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Autonomia Bolognese

Rico­strui­re e ricor­da­re le sto­rie che han­no dato vita alla nasci­ta di movi­men­ti, orga­niz­za­zio­ni poli­ti­che e con­flit­ti è ope­ra ardua e deci­sa­men­te com­ples­sa. I ricor­di e le rico­stru­zio­ni sono neces­sa­ria­men­te con­di­zio­na­ti dal­la sog­get­ti­vi­tà di chi si con­fron­ta con la nar­ra­zio­ne. Anche se si è sta­ti pro­ta­go­ni­sti. Tut­ta­via, per non per­met­te­re che le sto­rie o la Sto­ria con la “S” maiu­sco­la sia­no ri-costrui­te attra­ver­so “veri­tà giu­di­zia­rie” le rac­con­tia­mo noi, con una visio­ne par­ti­gia­na, per dare lustro ai per­cor­si di lot­ta che ci han­no per­mes­so di assa­po­ra­re l’Assalto al Cielo.

Par­la­re del­l’au­to­no­mia bolo­gne­se non lo si può fare al sin­go­la­re. La plu­ra­li­tà del­le sto­rie, i tan­ti dif­fe­ren­ti per­cor­si poli­ti­ci e cul­tu­ra­li e i sog­get­ti socia­li di rife­ri­men­to fece­ro intra­pren­de­re mol­to spes­so, a diver­se gene­ra­zio­ni di mili­tan­ti, stra­de distin­te. In mol­te e mol­ti si ritro­va­ro­no poi insie­me nel­l’o­riz­zon­ta­li­tà del­le assem­blee del movi­men­to del ’77, nel­la bat­ta­glia di stra­da in rispo­sta all’as­sas­si­nio di Fran­ce­sco Lorus­so e nel­le bar­ri­ca­te del­la rivol­ta nel­le gior­na­te di mar­zo del 1977.

Il cam­mi­no ritor­nò a diva­ri­car­si dopo il con­ve­gno con­tro la repres­sio­ne del set­tem­bre ’77, alla fine del qua­le si pro­dus­se­ro tan­ti sen­tie­ri e rivoli.

Il docu­men­to (Quei “ten­tin­brî­ga” degli auto­no­mi 1969/​1979: cro­no­lo­gia di die­ci anni di lot­te e insu­bor­di­na­zio­ne nel­la “città/​vetrina”) che abbia­mo pro­dot­to come Cen­tro di docu­men­ta­zio­ne dei movi­men­ti “F. Lorus­so – C. Giu­lia­ni” si con­cen­tra su un arco tem­po­ra­le che va dal 1969 al 1979. Un lun­go viag­gio che vuo­le esse­re cono­scen­za, non memo­ria. Un viag­gio che è con­ti­nua­to e che con­ti­nua e che tie­ne con­to del fat­to che “fare poli­ti­ca” nel­l’E­mi­lia “Ros­sa”, e a Bolo­gna in par­ti­co­la­re, ha rap­pre­sen­ta­to una sfi­da unica.

Nel­la capi­ta­le del­l’eu­ro­co­mu­ni­smo i mili­tan­ti del Pci o del­la Cgil, non sop­por­tan­do che ci potes­se esse­re qual­cu­no alla loro sini­stra, usa­va­no gli epi­te­ti più colo­ri­ti del dia­let­to bolo­gne­se per rap­por­tar­si pri­ma ai “mao mao” e ai “grup­pet­ta­ri” poi ai quei “pro­vo­ca­to­ri degli autonomi”.

“Scan­sa­re la fati­ca” pro­dot­ta dal­l’or­ga­niz­za­zio­ne capi­ta­li­sti­ca del lavo­ro, rifiu­ta­re le logi­che ori­gi­na­te dal lavo­ro sala­ria­to, costruir­si attra­ver­so le lot­te e le riven­di­ca­zio­ni di obiet­ti­vi egua­li­ta­ri una pro­pria auto­no­mia poli­ti­ca e socia­le, que­sto era il punto.

Era evi­den­te che si pro­du­ces­se la frat­tu­ra e ci si ritro­vas­se su spon­de contrapposte.

La nostra nar­ra­zio­ne par­te con le lot­te ope­ra­ie del­l’au­tun­no cal­do: dal­le bat­ta­glie con­tro il cot­ti­mo alle istan­ze del­l’e­gua­li­ta­ri­smo, dai pic­chet­ti agli scio­pe­ri sel­vag­gi, dal­la ridu­zio­ne d’o­ra­rio all’auto­li­mi­ta­zio­ne del ren­di­men­to, dai comi­ta­ti ope­rai-stu­den­ti ai comi­ta­ti di base.

Il “bien­nio ros­so 1969/​70” vide pro­ta­go­ni­sti anche gli stu­den­ti con le lot­te all’u­ni­ver­si­tà e nel­le scuo­le. Il lavo­ro poli­ti­co dei col­let­ti­vi stu­den­te­schi si spo­stò poi dal­le aule uni­ver­si­ta­rie ai can­cel­li del­le fab­bri­che e, da quel­l’in­ter­ven­to quo­ti­dia­no, nac­que­ro in diver­se offi­ci­ne i Comi­ta­ti di base Ope­rai-Stu­den­ti. Soprat­tut­to alla Duca­ti Elet­tro­tec­ni­ca, la più gran­de fab­bri­ca metal­mec­ca­ni­ca del­la cit­tà, con una mano d’o­pe­ra per il 90% fem­mi­ni­le, que­sto lega­me si raf­for­zò duran­te la lun­ga ver­ten­za con­tro il cot­ti­mo. Pic­chet­ti, scon­tri con i cru­mi­ri davan­ti ai can­cel­li, la repres­sio­ne di poli­zia e cara­bi­nie­ri, le scor­ri­ban­de dei pic­chia­to­ri fasci­sti prez­zo­la­ti dal padro­ne, raf­for­za­ro­no la neces­si­tà di un per­cor­so orga­niz­za­ti­vo “auto­no­mo” che die­de vita al pri­mo Comi­ta­to di Base sul ter­ri­to­rio di Bologna.

