L’eccidio di Avola
Il 2 dicembre 1968 il governo del futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone stava per cadere, e stava per tornare al potere la corrente cosiddetta “dorotea” della Democrazia Cristiana, con Mariano Rumor, che avrebbe di nuovo spostato verso il centrosinistra gli equilibri del partito. Ma l’Italia arrivava da una stagione di intense proteste studentesche, che sarebbe stata seguita l’anno successivo dal culmine delle lotte operaie e dall “autunno caldo” delle proteste operaie. Quel giorno ad Avola, in Sicilia, fu organizzato un grande sciopero generale, in sostegno delle rivendicazioni dei braccianti agricoli: alla fine di quella giornata, due manifestanti sarebbero morti, uccisi dalla polizia.
La battaglia sindacale dei braccianti per il rinnovo contrattuale era iniziata fin dal settembre. Nella provincia di Siracura e ad Avola il 24 novembre fu dichiarato lo sciopero generale dei lavoratori agricoli: chiedevano di aumentare la paga giornaliera, eliminare le gabbie salariali (cioè quei meccanismi per cui la paga per lo stesso lavoro viene modificata e proporzionata in base ad altri parametri, come il costo della vita) e introdurre una commissione che controllasse il trattamento a cui erano sottoposti i braccianti.
La provincia di Siracusa era divisa in due zone agricole: la prima, denominata A, che comprendeva i comuni della zona nord, quelli più ricchi; la seconda, B, comprendeva i comuni dell’area meridionale della provincia, quelli più poveri.
Nelle due zone erano applicati differenti orari di lavoro (7 ore e 30 contro 8 ore) e differenti salari (3.480 lire al giorno contro 3.110). La lotta dei braccianti poneva, quindi, una elementare rivendicazione egualitaria.
Ugualmente, per quanto riguardava la questione delle commissioni paritetiche di controllo, si trattava di chiedere l’attuazione dell’accordo, sottoscritto in precedenza dalle parti sociali e rimasto lettera morta per le resistenze e l’arrogante rifiuto degli agrari.
Dopo diversi giorni di sciopero e blocchi stradali, il sindaco socialista di Avola provò a mediare con il prefetto perché venissero organizzate delle trattative sindacali, a cui però gli agrari non parteciparono polemicamente.
Lunedì 2 dicembre 1968, Avola, sciopero generale. Uffici, banche, negozi, scuole, poste, cantieri, bar, circoli, è tutto fermo a causa dello sciopero a sostegno della lotta dei braccianti per il rinnovo del contratto di lavoro.
Gli studenti in corteo raggiungono la statale 115, dove i braccianti hanno organizzato blocchi stradali fin dalla notte. Verso le 11 arrivarono sul posto furgoni e camionette della celere, il reparto della polizia che si occupa di ordine pubblico, il prefetto, D’Urso, comunica al sindaco socialista di Avola, Giuseppe Denaro, l’imminente intervento della polizia da Catania, per rimuovere i blocchi. La situazione precipita: inutile la mediazione del sindaco con il prefetto.
Ore 14, i commissari di polizia, con indosso la sciarpa tricolore, ordinano la carica: tre squilli di tromba e inizia il lancio dei lacrimogeni. I braccianti cercano riparo; alcuni lanciano sassi. Il vento spinge il fumo dei lacrimogeni contro la stessa polizia: è allora che gli agenti aprono il fuoco contro i braccianti. Un inferno che durerà circa mezz’ora.
Due braccianti, Giuseppe Scibilia, 47 anni, e Angelo Sigona, 25 anni, vengono uccisi. Scibilia, soccorso dai suoi compagni, dirà: “Lasciatemi riposare un po’ perché sto soffocando”.
Verrà trasportato in ospedale su una 500 ma per lui non ci sarà niente da fare. Oltre ai due morti, si conteranno tra i braccianti 48 feriti, tra cui alcuni gravi.
Secondo le testimonianze, furono raccolti due chili e mezzo di bossoli, portati il giorno successivo alla Camera dal deputato comunista siciliano Nino Piscitello.
Per la prima volta, dopo l’avvio della stagione dei governi di centro-sinistra, la polizia uccide dei lavoratori durante uno sciopero.
Per il giorno successivo venne dichiarato uno sciopero dei braccianti in tutta Italia, mentre già la sera del giorno della sparatoria il Partito Comunista e quello Socialista fecero grandi pressioni sulla DC, tanto che nella notte il ministro dell’Interno Franco Restivo convocò agrari e sindacalisti per firmare un contratto collettivo che accogliesse le loro richieste. I fatti di Avola generarono proteste e scioperi in tutta Italia, e portarono in molti a chiedere allo Stato di disarmare la polizia durante le proteste operaie.
