Autonomia Toscana


Operaisti
La prima sede operaista a Firenze, nella centrale piazza della Libertà, fu il “Centro Giovanni Francovich”. Era all’interno di una sede del “Circolo Rosselli” e il nome era stato dato per ricordare Giovanni Francovich ricercatore militante morto nel gennaio 1966 a ventisei anni in un incidente d’auto vicino a Portico di Romagna. Giovanni aveva collaborato con Quaderni rossi, per poi aderire a Classe operaia, le cui riunioni redazionali si tenevano spesso a Firenze.
La sede di Firenze non si limitava ad esercitare il proprio ruolo geografico, ospitando le riunioni nazionali, ma aveva una intensa attività di inchiesta e di lavoro, producendo pubblicazioni e incontri come il seminario sulla composizione di classe “Capitale e classe operaia alla Fiat: un punto medio nel ciclo internazionale” (30 aprile‑1 maggio 1967).
Era il frutto della grande esperienza della lotta operaia della fabbrica metalmeccanica “Galileo” nel 1959 e del peso di teorici e militanti importanti: Claudio Greppi, Lapo Berti, Luciano Arrighetti operaio coltissimo, proprio della “Galileo”, che tutti scambiavano per un intellettuale…
Un gruppo fortemente attivo che portava in tutte le fabbriche della Toscana, con il giornale, il punto di vista operaista.
La facoltà di Architettura, a partire dal 1967, divenne il punto di riferimento principale nelle lotte universitarie fiorentine, amplificando la prassi e il pensiero operaista, ma anche e soprattutto un luogo di organizzazione e di formazione. Nella lunghissima occupazione del Sessantotto ad Architettura venne azzerato il potere dei baroni e il loro sapere di classe; gli esami venivano preparati e superati sui testi studiati, discussi e predisposti dal movimento. Esemplificativa la scritta che dominava la facoltà: “La programmazione è una macchina: il capitalismo la impone, il tecnico l’attua e la qualifica, l’operaio ed il contadino la subiscono e ne vengono schiacciati”.
In Toscana agiva, in particolare tra Pisa e Carrara, passando per la Versilia, un’altra esperienza operaista cresciuta a contatto con le locali lotte operaie che affermava un punto di vista rivoluzionario: il Potere Operaio Pisano.
Il Sessantotto toscano si nutrì del portato di queste pratiche e di queste soggettività, che si ponevano già come militanti complessivi. Proprio all’iniziativa del Potere Operaio Pisano si deve anche la contestazione del Capodanno 1969 alla Bussola contro l’ostentazione della ricchezza.
Dalla facoltà di Architettura nacquero a Firenze le iniziative più interessanti di lettura della composizione di classe in collegamento con le lotte operaie nell’ambito delle quali fu costituita l’Assemblea operai-studenti, diretta conseguenza di queste lotte e del suo portato teorico.
Lotta Continua e Potere Operaio
La rottura dell’Assemblea operai-studenti, avvenuta nel luglio del 1969, dette vita anche a Firenze ai due gruppi operaisti della sinistra extraparlamentare: Lotta Continua, che aprì la prima sede in via del Terzolle 19/r, accanto all’ITI, nella zona allora operaia, di Novoli/Rifredi, e Potere Operaio, la cui base maggiore fu proprio la facoltà di Architettura. A Firenze si svolse il convegno nazionale di fondazione di Potere Operaio presso il circolo “Faliero Pucci”, dal 9 all’11 gennaio 1970. La sede era in via dei Serragli nel quartiere popolare di San Frediano e fu spesso utilizzata per gli appuntamenti nazionali.
Due esperienze diverse, anche se convergenti sulle mobilitazioni di piazza e nello scontro sociale: Lotta Continua sempre protesa alla circolazione ed alla generalizzazione delle lotte; Potere Operaio costantemente alla ricerca della stretta organizzativa, con un dibattito quasi ossessivo sul partito. Potere operaio è protagonista delle lotte universitarie più radicali che hanno portato a un costante scontro politico e fisico con il PCI, garante delle baronie universitarie e degli equilibri politici ed economici della città. Le lotte alla Facoltà di Architettura sono state un modello di mobilitazioni che a partire dal tessuto universitario si proiettavano in città.
Nei primi anni di vita (1969–71) entrambe le formazioni provarono a cercare le situazioni e i soggetti per tradurre territorialmente la linea politica nazionale, tentativi che si svilupparono con caratteristiche estremamente diverse. Potere Operaio cercava potenziali “quadri” da inserire nel proprio progetto di partito leninista, ed il rapporto con le lotte si focalizzava spesso e soprattutto nelle fabbriche con investimenti di tempo ed energie per conquistare le avanguardie che avessero queste caratteristiche. Diametralmente opposta la prassi di Lotta Continua che tendeva ad identificarsi con le lotte in corso, vivendo momenti di grande intensità politica, sociale ed umana con i protagonisti delle stesse ed anteponendo la generalizzazione del conflitto all’organizzazione, la cui direzione locale cambiava costantemente.
L’estate del 1971 rappresentò un primo momento di verifica dello scontro sociale e dei rapporti di forza. La lotta partita attorno alla chiusura del centro sfrattati di via Guelfa (in maggioranza sottoproletari e solo in piccola parte operai di fabbrica, che saranno poi quelli che spingeranno di più nella lotta), si estese con l’occupazione degli stabili in costruzione in via Manni (la polizia sgomberò lo stabile con centoundici identificati e denunciati) e culminò nell’occupazione della neonata Regione Toscana. Il governo locale veniva identificato come controparte per la propria estraneità ai bisogni proletari. La mattina del 7 luglio la Giunta Regionale viene occupata da un corteo guidato da famiglie di sfrattati. Il corteo ammaina il tricolore e innalza le bandiere rosse. Lo slogan è: “casa per tutti immediatamente!” Il presidente Lagorio del Partito socialista italiano, dopo ore di discussione, chiede agli occupanti l’impegno, una volta ottenuti i 20 appartamenti promessi, a non generalizzare la lotta a “tutta quella gente che a Firenze avrebbe bisogno di case”, ottenendo un netto rifiuto. La reazione del Partito comunista italiano (PCI) fu immediata e segnò la linea repressiva per tutti gli anni successivi: «la classe operaia si deve mobilitare per sgomberare i “fascisti rossi” che hanno occupato la nostra istituzione». Nel pomeriggio venne ripristinato l’ordine e il tricolore in Regione, dove arrivò un corteo operaio organizzato dal PCI per cacciare gli “squadristi”.
La mattina del giorno dopo, 8 luglio, alla facoltà di Lettere viene “processato” il professore Ernesto Ragionieri, teorico e membro del comitato centrale del PCI, accusato di essere un “barone rosso” e di essere un mandante ideologico della repressione messa in atto alla Regione. L’iniziativa assume immediatamente un rilievo nazionale e viene successivamente disconosciuta da Lotta Continua, i cui militanti ne sono stati protagonisti.
Il PCI provò a mettere in atto lo stesso schema repressivo, questa volta in modo fallimentare, nella lotta di Architettura, accompagnandolo da minacce dirette ai compagni che le dirigevano e dando il pieno sostegno all’azione repressiva della polizia.
La contrapposizione frontale che, comunque, caratterizzò gli anni successivi non rappresentò mai per il PCI una linea capace di conquistare il consenso operaio, come testimonia il comunicato del Consiglio di Fabbrica della STICE(una delle più grandi fabbriche del territorio) del 14 luglio 1971: “non siamo persuasi neppure della correttezza politica della liberazione della Regione, ad opera di alcuni operai di qualche fabbrica fiorentina. Noi crediamo che la Regione, come qualsiasi altra istituzione dello Stato borghese non vada difesa per quella che è. È solo l’uso operaio della Regione che deve essere difeso, ma, ancor prima, deve essere conquistato. Non si può liberare, a nome della classe operaia, quello che alla classe operaia non appartiene o che addirittura la classe operaia non è neppure riuscita ad utilizzare per la sua lotta contro lo sfruttamento”.
La lotta per la casa si estese e si rafforzò già nel novembre del 1971 con le occupazioni delle case dello IACP di via delle Sciabbie: fu questa la risposta migliore alla politica repressiva del PCI.