Tra l’au­tun­no del 1970 e l’i­ni­zio del 1971, i grup­pi di ispi­ra­zio­ne ope­rai­sta, come Pote­re Ope­ra­io e Lot­ta Con­ti­nua, allar­ga­ro­no il loro inter­ven­to poli­ti­co alle scuo­le medie supe­rio­ri. Nel giro di pochi mesi si for­ma­ro­no diver­si col­let­ti­vi d’i­sti­tu­to. Pote­re Ope­ra­io ave­va man­da­to agi­ta­to­ri al Mar­co­ni, al Paci­not­ti, al Lau­ra Bas­si, alle Aldi­ni, al Fio­ra­van­ti e all’Isti­tu­to d’Ar­te. Lot­ta Con­ti­nua, inve­ce, entrò all’I­tis, al Fer­mi e al Coper­ni­co. La mic­cia esplo­se in fret­ta: in poco tem­po fu un rapi­do sus­se­guir­si di scio­pe­ri stu­den­te­schi, cor­tei, scon­tri con le for­ze del­l’or­di­ne, occu­pa­zio­ni degli isti­tu­ti, assem­blee stu­den­te­sche, riu­nio­ni e col­let­ti­vi. La radi­ca­li­tà e la rab­bia di quei ragaz­zi­ni cam­biò il vol­to più “ras­si­cu­ran­te” che il movi­men­to, negli anni pre­ce­den­ti, ave­va avu­to con le agi­ta­zio­ni all’u­ni­ver­si­tà. Voto uni­co, com­pi­ti in clas­se e inter­ro­ga­zio­ni col­let­ti­ve, libri e tra­spor­ti gra­tui­ti, “no alla scuo­la dei padro­ni, no alla scuo­la come fab­bri­ca di disoc­cu­pa­ti”, que­sti gli obiet­ti­vi e le paro­le d’ordine.

Il 1971 fu anche l’an­no in cui Lot­ta Con­ti­nua lan­ciò lo slo­gan “Pren­dia­mo­ci la cit­tà”, che fu anche il tito­lo del con­ve­gno nazio­na­le che si sareb­be tenu­to il 24 luglio. L’or­ga­niz­za­zio­ne extra­par­la­men­ta­re scri­ve­va nel suo docu­men­to: «“Pren­dia­mo­ci la cit­tà” è un pro­get­to poli­ti­co che guar­da al socia­le a tut­to ton­do… Si occu­pa­no le case di cui si ha neces­si­tà e ci si rifiu­ta, per la stes­sa ragio­ne, di paga­re l’af­fit­to… Se si pren­do­no i tra­spor­ti gra­tis o si fa la spe­sa poli­ti­ca ai super­mer­ca­ti, è per­ché ne abbia­mo biso­gno… Riap­pro­priar­si vio­len­te­men­te del­la real­tà, occu­pa­re la metro­po­li col vita­li­smo del movi­men­to e con l’ag­gres­si­vi­tà di paro­le d’or­di­ne irrag­giun­gi­bi­li… Dob­bia­mo fare emer­ge­re il sov­ver­si­vi­smo anco­ra ine­spres­so orga­niz­zan­do­lo nel­la lot­ta… Noi dob­bia­mo ipo­tiz­za­re un pro­ces­so rivo­lu­zio­na­rio in cui dal­l’au­to­no­mia ope­ra­ia del­le cate­ne pro­dut­ti­ve, si pas­si alla fase in cui il pro­le­ta­ria­to “si pren­de la cit­tà”, aven­do come obiet­ti­vo la crea­zio­ne del­le “basi ros­se”, den­tro le qua­li l’in­ter­fe­ren­za del pote­re bor­ghe­se è limi­ta­ta sem­pre di più».

La decli­na­zio­ne con­cre­ta di que­sta paro­la d’or­di­ne por­tò, ai pri­mi di luglio del ’71, alla pri­ma gran­de occu­pa­zio­ne di case a Bolo­gna. Avven­ne nel quar­tie­re Pila­stro e riguar­dò una palaz­zi­na del­lo Iacp con deci­ne di appar­ta­men­ti vuo­ti. A pro­muo­ver­la fu Lot­ta Con­ti­nua, con l’ap­pog­gio di Pote­re Ope­ra­io. Il Pci e l’U­ni­tà si sca­te­na­ro­no con­tro i “pro­pu­gna­to­ri dell’illegalità”.

