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Le insorgenze delle «autonomie» nel contesto meridionale

Le insorgenze delle «autonomie» nel contesto meridionale

Pub­bli­chia­mo qui uno stral­cio del­la con­ver­sa­zio­ne di Fran­co Piper­no con Clau­dio Dio­ne­sal­vi che Machi­na ha anti­ci­pa­to in vista del­la pros­si­ma usci­ta del pri­mo dei volu­mi che trat­te­ran­no le “Auto­no­mie” meri­dio­na­li edi­to da Deri­veAp­pro­di nel­la col­la­na “Gli Auto­no­mi”.

* * *

Come mai le insor­gen­ze meri­dio­na­li, che pure nel cor­so del­la sto­ria anti­ca e recen­te ci sono sta­te, non han­no dato luo­go a feno­me­ni di espan­sio­ne dell’autonomia ammi­ni­stra­ti­va e poli­ti­ca? Le rivol­te e le rivo­lu­zio­ni a Sud, dal Sei­cen­to fino a quel­le del Nove­cen­to, sono sem­pre sta­te segna­te da som­mo­vi­men­ti vio­len­ti e spon­ta­nei che, però, nel giro di un pugno di gior­ni o di mesi sono rien­tra­te nell’alveo dei dispo­si­ti­vi di pote­re loca­le (ari­sto­cra­zia loca­le, baro­nie, lati­fon­di­sti, galan­tuo­mi­ni, luo­go­te­nen­ti e clas­se poli­ti­ca). Esem­pla­re è la que­stio­ne del­la ter­ra: le lot­te e i sacri­fi­ci con­ta­di­ni nell’Ottocento e nel Nove­cen­to han­no pro­dot­to la rifor­ma agra­ria che, pur­trop­po, è con­flui­ta, da una par­te, in nuo­va emi­gra­zio­ne negli anni Cin­quan­ta e Ses­san­ta del seco­lo scor­so: la ter­ra sen­za mez­zi non pote­va esse­re lavo­ra­ta, dall’altra nel­la Cas­sa per il Mez­zo­gior­no.