Le due formazioni, Potere Operaio e Lotta Continua, mantennero un livello di unità, anche con le altre espressioni della sinistra extraparlamentare, sulle cosiddette scadenze generali (la mobilitazione contro la strage di stato su tutto), mentre rimase un’unica azione comune nel collettivo operai-studenti di Sesto Fiorentino. Anche in questo caso l’attenzione di Potere Operaio era focalizzatala sulla costruzione di quadri, conseguentemente sede e struttura rimasero a Lotta Continua che ebbe la capacità di radicarsi nel tessuto giovanile e studentesco costituendo una sezione territoriale che rappresentò negli anni uno dei punti di riferimento della “sinistra” dell’organizzazione.
Lotta Continua e Potere Operaio si consolidarono, in misura diversa, nel tessuto studentesco e urbano. Nonostante un massiccio intervento sulle fabbriche erano poche le avanguardie autonome presenti negli stabilimenti industriali. Il tessuto produttivo è quello della piccola e media impresa. L’industrializzazione leggera (tessile, abbigliamento, ceramiche, calzature, pelletteria, vetreria, mobilifici…) è la forma derivata dal fitto reticolo di intrecci fra inventiva tecnica, tipica della tradizione artigiana, e rapporti con il mercato internazionale. Una filiera produttiva specializzata nella produzione di beni durevoli per l’esportazione e particolarmente favorita dall’aumento del dollaro sul mercato dei cambi. Fanno eccezione la STICE e le partecipate statali: Nuovo Pignone e Galileo su tutte. Due fabbriche metalmeccaniche che hanno attraversato la storia del movimento operaio del Novecento (dalle occupazioni di fabbrica del 1921, all’attività delle cellule comuniste durante la resistenza antifascista) e con un ciclo produttivo ancora in gran parte legato alla capacità professionale degli operai. Alla Nuovo Pignone e alla Galileo, stipendi e status normativo erano nettamente superiori a quelli delle piccole fabbriche, tanto da far coniare l’espressione “aristocrazia operaia” per definire questi lavoratori. In più il tessuto della piccola e media impresa esercitava il ricatto costante sulla forza-lavoro: le ordinazioni arrivavano o non arrivavano, i pagamenti ritardavano. Tutti sistemi che rendevano più difficile la lotta operaia. Esisteva comunque un’area di sinistra sindacale, molto numerosa che interloquiva con la sinistra rivoluzionaria fin dall’autunno caldo. Un’area che, sotto certi aspetti, usava i gruppi e la loro presenza giornaliera fuori dalla fabbrica per giocarsi un equilibrio più avanzato all’interno dei Consigli di fabbrica. Fra il 1969 e il 1972 nascono diversi Collettivi operai di zona (con presenze in fabbriche come l’OTE, la STICE, la Moranduzzo, l’Edison giocattoli, la Targetti e la Superpila) come a Signa e tra gli artigiani di San Frediano.

L’egemonia della piazza
Lotta Continua è protagonista della mobilitazione antifascista alle elezioni della primavera 1972, ma anche della presenza massiccia nella lotta dei chimici per il rinnovo del contratto nell’estate-autunno e diventa la direzione politica del movimento di lotta contro la repressione. La risposta alle condanne ad anni di galera inflitte ai militanti antifascisti per essere scesi in piazza contro i comizi di Almirante si salda alla risposta che il movimento operaio fiorentino sta dando alla repressione poliziesca e padronale in fabbrica durante la lotta dei chimici: i picchetti sfondati dalla polizia (Testanera, Eli Lilly), gli arresti di compagni operai durante i picchetti (Tognarelli e Zappulla alla Quentin), il licenziamento politico del compagno Cellini alla Carapelli.
Lotta Continua proveniva da una stagione di grande inquietudine interna, con cambi repentini delle strutture dirigenti ed anche della sede. Lasciata quella di via del Terzolle, prima di trasferirsi nella più centrale via dell’Oriuolo (febbraio 1972), viene ospitata per diversi mesi dal circolo anarchico Vecchio Ponte, in via San Gallo. All’inizio del 1972, grazie all’ingresso di una forte componente studentesca proveniente da un gruppo locale, venne riorganizzato l’intervento sulle scuole medie superiori che portò ad una presenza capillare dell’organizzazione, esplosa con l’uscita del quotidiano nell’aprile 1972.
La massificazione della presenza di Lotta Continua nelle scuole medie superiori, nell’anno scolastico 1972–73, aveva gioco forza messo tutti d’accordo sulla gestione della piazza e ne aveva favorito la proiezione all’esterno delle scuole degli studenti medi. L’organizzazione di Lotta Continua nelle scuole era stata resa possibile proprio dal mutamento delle modalità che segnavano la vita dei gruppi: anziché ruotare all’interno della sede e delle proprie dinamiche, scorrazzavano per la città. Un’anomalia che Lotta Continua sarà costretta a rincorrere per anni. L’antifascismo militante ne fu il terreno costitutivo, con un approfondito lavoro di controinformazione che denunciava la penetrazione neofascista nelle scuole superiori, con un apposito libretto, ”Al bando i fascisti”, completo di foto, nomi, relazioni, composizione dei nuclei di scuola. La controinformazione, contestualmente, era accompagnata dall’azione del “non farli nuocere”, impedendo ai fascisti l’agibilità politica. In ogni scuola veniva organizzato un servizio d’ordine di massa. Questi erano sostenuti e affiancati da uno strumento cittadino, mobile, che ogni mattina si riuniva alla Fortezza da Basso o in qualche altra zona centrale. Era la ”volante rossa” pronta a intervenire nelle scuole dove i fascisti si presentavano. Non c’erano cellulari, non c’era nessun altro modo di essere avvertiti se non di persona. Era un giro continuo di staffette, a bordo dei Ciao, che coprivano le scuole che non erano considerate in grado di difendersi da sole. Volantinaggi con catene, spranghe e coltelli: questo l’armamentario usato dai fascisti davanti alle scuole. Nel giro di un anno la militanza dei fascisti nelle scuole fu costretta alla clandestinità. Una lotta militante esaltante, costellata da scontri, ma anche da provocazioni clamorose come i colpi di pistola sparati dai fascisti davanti al Liceo scientifico Castelnuovo.
«Le lotte degli studenti non sono più una novità […]. Il fatto nuovo sono i protagonisti, gli obiettivi di queste lotte. I protagonisti delle lotte sono completamente cambiati, non sono più come nel ’68 gli studenti borghesi maturati sui testi sacri del marxismo-leninismo-mao tse tung pensiero […]. Sono i giovani proletari che le contraddizioni del capitalismo non le scoprono sui libri, ma le sentono sulla propria pelle, sulla pelle delle loro famiglie. Il loro comportamento rispetto alla lotta non si misura più a partire dall’estraneità ai contenuti dello studio, ma a partire dall’estraneità, dal rifiuto politico della società borghese, conquistato nella vita sociale che egli svolge (il giovane studente non vive certo in funzione della scuola, anzi, la scuola si trova ai margini dei suoi interessi, dei suoi pensieri). La nuova avanguardia di massa è il giovane che all’interno dei quartieri proletari fin da piccolo acquista quella carica eversiva che porta con sé nella lotta, fin da quando ha a che fare con la polizia perché gioca a calcio in piazza, o va in due su un motorino, fin da quando distingue la società in stronzi sfruttatori e in proletari sfruttati. È il giovane che si scontra con la polizia per non pagare il biglietto ai concerti pop. È il giovane che riconosce nella pratica dell’antifascismo militante (dagli scontri ai comizi fascisti, al pestaggio dei fascisti e degli aguzzini del luogo) un elemento costante della sua vita» (da: “Nasce una nuova generazione di studenti medi”, Sesto Fiorentino, maggio 1973).

Autonomia
Il processo di costituzione dell’area dell’Autonomia fa tappa a Firenze nel gennaio 1973. L’occasione è la riunione che decide le modalità di convocazione e le linee di dibattito della “riunione nazionale delle forme di autonomia operaia organizzata” in programma a Bologna il 3–4 marzo.