Tra la fine del 1971 e la pri­ma­ve­ra del 1972 gli assal­ti del­le squa­drac­ce fasci­ste davan­ti alle scuo­le, o con­tro gli scio­pe­ri in fab­bri­ca e all’u­ni­ver­si­tà, diven­ne­ro un pro­ble­ma serio con cui fare i con­ti qua­si quo­ti­dia­na­men­te. A que­sti fat­ti si aggiun­se­ro anche le con­ti­nue aggres­sio­ni a com­pa­gni iso­la­ti. L’anti­fa­sci­smo mili­tan­te diven­ne una que­stio­ne da por­re all’or­di­ne del gior­no nel­la pra­ti­ca poli­ti­ca. Que­sto pro­ces­so fu acce­le­ra­to anche dal­l’uc­ci­sio­ne di Maria­no Lupo, un ope­ra­io di Lot­ta Con­ti­nua, cadu­to duran­te un’ag­gres­sio­ne di cin­que fasci­sti a col­pi di col­tel­lo, il 25 ago­sto 1972 a Par­ma. Il 27 ago­sto ci fu una gran­de rispo­sta del­la piaz­za anti­fa­sci­sta. Un cor­teo di miglia­ia di gio­va­ni e ope­rai, con mol­ti mili­tan­ti pro­ve­nien­ti da Bolo­gna si dires­se ver­so la sede del­la fede­ra­zio­ne del MSI e la distrus­se completamente.

Alla fine del ’72, Pote­re Ope­ra­io deci­se di apri­re il “Cir­co­lo Fran­co Seran­ti­ni”, un cir­co­lo poli­ti­co-cul­tu­ra­le dedi­ca­to a un gio­va­ne anar­chi­co arre­sta­to il 7 mag­gio a Pisa, duran­te la con­te­sta­zio­ne a un comi­zio del Msi. Fran­co ven­ne per­cos­so a mor­te dai poli­ziot­ti, fino a spi­ra­re due gior­ni dopo in car­ce­re. Negli anni suc­ces­si­vi il Cir­co­lo Seran­ti­ni diven­ne un pun­to di rife­ri­men­to per tut­ti i col­let­ti­vi che face­va­no rifer­men­to all’a­rea del­l’au­to­no­mia. Nel­l’ex magaz­zi­no far­ma­ceu­ti­co, adi­bi­to a sede poli­ti­ca, si ten­ne­ro riu­nio­ni e incon­tri nazio­na­li del­le Assem­blee Ope­ra­ie Auto­no­me e dei Comi­ta­ti Auto­no­mi Ope­rai.

Nel 1973 le pra­ti­che di appro­pria­zio­ne del­la ric­chez­za socia­le allar­ga­ro­no la loro sfe­ra d’a­zio­ne in set­to­ri fino ad allo­ra non toc­ca­ti dal­le lot­te. L’e­pi­so­dio più signi­fi­ca­ti­vo avven­ne il 17 mar­zo al Pala­sport, pri­ma del con­cer­to dei Jeth­ro Tull, al gri­do di “musi­ca gra­tis” diver­si gio­va­ni riu­sci­ro­no a pas­sa­re gli sbar­ra­men­ti ed entra­re sen­za paga­re. Chi non ce la fece si scon­trò con la poli­zia nel­le stra­de adia­cen­ti al palaz­zet­to del­lo sport.

Nel 1974 si dif­fu­se­ro in tut­ta Ita­lia pra­ti­che di auto­ri­du­zio­ne. A dare il “la” furo­no gli ope­rai del­la Fiat Rival­ta che, rifiu­tan­do­si di paga­re le nuo­ve tarif­fe degli auto­bus, spe­di­ro­no alla socie­tà dei tra­spor­ti pub­bli­ci l’e­qui­va­len­te dei vec­chi abbo­na­men­ti, e con­ti­nua­ro­no a usa­re i mez­zi pub­bli­ci sen­za fare il bigliet­to. Dai pull­man si pas­sò all’au­to­ri­du­zio­ne del­le bol­let­te del­la luce, del gas e del telefono.

Il gior­na­le bolo­gne­se “Né ser­vi né padro­ni”, foglio del Comi­ta­to Ope­ra­io del­le fab­bri­che di San­ta Vio­la, scris­se: «Alcu­ni l’hanno chia­ma­ta disob­be­dien­za civi­le, per noi è una lot­ta che, nell’esprimere la volon­tà pro­le­ta­ria di impor­re i prez­zi poli­ti­ci, con­so­li­da ed accre­sce il pote­re ope­ra­io den­tro e fuo­ri la fab­bri­ca. L’autoriduzione espri­me l’esigenza ope­ra­ia di red­di­to garan­ti­to, occor­re quin­di allar­gar­la anche alla luce, al gas, all’acqua, all’affitto».

Nel 1975 ini­zia­ro­no a veder­si, anche a Bolo­gna, gli effet­ti dei cam­bia­men­ti socia­li nel­la com­po­si­zio­ne ope­ra­ia, i “nuo­vi ope­rai” non ave­va­no più le sem­bian­ze dell’ope­ra­io-mas­sa dei testi sacri dell’operaismo. In fab­bri­ca il ricam­bio gene­ra­zio­na­le con­ti­nua­va a por­ta­re gio­va­ni emi­gra­ti pro­ve­nien­ti dal meri­dio­ne, ma c’e­ra­no anche tan­ti gio­va­ni bolo­gne­si ed emi­lia­ni sco­la­riz­za­ti, che si era­no for­ma­ti nel cli­ma del­le lot­te stu­den­te­sche degli anni pre­ce­den­ti o nel­le espe­rien­ze aggre­ga­ti­ve ter­ri­to­ria­li. I model­li di com­por­ta­men­to che si era­no por­ta­ti in offi­ci­na ave­va­no poco a che fare con la tra­di­zio­ne sto­ri­ca del movi­men­to ope­ra­io e del Pci. Soprat­tut­to alla Duca­ti Mec­ca­ni­ca, la famo­sa fab­bri­ca di moto, que­sto feno­me­no emer­se in manie­ra più accen­tua­ta. Nel­lo sta­bi­li­men­to di Bor­go Pani­ga­le si for­mò un Comi­ta­to Ope­ra­io (comi­ta­to ope­ra­io Duca­ti Mec­ca­ni­ca) e nel­le lot­te nei repar­ti si intra­vi­de­ro i pri­mi com­por­ta­men­ti di quel pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le che avreb­be costi­tui­to il reti­co­lo socia­le che ali­men­tò le lot­te degli anni seguen­ti, fino all’e­splo­sio­ne del 1977.

