Il nodo della decomposizione
Poesia Metropolitana, «Gatti Selvaggi», n. 4 Novembre-Dicembre 1975, Milano.
Mentre la crisi è la merce più consumata, il prodotto più lavorato, la farsa sociale sanguinolenta stantuffa a vapore sui binari usuali, il treno capitalista fila attraverso le barbarie di questo medio evo, fra i sicuri binari del progresso democratico e del suo contrappunto reazionario, saldati dalla certezza – per entrambi – della conservazione.
Ben poco o nulla, pochi o nessuno, preme per uscire dal carcere del sistema binario, mentre si può assistere al gran lavorare per il gran progresso della ferrovia.
La crisi non è la crisi del sistema binario: è la sua forza. Infatti la crisi è il “nemico di classe” che sta prendendo il posto svuotantesi dei ruoli storici borghesia-proletariato, ruoli in massima decomposizione e scomposizione.
I reazionari indeboliti e abbandonati dalla logica storica del dominio capitalistico – che assolutamente necessita di avere una stampella democratica e progressista ora – sono la rotaia debole del sistema binario e ciò che squilibra la riproduzione dell’esistente sociale capitalizzato: allora fra i cattivi la crisi assume il suo ruolo: i cattivi padroni e la cattiva crisi sono i nemici che minacciano il lavoro (l’attività produttiva di Valore e l’attività consumativa di Valore), dunque ecco ricomposto nel fittizio – per il momento – il defunto scontro di classi, il motore della storia – e la storia non è mai stata altro che la storia del Capitale. Dunque Carlo aveva ragione: la storia si ripete, solo che la seconda volta è una farsa. Sanguinosa, occorre aggiungere, mortale, squallidamente banalizzata. Ma, si aggiunga, la prima volta lo scontro ha una possibilità “comunista”, è negazionista, cioè senza regia; ma la seconda volta la regia c’è ed è tutta del capitale.
I comunisti possibili diventano i burattini legati a tutti i fili in cui si intreccia la logica capitalistica. Il riflusso, seguito ai pruriti contestativi e operai dell’esistente capitalistico che talvolta furono conati rivoluzionari negli anni Sessanta, negli anni Settanta diviene il luogo dei rimbambiti: l’inadeguatezza – il ritardo – delle ideologie strettamente politiche che soprattutto se monolitiche si scontrano buffamente con la vastità e la radicalità di quanto sta avvenendo, lo disconosce, non lo coglie neppure, e rimbambisce determinatamente nello sforzo di ridurre il tutto agli schemi caldi e usuali (il che significa il tempio del terzinternazionalismo con la bizzarria alternativa del quartinternazionalismo trotzkoforo come seconda rotaia del binario leninista). Sull’inizio degli anni Settanta la strana ultrasinistra, che aveva dissepolto il cadavere inutile di un periodo rivoluzionario che si concluse definitivamente ed eroicamente sconfitto nel ’39 in Spagna, aveva continuato a lanciare molotov, cortei sabato pomeriggio e quotidiani “autogestiti” contro il muro (l’alter ego binario) che si stava trasformando nelle sue sabbie mobili. Non affonderà tanto presto. L’istituzione ha necessità di questa istituzionale ultrasinistra divenuta ancor più istituzionale.
L’istituzione statalizzata usava un tempo – e fino al ’69 – le corde per impiccare, ora le lancia a questi feroci ragazzi, perché restino nelle sabbie mobili, ma che affiorino in parte, per recitare il ruolo degli imbecilli che lanciano qualcosa contro un muro in scomposizione.
Tanto non fa più male a nessuno. Fa solo bene: qualsiasi cosa lancino. E difficile affrontare la questione cosiddetta extraparlamentare senza dover tener conto della psicopatologia della normalità, del rientro nella normalità e che vuoi essere normativo, che realizza l’autorepressione e che è repressivo in ogni suo estrinsecarsi, che non è semplicemente stalinismo o socialfascismo. Né stalinismo né socialfascismo furono e sono moti trascendenti la logica di produzione e di riproduzione dell’esistente capitalistico, ne vanno assolutamente colti autonomamente. Così il capitale diviene un mito democraticistico, un nemico astratto, dove lo si banalizzi come vago termine rappresentante il vago cattivo (cattivo che, si badi bene, – tragico dell’ironia… – è la versione capitalizzata del male cristiano: l’alter ego del bene: cioè il bene al negativo…), reiterato nel linguaggio, qualunquistizzato nell’abitudine del parlare e del “pensiero” colonizzato, mentre il capitale è questa materialità micidiale, questo intreccio di repressione, profitto, alienazione, sopravvivenza, morte ambulante nei corpi, violenza repressiva, autorepressione, controllo sociale e autocontrollo, questa metodica e logicamente meccanica modellazione della normalità e la normalità ruolizzata che modella reiteratamente e oppressivamente; è questa struttura di base del lavoro – e non solo dei suoi momenti stipendiati e salariati – che domina e controlla l’insieme sociale. L’extraparlamentarismo, la nuova sinistra, l’ultrasinistrismo, il gauchisme, furono e “sono” la risposta consumista che la società dei consumi (del consumo tout court) diede e dà alle sue nuove contraddizioni non più mediabili e proprio per mediarle.
Questa conclusione risulta violentemente liquidatoria a compagni del tutto degni del nostro apprezzamento, ma occorre accettare il dramma non spettacolarizzato della discontinuità, in ogni suo aspetto conseguente: la liquidazione critica di quanto ci ha prodotto è il solo modo di situare storicamente ciò che nella storia si è prodotto. Se “la nostra eversione scatta dalla discontinuità”, non saremo noi a lamentarci delle conseguenze. E a questo punto non abbiamo difficoltà a chiarire il nostro fallimento. Che è ben più un successo di ogni altro “successo” – politico o meno.
Si fallisce (o si ha “successo”) dove ancora abita e si è abitati dal passato. Si tratta di radicalizzare ulteriormente la discontinuità, ben più violentemente e provocatoriamente di quanto abbiamo fatto fino ad ora.