Due le situazioni operaie fiorentine che partecipano al convegno di Bologna: la Galileo e la Carapelli. Fabbriche dove non esistono gruppi operai organizzati, ma dove sono presenti soggettività significative. Luciano Arrighetti, lo storico, in tutti i sensi del termine, operaio della Galileo, cultore della scienza operaia fin dalla sua partecipazione alla rivista Classe operaia. Il Cellini, avanguardia della Carapelli che si era distinto durante la lotta contrattuale dei chimici e che aveva subìto un licenziamento politico dalla fabbrica. Gli altri lavorano in posti troppo piccoli per azzardare la firma in calce al documento.
In città ci sono più aree militanti che discutono, dentro e fuori dai gruppi, su come dare sbocco alla situazione di stallo politico-organizzativo e uscire dalla cristallizzazione gruppuscolare. Soggetti diversi che si pongono i medesimi problemi. Stanchi dei discorsi e di una pratica che si riduce al mero propagandismo delle idee o, tutt’al più, ad amplificare i contenuti più avanzati delle lotte. C’è il Circolo comunista anarchico Durruti, stanco della testimonianza a cui paiono limitarsi i libertari; c’è il Gruppo Gramsci, tessuto di proletariato extra legale politicizzatosi nelle rivolte carcerarie. Culture politiche radicali e differenti modalità di ribellione che non possono essere contenute nella vita dei gruppi. Sono «sinistre del fare» non imprigionabili nella verbosità agitatoria della sinistra extraparlamentare.
Lo scioglimento del Gruppo Gramsci, per praticare «l’organizzazione dell’autonomia», anticipa quello di Potere Operaio (sarà un processo lungo, a Firenze, resistono spezzoni di gruppo come il Collettivo per il potere operaio) e segna l’inizio della dissoluzione dei gruppi. L’ingresso del Gruppo Gramsci nell’area dell’autonomia porterà (in una situazione dove la sua presenza era relativa come a Firenze, con sede in un fondo di via San Zanobi) a importanti novità di pratica e di pensiero. La pratica femminista, innanzitutto, come autonomia dal maschile. I gruppi d’autocoscienza, la rete clandestina per sostenere gli aborti, la spinta all’apertura dei primi consultori autogestiti sono i primi effetti delle iniziative femministe cominciate a cavallo tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971. Una strada che generazioni di compagne praticheranno negli anni successivi e che si affermerà con forza impetuosa imponendo la contraddizione di genere, con effetti spesso laceranti in ogni ambito organizzato.
Il Gruppo Gramsci porta nell’autonomia fiorentina una presenza studentesca, ridotta ma significativa in alcuni istituti come il III Liceo e l’Agrario. Viene utilizzata la sigla Collettivi politici autonomi e diffuso Rosso, non più organo del gruppo, ma «giornale dentro il movimento».
Il Gramsci è stato, nella sua ultima fase, anche un terreno di sperimentazione sui linguaggi di comunicazione e sulle critiche alle forme del vivere che perpetuano la società capitalistica. La critica all’istituzione “famiglia” dà origine a una campagna permanente a opera del collettivo controcultura, impegnato anche nelle sperimentazioni comunicative: dai muri alle varie modalità espressive. Il rapporto fra movimento e arte in quegli anni è stato spesso banalizzato sulla figura del cantautore di turno o di qualcun altro che metteva in rima politica qualche accordo. In realtà la rottura provocata dai movimenti, come rottura anche simbolica dell’ordine produttivo capitalistico, ha investito in quegli anni tutte le istituzioni: dall’esercito all’ospedale psichiatrico, dalla galera alla scuola. Tutti luoghi che addestravano alla disciplina di fabbrica e alla divisione del lavoro fra manuale e intellettuale. Quella critica pratica ha segnato pesantemente la produzione artistica: cinema, fotografia, l’arte povera e popolare, i fumetti, le forme narrative, le tecniche di comunicazione di massa: nascono allora le radio libere.
La Firenze, dove agisce incompreso ai più il collettivo controcultura, è la stessa città in cui si realizza un tentativo di far incontrare e conoscere le artiste e gli artisti della nuova avanguardia e le loro opere antisistemiche come la galleria AREA aperta da Lotta continua, grazie a Paolo Marchi, Bruno Corà, Michele Guidugli.
Santa Croce
È nel popolare quartiere di Santa Croce, dove già hanno la loro sede diversi gruppi della sinistra extraparlamentare, che viene aperta la prima sede autonoma.
Santa Croce porta nelle sue strade i segni dell’alluvione del 1966, con l’acqua dell’Arno che invade la città raggiungendo oltre quattro metri d’altezza. Un’alluvione che ha insegnato ai fiorentini ad autorganizzarsi senza aspettare l’aiuto dello Stato per risollevarsi; a non aver pregiudizi sui «capelloni» che affluiscono a spalare via il fango dalla città. Un’alluvione che ha anticipato la riorganizzazione capitalistica dell’asse urbano, anche grazie alla redistribuzione classista dei «rimborsi» con il ridimensionamento delle piccole botteghe artigianali. Inizia il processo di espulsione degli strati proletari dal centro storico che viene consacrato ai profitti del complesso turistico-alberghiero e del grande commercio.
A poche centinaia di metri da piazza Santa Croce c’è il cinema popolare Alfieri, divenuto poi Alfieri Atelier. Al pubblico dei ragazzini e degli anziani del quartiere si uniscono le compagne e i compagni che frequentano la zona. La programmazione cinematografica non era decisamente all’avanguardia. Il pubblico non diminuiva se invece del “Padrino” o della “Stangata” c’era qualche boiata italica. Cambiava il modo di stare in sala, dove prendevano corpo veri e propri sketch, che forse sarebbe più corretto definire tormentoni. Un uso interattivo del cinema. Una tradizione che si riproporrà, con una programmazione diversa, ad hoc per il movimento, negli anni successivi al cinema Universale di via Pisana.

Il 24 febbraio 1974 scoppia una rivolta nel carcere le Murate. Un gruppo di detenuti si arrampica sul tetto per manifestare contro l’infinita attesa della riforma carceraria, mille volte promessa. Una raffica di mitra, sparata da un agente di custodia, uccide il detenuto Giancarlo Del Padrone, 20 anni; altri quattro rimangono feriti. I detenuti restano sui tetti, il quartiere di Santa Croce solidarizza con loro. La rivolta e l’assassinio di Giancarlo diventano la canzone “Le Murate”, del Collettivo Victor Jara, una struttura musicale e teatrale di sostegno al movimento: «giustizia sarà fatta, fuori e dentro le prigioni».
Nel quartiere vive, accanto a studenti fuori sede e artigiani, quel proletariato extra legale che campa di espedienti: dai furti negli appartamenti e nelle ville, al lavoro nelle bische. Condizioni di vita ai margini della malavita: il carcere era per loro un tappa obbligata di passaggio, un punto di riferimento delle loro esistenze. Gente che entra ed esce dal carcere, porta fuori la comunicazione e i saluti, e si avvicina al movimento perché le lotte carcerarie l’hanno in qualche modo politicizzata.
La rivolta delle Murate è sostenuta dall’esterno: gli stracci con il sangue di Giancarlo e dei feriti vengono gettati dai tetti e diventano gli striscioni con cui si manifesta sotto il carcere, stringendolo d’assedio. Una domenica da cani, di rabbia infinita. Lotta Continua dà l’indicazione di abbandonare l’assedio al carcere, ma nemmeno i suoi militanti la seguono. È la conferma di quello che si sapeva già da tempo: con le rivolte del luglio ’73 l’avanguardia dei detenuti aveva rotto con la Commissione carceri di Lotta Continua, dopo anni di lavoro comune, sintetizzati dall’esperienza raccontata dal volume “Liberare tutti i dannati della terra”. All’interno delle prigioni la politicizzazione anticapitalista era avvenuta con il passaggio dall’esperienza dell’esproprio singolo alla convinzione della necessità di espropriare tutta la classe degli sfruttatori. La coscienza di massa dei detenuti poneva il problema di un livello di organizzazione diverso da quello della denuncia e della lotta per la riforma dell’ordinamento carcerario. Il carcere doveva diventare una “base rossa”, per rompere i muri dell’isolamento con la società.