La for­bi­ce tra que­ste espres­sio­ni auto­no­me di lot­ta ope­ra­ia e le posi­zio­ni del Pci si allar­gò sem­pre di più, ma fu nel 1977 che si arri­vò a una con­trap­po­si­zio­ne acce­sa. Por­tia­mo ad esem­pio quel­lo che scris­se l’U­ni­tà l’11 set­tem­bre 1977: «E’ vero che all’interno di alcu­ne fab­bri­che bolo­gne­si, negli ulti­mi mesi, sono sta­ti com­piu­ti nume­ro­si atti di deli­be­ra­to sabo­tag­gio? Chi ne è sta­to avver­ti­to e chi ha inda­ga­to? E’ vero che alcu­ni lavo­ra­to­ri sono sta­ti visti in più occa­sio­ni par­te­ci­pa­re ad azio­ni vio­len­te nel cor­so di mani­fe­sta­zio­ni accan­to alle fran­ge più vio­len­te del “movi­men­to”? E’ acca­du­to che diri­gen­ti di azien­da abbia­no espres­so l’intenzione di dimet­ter­si per­ché inti­mo­ri­ti dagli insul­ti e dall’aggressività di mino­ran­ze vio­len­te? Su que­sti fat­ti si è mai rite­nu­to oppor­tu­no indagare?»

Tra l’e­sta­te e l’au­tun­no del 1976, in una situa­zio­ne di gra­ve cri­si eco­no­mi­ca, gio­va­ni disoc­cu­pa­ti o sot­toc­cu­pa­ti entra­ro­no in con­tat­to con stu­den­ti, pre­ca­ri, ope­rai in cas­sa inte­gra­zio­ne o licen­zia­ti, mili­tan­ti dei movi­men­ti e del­l’au­to­no­mia. Le ini­zia­ti­ve si este­se­ro dal­la casa al ter­re­no dei prez­zi e rap­pre­sen­ta­ro­no un vero e pro­prio “movi­men­to con­tro il caro­vi­ta”.

Nel novem­bre ’76 nac­que il Col­let­ti­vo Jac­que­rie che die­de il via alla cam­pa­gna del­le auto­ri­du­zio­ni, con lo slo­gan “Basta con la mise­ria, voglia­mo appro­priar­ci del­la ricchezza”.

Nel­lo stes­so perio­do, quan­do l’Opera Uni­ver­si­ta­ria deci­se di aumen­ta­re i prez­zi del­le men­se e limi­ta­re il loro uso ai soli stu­den­ti, ven­ne­ro orga­niz­za­te auto­ri­du­zio­ni ed autogestioni.

Quel­li furo­no i mesi che anti­ci­pa­ro­no il “movi­men­to del ’77”, mol­to pie­ni di pra­ti­che di riap­pro­pria­zio­ne, dal­le occu­pa­zio­ni del­le case sfit­te alla “spe­sa pro­le­ta­ria” nei super­mer­ca­ti, dai “decre­ti per la cul­tu­ra a prez­zo poli­ti­co” su cine­ma e tea­tri all’autoriduzione nei risto­ran­ti di lusso.

Pro­vo­ca­to­ria­men­te, alla “auste­ri­tà”, allo­ra pro­pu­gna­ta dal segre­ta­rio del Pci Ber­lin­guer, ven­ne con­trap­po­sto il “tut­to e subi­to”, anti­te­ti­co ai tem­pi eter­ni del­le “rifor­me di struttura”.

L’8 mar­zo 1977 la poli­zia cari­cò bru­tal­men­te un cor­teo fem­mi­ni­sta che inten­de­va ter­mi­na­re con l’oc­cu­pa­zio­ne di una palaz­zi­na per far­ne un “Cen­tro del­le don­ne”. Gli agen­ti si acca­ni­ro­no sul­le ragaz­ze, feren­do­ne gra­ve­men­te alcu­ne, sen­za però riu­sci­re a scio­glie­re la mani­fe­sta­zio­ne. L’ir­ru­zio­ne del fem­mi­ni­smo nel movi­men­to rap­pre­sen­tò una for­za dirom­pen­te nel­la poli­ti­ca e nel­la socie­tà. Ven­ne­ro posti all’attenzione di tut­ti temi fon­da­men­ta­li come il dirit­to ad auto­de­ter­mi­nar­si del­le don­ne, lo sfrut­ta­men­to sul lavo­ro, le discri­mi­na­zio­ni a casa, a scuo­la e in fab­bri­ca. Non solo. Il fem­mi­ni­smo fu incon­te­ni­bi­le anche per­ché deter­mi­nò un modo diver­so di fare poli­ti­ca. Le pra­ti­che fem­mi­ni­ste influi­ro­no sull’orizzontalità dei movi­men­ti anta­go­ni­sti, pro­du­cen­do il rifiu­to di orga­niz­za­zio­ni gerar­chi­che e ver­ti­ci­sti­che, con la con­sa­pe­vo­lez­za che si par­la­va a par­ti­re dal­la pro­pria con­di­zio­ne. Il “per­so­na­le è poli­ti­co” lan­cia­to dai grup­pi di auto­co­scien­za del­le don­ne diven­ne uno slo­gan comune.