Que­ste azio­ni non han­no dato vita a pro­ces­si costi­tuen­ti per moti­va­zio­ni ana­lo­ghe a quel­le dei gior­ni nostri: si può tran­si­ta­re da una fase feu­da­le o pre­bor­ghe­se, a una fase bor­ghe­se o capi­ta­li­sta, pur­ché si abbia un’accumulazione ori­gi­na­ria che lo per­met­ta. La mafia, la ’ndran­ghe­ta e in misu­ra mino­re la camor­ra, sono l’espressione di que­sti ten­ta­ti­vi di ave­re quell’accumulazione ori­gi­na­ria che ha per­mes­so loro di diven­ta­re bor­ghe­si. È chia­ro che si trat­ta di ten­ta­ti­vi cri­mi­na­li, ma riman­go­no del tut­to auten­ti­ci. Sono sta­to per qual­che tem­po in Ger­ma­nia, a Colo­nia, dove ho potu­to con­sta­ta­re da vici­no i livel­li di pene­tra­zio­ne del­le fami­glie meri­dio­na­li in quei ter­ri­to­ri, alcu­ne del­le qua­li segna­te da ori­gi­ni ’ndran­ghe­ti­ste. I ser­vi­zi for­ni­ti da que­sto seg­men­to di popo­la­zio­ne, che è il retro­ter­ra con­sen­sua­le del­la cri­mi­na­li­tà orga­niz­za­ta, sono spes­so tra i miglio­ri ser­vi­zi che ci sia­no a dispo­si­zio­ne. In un risto­ran­te a Colo­nia, gesti­to dal­la ’ndran­ghe­ta, puoi star sicu­ro di gusta­re una piz­za miglio­re di quel­la pre­pa­ra­ta in un loca­le gesti­to dal pre­te. Non ce l’ho coi pre­ti. Voglio solo indi­car­li come ter­mi­ni di para­go­ne, come model­lo di un com­por­ta­men­to con­for­me alle leg­gi. La dif­fi­col­tà che lo Sta­to ita­lia­no incon­tra a eli­mi­na­re que­sta for­ma orga­niz­za­ta di cri­mi­na­li­tà è dovu­ta al fat­to che essa rac­co­glie un’esigenza di moder­ni­tà, per quan­to para­dos­sa­le sia. La strut­tu­ra del­la cri­mi­na­li­tà si basa su rela­zio­ni pre­mo­der­ne o pre­bor­ghe­si. In Cala­bria è basa­ta mol­to sul­le rela­zio­ni fami­lia­ri o para­fa­mi­lia­ri che ovvia­men­te sono pres­so­ché imper­mea­bi­li rispet­to alla leg­ge. È mol­to dif­fi­ci­le, da noi, tra­di­re un paren­te. Al di là degli aspet­ti pena­li, è un aspet­to mora­le: non tra­di­sci tuo fra­tel­lo o tuo cugi­no. Que­sto è un ele­men­to di for­za, per­met­te alla cri­mi­na­li­tà di ope­ra­re come una bor­ghe­sia nel­la sua fase ini­zia­le. In altri ter­mi­ni, i cri­mi­na­li ci sono dap­per­tut­to, ma gli ’ndran­ghe­ti­sti non si limi­ta­no a fare i cri­mi­na­li. Loro inter­pre­ta­no un biso­gno che è quel­lo dell’arricchitevi, un biso­gno che intro­du­ce il mer­ca­to capi­ta­li­sti­co. E lo sod­di­sfa­no, non aven­do a dispo­si­zio­ne né le ban­che né lo Sta­to, nell’unico modo pos­si­bi­le, che peral­tro è il modo nel qua­le è avve­nu­to in Inghil­ter­ra o in Fran­cia, cioè l’accumulazione ori­gi­na­le in ter­mi­ni di vio­len­za e appro­pria­zio­ne. È signi­fi­ca­ti­vo che sia­mo alla sesta leg­ge ecce­zio­na­le per il Sud, a par­ti­re dal­la leg­ge Pica, che è del 1864. Pica era un depu­ta­to. È