Il fatto che la polizia spari su dei braccianti che rivendicano un aumento salariale minimo e, soprattutto, un trattamento egualitario nell’ambito della stessa provincia, viene interpretato come dimostrazione della non riformabilità dello stato e della sua intrinseca “ferocia di classe”.
Il salto di qualità dalle cariche della polizia e dalle inchieste della magistratura contro gli studenti all’uso delle armi da fuoco contro gli scioperanti, viene percepito dal movimento come una scelta di chiusura drastica da parte del governo e dei poteri costituiti: un richiamo all’ordine, la scelta di arrestare quel fiume in piena della contestazione che aveva, ormai, ampiamente superato i cancelli delle università per diffondersi nei posti di lavoro, nelle scuole, nell’intera società.
Tratto da Lotte Operaie n. 9 gennaio 1969
I braccianti del siracusano si trovavano in sciopero dalla metà del mese di novembre 1968. Rivendicavano condizioni di lavoro più umane; il rinnovo del contratto di lavoro (1). Lunedì 2 dicembre 1968, mentre manifestavano in corteo lungo le vie di accesso ad Avola, vengono presi a colpi d’arma da fuoco dalla polizia, che in grandi forze era accorsa da tutta l’isola. Due giovani braccianti vengono uccisi, mentre altri cinquanta restano feriti, dei quali alcuni molto gravemente.
È un altro anello che si aggiunge alla lunga catena di eccidi, commessi dalla polizia borghese contro i braccianti agricoli del meridione!
La strage ha suscitato una profonda indignazione nella classe operaia. Benché i partiti della borghesia e della piccola-borghesia abbiano cercato di disapprovare l’episodio di sangue scindendo ipocritamente l’operato della polizia da quello dello Stato, per scagionarsi dalla loro responsabilità politica, gli operai hanno esternato in tutta Italia la loro viva indignazione. In tutte le città i lavoratori hanno dato vita spontaneamente a scioperi prolungati e a manifestazioni di piazza. A Milano si sono avute interruzioni del lavoro e manifestazioni di solidarietà in tutte le maggiori fabbriche. A Genova lo sciopero è durato, in alcuni settori, tutta la giornata. Lo stesso è avvenuto a Napoli; a Mestre, a San Donà di Piave, ove gli operai degli stabilimenti Papa e Kriza hanno scioperato in segno di solidarietà per più di 24 ore.
Ovunque gli operai hanno reagito con energia, senza indietreggiare di fronte ai massicci apparati polizieschi. Non si sono fatti abbindolare dalle lacrime di coccodrillo della democrazia piccolo-borghese, invocante il rispetto della vita umana in nome dell’autorità dello Stato.
I braccianti agricoli del meridione sono stati sempre trattati dallo Stato dei capitalisti e dei proprietari fondiari come carne da macello. Dalla strage di Portella delle Ginestre ad Avola si potrebbero citare centinaia e centinaia di episodi sanguinosi, di eccidi, tutti legati ad una sola logica; tutti ubbidienti alla stessa logica: la repressione sistematica di ogni azione operaia.
L’agitazione dei braccianti di Avola era più che legittima, profondamente giusta: si lottava per un pezzo di pane. L’indigenza e le misere condizioni di vita dei braccianti meridionali sono fatti cronici (2). Su 300 giornate lavorative all’anno un bracciante riesce a lavorare in media, quando va bene, solo 150 giorni. E questo lavoro si concentra in alcuni periodi dell’anno: novembre-dicembre per la semina; giugno-luglio per la raccolta del grano; settembre-ottobre per la vendemmia e la raccolta dell’ulivo. Per il resto dell’anno disoccupazione.
I proprietari fondiari, speculando sull’esuberanza di manodopera, fanno il bello e il cattivo tempo, costringendo i braccianti ad accettare salari più bassi di quelli contrattuali; compiere lavoro straordinario non retribuito; ad effettuare prestazioni gratuite.
Il salario è ovunque basso. Ma oltre ad essere di fame, poiché è saltuario abbassa, nei periodi di disoccupazione, il consumo della famiglia operaia al minimo. Alla nutrizione insufficiente si aggiunge l’angustia dell’alloggio. A Matera, a Sant’Andrea d’Andria, a Monterosso, a Palma Montechiaro e via dicendo le abitazioni delle famiglie bracciantili sono in genere seminterrati di una sola stanza o piccole casupole, dove la vita, in tutti i suoi aspetti (mangiare, dormire, procreare) si svolge in promiscuità con le bestie. La condizione di vita dei braccianti oscilla dunque tra il pauperismo permanente e il livello di sussistenza minima vitale.