Comu­ni deno­mi­na­to­ri furo­no pure l’affermazione di auto­de­ter­mi­na­zio­ne, l’autonomia del­le con­di­zio­ni mate­ria­li e di pen­sie­ro, la capa­ci­tà di costi­tuir­si in un sog­get­to poli­ti­co col­let­ti­vo ido­neo ad inci­de­re sull’esistente. Insie­me a que­sti ele­men­ti, ci fu la bra­vu­ra a met­ter­si in gio­co, dan­do vita a una sta­gio­ne crea­ti­va e anta­go­ni­sta che costi­tuì una fon­te di ric­chez­za per tut­te le don­ne. Le fem­mi­ni­ste han­no avu­to il meri­to di accen­de­re la fiam­ma di un’unica e inten­sa lot­ta con­tro la socie­tà maschi­li­sta e il patriar­ca­to.

Il 1977 rap­pre­sen­tò “l’an­no del non ritor­no”. L’as­sas­si­nio di Fran­ce­sco Lorus­so l’11 mar­zo sca­te­nò la rivol­ta gio­va­ni­le e, per tre gior­ni, la cit­ta­del­la uni­ver­si­ta­ria diven­ne nei fat­ti una “zona libe­ra­ta”. Ci vol­le­ro gli M113 il 13 mar­zo per rimuo­ve­re le bar­ri­ca­te, ci vol­le l’as­sal­to poli­zie­sco a Radio Ali­ce per far tace­re la voce del movi­men­to. Ci vol­le­ro più di 300 arre­sti, i divie­ti di assem­bra­men­to di più di tre per­so­ne, l’in­ter­di­zio­ne all’u­so del­le piaz­ze, per ten­ta­re di “doma­re” una rivol­ta che non pote­va esse­re social­men­te recu­pe­ra­ta. La frat­tu­ra tra il movi­men­to e la “cit­tà uffi­cia­le” san­ci­va una “feri­ta” che non sareb­be sta­ta mai più rimarginata.

Il Con­ve­gno con­tro la Repres­sio­ne che si svol­se a set­tem­bre, con le deci­ne di miglia­ia di gio­va­ni che inva­se­ro Bolo­gna, rap­pre­sen­tò il momen­to più alto di coin­vol­gi­men­to di mas­sa del movi­men­to del ’77. Al tem­po stes­so, alla fine del­la gran­de para­ta di tre gior­ni, ognu­no tor­nò a casa pren­den­do stra­de diver­se che non si ricon­giun­se­ro più, san­cen­do, nel­la pra­ti­ca, la fine di quel­la straor­di­na­ria espe­rien­za di movi­men­to di ribellione.

Que­sta fram­men­ta­zio­ne, negli anni suc­ces­si­vi, la si vide distin­ta­men­te nel­le stra­de e nel­le piaz­ze, ma fu soprat­tut­to nel­le “pra­ti­che com­bat­ten­ti” che ebbe il suo api­ce. Ci fu un pro­li­fe­ra­re di sigle che andò ben oltre lo slo­gan “cen­to fio­ri sono nati /​ sono cen­to nuclei arma­ti”. Si trat­tò di una vera e pro­pria “con­cor­ren­za arma­ta” che por­tò qual­cu­no al para­dos­so (per ragio­ni di chia­rez­za) di scri­ve­re al ter­mi­ne di una riven­di­ca­zio­ne di un’a­zio­ne: «Oltre alla soli­da­rie­tà comu­ni­sta, nul­la lega la nostra orga­niz­za­zio­ne alle altre orga­niz­za­zio­ni combattenti».

Ci pen­sò poi il Caso “7 Apri­le 1979” a dare il col­po di gra­zia. Il “teo­re­ma” che sor­reg­ge­va l’in­chie­sta del giu­di­ce Calo­ge­ro di Pado­va fece scuo­la a livel­lo nazio­na­le su come costrui­re reta­te e arre­sti col­let­ti­vi in tut­to il pae­se. Anche Bolo­gna non fu esen­te di que­ste onda­te repressive.

In Piaz­za Ver­di, che sta­va al cen­tro del­la cit­ta­del­la uni­ver­si­ta­ria e che era sta­ta il cuo­re del­la rivol­ta del mar­zo ’77, i segni sbia­di­ti del movi­men­to era­no rima­sti in due sedi di col­let­ti­vi situa­te lun­go uno dei lati del­la piazza.

Una era il Bun­ker, uno spa­ziet­to occu­pa­to da tem­po, pri­ma dagli auto­no­mi che face­va­no rife­ri­men­to a “Ros­so” poi dal CPT che, all’e­po­ca, sta­va per “Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Ter­ri­to­ria­li” e non come in tem­pi recen­ti per “Cen­tri di Per­ma­nen­za Temporanea”(i lager per migran­ti, per inten­der­ci). CPT era un grup­po che si era stac­ca­to dall’Autonomia Orga­niz­za­ta di incli­na­zio­ne pado­va­na e che pub­bli­ca­va un gior­na­le ‚“Paspar­tù” (dal vene­to “pas­sa dap­per­tut­to”), che dal tito­lo sta­va ad indi­ca­re l’e­si­gen­za di “crea­re orga­niz­za­re con­tro­po­te­re” non solo in Piaz­za Ver­di, ma dappertutto

