli auto­no­mi). Non vi è mai in que­ste pagi­ne, anche in quel­le che più diret­ta­men­te toc­ca­no i ner­vi sco­per­ti dell’esperienza sog­get­ti­va, alcu­no spa­zio per il vit­ti­mi­smo, o per il cul­to roman­ti­co dei mar­ti­ri. Nel libro di Dona­to infat­ti, come vie­ne sot­to­li­nea­to dal­la bel­la intro­du­zio­ne di Eli­sa­bet­ta Michie­lin, si dichia­ra giu­sta­men­te guer­ra al nar­ci­si­smo che spes­so, trop­po spes­so infi­cia le nar­ra­zio­ni dei pro­ta­go­ni­sti di quel­la straor­di­na­ria fase di lot­ta, sfo­cian­do in una stuc­che­vo­le memo­ria­li­sti­ca rivol­ta al pas­sa­to. In que­sto volu­me, come sem­pre dovreb­be fare un mili­tan­te, l’energia è con­cen­tra­ta nel for­ni­re armi di rifles­sio­ne poli­ti­ca per il pre­sen­te. Quel­la che si ana­liz­za nel libro é una sto­ria inte­ra­men­te col­let­ti­va, a cui han­no pre­so par­te Dona­to, Ange­lo, Alber­to, Maria Anto­niet­ta, Loren­zo e diver­se deci­ne di miglia­ia di com­pa­gni e com­pa­gne in Vene­to e in tut­ta Ita­lia. Anche quan­do si rac­con­ta­no espe­rien­ze per­so­na­li, si respi­ra sem­pre l’appartenenza a un pro­ces­so col­let­ti­vo, di mas­sa e di orga­niz­za­zio­ne. L’individuo spa­ri­sce, o meglio anco­ra divie­ne pro­pria­men­te socia­le e poli­ti­co nel­la misu­ra in cui rom­pe con se stes­so, cioè con la col­lo­ca­zio­ne e il ruo­lo a cui è sta­to con­se­gna­to dal siste­ma dominante.

La sto­ria col­let­ti­va ana­liz­za­ta da Dona­to è quel­la dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti e, al suo inter­no ma con la sua spe­ci­fi­ci­tà, del­la real­tà ter­ri­to­ria­le vicen­ti­na, in par­ti­co­la­re in quel­la por­zio­ne di fab­bri­ca dif­fu­sa che sta appun­to tra Val­da­gno, Schio, Chiup­pa­no, Mara­no e Thie­ne. No, non si trat­ta affat­to del­le pica­re­sche avven­tu­re di gio­va­ni ribel­li, ben­sì di un impor­tan­te labo­ra­to­rio poli­ti­co di spe­ri­men­ta­zio­ne del­le pra­ti­che di lot­ta e orga­niz­za­zio­ne dell’operaio socia­le. Que­sta figu­ra si incar­na sot­to gli occhi del let­to­re nel­la mate­ria­li­tà dei com­por­ta­men­ti e del­le for­me di con­trap­po­si­zio­ne, nel­la fuga dal­la fab­bri­ca e in espe­rien­ze di vita che – dal­la musi­ca ai viag­gi alla socia­li­tà quo­ti­dia­na – non sono mai con­su­ma­te indi­vi­dual­men­te, ma fan­no par­te dei per­cor­si di una mino­ran­za mas­si­fi­ca­ta, cioè for­te e non mino­ri­ta­ria. Scri­ve dun­que Dona­to: “Lo sti­le del­la mili­tan­za vie­ne modi­fi­can­do­si alla luce dei nuo­vi sog­get­ti in cam­po e del loro con­flit­to con i nuo­vi dispo­si­ti­vi pro­dut­ti­vi. Il pas­sag­gio avvie­ne su un cor­po socia­le di gio­va­nis­si­mi, com­pre­si in una fascia di età dai 17–18 ai 24–25 anni, for­te­men­te sco­la­riz­za­ta, desti­na­ta alla pro­du­zio­ne di mer­ci e ser­vi­zi, ma che rive­le­rà una for­tis­si­ma ten­sio­ne a costrui­re un quo­ti­dia­no con­di­vi­so odian­do la costri­zio­ne al lavo­ro coman­da­to”. Ecco allo­ra che, andan­do avan­ti nel­la let­tu­ra, ci vie­ne descrit­to cos’è e come si for­ma un mili­tan­te, cioè una for­ma di vita che sce­glie di rom­pe­re con il pro­prio desti­no: “Quel­lo che sto­ri­ca­men­te è lo sca­li­no più cari­co di ten­sio­ni nel­la vita di una per­so­na – la mes­sa in pro­du­zio­ne den­tro il lavo­ro vivo – vie­ne sal­ta­to; per la pri­ma vol­ta, anzi­ché subir­lo, una gene­ra­zio­ne si orga­niz­za, anche in armi, per sot­trar­vi­si sabo­tan­do­lo. Deci­den­do che la libe­ra­zio­ne dal lavo­ro o è per tut­ti o non può esse­re per nes­su­no. È fuo­ri discus­sio­ne che non avrem­mo segui­to la sor­te dei nostri padri, costret­ti alle otto ore dal­la vio­len­tis­si­ma rigi­di­tà di quel­la che pom­po­sa­men­te è chia­ma­ta la rico­stru­zio­ne post-bel­li­ca. E que­sto come ‘rin­gra­zia­men­to’ per aver sapu­to scon­fig­ge­re fasci­smo e nazi­smo. Per noi han­no già dato i nostri geni­to­ri!”. Il rifiu­to del lavo­ro, com­por­ta­men­to e pra­ti­ca di mas­sa, diven­ta for­ma del­la militanza.