La nottata finisce con scontri durissimi seguiti dai rastrellamenti della polizia, con il quartiere intossicato dai lacrimogeni.
Di sicuro il rapporto con queste soggettività e le loro pratiche fu di forte impatto su giovani acculturati, oltre che fortemente politicizzati. Oltre all’odio ideologico verso la forma Stato e il dominio del capitale, venivano conosciuti i multiformi accorgimenti del procurarsi un reddito senza ingrassare un padrone: dalle diecimila lire false al rispondere in modo univoco al retorico interrogativo di Bertold Brecht: ”è più criminale fondare una banca o rapinare una banca’’.
Sui tetti del carcere delle Murate, in quei giorni di fine febbraio, a parlare con i dimostranti che si sono radunati sotto il penitenziario, c’è Giancarlo Pagani, proletario comunista. Uno di quelli che non si tirava mai indietro quando c’era da rischiare, fosse in corteo o contro un comizio fascista. Giancarlo faceva parte di un giro proletario che aveva anticipato l’esistenza della sinistra extraparlamentare. Artigiani, proletari autodidatti, altri soggetti che vivevano d’espedienti pur mantenendosi a distanza dalla malavita. Compagni che negli anni si divisero, andando ognuno per la loro strada, ma che avevano dato vita ad esperienze assolutamente originali come quella della Lega Spartaco, un rifiuto dei gruppi all’insegna della necessaria radicalità della rivolta, messa in piedi dall’inesauribile Pierotto, operaio dei servizi educato al comunismo dal mitico Bordiga, e poi animatore del Comitato proletario di Casellina. Molti di questi compagni avevano finito per trasformare la modesta trattoria Schioppo, in via degli Alfani, in una vera e propria sede. Passavi di lì e ti nutrivi più di lezioni proletarie («il movimento di massa riparte sempre da dove si è fermato nel precedente ciclo di lotte»), di qualche libro od oggetto a buon prezzo che di cibo, a buon mercato, solo per la gran fame e le poche lire in tasca.
Giancarlo era stato arrestato nel dicembre 1973 per un esproprio a un orefice in via degli Alfani, una zona dove era di casa. Viene fermato e arrestato dopo un inseguimento a piedi. Qualche mese dopo finisce sotto processo. Giancarlo non era uno di quelli abituati a camuffare i propri comportamenti, né tantomeno a fare i conti con l’entità delle condanne. Nell’aula giudiziaria Pagani rivendica il diritto dei proletari all’esproprio «Non sarà la condanna che mi darete a farmi sentire in torto […]. L’impressione che mi fate è la solita di quando ero bambino – che mi portavano a vedere il teatrino dove c’erano tante marionette che venivano tirate con i fili. Non avendo nient’altro da dire vi rammento che l’unica valida giustizia è quella proletaria».
«Pagani libero!», è il volantino che diffonde, anche in tribunale, il Collettivo Jackson, nato nell’autunno del 1974 con sede in via dell’Agnolo 17/R e che aveva già stampato un bollettino ciclostilato: «Col sangue agli occhi».
L’area che cercava una propria forma organizzata lo faceva comunque attorno alla centralità della figura operaia. Senza vivere le contraddizioni delle grosse fabbriche del nord le avanguardie operaie avevano ben chiaro che il rapporto gruppo-direzione politica esterna alla classe è un meccanismo che li sfiancava in un lavoro di retroguardia, trasformandoli da protagonisti in megafoni umani delle giuste parole d’ordine. Per questo, anche nel moderatismo delle lotte operaie dell’area fiorentina, qualcosa si muoveva, partendo dal fatto che la classe operaia era ancora all’attacco. Può essere la Gover dell’Osmannoro o la Tipocolor di Calenzano: quando c’è uno sciopero o una vertenza aperta i capi reparto dovevano misurare parole e comportamenti, altrimenti, come minimo, tornavano a casa a piedi. I ricatti delle direzioni aziendali non passano.
Le figure operaie che partecipano al processo di organizzazione autonoma non sono numerose. C’è comunque un patrimonio rappresentato dalle lotte e dai picchetti di massa che accompagnano le vertenze contrattuali, come quella della STICE: “Chiamiamo autonomia operaia la capacità della classe operaia di lottare e organizzarsi autonomamente per le sue esigenze materiali”. A Firenze per la minore quantità e continuità delle lotte, il limite che si era riscontrato e che aveva avuto un peso decisivo era stato l’isolamento più assoluto in cui si erano trovate le diverse realtà in lotta: questo era valso tanto per la STICE quanto per le piccole fabbriche che ogni tanto alzavano la testa (per esempio la Targetti durante il contratto metalmeccanici 1973, e a ottobre ’73 sulla vertenza aziendale). Isolamento a livello cittadino, ma anche a livello nazionale (la STICE dal resto del gruppo Zanussi, la Fiat di Firenze dagli altri stabilimenti) passando anche attraverso la semplice disinformazione di ciò che accadeva nelle altre realtà. Per superare questi limiti alcuni compagni tentarono di dar vita a organismi operai che si riunivano in sedi diverse di gruppi e partiti. Esperienze ne sono state fatte diverse, ma non hanno avuto continuità, sia che si trattasse del CPO dell’Osmannoro, sia del Collettivo operaio di Firenze, sia della Sinistra sindacale, sia del Gruppo operaio della STICE, sia del Collettivo operaio Pdup-Manifesto di Rifredi.
Dalla proposta politica avanzata nel luglio del 1974 all’interno del dibattito operaio:
«Noi siamo un gruppo di compagni provenienti da alcune di queste esperienze organizzative. Secondo noi questi organismi non hanno avuto continuità perché sono sorti per esigenza ideologica di alcuni gruppi e non per esigenza materiale della classe operaia, cioè organizzare i bisogni operai. E tutto questo perché la presunzione dei gruppi di avere una linea complessiva che dica tutto su tutto, metta insieme l’operaio delle piccole fabbriche con quello delle grosse, il metalmeccanico con il chimico, l’operaio e lo studente faceva sì che la discussione o era uno scontro di linee politiche generali tra gruppi (per cui venivano esclusi gli operai che non militavano nei gruppi o il gruppo più debole) oppure il dibattito era completamente gestito da un gruppo (per cui venivano esclusi tutti quelli che non si riconoscevano in quella linea politica). Il risultato che si è ottenuto è stato quello di spaccare tutti questi organismi e di averli usati solo per ingrassare la propria organizzazione. Secondo noi l’ottica va completamente rovesciata: non un gruppo di compagni che elabora esternamente al movimento una linea, che poi molto spesso si rileva teoria, ideologia e in concreto cosa non gestibile dai lavoratori in prima persona. Ma un programma, delle proposte che vengano elaborate e verificate dalle esperienze di ogni singola situazione. Un programma e delle proposte che nascendo e verificandosi nel movimento di cui si è parte siano sempre praticabili e gestibili dagli operai in prima persona» .
Nell’estate del 1974 si sviluppa, a San Bartolo a Cintoia, un movimento di occupazione delle case senza precedenti: 96 appartamenti, 600 proletari protagonisti, un braccio di ferro durato per mesi e concluso con la requisizione degli immobili da parte del Comune di Firenze.

Luca Mantini
«Il 29 ottobre una rapina alla Cassa di Risparmio di Firenze si conclude tragicamente. I carabinieri sono a conoscenza della rapina, si appostano, e con fredda determinazione uccidono due ‘rapinatori’ che sono dentro la macchina, feriscono gli altri due che in seguito sono catturati. Le perizie balistiche parlano chiaro: sono stati colpiti con armi di grande precisione da militi che erano ben appostati. Il massacro voluto e concertato dallo Stato sembra concludersi con le congratulazioni del Pci di Firenze e con le solite promozioni dei carabinieri che vi hanno preso parte. Ma c’è un particolare: i ‘rapinatori’ assassinati sono due militanti rivoluzionari, due compagni conosciuti e stimati: Sergio Romeo di Napoli e Luca Mantini di Firenze […]. Luca e Sergio avevano fatto entrambi, dopo la loro esperienza di ex detenuti e di ex Lotta Continua, la scelta di organizzare i NAP, una formazione clandestina che si interessa principalmente delle carceri e della violenza borghese […]. Non delinquenti comuni, provocatori o ribelli, ma compagni che avevano scelto una strada da cui si può dissentire solo per l’immaturità del momento e per l’improvvisazione dell’organizzazione che ha lasciato ampi varchi al terrorismo poliziesco. I loro errori, la loro vita sono patrimonio di noi tutti, per questo li difendiamo come interni al lungo e tortuoso cammino rivoluzionario» (da Rosso n.15).