L’al­tro nego­zio “pre­so a pre­sti­to dal­l’U­ni­ver­si­tà” era sta­ta la sede del col­let­ti­vo “Muc­chio Sel­vag­gio” che face­va usci­re un gior­na­le omo­ni­mo, sot­to il cui tito­lo c’e­ra scrit­to: «Per­ché non “ammet­te­re la non veri­tà come con­di­zio­ne di vita” o per­ché non dire “che si diven­ne vec­chi e il sogno si dile­guò”». Fini­ta l’e­spe­rien­za di que­sto grup­po, ad occu­pa­re lo spa­zio fu il Col­let­ti­vo Co.Co.Bo, Col­let­ti­vo Comu­ni­sta Bolo­gne­se, e la nasci­ta del Cen­tro di docu­men­ta­zio­ne Gabbia/​no, che face­va rife­ri­men­to all’a­rea nazio­na­le dell’autonomia orga­niz­za­ta. Si trat­tò di un’ag­gre­ga­zio­ne poli­ti­ca che fu capa­ce di espri­me­re lot­te e con­flit­ti con­tro il nuclea­re, ad inter­ve­ni­re sul­la que­stio­ne del­le car­ce­ri e del­le dete­nu­te e dei dete­nu­ti poli­ti­ci, sul­la repres­sio­ne dei movi­men­ti, con­tro l’apartheid per il boi­cot­tag­gio del Sud Afri­ca (allo­ra pae­se in cui vige­va la discri­mi­na­zio­ne razziale).

LE RADIO

Nel mese di novem­bre del 1975, dopo un lun­go perio­do di gesta­zio­ne, par­ti­ro­no le pri­me tra­smis­sio­ni spe­ri­men­ta­li di Radio Ali­ce. I pri­mi segna­li ven­ne­ro lan­cia­ti attra­ver­so un tra­smet­ti­to­re mili­ta­re. A fon­da­re l’e­mit­ten­te di movi­men­to fu un drap­pel­lo di ex mili­tan­ti del­l’ar­ci­pe­la­go del­la sini­stra rivo­lu­zio­na­ria, “in rot­ta con i grup­pu­sco­li ghet­tiz­za­ti”. Il 9 feb­bra­io 1976, ini­zia­ro­no le tra­smis­sio­ni “uffi­cia­li”. Voci che non ave­va­no mai avu­to la paro­la sta­va­no per pren­der­se­la, rivo­lu­zio­nan­do il siste­ma comu­ni­ca­ti­vo domi­nan­te. Si trat­ta­va di “segna­li che defi­ni­ran­no un cam­po nuo­vo del­la comu­ni­ca­zio­ne e dei lin­guag­gi, in un uni­co pro­ces­so di ricom­po­si­zio­ne con il pro­le­ta­ria­to autonomo”.

Fran­co Berar­di det­to “Bifo”, tra i fon­da­to­ri del­la radio e del­la rivi­sta A/​traverso, ven­ne arre­sta­to nel­l’am­bi­to di un’in­chie­sta su Ros­so e sul­l’Au­to­no­mia Operaia.

Nei pri­mi mesi del 1977 l’e­mit­ten­te diven­ne uno dei pun­ti di rife­ri­men­to per tut­ti quel­li che mai ave­va­no con­ta­to. Nel mar­zo del ’77 Ali­ce diven­tò la radio degli insor­ti, lo stru­men­to di coor­di­na­men­to del­le azio­ni di stra­da. L’11 mar­zo 1977 la radio die­de la noti­zia del­l’as­sas­si­nio di Fran­ce­sco Lorus­so e da lì par­tì il tam tam per la mobilitazione.

Il 12 mar­zo la poli­zia si pre­sen­tò con i mitra pun­ta­ti e i cor­pet­ti anti­pro­iet­ti­le davan­ti al “peri­co­lo­so covo”. Per radio andò in onda in diret­ta l’as­sal­to dei poli­ziot­ti. Qual­cu­no riu­scì a scap­pa­re dai tet­ti, ma otto redat­to­ri ven­ne­ro arre­sta­ti. Il mini­stro degli Inter­ni Cos­si­ga dichia­rò: «Tut­te le vol­te che Radio Ali­ce ripren­de­rà le tra­smis­sio­ni io la chiuderò».

Con il pesan­tis­si­mo attac­co repres­si­vo la voce di Radio Ali­ce ven­ne mes­sa a tace­re. Nei mesi suc­ces­si­vi ci furo­no alcu­ni ten­ta­ti­vi di rimet­ter­la in pie­di, ma la “vera” Ali­ce era ormai scom­par­sa con il mar­zo 1977. La pro­gram­ma­zio­ne e le tra­smis­sio­ni con­ti­nua­ro­no fino alla fine del 1978, poi la radio chiu­se defi­ni­ti­va­men­te per que­stio­ni economiche,