Que­sta nuo­va com­po­si­zio­ne sog­get­ti­va por­ta infat­ti con sé, insie­me a biso­gni e desi­de­ri spe­ci­fi­ci, nuo­ve doman­de di pra­ti­ca e orga­niz­za­zio­ne. È pre­sto evi­den­te che gli sche­mi pre­ce­den­ti non fun­zio­na­no più. Non solo quel­li più diret­ta­men­te lega­ti alla cen­tra­li­tà del­la fab­bri­ca e dell’operaio mas­sa, ormai in fase di decli­no poli­ti­co (inu­ti­le sot­to­li­nea­re che il Pci, dopo aver­lo ostra­ciz­za­to nel pic­co del­la sua poten­zia­li­tà, quan­do ormai è poli­ti­ca­men­te scon­fit­to fa di que­sta figu­ra una vuo­ta ico­na da usa­re con­tro i movi­men­ti auto­no­mi). Sono logo­ri anche gli sche­mi di piaz­za, non fan­no più male al nemi­co, fini­sco­no solo per rega­la­re alla con­tro­par­te com­pa­gni che ven­go­no arre­sta­ti e, anco­ra più, il van­tag­gio del­la pre­ve­di­bi­li­tà. Da que­sta con­sa­pe­vo­lez­za nasce la pra­ti­ca del con­trol­lo ter­ri­to­ria­le, per rom­pe­re il ritua­le del­le sca­den­ze pro­gram­ma­te e det­ta­re auto­no­ma­men­te tem­pi, luo­ghi e moda­li­tà dell’uso del­la for­za. Il bat­te­si­mo del fuo­co è il 9 giu­gno 1976: cir­ca due­cen­to com­pa­gni arma­ti di Pado­va e del Vene­to occu­pa­no un quar­tie­re del­la cit­tà, l’Arcella, men­tre una ron­da pra­ti­ca gli obiet­ti­vi (dall’esproprio dei super­mer­ca­ti all’incendio del­le sedi dei fascisti).

È den­tro que­sto pas­sag­gio, dall’operaio mas­sa all’operaio socia­le, da un pro­get­to orga­niz­za­ti­vo cen­tra­to sul­la fab­bri­ca a uno fon­da­to sul­la fab­bri­ca dif­fu­sa, che si col­lo­ca la nasci­ta dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti: “La pro­po­sta vie­ne fat­ta pro­pria da tut­te le real­tà par­te­ci­pan­ti: Rovi­go, Vicen­za Por­de­no­ne e Mestre/​Venezia. E vie­ne fat­ta man­te­nen­do, anzi valo­riz­zan­do ancor più, la pro­pria spe­ci­fi­ci­tà ter­ri­to­ria­le, visto che la pro­po­sta orga­niz­za­ti­va pre­ve­de una pie­na auto­no­mia del­le sin­go­le pro­vin­cie. Nel­la pra­ti­ca asso­mi­glia mol­to a un pat­to fede­ra­ti­vo. Non ci chia­mia­mo Col­let­ti­vi poli­ti­ci comu­ni­sti, oppu­re rivo­lu­zio­na­ri o pro­le­ta­ri. No, ci chia­mia­mo Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti (Cpv). È un esem­pio uni­co nel pano­ra­ma nazionale”.

La sto­ria dei Cpv è qui per­cor­sa per la pri­ma vol­ta, dall’angolo pro­spet­ti­co del­lo svi­lup­po dell’Autonomia vicen­ti­na. Il rit­mo incal­zan­te del­la nar­ra­zio­ne scan­di­sce il rit­mo incal­zan­te del­la costru­zio­ne di una for­za col­let­ti­va, in cui han­no un peso deci­si­vo le ron­de. Ron­de con­tro gli straor­di­na­ri, ma sareb­be più cor­ret­to defi­nir­le ron­de con­tro il lavo­ro sans phra­se. Per dir­la con Dona­to, infat­ti, “già il lavo­ro ordi­na­rio è insop­por­ta­bi­le, figu­ria­mo­ci come dev’essere quel­lo straor­di­na­rio”. In que­sta sto­ria il Set­tan­ta­set­te è ovvia­men­te un pas­sag­gio signi­fi­ca­ti­vo, ma solo se col­lo­ca­to in un pro­ces­so che affon­da le pro­prie radi­ci nel pri­ma e va ben oltre. Anzi, in que­sti ter­ri­to­ri non è l’apice del con­flit­to. La con­ti­nui­tà del pro­ces­so orga­niz­za­ti­vo è più signi­fi­ca­ti­va del­la pre­ci­pi­ta­zio­ne nell’evento.