In trecento accompagnarono la salma di Luca Mantini sperimentando le nuove tecnologie a disposizione della sbirraglia. Il video tape, che proprio in quel periodo Pio Baldelli e Claudio Popovich iniziavano a spiegarci come utile strumento della controinformazione di classe per registrare inchieste e comportamenti di lotta, schedava uno per uno i partecipanti al funerale. Riprese che non avevano pietà della morte e del dolore e che anticipavano il futuro: quello di un apparato poliziesco dedito a entrare in ogni meandro della nostra esistenza per trasformarlo in legame associativo. Niente di fronte alla lucida decisione di Anna Maria Mantini di dare continuità alla scelta del fratello fucilato: “lotta armata fino alla vittoria”
La morte di Luca generò uno sconquasso. Mantini era un militante riconosciuto, nessuno poteva parlare di “infiltrato” o intonare la cantilena del “a chi giova”. Luca aveva militato per oltre due anni in Lotta Continua, era stato arrestato a Prato in un rastrellamento al termine di un comizio del Msi nella campagna elettorale della primavera ’72 e condannato a due anni e otto mesi, nell’onda nera della repressione orchestrata dal procuratore della Repubblica di Firenze Calamari: oltre sessanta arresti, migliaia di denunce, decine di anni di galera contro gli antifascisti – una campagna elettorale conclusasi con l’assassinio dell’anarchico Franco Serantini lasciato morire senza cure nel carcere di Pisa, dopo essere stato pestato e arrestato il 5 maggio per essere sceso in piazza contro il comizio del Msi.
Luca ha perseguito le proprie idee: il tentativo di dotare il proletariato italiano di un organizzazione simile alle Pantere nere. Per Luca la lotta armata non era il fine, era il mezzo attraverso cui l’autonomia operaia e proletaria, e con essa i dannati della terra, aprivano varchi e spazi per la loro iniziativa, per la rivoluzione. La struttura di lavoro in cui militava e che aveva fortemente voluto era il Collettivo Jackson. L’obiettivo primario che si era posto era quello di rompere l’isolamento delle lotte dei detenuti a Firenze. La solidarietà mostrata in città nei confronti della rivolta di febbraio aveva mostrato la fondatezza del suo impegno.
L’esecuzione di piazza Alberti segnò una linea di non ritorno in città. Una linea difficilmente attraversabile. Il Jackson rivendicò, senza mezzi termini, la figura dei compagni assassinati e di quelli arrestati, e la consequenzialità tra militanza comunista e azione di esproprio. Le forze dello Stato usarono l’azione come molla per setacciare la nascente area dell’autonomia. L’antiterrorismo, che presto diverrà il Servizio di Sicurezza diretto da Santillo, si insediò in città. Perquisizioni, interrogatori, pedinamenti… L’impatto della repressione provocò il suo effetto principale: quello di separare, dividere, far diffidare l’uno dell’altro azzerando le precedenti comunanze. La cultura del sospetto fece il resto, alimentata da dichiarazioni, «la rapina era stata decisa in assemblea», che confondevano l’azione con la rivendicazione della legittimità del «prendersi i soldi dove i capitalisti li depositano contro di noi». La storia dell’autonomia pareva già finita prima di nascere, stritolata dalla relazione autonomia e lotta armata.
L’effetto principale non fu quello, peraltro rilevante, di sparpagliare chi provava ad aggregarsi, ma quello di funzionare da freno per rotture che parevano imminenti come quella interna a Lotta Continua. Se la prospettiva era quella dei NAP tanto valeva rimanere all’interno di un gruppo che, su scala locale, garantiva un sufficiente radicamento per l’esercizio della forza in chiave antifascista e contro le gerarchie di scuola e di fabbrica.
La paghi la Sip? Nop!
La fine del 1974 segnò l’avvio di una delle più formidabili risposte all’uso capitalistico della crisi: il movimento dell’autoriduzione delle bollette Enel e Sip. I comitati territoriali crescono da Varlungo a Sesto Fiorentino, interessando ogni quartiere. In ogni comitato si crea una dialettica nuova: vecchi militanti dei gruppi e nuove soggettività autonome discutono su come organizzarsi. In alcuni casi, come a Santa Croce, per l’attività del comitato è fondamentale il banchino. Viene piazzato davanti alle poste di via Pietrapiana, il secondo ufficio per ampiezza in città, e intercetta, con la proposta e i moduli dell’autoriduzione, chi va a pagare le bollette. Il banchino fa lo stesso orario dell’ufficio e nel “comitato” militanti dei gruppi e dell’autonomia lavorano fianco a fianco. Il terreno d’azione comune è quello della riappropriazione, dell’esercizio del contropotere: la decisione dal basso di quanto pagare sulle tariffe, di che percentuale del salario destinare alle bollette. A Sesto, per fare un altro esempio, per la diffusione dell’autoriduzione vengono utilizzate le forme di organizzazione già esistenti: dalla rete di delegati di fabbrica ai comitati di caseggiato, dalle sedi politiche e sindacali alle piazze. La mobilitazione proletaria vede protagonisti operai e casalinghe, pensionati e artigiani, e impedisce all’Enel di procedere agli stacchi – la società non era ancora informatizzata. Vengono organizzati turni di guardia, strada per strada, per impedire l’accesso ai furgoncini Enel che portano le squadre addette al distacco. Una vicenda che andrà avanti per un anno, con la crescita del dibattito nei comitati: si parla di crisi e di prospettiva politica. I gruppi della sinistra extraparlamentare sono oramai dominati dall’autonomia del politico, per cui tocca a questi organismi di massa, ai comitati per l’autoriduzione, dare indicazioni alla classe sulle forme di lotta da mettere in pratica.
Uno degli interpreti migliori della lotta per l’autoriduzione è il Comitato Proletario di Casellina.
Pagherete caro, pagherete tutto
È un moto insurrezionale quello che si scatena in tutt’Italia contro l’uso sistematico dell’omicidio politico da parte dei fascisti e dello Stato. Quattro morti in tre giorni, tra il 16 e il 18 aprile 1975. Le giornate d’aprile vedono alla guida del movimento una nuova generazione. A Firenze il corteo, indetto da tutta la sinistra extraparlamentare, si scioglie per attaccare la sede del Msi. I diversi servizi d’ordine si dirigono verso piazza Indipendenza, dove in mattinata era già stato caricato lo spezzone staccatosi dal corteo degli studenti medi. La polizia difende gli accessi alla piazza. Gli scontri sono immediati e divampano in tutto il centro storico, particolarmente intensi nel quartiere di San Lorenzo. Alle 20,00 le segreterie di Lotta Continua, Partito di unità proletaria e Avanguardia operaia comunicano: «Andate a casa, è stata una grande giornata antifascista», ben pochi raccolgono l’invito. Questa volta alla polizia è difficile fare i soliti arresti da rastrellamento: le strade sono piene di gruppi organizzati, la giornata non è finita. Alle 21.30 c’è una manifestazione indetta in piazza San Marco dall’Anpi, a cui aderiscono PCI e PSI. Alla fine del comizio i compagni presenti cercano di far partire un corteo verso piazza Indipendenza, ma il servizio d’ordine del PCI si frappone violentemente e lo impedisce. I compagni tornano alla spicciolata nei pressi di Piazza Indipendenza, si era sparsa la voce, vera, di squadre speciali in azione. Sono gruppi di dieci poliziotti in borghese con i fazzoletti al volto che avvicinano i compagni isolati, li pestano e li trasportano alla vicina caserma della polizia “Fadini”, dove subiscono nuovi pestaggi. Sono quelle squadre che vedranno massicciamente in azione nelle piazze del ’77, responsabili, fra l’altro, dell’assassinio di Giorgiana Masi. In via Nazionale si raggruppano un centinaio di compagni, militanti della sinistra rivoluzionaria, ma anche della Casa del popolo del vecchio mercato, stanchi di respirare l’aria dei lacrimogeni e di assistere alle scorrerie delle squadrette. Vicino alla sede del Movimeno Sociale Italiano, un gruppo di nove agenti, una squadra speciale della polizia, sta massacrando di botte con bastoni e calci di pistole un compagno. «Fascisti assassini», viene gridato dai compagni. In quel momento il militante autonomo Francesco Panichi scende da una Fiat 500 convinto, come tutti gli altri, di essere di fronte a un pestaggio operato da militanti fascisti. Dalla squadra partono i primi colpi di pistola contro i compagni che avanzano e che si sparpagliano. L’agente di Ps, Orazio Basile si inginocchia, prende la mira con la sua calibro nove e fa fuoco. Rodolfo Boschi viene centrato alla nuca e cade ucciso. Basile spara ancora. Ferisce Panichi a un braccio e un altro compagno che, colpito a una gamba, riesce ad allontanarsi.
