La terra a chi la lavora! La provincia di Lecce contro lo Stato: l’occupazione delle terre dell’Arneo – Rassegna Stampa
Articoli de L’Unità del 1 – 2 – 4 Gennaio 1950 e de 25 Aprile 1951
Articoli de L’Unità del 1 – 2 – 4 Gennaio 1950 e de 25 Aprile 1951
Il 2 dicembre 1968 il governo del futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone stava per cadere, e stava per tornare al potere la corrente cosiddetta “dorotea” della Democrazia Cristiana, con Mariano Rumor, che avrebbe di nuovo spostato verso il centrosinistra gli equilibri del partito. Ma l’Italia arrivava da una stagione di intense proteste studentesche, che sarebbe stata seguita l’anno successivo dal culmine delle lotte operaie e dall “autunno caldo” delle proteste operaie. Quel giorno ad Avola, in Sicilia, fu organizzato un grande sciopero generale, in sostegno delle rivendicazioni dei braccianti agricoli: alla fine di quella giornata, due manifestanti sarebbero morti, uccisi dalla polizia.
La battaglia sindacale dei braccianti per il rinnovo contrattuale era iniziata fin dal settembre. Nella provincia di Siracura e ad Avola il 24 novembre fu dichiarato lo sciopero generale dei lavoratori agricoli: chiedevano di aumentare la paga giornaliera, eliminare le gabbie salariali (cioè quei meccanismi per cui la paga per lo stesso lavoro viene modificata e proporzionata in base ad altri parametri, come il costo della vita) e introdurre una commissione che controllasse il trattamento a cui erano sottoposti i braccianti.
La provincia di Siracusa era divisa in due zone agricole: la prima, denominata A, che comprendeva i comuni della zona nord, quelli più ricchi; la seconda, B, comprendeva i comuni dell’area meridionale della provincia, quelli più poveri.
Nelle due zone erano applicati differenti orari di lavoro (7 ore e 30 contro 8 ore) e differenti salari (3.480 lire al giorno contro 3.110). La lotta dei braccianti poneva, quindi, una elementare rivendicazione egualitaria.
Ugualmente, per quanto riguardava la questione delle commissioni paritetiche di controllo, si trattava di chiedere l’attuazione dell’accordo, sottoscritto in precedenza dalle parti sociali e rimasto lettera morta per le resistenze e l’arrogante rifiuto degli agrari.
Dopo diversi giorni di sciopero e blocchi stradali, il sindaco socialista di Avola provò a mediare con il prefetto perché venissero organizzate delle trattative sindacali, a cui però gli agrari non parteciparono polemicamente.
Lunedì 2 dicembre 1968, Avola, sciopero generale. Uffici, banche, negozi, scuole, poste, cantieri, bar, circoli, è tutto fermo a causa dello sciopero a sostegno della lotta dei braccianti per il rinnovo del contratto di lavoro.
Gli studenti in corteo raggiungono la statale 115, dove i braccianti hanno organizzato blocchi stradali fin dalla notte. Verso le 11 arrivarono sul posto furgoni e camionette della celere, il reparto della polizia che si occupa di ordine pubblico, il prefetto, D’Urso, comunica al sindaco socialista di Avola, Giuseppe Denaro, l’imminente intervento della polizia da Catania, per rimuovere i blocchi. La situazione precipita: inutile la mediazione del sindaco con il prefetto.
Ore 14, i commissari di polizia, con indosso la sciarpa tricolore, ordinano la carica: tre squilli di tromba e inizia il lancio dei lacrimogeni. I braccianti cercano riparo; alcuni lanciano sassi. Il vento spinge il fumo dei lacrimogeni contro la stessa polizia: è allora che gli agenti aprono il fuoco contro i braccianti. Un inferno che durerà circa mezz’ora.
Due braccianti, Giuseppe Scibilia, 47 anni, e Angelo Sigona, 25 anni, vengono uccisi. Scibilia, soccorso dai suoi compagni, dirà: “Lasciatemi riposare un po’ perché sto soffocando”.
Verrà trasportato in ospedale su una 500 ma per lui non ci sarà niente da fare. Oltre ai due morti, si conteranno tra i braccianti 48 feriti, tra cui alcuni gravi.
Secondo le testimonianze, furono raccolti due chili e mezzo di bossoli, portati il giorno successivo alla Camera dal deputato comunista siciliano Nino Piscitello.
Per la prima volta, dopo l’avvio della stagione dei governi di centro-sinistra, la polizia uccide dei lavoratori durante uno sciopero.