Fan­no par­te di que­sto pro­ces­so diver­si sog­get­ti, che dise­gna­no com­ples­si­va­men­te la figu­ra dell’operaio socia­le – che, come abbia­mo più vol­te sot­to­li­nea­to, non va mai ridot­ta a una mera col­lo­ca­zio­ne occu­pa­zio­na­le o socio­lo­gi­ca, ma indi­ca la pos­si­bi­li­tà di una ten­den­za ricom­po­si­ti­va. Ope­rai, stu­den­ti, disoc­cu­pa­ti e quel­li che poi si sareb­be­ro chia­ma­ti pre­ca­ri. Un para­gra­fo del libro è dedi­ca­to alla lot­ta per la casa. Leg­gen­do­lo, ne pos­sia­mo trar­re pre­zio­se indi­ca­zio­ni anche per il pre­sen­te. Quel­la lot­ta, infat­ti, pro­du­ce sog­get­ti­vi­tà mili­tan­te e con­tro­po­te­re ter­ri­to­ria­le. La sua tra­sfi­gu­ra­zio­ne con­tem­po­ra­nea in una logi­ca assi­sten­zia­li­sta e di ero­ga­zio­ne di ser­vi­zi, peral­tro pove­ri e sfi­ga­ti, non dipen­de solo dall’avvenuto ribal­ta­men­to dei rap­por­ti di for­za a favo­re del nostro nemi­co: descri­ve il ribal­ta­men­to del mili­tan­te in atti­vi­sta, del­la ricer­ca del con­flit­to nel­la ricer­ca del con­sen­so, del con­tro­po­te­re in rinun­cia all’esercizio del potere.

Quan­do si par­la di una mol­te­pli­ci­tà di sog­get­ti socia­li biso­gna pre­ci­sa­re. Oggi si pen­sa che il pro­ble­ma sia sem­pli­ce­men­te som­ma­re una plu­ra­li­tà di set­to­ri e iden­ti­tà, è que­sta in sol­do­ni la cosid­det­ta inter­se­zio­na­li­tà che dal­le acca­de­mie ame­ri­ca­ne ha per­va­so le acca­de­mie di “movi­men­to”. L’autonomia, al con­tra­rio, non è mai la som­ma alge­bri­ca del­le auto­no­mie, per­ché ricom­po­si­zio­ne signi­fi­ca assu­me­re fino in fon­do le con­trad­di­zio­ni e i con­flit­ti inter­ni alla clas­se, ovve­ro por­si il pro­ble­ma non di accet­ta­re i sog­get­ti così come sono dati nel­la gerar­chia capi­ta­li­sti­ca, ma pro­ces­sual­men­te di tra­sfor­mar­li, rove­sciar­li, sov­ver­tir­li. Costrui­re un sog­get­to che anco­ra non c’è, e che non può che esse­re con­tro quel­lo che attual­men­te sia­mo. Dona­to lo spie­ga in modo pre­ci­so: “Non ci è mai inte­res­sa­to segui­re le mil­le auto­no­mie, don­ne, stu­den­ti, ecc. come non ci inte­res­sa orga­niz­za­re un set­to­re dopo l’altro, cre­dia­mo che l’unica pos­si­bi­li­tà di far vive­re il comu­ni­smo nel­la quo­ti­dia­ni­tà sia la for­za ricom­po­si­ti­va del pro­gram­ma che solo può uni­fi­ca­re i mil­le stra­ti socia­li su biso­gni e pra­ti­che comu­ni”. Con­se­guen­te­men­te, può con­clu­de­re soste­nen­do che “l’Autonomia non è mai sta­ta uno spa­zio orga­niz­za­ti­vo rigi­do e chiu­so, ma piut­to­sto un meto­do che per­met­te di attra­ver­sa­re con il con­flit­to di clas­se le con­trad­di­zio­ni che lo svi­lup­po del capi­ta­le por­ta con sé quotidianamente”.

La robu­sta appen­di­ce fina­le del libro è pre­zio­sa, per­ché con­sen­te il con­fron­to diret­to con testi, docu­men­ti e volan­ti­ni pro­dot­ti nel­la straor­di­na­ria espe­rien­za che il libro ana­liz­za. Qui, come nel resto del volu­me, pos­sia­mo tro­va­re la dif­fe­ren­za fon­da­men­ta­le rispet­to alle rico­stru­zio­ni degli anni Set­tan­ta fat­te dai mili­tan­ti del­le for­ma­zio­ni com­bat­ten­ti, in cui la sog­get­ti­vi­tà ope­ra­ia e pro­le­ta­ria ten­de a spa­ri­re, o a diven­ta­re un fetic­cio ideo­lo­gi­co i cui fili sono tira­ti dall’eroismo di avan­guar­die sepa­ra­te. Atten­zio­ne, il pun­to non è affat­to la que­stio­ne del­le armi o dell’uso del­la for­za (Dona­to ricor­da che “tra il ’76 e l’80 si regi­stra­no in Vene­to più di cin­que­cen­to atti di ‘uso ragio­na­to del­la for­za’”). Il pun­to è che, in un com­ple­to rove­scia­men­to del­le pra­ti­che di Marx e Lenin, nel mar­xi­smo-leni­ni­smo del­le orga­niz­za­zio­ni clan­de­sti­ne la lot­ta arma­ta diven­ta la stra­te­gia. Per gli auto­no­mi al con­tra­rio l’uso del­la for­za, decli­na­ta sul pia­no dell’illegalità di mas­sa, è sem­pre uno stru­men­to per la costru­zio­ne e l’esercizio del con­tro­po­te­re. L’operaismo si incar­na qui nei com­por­ta­men­ti dell’operaio socia­le: al par­ti­to la tat­ti­ca, alla clas­se la stra­te­gia. L’autonomia è dav­ve­ro, in que­ste pagi­ne e in que­sta sto­ria, l’organizzazione che riflet­te sul­la pro­pria spon­ta­nei­tà, e la spon­ta­nei­tà che riflet­te sul­la pro­pria organizzazione.