Un’al­tra avven­tu­ra di “auto­no­mia radio­fo­ni­ca” è quel­la di Radio Caro­li­na. Il 5 dicem­bre 1979 un col­let­ti­vo di atti­vi­ste e mili­tan­ti che ave­va par­te­ci­pa­to all’e­spe­rien­za del movi­men­to bolo­gne­se e ai gior­ni del­la rivol­ta del mar­zo ’77 pre­se un posto sopra una vec­chia fon­de­ria nel quar­tie­re San Dona­to. Una par­te di loro vole­va pro­se­gui­re, in un altro modo, il viag­gio di Radio Ali­ce, altri inve­ce era­no alle pri­me armi. Era­no i gio­va­nis­si­mi dei col­let­ti­vi stu­den­te­schi del­le medie supe­rio­ri o i ragaz­zi che ave­va­no fat­to espe­rien­ze nei col­let­ti­vi di quar­tie­re. Ci vol­le­ro mesi di duro lavo­ro per ren­de­re agi­bi­li i loca­li del­la reda­zio­ne per cui l’i­ni­zio del­le tra­smis­sio­ni avven­ne solo il 12 mag­gio del 1980. Caro­li­na era con­si­de­ra­ta l’emittente dal­le onde di accia­io, sia per la durez­za del­le sue tra­smis­sio­ni sia per le esa­la­zio­ni di metal­lo fuso che pro­ve­ni­va­no dal­la sot­to­stan­te fuci­na e inva­de­va­no i loca­li del­la reda­zio­ne. Nel­la scel­ta del nome ci si era ispi­ra­ti a Radio Caro­li­ne, l’emittente bri­tan­ni­ca che ini­ziò a tra­smet­te­re da una nave bat­ten­te ban­die­ra pana­men­se anco­ra­ta al lar­go, fuo­ri dal con­fi­ne ingle­se. Dai micro­fo­ni di via Miche­li­no lo ripe­te­va­no spes­so che «Radio Caro­li­na è la radio pira­ta, è il sogno che infran­ge il siste­ma media­ti­co, è il mare che diven­ta ter­ra di nes­su­no, è lo spa­zio di liber­tà asso­lu­ta per aggi­ra­re con l’ingegno leg­gi e divieti».

Il pun­to più alto di Caro­li­na fu la lun­ga diret­ta per la stra­ge alla Sta­zio­ne del 2 ago­sto 1980. La pro­gram­ma­zio­ne rego­la­re si inter­rup­pe per lascia­re spa­zio alle voci con­fu­se che par­la­va­no del­la stra­ge: tele­fo­na­te, com­men­ti, testi­mo­nian­ze, la dispe­ra­zio­ne di chi cer­ca­va i pro­pri cari, la rab­bia per l’at­ten­ta­to, ma anche le noti­zie sul­le mobi­li­ta­zio­ni e sul­la cate­na di solidarietà.

Poi ci fu l’al­tra lun­ghis­si­ma diret­ta radio­fo­ni­ca per i fune­ra­li del­le vit­ti­me del 2 ago­sto. La cro­na­ca del­le riu­nio­ni sul­la par­te­ci­pa­zio­ne del movi­men­to al ricor­do dei cadu­ti del­la stra­ge alla sta­zio­ne. Il ser­vi­zio d’ordine del sin­da­ca­to che fece cor­do­ne con­tro gli “auto­no­mi” per impe­di­re che entras­se­ro in Piaz­za Mag­gio­re. Ave­va­no il sospet­to che, se si fos­se­ro mischia­ti tra la fol­la, avreb­be­ro fischia­to il pre­si­den­te del Con­si­glio Fran­ce­sco Cossiga.

La sta­gio­ne di Radio Caro­li­na incro­ciò le gran­di reta­te repres­si­ve che si dis­se­mi­na­ro­no tra l’au­tun­no del 1980, il 1981 e il 1982. Diver­si suoi redat­to­ri subi­ro­no arre­sti o furo­no costret­ti alla lati­tan­za per epi­so­di lega­ti a situa­zio­ni di lot­ta e di con­flit­to socia­le. Que­sti fat­ti, insie­me alla cro­ni­ca man­can­za di sol­di, mina­ro­no il pro­get­to del­la radio che fu costret­ta a chiu­de­re il 31 dicem­bre del 1982.

La ter­za del­le “radio auto­no­me o in movi­men­to” è Radio Under­dog. Comin­ciò a tra­smet­te­re dal­l’ul­ti­mo pia­no di una tor­re, nel pie­no cen­tro di Bolo­gna. I redat­to­ri era­no mili­tan­ti del­l’a­rea del­l’Au­to­no­mia del filo­ne di Ros­so e dei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Ter­ri­to­ria­li, anar­chi­ci, comu­ni­sti liber­ta­ri e punk. Nel mar­zo del 1981 dal­la nuo­va radio avvi­sa­ro­no: «Ripren­de voce quel­la par­te di cit­tà che voce non ha… Under­dog è per quel­li che vivo­no peg­gio dei cani…». Il filo ros­so che tene­va insie­me la barac­ca era il biso­gno di libe­ra­zio­ne e la cri­ti­ca dura e radi­ca­le alla gestio­ne del ter­ri­to­rio bolo­gne­se. Dai micro­fo­ni di Under­dog si “isti­ga­va” alle occu­pa­zio­ni di case e spa­zi socia­li. Anche in que­sto caso, la chiu­su­ra avven­ne qual­che anno dopo per l’or­mai risa­pu­ta penu­ria di fondi.

I GIORNALI E LE RIVISTE

La “pub­bli­ci­sti­ca incon­trol­la­bi­le” è sta­ta una del­le for­me più usa­te dal­la galas­sia auto­no­ma bolo­gne­se per comu­ni­ca­re idee, pro­get­ti poli­ti­ci e cam­pa­gne di mas­sa. Se pren­dia­mo in con­si­de­ra­zio­ne un arco tem­po­ra­le che va da metà dagli anni Set­tan­ta agli anni Ottan­ta, il nume­ro di “fogli desi­de­ran­ti” e di “fogli con­tro” è vera­men­te straor­di­na­rio e ha lascia­to segni inde­le­bi­li di una del­le tan­te rivo­lu­zio­ni genia­li del movi­men­to, quel­la del­la car­ta stam­pa­ta. L’at­tac­co al pote­re pas­sò anche attra­ver­so la sfi­da all’“ordine dei carat­te­ri” e al com­pas­sa­to “piom­bo tipo­gra­fi­co”. Nuo­ve for­me di lin­guag­gio, di gra­fi­ca e di tito­la­zio­ne pre­se­ro il soprav­ven­to nei gior­na­li autoprodotti.