Per il giorno successivo venne dichiarato uno sciopero dei braccianti in tutta Italia, mentre già la sera del giorno della sparatoria il Partito Comunista e quello Socialista fecero grandi pressioni sulla DC, tanto che nella notte il ministro dell’Interno Franco Restivo convocò agrari e sindacalisti per firmare un contratto collettivo che accogliesse le loro richieste. I fatti di Avola generarono proteste e scioperi in tutta Italia, e portarono in molti a chiedere allo Stato di disarmare la polizia durante le proteste operaie.
Il fatto che la polizia spari su dei braccianti che rivendicano un aumento salariale minimo e, soprattutto, un trattamento egualitario nell’ambito della stessa provincia, viene interpretato come dimostrazione della non riformabilità dello stato e della sua intrinseca “ferocia di classe”.
Il salto di qualità dalle cariche della polizia e dalle inchieste della magistratura contro gli studenti all’uso delle armi da fuoco contro gli scioperanti, viene percepito dal movimento come una scelta di chiusura drastica da parte del governo e dei poteri costituiti: un richiamo all’ordine, la scelta di arrestare quel fiume in piena della contestazione che aveva, ormai, ampiamente superato i cancelli delle università per diffondersi nei posti di lavoro, nelle scuole, nell’intera società.
Tratto da Lotte Operaie n. 9 gennaio 1969
I braccianti del siracusano si trovavano in sciopero dalla metà del mese di novembre 1968. Rivendicavano condizioni di lavoro più umane; il rinnovo del contratto di lavoro (1). Lunedì 2 dicembre 1968, mentre manifestavano in corteo lungo le vie di accesso ad Avola, vengono presi a colpi d’arma da fuoco dalla polizia, che in grandi forze era accorsa da tutta l’isola. Due giovani braccianti vengono uccisi, mentre altri cinquanta restano feriti, dei quali alcuni molto gravemente.
È un altro anello che si aggiunge alla lunga catena di eccidi, commessi dalla polizia borghese contro i braccianti agricoli del meridione!
La strage ha suscitato una profonda indignazione nella classe operaia. Benché i partiti della borghesia e della piccola-borghesia abbiano cercato di disapprovare l’episodio di sangue scindendo ipocritamente l’operato della polizia da quello dello Stato, per scagionarsi dalla loro responsabilità politica, gli operai hanno esternato in tutta Italia la loro viva indignazione. In tutte le città i lavoratori hanno dato vita spontaneamente a scioperi prolungati e a manifestazioni di piazza. A Milano si sono avute interruzioni del lavoro e manifestazioni di solidarietà in tutte le maggiori fabbriche. A Genova lo sciopero è durato, in alcuni settori, tutta la giornata. Lo stesso è avvenuto a Napoli; a Mestre, a San Donà di Piave, ove gli operai degli stabilimenti Papa e Kriza hanno scioperato in segno di solidarietà per più di 24 ore.
Ovunque gli operai hanno reagito con energia, senza indietreggiare di fronte ai massicci apparati polizieschi. Non si sono fatti abbindolare dalle lacrime di coccodrillo della democrazia piccolo-borghese, invocante il rispetto della vita umana in nome dell’autorità dello Stato.
I braccianti agricoli del meridione sono stati sempre trattati dallo Stato dei capitalisti e dei proprietari fondiari come carne da macello. Dalla strage di Portella delle Ginestre ad Avola si potrebbero citare centinaia e centinaia di episodi sanguinosi, di eccidi, tutti legati ad una sola logica; tutti ubbidienti alla stessa logica: la repressione sistematica di ogni azione operaia.
L’agitazione dei braccianti di Avola era più che legittima, profondamente giusta: si lottava per un pezzo di pane. L’indigenza e le misere condizioni di vita dei braccianti meridionali sono fatti cronici (2). Su 300 giornate lavorative all’anno un bracciante riesce a lavorare in media, quando va bene, solo 150 giorni. E questo lavoro si concentra in alcuni periodi dell’anno: novembre-dicembre per la semina; giugno-luglio per la raccolta del grano; settembre-ottobre per la vendemmia e la raccolta dell’ulivo. Per il resto dell’anno disoccupazione.
I proprietari fondiari, speculando sull’esuberanza di manodopera, fanno il bello e il cattivo tempo, costringendo i braccianti ad accettare salari più bassi di quelli contrattuali; compiere lavoro straordinario non retribuito; ad effettuare prestazioni gratuite.