Al processo che ne seguirà, l’agente Basile sarà condannato a otto mesi con la condizionale per «omicidio colposo in eccesso di legittima difesa». In primo grado dieci anni di reclusione saranno inflitti a Francesco, imputato di reati minori.
Lo scontro è con il PCI. Sabato 19 aprile piazza Signoria è strapiena per la manifestazione antifascista. Lo scontro in piazza divampa subito: il servizio d’ordine del PCI schierato nella sua interezza non riesce a fermare l’onda. Il tappo salta alla svelta, il corteo autonomo trascina tutta la sinistra rivoluzionaria e una parte della base comunista che non ha visto nessuna risposta all’omicidio di un suo militante per mano della polizia. In ventimila sfilano per tutto il centro sciogliendosi in San Frediano.
Le giornate d’aprile innescano una crisi verticale nell’organizzazione cittadina di Lotta Continua. Un duro scontro politico si protrae per qualche mese, concludendosi con l’affermazione della sinistra interna, parte della quale sembrava già fuori dal gruppo. Si ritrovano fuori dalla gestione della sede militanti storici che hanno da sempre rapporti diretti con la segreteria nazionale. Questa situazione produce una maggior presenza di Lotta Continua nelle lotte sociali con l’obiettivo di organizzare la sinistra nelle scuole, nei territori, nelle fabbriche. In quei mesi Lotta Continua, in particolare il suo servizio d’ordine, verrà tacciata da parte degli altri gruppi di «deriva autonomista», simboleggiata dai fischi a Lama (6 novembre ’75) e dal corteo dei medi del 12 dicembre: Lotta Continua e gli autonomi sciolgono lo spezzono del cosiddetto cartello (Federazione giovanile comunista italiana, Partito d’ unità proletaria, Avanguardia Operaia).
L’area dell’Autonomia diviene un luogo di ricerca e d’incontro dei diversi processi di liberazione. Femministe, creativi, tante controculture passano, guardano, spesso se ne vanno per la loro strada fino alle manifestazioni successive. Dentro, fuori, ai bordi dell’area dell’Autonomia, come sottolineava, nel suo sottotitolo, un libro dell’epoca, “Diritto all’odio”.
Le giornate di aprile rappresentano l’inversione del passaggio segnato nel ’69 dal movimento ai gruppi. Finalmente si fa il percorso contrario: dai gruppi al movimento. Il 1975–77 è un biennio insorgente: appropriazione e illegalità di massa, autogestione dello scontro, tentativi di centralizzazione dal basso delle esperienze ne sono i tratti distintivi.
Il nodo dell’organizzazione
Nel 1976 nascono anche a Firenze i circoli del proletariato giovanile e organizzano autonomamente la Festa della Primavera nel pratone di via Morandi (alle Tre Pietre nel quartiere di Rifredi). Il proletariato giovanile sviluppa mille forme d’appropriazione: il sabato pomeriggio lo shopping è collettivo e non si limita più a fare il pieno di libri alla Feltrinelli, da tempo zona franca. Non c’è bisogno di complesse operazioni politiche per rifornirsi di maglie, giubbotti, pantaloni. Per gli alimentari non è neppure il caso di scomodarsi: basta andare in tre per uscirsene con i carrelli pieni. La Standa di via Pietrapiana insegna. Ancora Brecht: «Dato che noi altri avremo fame se ci lasceremo derubare verificheremo che tra il pane buono che ci manca e noi solo un vetro sta […] dato che laggiù ci sono case mentre senza tetto ci lasciate decretiamo ci entreremo e subito, stare nelle tane non ci garba più».
Si diffondono e moltiplicano le forme creative di riappropriazione: dai meccanismi di blocco dei contatori dell’Enel (pellicole e altro inserite per non far girare la rilevazione del consumo) alle piccole chiavi per aprire i telefoni e infilare una cordicella chiamando senza gettoni; la chiavetta della Simmenthal, multiuso come il coltellino svizzero, buona anche per «spadinare» le serrature, non sofisticate, delle autovetture di allora.
Pratiche che si generalizzano tra i giovani proletari delle periferie e gli studenti medi: autonomia come negazione dell’ordine, della gerarchia, della divisione sociale del lavoro; autonomia come piccoli gruppi in costante moltiplicazione. Ogni quartiere ha una piazzetta, un giardino, una casa del popolo in cui ritrovarsi, sapere cosa succede, decidere dove andare, partire per fare le scritte, ammorbidire qualche aguzzino, preparare la manifestazione successiva.
Una generazione che cresce con quella che si potrebbe definire «cultura di strada». Abitudine al confronto, anche fisico, a entrare e a tirarsi fuori dai «guai», a misurare la vita nella sua drammaticità, capendo quanta violenza nasconde l’assenza di soldi e quanta poca ne contengano qualche cazzotto ben assestato a chi produce simili situazioni. Esperienze che fanno crescere senza nessun tipo di soggezione verso chi comanda, ma anche verso l’intellettuale che si sente in dovere di spiegare com’è fatto il mondo.
Dalla primavera/estate del 1976 è questa la domanda che attraversa le aree militanti:“È possibile trovare una sintesi a queste forme di radicalità che non siano la piazza dei cortei?”. La rottura prolungata interna a Lotta Continua si era conclusa; dal Collettivo per il potere operaio nasce Senza Tregua; il gruppo originario di Rosso rimane un po’ isolato, si affermano poli d’attrazione nelle scuole superiori e nel territorio dove ormai il rapporto era “con quelli , di volta in volta, di Vingone, di Sesto, delle case minime…”
Il tentativo che venne messo in piedi fu quello della costituzione di un Comando Territoriale. Un ambito permanente di confronto e di unità d’azione sulle campagne politiche che si decide di organizzare contro la Democrazia Cristiana, le immobiliari, il lavoro nero, il sostegno alle lotte in corso.
Era impressionante il numero dei soggetti coinvolti e la similitudine delle questioni affrontate, anche il rapporto politico/militare è naturalmente concepito in una dinamica di contropotere che allontana ogni forma di feticismo sugli strumenti utilizzati. C’era la convinzione di essere alla vigilia di una stagione esaltante.
Ma tutto questo non bastò, il processo si infranse contro le miserie politiche di chi era convinto di essere già “l’organizzazione che manda i suoi rappresentanti agli incontri”, quasi un revival degli intergruppi della sinistra extraparlamentare… Lo scenario muta e favorisce il ritirarsi di ciascuno nella propria situazione o, tutt’al più, per quanto riguarda le periferie, di spostarsi in massa nel centro cittadino, tanto Piazza Santa Croce era il punto di riferimento generale.