Va det­to infi­ne che quell’esperienza non è sta­ta pri­va di limi­ti, sen­za i qua­li non riu­sci­rem­mo a com­pren­de­re quel­la che pos­sia­mo chia­ma­re – con due avver­ten­ze – una scon­fit­ta. Pri­ma avver­ten­za: è stuc­che­vo­le pen­sa­re che i pro­get­ti poli­ti­ci sia­no scon­fit­ti sem­pli­ce­men­te dal­la repres­sio­ne, come pur­trop­po si indu­gia a fare nel­le rico­stru­zio­ni di auto­giu­sti­fi­ca­zio­ne poli­ti­ca. Secon­da avver­ten­za: scon­fit­ta signi­fi­ca sem­pre, per i mili­tan­ti e per chi – come Dona­to – non ha con­fi­na­to la mili­tan­za a una fase gio­va­ni­le del­la pro­pria vita, fare teso­ro dei limi­ti nel­le sin­go­le bat­ta­glie per reim­po­star­ci den­tro la guer­ra. La scon­fit­ta è un’eredità impor­tan­te quan­to quel­la costi­tui­ta dal­le ric­chez­ze, dagli avan­za­men­ti, dal­le par­zia­li vit­to­rie. Per poter affer­ma­re con Dona­to, sen­za le fan­ta­sti­che­rie dell’utopista e con la tran­quil­la intran­si­gen­za del mili­tan­te: “Vin­ce­re­mo”.

I «pugni al cielo» di una generazione – di Alberto Pantaloni

L’autonomia operaia vicentina. Dalla rivolta di Valdagno alla repressione di Thiene. Di Donato Tagliapietra

Loren­zo Bor­to­li (1952–1979), La fab­bri­ca, olio su tela, 50×60, 1967.

“E tut­to anco­ra farà male, madre”
“Non è vero che non sia­mo sta­ti feli­ci”
Fran­co Fortini

La fabbrica è il primo dipinto conosciuto di Lorenzo. Il fatto che un quindicenne dipinga questo soggetto ci aiuta a capire il peso della fabbrica che ha nel paese di Marano Vicentino. Ma quello che a noi interessa è cosa vede nella fabbrica, perché è quello che vediamo tutti: un luogo tetro, senza luce e vita, un edificio oscuro schiacciato da un cielo plumbeo con un’unica presenza viva, l’abitazione in primo piano (casa sua?) dove, per della luce che filtra dalle finestre, sappiamo esserci umanità.
Non così nella fabbrica, luogo morto per il pensiero e i sogni e, soprattutto, per la sensibilità di un quindicenne che sta affacciandosi al mondo. È un dipinto rivelatore.”

Loren­zo Bor­to­li, vie­ne lascia­to mori­re sui­ci­da (dopo ben due ten­ta­ti­vi) nel car­ce­re di Vero­na a pochis­si­mi mesi dall’arresto nell’ambito del­la inchie­sta sui Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti col­le­ga­ta all’esplosione dove muo­re la com­pa­gna Maria Anto­niet­ta Ber­na, l’operaio Ange­lo Dal San­to e lo stu­den­te Alber­to Gra­zia­ni. I tre com­pa­gni sta­va­no costruen­do un ordi­gno rudi­men­ta­le. Qui una sua biografia/​ricordo da cui è trat­ta l’ultima mis­si­va di Bortoli.

Foglio di richie­sta, Car­ce­re di Vero­na 18–6‑79
Al signor diret­to­re del­la casa cir­con­da­ria­le di Vero­na.
Le sarei vera­men­te gra­to se potes­se far per­ve­ni­re ai miei fami­lia­ri il seguen­te tele­gram­ma: “Rag­giun­to Anto­nia. Vi pre­go di esse­re sepol­to con lei. Vi assi­cu­ro che sto bene così. Un abbrac­cio. Dite a Van­na di non pian­ge­re, ma di ricor­dar­si come era­va­mo feli­ci come ora che sia­mo nuo­va­men­te insie­me. Loren­zo”
La pre­ghe­rei di far per­ve­ni­re anche il grup­po di foto­gra­fie, difal­can­do le spe­se dal mio con­to per­so­na­le. La rin­gra­zio vivamente.


Pubblichiamo l’introduzione di Elisabetta Michielin al V volume che la casa editrice Derive Approdi ha dedicato alla ricostruzione della storia dell’Autonomia operaia italiana. Il volume di Donato Tagliapietra, in particolare, ricostruisce la storia dei Collettivi politici vicentini attraverso i documenti politici, i volantini e le testimonanzie di chi è stato protagonista di quegli eventi e di quel territorio.

Che bel libro ha scrit­to Dona­to il “ros­so”. Ros­so di capel­li e di par­te! Lo dicia­mo subi­to. Un libro neces­sa­rio per­ché rico­strui­sce con ric­chez­za e pas­sio­ne un perio­do cru­cia­le del­la sto­ria dei ten­ta­ti­vi rivo­lu­zio­na­ri del nostro Pae­se e del ter­ri­to­rio del nord est. Un eser­ci­zio di scrit­tu­ra e rifles­sio­ne che tira fuo­ri dal­le tene­bre una memo­ria can­cel­la­ta, con­se­gna­ta alle aule di giu­sti­zia o alla memo­ria di chi l’ha rico­strui­ta solo per deni­grar­la o scon­giu­rar­ne la pos­si­bi­le riproposizione.