Il salario è ovunque basso. Ma oltre ad essere di fame, poiché è saltuario abbassa, nei periodi di disoccupazione, il consumo della famiglia operaia al minimo. Alla nutrizione insufficiente si aggiunge l’angustia dell’alloggio. A Matera, a Sant’Andrea d’Andria, a Monterosso, a Palma Montechiaro e via dicendo le abitazioni delle famiglie bracciantili sono in genere seminterrati di una sola stanza o piccole casupole, dove la vita, in tutti i suoi aspetti (mangiare, dormire, procreare) si svolge in promiscuità con le bestie. La condizione di vita dei braccianti oscilla dunque tra il pauperismo permanente e il livello di sussistenza minima vitale.
Se si considera l’assistenza malattia fornita ai braccianti ci accorgiamo quale profondo divario esiste tra questi e gli altri operai salariati e come tale assistenza si riduce per lo più ad una beffa. Le leggi in vigore tengono conto solo dei lavoratori che risultano iscritti agli elenchi anagrafici. Questi debbono avere un’attribuzione minimo di 51 giornate lavorative all’anno. I lavoratori che non raggiungono questo minimo non hanno diritto ad alcuna prestazione assistenziale. Ad essi bisogna aggiungere un numero considerevole di salariati agricoli, che pur lavorando, non vengono iscritti arbitrariamente agli elenchi anagrafici. Così tanto i primi quanto i secondi, unitamente alle loro rispettive famiglie, perdono il diritto a qualsiasi assistenza. Se ad essi si aggiungono i braccianti depennati dagli elenchi anagrafici si vede bene a cosa si riduce, per uno strato di braccianti, la “tutela contro le malattie”.
Per coloro che usufruiscono della mutua, poiché le indennità giornaliere sono irrisorie, se abitano lontano dai centri abitati non hanno alcuna convenienza a servirsene, perché la spesa di trasporto per raggiungere gli ambulatori supera di norma l’utilità del beneficio assistenziale.
Queste sono le condizioni di vita dei lavoratori agricoli. Perché allora quando i braccianti chiedono pane ricevono piombo? Perché gli interessi dei proprietari fondiari e quelli dei capitalisti sono in contrasto con quelli dei braccianti e i proprietari fondiari ed i capitalisti possono mobilitare la forza armata dello Stato per imporre ai braccianti la loro volontà. Questa è la realtà sociale; che viene nascosta nel concetto di popolo, nel concetto di “interesse nazionale”; è la vera realtà dei rapporti fra le classi che i democratici di tutte le tinte si ingegnano a mascherare con i falsi discorsi sull’imparzialità e sulla neutralità dello Stato, sugli abusi degli organi di polizia e così via dicendo.
Ad Avola la polizia ha sparato sui braccianti perché, quale braccio armato dello Stato dei padroni: dei capitalisti e dei proprietari fondiari; ha ritenuto così di meglio fare gli interessi di costoro. Essa era accorsa ad Avola da quasi tutta la Sicilia appunto per svolgere tale compito. Gli abusi da essa commessi giuocano nella vicenda la stessa parte del fumo quando arde la legna.
I lavoratori della terra queste cose le sanno per lunga esperienza. Ci vuole tutta la faccia tosta dei signori “social-comunisti” per invocare pubblicamente, in nome dei lavoratori, una “polizia democratica”, una “polizia al servizio dei cittadini”. La polizia è un apparato armato del presente Stato democratico. E questo Stato che si spaccia per Stato di tutto il popolo è soltanto ed esclusivamente uno strumento di dominio dell’oligarchia finanziaria, dei capitalisti e dei proprietari fondiari, su tutte le masse salariate.
In questo periodo lo Stato democratico pensa ad addestrare corpi speciali di repressione anti-operaia, da impiegare nel corso degli scioperi e nelle manifestazioni di piazza. Perciò, coloro i quali cianciano sullo “Stato di tutto il popolo”, sulla polizia a “servizio dei cittadini”, ecc. hanno un solo fine: quello di disarmare ideologicamente il proletariato di fronte al proprio nemico di classe.
La strage di Avola è uno di quegli episodi della lotta di classe, che aiuta in modo incomparabile a prendere coscienza della natura dello Stato. I braccianti, gli operai, tutti i lavoratori debbono aprire gli occhi su questo problema fondamentale, respingendo le frottole interessate dei partiti pacifisti, assimilando il principio che senza lotta rivoluzionaria non è assolutamente possibile uscire dalla schiavitù capitalistica del lavoro salariato.
Noi internazionalisti ci battiamo affinché le masse sfruttate s’impadroniscano di questo principio; affinché appoggino i nostri obiettivi e la nostra lotta classisti; affinché, venendo a rafforzare le nostre file contribuiscano allo sviluppo del partito di classe, guida insostituibile della rivoluzione.