inte­res­san­te che la sua leg­ge non sia sta­ta appli­ca­ta alla Sici­lia, ma solo al con­ti­nen­te. La man­ca­ta appli­ca­zio­ne in quel ter­ri­to­rio è dovu­ta al fat­to che la mafia sici­lia­na ave­va dav­ve­ro aiu­ta­to Gari­bal­di a scac­cia­re i Bor­bo­ne dal­la Sici­lia. Non era avve­nu­to lo stes­so sul con­ti­nen­te, dove all’epoca non c’era una cri­mi­na­li­tà orga­niz­za­ta come quel­la sici­lia­na. La mafia cala­bre­se era maga­ri anche d’origine mas­so­ni­ca, però lega­ta ai pae­si, cioè non si trat­ta­va di un’organizzazione regio­na­le. Ogni pae­se ave­va que­sto nucleo d’ordine: in pae­si come San Gio­van­ni in Fio­re, per­du­ti nel­la Sila, chi assi­cu­ra­va anche una vita con­for­me a del­le rego­le era­no gli stes­si che saran­no poi con­si­de­ra­ti cri­mi­na­li. In 150 anni non si è sta­ti capa­ci di affron­ta­re que­sto pro­ble­ma, se non «alla Grat­te­ri», quin­di median­te reta­te di 300 per­so­ne e pro­ces­si chia­ma­ti for­mal­men­te «maxi­pro­ces­si», nei qua­li si per­de la respon­sa­bi­li­tà indi­vi­dua­le. Ma è impos­si­bi­le esa­mi­na­re la respon­sa­bi­li­tà di 400 per­so­ne nel­lo stes­so pro­ces­so! È signi­fi­ca­ti­vo quel che mi ha rac­con­ta­to Giu­lia­no Vas­sal­li, che da gio­va­ne è sta­to uno stu­den­te di Alfre­do Roc­co, il legi­sla­to­re, quel­lo del codi­ce pena­le. Quan­do Roc­co pre­pa­rò il codi­ce, che in par­te è anco­ra quel­lo vigen­te, si rifiu­tò di intro­dur­re la figu­ra del pen­ti­to che era già pre­sen­te nel­la legi­sla­zio­ne ingle­se, per­ché soste­ne­va che que­sto avreb­be com­por­ta­to l’uso dei sen­ti­men­ti più bas­si dell’essere uma­no, quin­di una for­ma di cor­ru­zio­ne mora­le. Lo stes­so Roc­co, seb­be­ne fos­se legi­sla­to­re fasci­sta, si rifiu­tò anche di con­ce­pi­re i pro­ces­si in mas­sa, per­ché anch’egli era con­vin­to che la respon­sa­bi­li­tà pena­le potes­se esse­re solo indi­vi­dua­le. Cito que­sti aspet­ti non per ren­de­re un omag­gio a Roc­co, ma solo per sot­to­li­nea­re quan­to il pro­ble­ma del­la cri­mi­na­li­tà nel Sud, che è uno degli aspet­ti dell’identità defor­ma­ta, sia un pro­ble­ma socia­le, non di ordi­ne pub­bli­co. Quan­do il Meri­dio­ne è sta­to get­ta­to nel mer­ca­to, a livel­lo di que­sto pro­ces­so d’arricchimento l’unica resi­sten­za è venu­ta dal­le orga­niz­za­zio­ni cri­mi­na­li che non sono cri­mi­na­li nel sen­so este­nua­to. In ogni cit­tà ci sono dei cri­mi­na­li, ma quan­do par­lia­mo del­la ’ndran­ghe­ta è vero­si­mi­le e cor­ret­to para­go­nar­la alla mas­so­ne­ria, piut­to­sto che alla fran­tu­ma­ta delin­quen­za che uno incon­tra a Firen­ze o a Tori­no. Sem­pre a pro­po­si­to di insor­gen­ze, una del­le ulti­me for­me di ribel­lio­ne è sta­ta quel­la dell’Autonomia o for­se è più cal­zan­te par­la­re di «auto­no­mie».