Il ‘77, in anticipo
La fine del 1976 anticipa il grande sommovimento. Le lotte ad Architettura e i blocchi ripetuti della mensa universitaria per mantenerne l’accesso libero, indipendentemente dal tesserino universitario. Militanti del PCI circolano tra le file dei poliziotti, indicano i «promotori» dell’occupazione della mensa universitaria di Sant’Apollonia, invitando i questurini agli arresti che puntualmente avvengono. Il Collettivo studenti proletari della mensa e il Comitato di agitazione di Architettura (due espressioni autonome, sostanzialmente interne al contesto organizzativo di Senza Tregua) accettano l’innalzamento dello scontro politico e rispondono con l’occupazione della facoltà e l’autogestione della mensa. Lo stesso clima si respira nelle strade, si può dire sia già il ‘77, tanto che l’ultimo dell’anno è caratterizzato dall’occupazione di una chiesa sconsacrata in via San Giuseppe, sempre nel quartiere di Santa Croce; da ripetute autoriduzioni nei cinema; da feste proletarie in spazi occupati (via della Loggetta) e da una generalizzata caccia al lusso di cui fecero le spese soprattutto i proprietari di automobili di alto livello.
A cielo aperto, in piazza Santa Croce. Un bel superamento del concetto di sede, di quei fondi e cantine fumosi che ricordano gli sceneggiati TV che ricostruiscono le attività della carboneria risorgimentale. Una piazza immensa e bellissima, con la cattedrale in stile gotico: l’architettura dell’assalto al cielo, che viene dopo i secoli bui del feudalesimo! Gli scalini non bastano, ogni giorno è un pienone, la sera un blocco stradale causato da chi si vuol fermare. La dimensione è quella del territorio liberato. Un processo di autovalorizzazione che non riuscirà a darsi una centralizzazione organizzativa, ma che ben rappresenta un’ esplosione di relazioni, una ricchezza sterminata di rapporti, di conoscenze cooperanti. Un’esplosione che si chiamava bisogno di comunismo, intendendo con questa espressione l’incapacità del capitalismo di soddisfare un livello superiore di relazioni non riconducibile alla sfera del consumo o alla mera emancipazione dalla miseria. In piazza si viveva e si affrontava vita e militanza. Si affrontavano tutte le situazioni: quelle della lotta e quelle dell’esistenza, dell’iniziativa politica e del reddito per campare. Non c’era un giorno uguale all’altro, non c’era nessuno che poteva far finta di essere al di sopra delle contraddizioni che si viveva. Era il tentativo di cercare risposte al politico e al personale sottraendo la vita al dominio del lavoro.
Questa umanità non sfugge all’apparato del PCI. Gli autonomi che si vedono in piazza Santa Croce sono oggetto della prima lista di proscrizione passata dal partito, nello specifico la Casa del popolo Buonarroti, alla Questura.
Il 31 gennaio parte il blocco della didattica nelle facoltà umanistiche e le prime manifestazioni di massa. L’accelerazione è quotidiana, una macchina che lavora ininterrottamente tra occupazioni, proteste, cortei, scontri. Siamo in pieno Settantasette. Non si capiva che si stava vivendo un tempo straordinario e non ordinario. Si pensava che quel livello di insorgenza fosse endemico e non eccezionale. È su questo che vengono costruite le ipotesi.
Facoltà occupate; case occupate non più solo come appartamenti ma come spazi sociali; continui cortei con le vetrine delle boutique che cadono giù; le piazze piene, Santa Croce e la più studentesca San Marco. Le interminabili assemblee sul carattere che doveva assumere il corteo: «pacifico, di massa, autodifeso», la formula buona per tutte le mediazioni. Quando non si arrivava alla mediazione “erano botte”. Segno di una dialettica in via di esaurimento tra le anime del movimento. Troppo pesante il livello d’aggressione dello Stato, i carri armati all’Università di Bologna. Gli arresti che si moltiplicavano anche a Firenze, per detenzione e porto di ordigni incendiari lungo le strade della manifestazione, o in preparazione di esse, e per i motivi più svariati. A Firenze prende il via anche una sperimentazione mai annunciata: l’utilizzo dei vigili urbani in ordine pubblico con funzioni di polizia che risponde direttamente, attraverso le gerarchie del Comune, al PCI.
La pratica della riappropriazione, la spesa politica, gli espropri di beni, sono gli elementi principali d’identità dell’Autonomia. Illegalità di massa significava che i comportamenti non si fermavano alla «legalità», la superano e la ridefinivano fino alla soddisfazione dei bisogni. Non si contratta, s’impone. Non si chiede si «decreta».
Autonomia e lotta armata
Questo era il contesto operativo. Viene applicato sia che si tratti di ronde contro il lavoro nero e le catene del lavoro a domicilio, sia quando si tratta di affrontare, dal settembre del ’77 massicciamente in piazza San Marco, il dilagare dell’eroina e del suo spaccio.
Ronde contro il lavoro nero, spese proletarie, pranzi e cene gratis nei ristoranti economicamente infrequentabili rappresentano una prassi consolidata nel movimento. Queste azioni divengono anche il terreno d’azione di articolazioni organizzative di Prima Linea, organizzazione comunista combattente che si forma proprio nel ’77.
Prima Linea nasce all’interno delle lotte. I suoi militanti, a differenza di quelli delle Brigate Rosse, non scelgono, in questa fase, la clandestinità. Mantengono una partecipazione, molte volte anche un ruolo, nel movimento. A Firenze Prima Linea rappresenta realtà importanti del mondo universitario e dell’organizzazione dei fuori sede. I militanti di Prima Linea non sono clandestini, solo l’attività armata è clandestina. Il loro schema organizzativo è comunque leninista: i gruppi di fuoco, a cui sono affidate le azioni strategiche, le squadre proletarie di combattimento, come elemento di intermediazione dialettica fra le funzioni dell’attacco e del lavoro di massa. Prima Linea si rapporta infatti alle realtà dei comitati, cercando di utilizzarli come cinghia di trasmissione e bacino di reclutamento.
La differenza, in quel periodo, fra Prima Linea e le Brigate Rosse (la loro concezione di guerra privata fra il proprio apparato militare e quello dello Stato, l’uso in dosi massicce dell’omicidio politico) è enorme, sia per cultura politica che per intenti. Ma questa distanza è colmata da altri fattori. Il primo sta nel rendere «strategico» l’apparato armato, la colonna o il gruppo di fuoco: il protagonista, le cosiddette masse servono solo come sfondo, tutto il contrario del bagaglio storico dell’autonomia: «l’emancipazione dei lavoratori sarà l’opera diretta dei lavoratori stessi, o non sarà affatto». Nella loro comune logica le azioni armate sono «propedeutiche», hanno cioè lo scopo di introdurre e preparare, come se i rapporti di dominio e sfruttamento non potessero essere compresi, immediatamente e direttamente da chi li subisce. L’organizzazione combattente «esemplifica», quindi non si pone il problema di modificare i rapporti di forza generali, ma di dare l’esempio di cosa sarebbe giusto fare alla classe degli sfruttatori condannando uno di loro. E ancora fornisce «sintesi», fusione di diversi elementi essenziali e caratteristici; risultato di tale fusione è che il mezzo diventa il fine da affermare.
Le tre dita alzate, la lotta proletaria che non chiede ma prende, il simbolo della P38, la «lotta armata che ci parla di comunismo», rappresentavano la determinazione a non fermarsi di fronte a niente, a rimuovere qualsiasi ostacolo al processo di liberazione. Una volontà anche di fuoco che si esprime in modo massiccio nei giorni successivi al 18 ottobre 1977 dopo l’assassinio, nel carcere di Stammhein in Germania Federale, dei militanti della Rote Armee Fraktion, Andreas Baader, Gudrum Enslin e Jean Carl Raspe. Pochi giorni dopo, mercoledì 26 ottobre, la polizia impedisce il concentramento di un grosso corteo organizzato per rivendicare la liberazione di tre compagni arrestati nei mesi precedenti a Firenze, determinando una giornata di guerriglia, al cui termine, oltre a decine di arresti, il giudice Tindari Baglioni impone la chiusura dell’emittente Controradio con l’accusa di aver diretto gli scontri durante la manifestazione del movimento fiorentino.