In par­ti­co­la­re, Dona­to rico­strui­sce il perio­do che l’ha visto fra i pro­ta­go­ni­sti dei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti nel ter­ri­to­rio dell’alto vicen­ti­no usan­do qua­si esclu­si­va­men­te i docu­men­ti pro­dot­ti dal­la stes­sa orga­niz­za­zio­ne e le inter­vi­ste ai mili­tan­ti di allora.

Una sto­ria che non cede mai al bio­gra­fi­smo indi­vi­dua­le e alle sue deri­ve nar­ci­si­sti­che per­ché sem­pre anco­ra­ta all’interno di un movi­men­to che ha coin­vol­to deci­ne e deci­ne di mili­tan­ti e che tie­ne sem­pre insie­me la sog­get­ti­vi­tà e il ter­ri­to­rio dove que­sta sog­get­ti­vi­tà è nata, si è svi­lup­pa­ta, ha acqui­si­to sen­so e inci­so in modo con­cre­to nei rap­por­ti di pote­re e di clas­se, finan­che nel cor­po vivo del­le orga­niz­za­zio­ni ope­ra­ie. A Dona­to rico­no­scia­mo il meri­to di esse­re riu­sci­to a descri­ver­la con sem­pli­ci­tà, sen­za enfa­si. In pagi­ne tra le più vive e coin­vol­gen­ti del libro, la vedia­mo all’opera su ver­ten­ze spe­ci­fi­che riguar­dan­ti l’orario di lavo­ro e l’imposizione del­la rias­sun­zio­ne di ope­rai licen­zia­ti, nel­le cam­pa­gne “lavo­ra­re tut­ti lavo­ra­re meno” con le ron­de e i pic­chet­ti con­tro il lavo­ro nero e l’uso degli straor­di­na­ri oppu­re in quel­le per il dirit­to alla casa e l’imposizione dei prez­zi poli­ti­ci per i beni di pri­ma neces­si­tà. Ecco­li allo­ra gli auto­no­mi all’opera, ragaz­ze e ragaz­zi gio­va­nis­si­mi che sen­za alcun sen­so di infe­rio­ri­tà o di sud­di­tan­za, comin­cia­no ad apri­re le pri­me fal­le nel­le strut­tu­re rigi­de del sin­da­ca­to che da tut­ta que­sta sto­ria esce con le ossa rot­te. La Cisl in par­ti­co­la­re, con i suoi qua­dri arro­gan­ti e pate­ti­ci. Ma è con le ron­de, i pic­chet­ti e le assem­blee strap­pa­te con un atto d’imperio al padron­ci­no e al sin­da­ca­to che lo sguar­do di Dona­to si fa più atten­to e vigi­le. È den­tro i sin­go­li fat­ti ma anche al mar­gi­ne, volu­ta­men­te, e l’effetto per chi leg­ge è di stra­nia­men­to: ma vera­men­te acca­de­va­no que­ste cose? Sì, acca­de­va­no gra­zie a que­sti ragaz­zi che oltre al pane pre­ten­de­va­no le rose: entra­re ai con­cer­ti gra­tis, man­gia­re gra­tis alle men­se e ai risto­ran­ti, occu­pa­re spa­zi di socia­li­tà, muo­ve­re guer­ra all’eroina che intan­to spaz­za­va i pae­si. Ragaz­zi che vole­va­no cam­bia­re il mon­do ma anche sod­di­sfa­re nell’immediato i biso­gni e il desi­de­rio di una socia­li­tà altra.

Una sto­ria ric­ca ma anche con­trad­di­to­ria e con uno stra­sci­co di tra­ge­die come la mor­te di Anto­niet­ta, Ange­lo, Alber­to, Loren­zo; ma è solo l’occhio postu­mo del vin­ci­to­re a per­met­ter­si di crea­re i pro­pri miti ripu­li­ti men­tre vede le sto­rie inter­rot­te come una sem­pli­ce serie di com­por­ta­men­ti cri­mi­na­li e violenti.

Pos­sia­mo così entra­re nel labo­ra­to­rio poli­ti­co del Col­let­ti­vo vicen­ti­no che è sta­to anche luo­go di ami­ci­zia pro­fon­da, vede­re il far­si di que­sta orga­niz­za­zio­ne, il suo pren­de­re cor­po attra­ver­so i testi, i volan­ti­ni, i docu­men­ti poli­ti­ci, le rifles­sio­ni di par­te sen­za acce­de­re, se non mar­gi­nal­men­te, ad altre fon­ti: gior­na­li­sti­che, sin­da­ca­li, del PCI o pena­li. Se que­sta scel­ta può sem­bra­re ridut­ti­va dal pun­to di vista sto­ri­co – per­ché si pen­sa che la sto­ria deb­ba esse­re rico­strui­ta com­po­nen­do e illu­mi­nan­do il perio­do in esa­me attra­ver­so il coz­za­re e la giu­stap­po­si­zio­ne di pun­ti di vista diver­si – in que­sto libro sia­mo inve­ce orgo­glio­sa­men­te anco­ra­ti alla pre­sa di par­te, all’idea che non esi­ste e non può esi­ste­re una sto­ria neu­tra o paci­fi­ca­ta posto che, sep­pur sot­to altre for­me, sia­mo anco­ra immer­si in quel rap­por­to socia­le e in quel dilem­ma che non si è anco­ra riu­sci­ti a scio­glie­re. Trat­tan­do­si di una rela­zio­ne socia­le e di pote­re, la veri­tà può esse­re pen­sa­ta solo dal pun­to di vista del­lo sfrut­ta­to che dal­la sua posi­zio­ne può aggre­dir­la, cer­ca­re di rom­per­la risol­ven­do­la a pro­prio van­tag­gio. “Pen­sa­re con le mani” avreb­be dovu­to esse­re il tito­lo del libro.