E che let­tu­ra ne dai?

Per quan­to riguar­da l’autonomia pro­pria­men­te det­ta, e io la inten­do nel feno­me­no che ha nel ’77 il suo aspet­to più signi­fi­ca­ti­vo e ric­co, io non vive­vo nel Sud. Era un perio­do – spie­ga – in cui inse­gna­vo a Mila­no e abi­ta­vo a Roma. Quin­di il mio rap­por­to con l’Autonomia era soprat­tut­to attra­ver­so una rivi­sta che si chia­ma­va «Metro­po­li».

Quel­la col­la­bo­ra­zio­ne ti costò cara per­ché una sua espres­sio­ne, «geo­me­tri­ca poten­za», rife­ri­ta alle Bri­ga­te ros­se, spin­se la Digos a suo­na­re al suo cito­fo­no.

Sì, è diver­ten­te per­ché io avrei com­pre­so le misu­re con­tro di me se si fos­se trat­ta­to di un pre­mio let­te­ra­rio. Essen­do un po’ dan­nun­zia­na come fra­se, avrei potu­to capi­re che un giu­di­ce edu­ca­to dal­la tra­di­zio­ne ita­lia­na potes­se aver­ce­la con me per quell’aspetto bece­ro, inve­ce per via di quel­la fra­set­ta mi han­no accu­sa­to di aver com­mes­so 20 omi­ci­di e 15 rapi­ne. È signi­fi­ca­ti­vo l’episodio che mi è acca­du­to in Fran­cia dove ave­vo pro­va­to a rifu­giar­mi e sono sta­to cat­tu­ra­to. I giu­di­ci roma­ni han­no chie­sto la mia estra­di­zio­ne. Nel cor­so dei riti giu­di­zia­ri lega­ti a que­sta richie­sta, il pro­cu­ra­to­re fran­ce­se mi ha inter­ro­ga­to per vede­re se io fos­si dispo­sto a rien­tra­re in Ita­lia sen­za oppor­re alcu­na resi­sten­za lega­le. Il Pm fran­ce­se mi ha decla­ma­to tut­ti i capi d’accusa for­mu­la­ti con­tro di me dal­la magi­stra­tu­ra ita­lia­na. Oltre ai pre­sun­ti rea­ti di omi­ci­dio e un nume­ro ster­mi­na­to di rapi­ne, c’era pure «intral­cio al traf­fi­co», per­ché in effet­ti quan­do si rapi­na una ban­ca maga­ri si par­cheg­gia la mac­chi­na vici­no alla ban­ca da rapi­na­re e que­sto gesto costi­tui­sce intral­cio per la cir­co­la­zio­ne stra­da­le. Quan­do il pro­cu­ra­to­re mi ha chie­sto se io mi rico­no­sces­si col­pe­vo­le di qual­co­sa, io ho rispo­sto di sì. Il mio lega­le era una per­so­na straor­di­na­ria. Si chia­ma­va Keji­man, un vec­chio avvo­ca­to anti­fa­sci­sta che ave­va fat­to la Resi­sten­za. Impres­sio­na­to dal­la mia rispo­sta affer­ma­ti­va alla doman­da del pro­cu­ra­to­re, è bal­za­to in pie­di e mi ha det­to: «Ma che fai, Fran­co?». Allo­ra il Pm lo ha ammo­ni­to: «Avvo­ca­to, lei stia sedu­to altri­men­ti la allon­ta­no dall’aula». Poi si è rivol­to ver­so di me: «Allo­ra, si rico­no­sce col­pe­vo­le di qual­co­sa?». Rispon­do: «Sì». E lui: «Di qua­li rea­ti?». Rispo­si: «Intral­cio al traf­fi­co». A quel pun­to il pro­cu­ra­to­re si è incaz­za­to e mi ha rispe­di­to in cella. 

Al di là del­le vicis­si­tu­di­ni indi­vi­dua­li di quel perio­do sto­ri­co, rima­ne il pro­ble­ma di defi­ni­re l’essenza e i con­tor­ni dell’Autonomia di que­gli anni. Pos­sia­mo dun­que par­la­re di una for­ma uni­ca o è più ade­gua­to inten­der­la nel sen­so del­le varie­ga­te for­me di auto­no­mia dif­fu­sa?