Non molliamo
Ma i tempi cambiano velocemente. Bisognerà arrivare al 7 aprile 1979, e ai conseguenti divieti sistematici, per far capire a tutti che l’orizzonte è blindato e non se ne parla nemmeno di manifestare contro la repressione. L’11 aprile 1979 viene impedito ogni accesso a piazza Santa Croce, luogo del concentramento: non ci sarà la forza e la logistica per rovesciare il divieto. Bisognava reagire, riprendere le file del dibattito, si stampa un numero unico: “autonomia diffusa”, in cui si comincia a declinare in modo nuovo il tema della centralizzazione organizzativa, necessaria sia per difendere i percorsi della soggettività autonoma che per accompagnare i comportamenti autonomi che trovano nei processi di ristrutturazione una loro nuova diffusione. Si sceglie di serrare le fila, di ripartire dalla forma del collettivo territoriale e dalla proposizione comune sulle tematiche generali. La parola d’ordine era “No alla clandestinità. né per amore né per forza”. La normalizzazione autoritaria non passa con gli applausi proletari, si continua a lottare. Il primo passaggio organizzativo avviene dai quartieri di Santa Croce e dell’Isolotto, i due organismi territoriali adottano una sigla comune (Collettivi Proletari Autonomi) che rappresenta una forma di identità politica anche per fuorisede, studenti medi e altre situazioni territoriali. Il filo che li lega è ancora quello della riappropriazione. Ingressi gratis ai concerti, che vedono il battesimo di nuovi giovani impresari, che poi continueranno a spartirsi il grosso del business, diretta espressione di una gioventù del PCI che comincia a chiedere il conto dell’ingrato lavoro di controllo a cui è chiamata: per garantire gli incassi dei concerti, il bastone dell’ingente schieramento poliziesco e la carota di qualche centinaio di biglietti offerti a chi dovrebbe placare il movimento. Per il concerto di Peter Gabriel gli scontri cominciano nel pomeriggio e finiscono a tarda serata, con il pratone delle Cascine illuminato da centinaia di bengala sparati dai carabinieri. “Perché si deve pagare la musica suonata nei parchi pubblici?”
Gli studenti fuori sede sono in lotta contro i disservizi e gli sfratti selettivi alla casa dello studente, che viene occupata contro le gerarchie del PCI dell’Opera universitaria.
C’è la campagna, finalmente vincente, contro gli aumenti del trasporto pubblico urbano. L’azienda, Ataf, decide su indicazione della giunta Gabbugiani il rincaro dei biglietti e degli abbonamenti per studenti e pendolari. La risposta è semplice: non si paga e si sabota. I tram portano in giro per la città le gettoniere fuori uso affiancate dai volantini della protesta.
Un progetto di ricomposizione, che sfugge alla paralisi politica dello guerra Stato-Brigate Rosse, attorno ai comportamenti autonomi di chi è costretto a pagare i costi della crisi.
Per il PCI gli autonomi sono nemici mortali: al duo di magistrati speciali, Vigna&Chelazzi, il compito di tappare la bocca a questa scomoda area. Il PCI fa da sponda all’azione persecutoria, creando l’indispensabile consenso politico e sociale. Nelle fabbriche e nelle case del popolo le uniche assemblee che vengono fatte, spesso proprio con Vigna, sono contro il terrorismo. Assemblee in cui viene ben spiegato che il problema non è tanto quello di arrestare i «pesci», bensì di prosciugare l’acqua in cui nuotano. E l’acqua è rappresentata da chi non accetta la politica dei sacrifici, da chi continua a reputare «la proprietà privata un furto» della ricchezza prodotta da tutti.
Antiterrorismo e ristrutturazione sociale marciano di pari passo. Il loro obiettivo è disintegrare un’area politica per contenere la reazione proletaria ai processi di riorganizzazione della macchina produttiva e dell’assetto urbano. Il PCI cerca delatori capaci di rimpolpare le accuse che la procura della Repubblica puntualmente istruisce contro le avanguardie autonome, con l’accusa di aver partecipato a «bande armate variamente denominate». Nei luoghi di lavoro i militanti del PCI e le burocrazie sindacali impediscono fisicamente a chi dissente di parlare nelle assemblee. Chi ci prova viene tacciato di «fiancheggiamento» al terrorismo e segnalato a questura e gerarchia aziendale. I servizi d’ordine sindacali hanno il compito di bloccare l’accesso «agli autonomi» ai cortei negli scioperi generali.
La politica del Comune interpreta al meglio la linea dell’”unità nazionale”: i proletari continuano ad essere espulsi dai quartieri storici del centro a vantaggio delle immobiliari e della corporazione dei commercianti. Vengono costruiti ghetti periferici come il quartiere delle Piagge.
Sollicciano doveva essere un modello di carcere giudiziario, destinato a detenuti non «definitivi», in linea con gli intendimenti della riforma giudiziaria del 1975. Nel corso dell’opera diventa l’ennesimo supercarcere, dotato di tutti i crismi della massima sicurezza. I costi si moltiplicano, i costruttori, i Pontello, ringraziano e incassano.
Radio Morgan
È il processo che porterà ad aprire, nel settembre del 1980, Radio Morgan, la filibusta dell’etere. L’esperienza della radio è un tentativo di varcare i confini classici del lavoro politico dei collettivi autonomi, per muovere una critica radicale ai ritmi della città: «Le città in cui viviamo assomigliano molto a dei carceri sociali, non sono solo gli spazi politici a essere chiusi. C’è proprio un’impossibilità a esprimere socialità, a produrre movimenti culturali autonomi, momenti differenti da quelli imposti dal mercato culturale».
La radio assume funzione di tramite organizzativo tra i collettivi proletari autonomi e le lotte, le occupazioni che si esprimono nelle scuole superiori, nell’università, nelle periferie e nei comuni limitrofi a Firenze. È la radio a organizzare la solidarietà proletaria in occasione del terremoto del 1980 in Irpinia e a rappresentare il punto di riferimento per la campagna internazionalista in occasione dello sciopero della fame a oltranza di Bobby Sands e dei rivoluzionari irlandesi.
Dare comunicazione diretta di quanto avviene, sperimentare nuovi linguaggi, organizzare momenti musicali con quanto esce dalle viscere di una città resa grigia come il cemento dalla gestione riformista.
Ma Radio Morgan non doveva proseguire le sue trasmissioni. Ai poteri forti che volevano imporre il vagabondaggio sulle frequenze dell’etere, si rispose in modo oculato, anticipando quella che di lì a poco tempo sarebbe stata la liberalizzazione delle frequenze da 104 a 108 Mhz (frequenze in concessione al ministero della Difesa, riservate a casi di calamità naturali – ma non utilizzate nemmeno in occasione del terremoto in Irpinia – e adoperate in realtà dalla Rai per la gestione di ponti mobili). La radio iniziò a trasmettere su 105,500 Mhz, come altre radio facevano già in altre città italiane. Venne impugnata l’ordinanza di chiusura del Circolo delle costruzioni al Tar. Il Tar, acquisendo una perizia dello stesso Circolo da cui si evinceva che le trasmissioni di Radio Morgan non disturbavano nessuna altra emittente, autorizzò in un primo momento le trasmissioni. Poi, lo stesso Tar decretò la chiusura della radio.
I magistrati Vigna&Chelazzi non si accontentavano più delle perquisizioni a scadenza mensile contro i redattori della radio. Dopo un blitz con trenta perquisizioni nel mese di novembre , il 16 febbraio ’81 ordinarono un’azione in grande stile. Perquisizione alla sede della radio, che viene saccheggiata e devastata. Nello stesso momento la stragrande maggioranza dei soci della cooperativa che deteneva la proprietà dell’emittente vengono prelevati dalle proprie abitazioni, tutte perquisite, e tradotti in questura. Il mandato è un capolavoro di diritto: inquisiti perché hanno mantenuto rapporti commerciali con persone sospettate di appartenere a un’associazione a delinquere!
Nel movimento, nel 1981, nella Firenze gestita e governata dal PCI si «deve rendere impossibile l’iniziativa di massa contro lo Stato del lavoro nero, delle carceri speciali, dei licenziamenti, della democrazia blindata che militarizza il territorio mentre dà via libera al fronte dell’illegalità di Stato degli speculatori immobiliari, degli spacciatori di eroina, degli “imboscatori dei prodotti”, dei ladri del salario proletario, dei fascisti che raccolgono le firme per la pena di morte».
Dopo un lungo braccio di ferro alla fine di maggio Radio Morgan chiude. Una sconfitta pesante. Un blocco dei processi d’organizzazione autonoma.
APPELLO
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