(1) Le richieste erano le seguenti: a) 10% di aumento sulle paghe; b) abolizione delle zone salariali A e B; c) entrata in funzione delle commissioni comunali per le qualifiche, la contrattazione dei livelli di occupazione e il rispetto dei contratti.
(2) È per cinismo professionale che i signori bempensanti: l’industriale del Nord e l’intellettuale progressista se ne dimostrino scandalizzati. Costoro però al piombo della polizia non sanno trovare altro sostituto che l’elemosina statale, salvo poi a .giustificarne tempestivamente l’uso quando entrano in ballo gli interessi superiori della salvaguardia del profitto e del sacco dell’oro.
8 aprile 1969
È sera, in una sala affollatissima si sta svolgendo un consiglio comunale straordinario e con un unico tema di discussione: la minaccia di chiusura dello zuccherificio e del tabacchificio. I cittadini sono lì schierati in prima linea ad ascoltare e – “tabacchine” in testa – a brontolare ad ogni intervento dei consiglieri comunali. Viene proposta per il giorno successivo una manife-stazione di protesta mentre il sindaco e altri delegati si sareb-bero recati a Roma per sollecitare una soluzione della vicenda. Tutti approvano.
9 aprile
Battipaglia è blindata: vari posti di blocco sono stati predisposti dai carabinieri e dalla polizia sulle vie di accesso alla città, con maggiore concentrazione su via Belvedere, all’imbocco/uscita dell’autostrada e al passaggio a livello di via Roma. Il corteo parte da piazza della Repubblica con un percorso prestabilito che include via Roma e via Mazzini ma non Piazza del Popolo (via Italia), là dove sono il Municipio e il commissariato. Ma una parte del corteo si dirige verso il Municipio ed è qui che av-vengono i primi disordini. La polizia, agli ordini del commissario De Masi, comincia a caricare violentemente i manifestanti. Verso mezzogiorno viene occupata la stazione ferroviaria da una cospicua parte di popolazione e alcuni manifestanti si scagliano contro la polizia, lanciando le pietre raccolte tra i binari. Nel frattempo altri manifestanti si scontrano con le forze dell’ordine (compresi i carabinieri) anche allo svincolo autostradale. Molti blindati vengono attaccati e incendiati. I poliziotti cominciano a cedere e ad uscire allo scoperto. Verso le 15 i focolai si concentrano in via Gramsci, all’altezza del Municipio e del Commissariato di PS. Alle 17 si diffonde la notizia di un giovane manifestante in fin di vita, Carmine Citro, e della morte di Teresa Ricciardi, colpita da un proiettile mentre era affacciata al balcone. A queste notizie la rabbia dei manifestanti diventa incontrollabile: il commissariato viene incendiato, i poliziotti e i carabinieri scappano, vengono incendiate anche le camionette e i cellulari della polizia. Al calar della notte la città è in mano ai dimostranti.
10 aprile
La gente riprende a protestare chiedendo il ritiro immediato della polizia da Battipaglia. Per evitare nuovi disordini il sindaco Domenico Vicinanza chiede pubblicamente alla polizia di lasciare la città e di rilasciare tutti i fermati. Le richieste vengono accettate: la polizia se ne va da Battipaglia. In città si ritorna lentamente alla normalità. La rabbia della popolazione ora si sfoga sui giornalisti, rei di aver scritto menzogne e falsità e di aver criminalizzato un’intera comunità spesso occultando i reali motivi della protesta.
11 aprile
Tra due ali di folla commossa si svolgono i funerali di Carmine Citro e Teresa Ricciardi. In serata in piazza della Repubblica si tiene un comizio con molti sindacalisti e politici di vari schieramenti che si alternano sul palco. Tutti sono bombardati da sonori fischi e minacce, molti si rifugiano nella vicina caserma dei carabinieri.
Enzo Castaldi
Stralci da Memoria in Movimento, il contributo completo di Ubaldo Baldi si trova al seguente link.
Il Comitato Politico Operaio di via De Ruggiero a Pastena (1971–1974)
A distanza di anni ripensare ad una esperienza come quella del Comitato Politico Operaio a Salerno (1971–1974), obbliga certamente ad un tentativo seppur minimo di rinquadrare il clima politico di allora attraverso la ricerca dei termini e del livello del dibattito, delle condizioni oggettive e soggettive del Movimento Operaio in Italia e a Salerno, risistemando – magari approssimativamente – le coordinate di una visione delle cose che oggi non esiste più.