Attor­no al 1977 e negli anni imme­dia­ta­men­te suc­ces­si­vi furo­no tan­te le testa­te che appar­ve­ro sul­la piaz­za: da “A/​traverso” a “Final­men­te il cie­lo è cadu­to sul­la ter­ra: la Rivo­lu­zio­ne”, da “Jac­que­rie” a “Muc­chio Sel­vag­gio”, dal “Cor­ri­spon­den­te Ope­ra­io” a “Il limo­ne a can­ne moz­ze”, da “Cac­co­lo­ne” a “La scim­mia”, da “Suppl.to a ?” a “11 Mar­zo”, da “Qua­der­ni di Con­tro­po­te­re” a “Con­tro­scuo­la”, da “Wow” a “Bilot”, da “Il Resto del Cri­mi­ne” a “L’U­na­ni­mi­tà”, dal “Kos­si­ga Furio­so” al “Com­plot­to (di Zuri­go)”, da “Vio­la” a “Nume­ro Zero”, da “Voi ave­te visto un bel mon­do. Noi abbia­mo i com­pa­gni da libe­ra­re”, da “Piaz­za Ver­di” a “Grou­cho”, da “Voglia­mo tut­to” ad “Auto­no­mia Pro­le­ta­ria”, da “Fal­lo a pez­zi !” a “Pugno chiuso”.

Negli anni Ottan­ta la pro­du­zio­ne edi­to­ria­le ripre­se con “Anti­te­si”, una rivi­sta teo­ri­ca di ana­li­si sul­la fase. Era pro­dot­ta dal Cen­tro di ini­zia­ti­va comu­ni­sta, che ave­va sede in via Ave­sel­la e met­te­va insie­me diver­se com­po­nen­ti di movi­men­to che ave­va­no fat­to l’e­spe­rien­za del ’77. Nata nel 1981, Anti­te­si fu, per più di un anno, un pun­to di rife­ri­men­to poli­ti­co. L’in­ten­to era di comin­cia­re ad ana­liz­za­re la nuo­va fase a par­ti­re dal­l’oc­cu­pa­zio­ne del­la Fiat del 1980, dal­la scon­fit­ta ope­ra­ia che ne era segui­ta e dal­la tri­ste­men­te offi­cia­ta “mar­cia dei qua­ran­ta­mi­la”. Alla rivi­sta segui­ro­no gior­na­li ope­rai e di fab­bri­ca come Il fon­do del bari­le, “Né ser­vi, né padro­ni” e “Pro­me­teo Fuoco”.

A par­ti­re dagli anni Ottan­ta via Ave­sel­la 5/​b, dopo esse­re sta­ta la sede del Mani­fe­sto e, per tan­ti anni, di Lot­ta Con­ti­nua, diven­ne il for­ti­li­zio rico­no­sciu­to dove tra­ghet­ta­ro­no a varie onda­te tut­ti i col­let­ti­vi che con­ti­nua­ro­no a defi­nir­si “auto­no­mi”.

Lo spa­zio tem­po­ra­le 1969/​1979 che noi abbia­mo pre­so in con­si­de­ra­zio­ne coin­ci­de solo in par­te con i per­cor­si dell’autonomia, alcu­ni dei qua­li han­no con­ti­nua­to negli anni Ottan­ta e nei decen­ni suc­ces­si­vi. Si è trat­ta­to di anni fati­co­si che han­no, però, pro­dot­to lot­te e gene­ra­to con­flit­ti socia­li impor­tan­ti. Anche que­sti perio­di sto­ri­ci meri­te­reb­be­ro altret­tan­te nar­ra­zio­ni. Ci sono sta­te le pro­du­zio­ni di rivi­ste, il con­ti­nuo dibat­ti­to com­ples­so e con­tra­sta­to sul tema del car­ce­re e del­la repres­sio­ne, i nuo­vi movi­men­ti come quel­lo del­la Pan­te­ra, le bat­ta­glie con­tro la scel­ta dei sin­da­ca­ti di can­cel­la­re la sca­la mobi­le, le cam­pa­gne con­tro il nuclea­re e con­tro le basi mili­ta­ri, come a Comiso.

For­se agli occhi dei più pos­so­no risul­ta­re meno inten­si o, ci si pas­si que­sta espres­sio­ne, meno epi­ci. Ma furo­no per­cor­si ugual­men­te impor­tan­ti, avve­nu­ti in un perio­do oscu­ro, di smar­ri­men­to col­let­ti­vo e di inne­ga­bi­le “fati­ca” nel “fare politica”.

È impos­si­bi­le non con­si­de­ra­re come stret­ta­men­te lega­to a quei per­cor­si il movi­men­to di Geno­va e tut­to ciò che ha con­ti­nua­to e con­ti­nua a muo­ver­si anche nel­le pra­ti­che poli­ti­che di oggi.

Cer­to non si voglio­no sem­pli­fi­ca­re i trat­ti poli­ti­ci e le dina­mi­che socia­li, che han­no radi­ci e pra­ti­che dif­fe­ren­ti, ma chio­san­do una espres­sio­ne già sen­ti­ta: “tut­to ciò non è un’altra storia”.

APPELLO

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