Se si considera l’assistenza malattia fornita ai braccianti ci accorgiamo quale profondo divario esiste tra questi e gli altri operai salariati e come tale assistenza si riduce per lo più ad una beffa. Le leggi in vigore tengono conto solo dei lavoratori che risultano iscritti agli elenchi anagrafici. Questi debbono avere un’attribuzione minimo di 51 giornate lavorative all’anno. I lavoratori che non raggiungono questo minimo non hanno diritto ad alcuna prestazione assistenziale. Ad essi bisogna aggiungere un numero considerevole di salariati agricoli, che pur lavorando, non vengono iscritti arbitrariamente agli elenchi anagrafici. Così tanto i primi quanto i secondi, unitamente alle loro rispettive famiglie, perdono il diritto a qualsiasi assistenza. Se ad essi si aggiungono i braccianti depennati dagli elenchi anagrafici si vede bene a cosa si riduce, per uno strato di braccianti, la “tutela contro le malattie”.
Per coloro che usufruiscono della mutua, poiché le indennità giornaliere sono irrisorie, se abitano lontano dai centri abitati non hanno alcuna convenienza a servirsene, perché la spesa di trasporto per raggiungere gli ambulatori supera di norma l’utilità del beneficio assistenziale.
Queste sono le condizioni di vita dei lavoratori agricoli. Perché allora quando i braccianti chiedono pane ricevono piombo? Perché gli interessi dei proprietari fondiari e quelli dei capitalisti sono in contrasto con quelli dei braccianti e i proprietari fondiari ed i capitalisti possono mobilitare la forza armata dello Stato per imporre ai braccianti la loro volontà. Questa è la realtà sociale; che viene nascosta nel concetto di popolo, nel concetto di “interesse nazionale”; è la vera realtà dei rapporti fra le classi che i democratici di tutte le tinte si ingegnano a mascherare con i falsi discorsi sull’imparzialità e sulla neutralità dello Stato, sugli abusi degli organi di polizia e così via dicendo.
Ad Avola la polizia ha sparato sui braccianti perché, quale braccio armato dello Stato dei padroni: dei capitalisti e dei proprietari fondiari; ha ritenuto così di meglio fare gli interessi di costoro. Essa era accorsa ad Avola da quasi tutta la Sicilia appunto per svolgere tale compito. Gli abusi da essa commessi giuocano nella vicenda la stessa parte del fumo quando arde la legna.
I lavoratori della terra queste cose le sanno per lunga esperienza. Ci vuole tutta la faccia tosta dei signori “social-comunisti” per invocare pubblicamente, in nome dei lavoratori, una “polizia democratica”, una “polizia al servizio dei cittadini”. La polizia è un apparato armato del presente Stato democratico. E questo Stato che si spaccia per Stato di tutto il popolo è soltanto ed esclusivamente uno strumento di dominio dell’oligarchia finanziaria, dei capitalisti e dei proprietari fondiari, su tutte le masse salariate.
In questo periodo lo Stato democratico pensa ad addestrare corpi speciali di repressione anti-operaia, da impiegare nel corso degli scioperi e nelle manifestazioni di piazza. Perciò, coloro i quali cianciano sullo “Stato di tutto il popolo”, sulla polizia a “servizio dei cittadini”, ecc. hanno un solo fine: quello di disarmare ideologicamente il proletariato di fronte al proprio nemico di classe.
La strage di Avola è uno di quegli episodi della lotta di classe, che aiuta in modo incomparabile a prendere coscienza della natura dello Stato. I braccianti, gli operai, tutti i lavoratori debbono aprire gli occhi su questo problema fondamentale, respingendo le frottole interessate dei partiti pacifisti, assimilando il principio che senza lotta rivoluzionaria non è assolutamente possibile uscire dalla schiavitù capitalistica del lavoro salariato.
Noi internazionalisti ci battiamo affinché le masse sfruttate s’impadroniscano di questo principio; affinché appoggino i nostri obiettivi e la nostra lotta classisti; affinché, venendo a rafforzare le nostre file contribuiscano allo sviluppo del partito di classe, guida insostituibile della rivoluzione.
(1) Le richieste erano le seguenti: a) 10% di aumento sulle paghe; b) abolizione delle zone salariali A e B; c) entrata in funzione delle commissioni comunali per le qualifiche, la contrattazione dei livelli di occupazione e il rispetto dei contratti.
(2) È per cinismo professionale che i signori bempensanti: l’industriale del Nord e l’intellettuale progressista se ne dimostrino scandalizzati. Costoro però al piombo della polizia non sanno trovare altro sostituto che l’elemosina statale, salvo poi a .giustificarne tempestivamente l’uso quando entrano in ballo gli interessi superiori della salvaguardia del profitto e del sacco dell’oro.