Nell’autonomia ope­ra­ia ita­lia­na degli anni Set­tan­ta pos­sia­mo indi­vi­dua­re diver­si aspet­ti. Ce n’era uno dispe­ra­to e ran­co­ro­so. La dimen­sio­ne insur­re­zio­na­le, che ave­va avu­to l’Italia a par­ti­re dal ’68, si era chiu­sa con la cri­si del petro­lio all’inizio degli anni Set­tan­ta. Pri­ma del perio­do tra il ’72 e il ’73, gli ope­rai con­trol­la­va­no let­te­ral­men­te la fab­bri­ca, tan­to è vero che l’assenteismo si atte­sta­va intor­no al 25 per cen­to a Mira­fio­ri; una situa­zio­ne del gene­re si era veri­fi­ca­ta solo nel bien­nio ros­so, ai pri­mi del Nove­cen­to. Da quan­do è comin­cia­ta la cri­si del petro­lio, che ha avu­to un’origine ame­ri­ca­na, l’assenteismo si è ridot­to al 5 per cen­to. Agnel­li ha ini­zia­to a licen­zia­re. La sua sareb­be sta­ta un’azione incon­ce­pi­bi­le fino alla cri­si petro­li­fe­ra, pri­ma del­la qua­le gli ope­rai pra­ti­ca­va­no l’assenteismo ma il padro­ne non osa­va licen­zia­re per­ché era diven­ta­to un pro­ble­ma di ordi­ne pub­bli­co. Quin­di nel ’77 è evi­den­te una scon­fit­ta ope­ra­ia nel­le fab­bri­che. Tut­to dipen­de­va infat­ti dai rap­por­ti di for­za. Sen­za la pos­si­bi­li­tà di pren­de­re il coman­do in fab­bri­ca, è sal­ta­ta tut­ta l’intelaiatura che ruo­ta­va attor­no all’antagonismo ope­ra­io. Tant’è vero che la lot­ta si è spo­sta­ta di più sul­la que­stio­ne abi­ta­ti­va: a Tori­no, per esem­pio, il ter­re­no di scon­tro diven­ta­va il non paga­re l’affitto oppu­re occu­pa­re le case, ma comun­que si allon­ta­na­va dal­la fab­bri­ca. E non per cat­ti­ve­ria, ma per­ché, come dimo­stra­va quel­la mani­fe­sta­zio­ne dei 40mila «capet­ti» nell’ottobre 1980, era­no cam­bia­ti i rap­por­ti di for­za. Dun­que il ’77 ha espres­so un ele­men­to di dispe­ra­zio­ne che è sta­to tra­dot­to dal­la pro­po­sta di ren­de­re arma­ta la lot­ta: una pro­po­sta mino­ri­ta­ria, però aper­ta­men­te offer­ta da grup­pi di com­pa­gni che inten­de­va­no tra­sfor­ma­re il con­flit­to in uno scon­tro arma­to. È sta­ta una scel­ta di evi­den­te fal­li­men­to. Un con­to infat­ti era pra­ti­ca­re del­le azio­ni arma­te, come per esem­pio puni­re i capi­re­par­to che mul­ta­va­no gli ope­rai per­ché si ripo­sa­va­no oppu­re san­zio­na­re il pro­prie­ta­rio del­le case che sgom­be­ra­va inte­re fami­glie, altro era tra­sfor­ma­re il con­flit­to in uno scon­tro arma­to. Son due cose diver­se. Met­ten­do­la sul pia­no del­lo scon­tro arma­to, ave­vi già per­du­to. Non c’era alcu­na pro­por­zio­ne tra quel­lo che pote­va­no fare i com­pa­gni del movi­men­to e quel­lo che face­va­no 100mila cara­bi­nie­ri, 200mila agen­ti di poli­zia. Ecco, in que­sto aspet­to vedo un ele­men­to di dispe­ra­zio­ne che ovvia­men­te, come in tut­te le cose vere, ha avu­to pure un gran­de fasci­no, anche dal pun­to di vista mera­men­te este­ti­co, rifles­so nel­le cose che si scri­ve­va­no, nel tea­tro. Dun­que c’era un ele­men­to di ran­co­re; non di invi­dia ben­sì di odio socia­le. E que­sto aspet­to è fini­to col peri­re per pri­mo negli anni suc­ces­si­vi. C’è infi­ne anche una pro­spet­ti­va di rifles­sio­ne teo­ri­ca in cui la paro­la auto­no­mia vuol dire sostan­zial­men­te la fine del­la lun­ga ege­mo­nia del­le asso­cia­zio­ni par­ti­ti­che e sin­da­ca­li di sini­stra in Euro­pa. Non han­no aspet­ta­to la cadu­ta del muro gli ope­rai ita­lia­ni, o comun­que i qua­dri che ave­va­no lot­ta­to, per dichia­ra­re fal­li­ta l’Unione Sovie­ti­ca. L’esperienza del socia­li­smo rea­le in Ita­lia era già cadu­ta negli anni Set­tan­ta, quan­do il Pci rap­pre­sen­ta­va uno dei dispo­si­ti­vi di repres­sio­ne del­lo Sta­to italiano.