Ma per­ché Dona­to, a dif­fe­ren­za di altri testi­mo­ni e mili­tan­ti del tem­po, può per­met­ter­si di sosta­re, a distan­za di 40 anni, in que­sto “ango­let­to” sen­za sem­bra­re né esse­re un nostal­gi­co? Noi pen­sia­mo che pos­sa far­lo per­ché l’esperienza dei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti ha mol­to da inse­gna­re e da con­se­gna­re ai nostri tem­pi. Si trat­ta di una sto­ria che per mol­ti ver­si ha anti­ci­pa­to la nostra. Si pen­si al ter­ri­to­rio. I Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti han­no pen­sa­to il ter­ri­to­rio non solo come luo­go in cui si crea e si valo­riz­za il capi­ta­le – ed è quan­to acca­de oggi – ma lo han­no let­te­ral­men­te inven­ta­to come luo­go del con­flit­to e di pro­du­zio­ne di sog­get­ti­vi­tà anta­go­ni­sta. E infat­ti solo per­ché era­no lega­ti al ter­ri­to­rio que­sti auto­no­mi pote­va­no eser­ci­ta­re uno sti­le di mili­tan­za che com­pren­de­va un uso medio del­la for­za: non la esclu­de­vi a prio­ri ma nean­che ne face­vi un fetic­cio esal­tan­do­la come il livel­lo più alto del­la sog­get­ti­vi­tà rivo­lu­zio­na­ria. Il pro­gram­ma di inter­ven­to sul ter­ri­to­rio la con­tem­pla­va den­tro l’esperienza dell’illegalità di mas­sa e all’interno di un eser­ci­zio rea­le di con­tro­po­te­re; in bre­ve, dove­va esse­re radi­ca­ta nel­le isti­tu­zio­ni che riu­sci­vi a crea­re in spa­zi libe­ra­ti dove costrui­vi rea­le autovalorizzazione.

Un buon esem­pio di rico­stru­zio­ne sto­ri­ca, si dice­va. Vero, per­ché l’altro aspet­to inte­res­san­te di que­sto lavo­ro è che, più che un eser­ci­zio di rifles­sio­ne post – si trat­ti di riven­di­ca­zio­ne o di cri­ti­ca – ha inve­ce la fre­schez­za del­la sto­ria che si costrui­sce momen­to per momen­to. In sostan­za il vec­chio ada­gio “pri­ma le lot­te, poi la teo­ria” vale anche nel caso del Col­let­ti­vo vicen­ti­no. Con la let­tu­ra di que­sti docu­men­ti e di que­sta rico­stru­zio­ne sia­mo immer­si nel­la con­cre­tez­za del­le deci­sio­ni e dei com­por­ta­men­ti che si dava­no momen­to per momen­to sia in rela­zio­ne al luo­go in cui vive­vi e all’intervento che gior­no per gior­no face­vi, sia in rela­zio­ne a ciò che suc­ce­de­va in Ita­lia in quel momen­to, vale a dire i movi­men­ti di ristrut­tu­ra­zio­ne in cor­so, i ten­ta­ti­vi di sot­tra­zio­ne al coman­do capi­ta­li­sti­co e al lavo­ro di ampie fet­te di pro­le­ta­ria­to, il con­fron­to aspro e pun­tua­le con le altre orga­niz­za­zio­ni sia dal lato del­la lot­ta arma­ta che del­le altre orga­niz­za­zio­ni dell’Autonomia operaia.

Improv­vi­sa­men­te, ci dice Dona­to, que­sti ragaz­zi – alcu­ni anche ragaz­zi­ni – non ci stan­no più alla disci­pli­na. Così le due gran­di agen­zie di nor­ma­liz­za­zio­ne e ripro­du­zio­ne socia­le, la scuo­la e la fab­bri­ca, comin­cia­no a svuo­tar­si e a ribal­tar­si. Que­sti ragaz­zi non sono più dispo­ni­bi­li a entra­re in fab­bri­ca come i loro padri che nel­la fab­bri­ca e con­tro la fab­bri­ca ave­va­no lot­ta­to, pur aven­do un rap­por­to con i loro padri. Dona­to rico­strui­sce mol­to bene la sto­ria pre­ce­den­te la nasci­ta dei Col­let­ti­vi, la pre­sen­za di Lot­ta Con­ti­nua, le maglie lar­ghe del sin­da­ca­to, tor­nan­do indie­tro fino i lasci­ti del­la Resistenza.

Così, gra­zie agli auto­no­mi, l’alto vicen­ti­no smet­te di esse­re il luo­go del ripo­so, il dor­mi­to­rio all’ombra del­le chie­se del Vene­to tra­di­zio­na­le. Il ter­ri­to­rio cam­bia di segno e diven­ta il luo­go dove si desi­de­ra e si pra­ti­ca una vita diver­sa, ci si cono­sce e si crea­no lega­mi di soli­da­rie­tà che poi resi­ste­ran­no anche alla repressione.

Qui nasco­no anche i Cen­tri Socia­li. La mili­tan­za è ami­ci­zia e l’amicizia è mili­tan­za. Non esi­ste che lavo­ri otto ore in fab­bri­ca, dor­mi per altre otto e per il tem­po che ti resta te ne stai in fami­glia oppu­re fai il mili­tan­te. Per tut­te le 24 ore del­la tua gior­na­ta sei un mili­tan­te, e non per dove­re; al con­tra­rio, per­ché nes­sun momen­to del­la tua vita può esse­re pri­vo di signi­fi­ca­to, per­ché in tut­ta la tua vita costrui­sci rap­por­ti nuo­vi e comu­ni­sti. C’è mol­ta gio­ia rab­bio­sa o mol­ta rab­bia gio­io­sa nel­la vita di que­sti gio­va­ni ragaz­zi, in que­ste peri­fe­rie che inve­ce di esse­re il luo­go del­la ripro­du­zio­ne di una vita ven­du­ta alla fab­bri­ca, sono diven­ta­ti luo­ghi del ri-cono­scer­si, per pren­der­si quel­lo che si vuo­le, per ave­re una vita degna di esse­re vis­su­ta. È la pri­ma gene­ra­zio­ne che ha scel­to qual­sia­si mez­zo per evi­ta­re il lavo­ro di fab­bri­ca a cui i padri era­no sta­ti inca­te­na­ti, la pri­ma a dimo­stra­re che si era comu­ni­sta sen­za pas­sa­re per la fabbrica.

Tin­to Brass, il regi­sta che costrui­rà poi la sua car­rie­ra sui film ero­ti­ci – la for­ma più spen­di­bi­le del desi­de­rio – nel 1963 gira un deli­zio­so film – Chi lavo­ra è per­du­to – che coglie appie­no l’aura del tem­po. Boni­fa­cio, il gio­va­ne pro­ta­go­ni­sta, sta per esse­re assun­to in fab­bri­ca; giron­zo­la per Vene­zia fan­ta­sti­can­do per­ché non ha nes­su­na voglia di comin­cia­re. Non è come i suoi ami­ci del PCI che cre­do­no nel­le vir­tù tau­ma­tur­gi­che del lavo­ro; per lui lavo­ra­re è solo un’alternativa al car­ce­re o al mani­co­mio: un lavo­ro non per il lavo­ro ma per quat­tro sol­di. Tan­to vale “scas­si­na­re le ban­che che alman­co sono sol­di per i sol­di”. D’altra par­te anche sul can­cel­lo di Ausch­wi­tz c’era scrit­to che il lavo­ro ren­de liberi!

Le stes­se cose le dirà Feli­ce Manie­ro al qua­le biso­gna pure rico­no­sce­re l’onestà del­la nar­ra­zio­ne di sé: per­ché sei diven­ta­to un ban­di­to? Per­ché ho fat­to la ter­za media e non vole­vo fare 40 anni di fabbrica.

Que­sti gio­va­ni scan­sa­fa­ti­che e pie­ni di desi­de­rio, come miglia­ia e miglia­ia di altri gio­va­ni in tut­ta Ita­lia, han­no rifiu­ta­to col­let­ti­va­men­te il lavo­ro di fab­bri­ca. Piut­to­sto han­no imbrac­cia­to il fuci­le, pen­san­do e cer­can­do così di ren­de­re con­cre­ta la sot­tra­zio­ne al lavo­ro. In fon­do il sen­so di que­sta sto­ria è pro­prio que­sto. Ma c’è un altro suo aspet­to che meri­ta atten­zio­ne, spie­ga­bi­le solo con la cen­tra­li­tà assun­ta dal ter­ri­to­rio nel­la pra­ti­ca poli­ti­ca del seg­men­to vicen­ti­no dei Col­let­ti­vi vene­ti: nes­su­na deri­va mili­ta­ri­sta e nes­su­na pia­ga di pentitismo.

Per­ché non è sta­to pas­sa­to il con­fi­ne del­la por­ta stret­ta dell’omicidio poli­ti­co e per­ché il radi­ca­men­to sul ter­ri­to­rio, i rap­por­ti ami­ca­li, di mili­tan­za modu­la­ta sul­la per­fet­ta cono­scen­za dei luo­ghi del­la lot­ta e dei livel­li rag­giun­ti da que­sta, han­no per­mes­so un’intelligenza dell’agire che ha tenu­to in sal­vo una gene­ra­zio­ne di mili­tan­ti che, caso uni­co, è riu­sci­ta poi ad attra­ver­sa­re il seco­lo por­tan­do con sé sia la voglia di con­ti­nua­re a lot­ta­re che una stru­men­ta­zio­ne di let­tu­ra e di anti­ci­pa­zio­ne rea­le del model­lo vene­to che tan­to ha riem­pi­to le cro­na­che poli­ti­che e industriali.

Aver visto giu­sto, aver guar­da­to al ter­ri­to­rio pone però un pro­ble­ma. Come è potu­to acca­de­re che lo stes­so ter­ri­to­rio, lo stes­so rifiu­to del lavo­ro, han­no por­ta­to a un cam­bia­men­to di segno ina­spet­ta­to nel­la sua radi­ca­li­tà? Insom­ma, come e per­ché si è pro­dot­to l’uomo del­la lega? Quei ragaz­zi che, piut­to­sto di entra­re in fab­bri­ca ave­va­no deci­so di pren­de­re le armi, come sono diven­ta­ti gli sfrut­ta­to­ri di se stes­si nel­le miria­di di pic­co­li opi­fi­ci che han­no fat­to il mira­co­lo del nord est alla fine del seco­lo scor­so? Come è sta­to pos­si­bi­le che gli stes­si ter­ri­to­ri attra­ver­sa­ti dal­le ron­de di gio­va­ni indi­spo­nen­ti e indi­spo­ni­bi­li, sia­no diven­ta­ti i luo­ghi dell’identità leghi­sta? E anco­ra: che quel­la pro­du­zio­ne di sog­get­ti­vi­tà, mol­ti­pli­ca­tri­ce di liber­tà e di inven­zio­ne, abbia par­to­ri­to il mostro dell’autoreferenzialità e dell’esclusione, in una paro­la l’inimicizia asso­lu­ta nei con­fron­ti dell’altro e la com­ple­ta iden­ti­fi­ca­zio­ne con il lavoro?

Evi­den­te­men­te la rispo­sta non può esse­re quel­la che il fina­le di par­ti­ta potreb­be sug­ge­ri­re, sia pure som­mes­sa­men­te. È vero, i nostri ragaz­zi se la son vista brut­ta dopo l’11 apri­le del ’79. Dona­to ci rac­con­ta del­la repres­sio­ne poli­zie­sca e giu­di­zia­ria con­cer­ta­ta dal gene­ra­le dei cara­bi­nie­ri Dal­la Chie­sa e dal P. M. Ren­de. Un rac­con­to, anche qui, sen­za sba­va­tu­re. Come dire: sia­mo in guer­ra ed è logi­co che il nemi­co rispon­da. Le per­qui­si­zio­ni domi­ci­lia­ri, i posti di bloc­co, i fer­mi arbi­tra­ri, gli arre­sti e le con­dan­ne face­va­no par­te del gio­co e noi l’avevamo mes­so in con­to e in que­sta logi­ca anche l’ometto che piscia, Calo­ge­ro, acqui­sta una sua digni­tà, un senso.

Ma poi arri­va­no i mor­ti, nel modo più ina­spet­ta­to e cru­de­le e nem­me­no per mano del­lo Sta­to, alme­no diret­ta­men­te. Ma a que­sto pun­to il rac­con­to fini­sce. Dona­to depo­ne la veste del­lo sto­ri­co per indos­sa­re quel­la del com­pa­gno e dell’amico feri­to nei sen­ti­men­ti più pro­fon­di. A noi è venu­to in men­te il per­so­nag­gio del coro gre­co che spes­so nascon­de­va nel cuo­re un segre­to. Rive­lar­lo, ren­de­va pos­si­bi­le la solu­zio­ne del­la tra­ge­dia. Alla luce di quei mor­ti, tra­gi­ca ci appa­re anche la sto­ria del Col­let­ti­vo vicen­ti­no: una sor­ta di iti­ne­ra­rio dall’innocenza alla col­pa “in cui la tra­ge­dia appa­re come la col­pe­vo­lez­za del giu­sto [e] la com­me­dia come la giu­sti­fi­ca­zio­ne del col­pe­vo­le[1]. Già, la com­me­dia. Esat­ta­men­te quel­la prin­ci­pia­ta in Ita­lia dal­la con­tro­ri­vo­lu­zio­ne neo­li­be­ri­sta, pre­vio il 7 apri­le di Calo­ge­ro e l’8 set­tem­bre di Cesa­re Romi­ti. È in essa che dovre­mo cer­ca­re la rispo­ste alle nostre doman­de. Ma que­sta è vera­men­te un’altra storia.

[1] G. Agam­ben, Cate­go­rie ita­lia­ne. Stu­di di poe­ti­ca, Mar­si­lio, Vene­zia 1996, p. 12.

IL LIBRO

Donato Tagliapietra
Gli autonomi
L’autonomia operaia vicentina.
Dalla rivolta di Valdagno alla repressione

pp 256
2019
€ 19,00
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L’AUTORE

DONATO TAGLIAPIETRA

(1954) è mer­can­te d’antiquariato. Nel­la secon­da metà degli anni ’70 ha mili­ta­to nei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti. Nel 1980, dopo un anno e mez­zo di lati­tan­za vie­ne arre­sta­to e scon­ta tre anni di car­ce­re. Nel 2007 con­tri­bui­sce alla costru­zio­ne del movi­men­to «No Dal Molin», con­tro la nuo­va base mili­ta­re ame­ri­ca­na. Negli anni suc­ces­si­vi ricom­po­ne l’archivio dei mate­ria­li mili­tan­ti che era anda­to disper­so dal­la repres­sio­ne e lavo­ra alla scrit­tu­ra di que­sto libro.