Il CPO nacque da una concreta iniziativa di alcuni militanti della sinistra non istituzionale o extraparlamentare, come allora venivamo definiti e il tono della definizione era quasi sempre dispregiativo, frutto anche soprattutto di una fitta collaborazione con le avanguardie sindacali di alcune fabbriche dell’hinterland salernitano. La sede fu scelta in base alla esigenza di localizzarla nel quartiere orientale della città, sia perché all’epoca era quello sicuramente a maggioritaria composizione popolare, sia perché più facilmente raggiungibile dalla periferia extraurbana (San Leonardo, Fuorni, Pontecagnano, Bellizzi, Battipaglia, ecc.). Va per inciso ricordato che il locale era sito al piano terra di una piccola palazzina abitata dai parenti di un compagno operaio della Ideal Standard, che lo diedero in fitto per una cifra pressoché irrisoria (anche se noi avevamo cronicamente il problema di autofinanziare qualsiasi iniziativa).
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Quello che è innegabile è che ci fu una sostanziale continuità del rapporto dialettico tra questo gruppo di militanti e le avanguardie operaie anche considerando i passaggi di militanza da una sigla all’altra delle organizzazioni politiche predette o il loro iter politico-organizzativo progressivo. In buona sostanza il gruppo di “lavoro operaio” rimase solidamente ancorato al dibattito e alle iniziative concrete di intervento nei luoghi di lavoro e anzi ne costituì momento di coesione anche rispetto a eventuali tendenze disgregative pur presenti al loro interno.
I movimenti di contestazione degli anni precedenti, le formidabili lotte operaie dell’autunno caldo avevano scompaginato i classici riferimenti politici della sinistra, vi era un acceso dibattito sulla burocrazia dei partiti, sul fallimento delle esperienze del socialismo reale, sulla attualità del centralismo democratico, e contemporaneamente vi era una diffusa aspirazione alla ricerca autonoma di nuove forme di democrazia reale e di cambiamento dei livelli di vita derivanti dai rapporti economici imposti dal capitalismo.
In quei primi anni settanta, vi era la consapevolezza di essere entrati in una fase storica nuova dovuta al percepire sulla propria pelle la crisi del modello di sviluppo capitalistico che si era consolidato, anche in Italia, iniziando dalla ricostruzione del dopoguerra passando attraverso il formidabile fenomeno dell’emigrazione interna e in Europa di enormi masse di contadini meridionali, fino alla fine del boom economico degli anni ’60.
Contemporaneamente la crisi capitalistica occidentale in questa fase specifica – oltre che essere determinata da cicliche strozzature del sistema – mostrava per la prima volta elementi costitutivi nuovi quali lo spettro della crisi energetica petrolifera e quindi del problema del controllo di dette fonti energetiche a livello planetario mentre si incominciava a parlare di ecologia e all’interno dei movimenti si introduceva il principio della difesa ambientale. Ma forse l’aspetto più importante era la consapevolezza che la crisi capitalistica aveva anche una causa soggettiva dovuta all’azione autonoma delle masse, cosa che determinava l’irrompere sulla scena di comportamenti incompatibili con i livelli capitalistici dell’epoca, contestandone i valori, la qualità e i meccanismi sia dell’economia politica che della formazione del consenso.
Venivano criticate le gerarchie, la divisione e l’organizzazione del lavoro, la gestione della tutela della salute in fabbrica che nel territorio, il ruolo della donna, ma da tutto ciò all’epoca – e poi non vi si riuscì definitivamente – non si era ancora determinata una crescita di proposte alternative concrete, di un progetto, di un programma.
A tutto questo corrispondeva, anche a livello locale, una difficoltà soggettiva del Partito e del Sindacato a tenere il passo con il sorgere di soggetti politici nuovi che sfuggivano di fatto ai rigidi meccanismi tradizionali di controllo sulle avanguardie. Vi era anche una nuova leva di operai (Ideal Standard, Pennitalia, Landis&Gyr, Sassonia, Superbox, ecc), non certo paragonabile all’operaio massificato e dequalificato delle grandi aziende del nord, ma che comunque aveva perso o non aveva mai acquisito, una sua specifica professionalità e sulle cui spalle veniva caricato tutto il peso degli elementi costitutivi della organizzazione del lavoro: ripetitività, facilità nella intercambiabilità della mansione, scarsa o nulla attenzione alla tutela della salute e ambientale e a cui corrispondeva nel sociale una crescita della inflazione con conseguente perdita di potere d’acquisto dei salari.
Proprio su queste tematiche nasceva il CPO, lo scontro non era solo salariale ma partiva da esigenze autonome e di comando operaio sui tempi di lavoro, sui livelli occupazionali, sulle qualifiche, sui superminimi, sull’ambiente di lavoro, quelli che venivano definiti i bisogni operai.
Si teorizzava, e lo si metteva in pratica, l’idea che partendo dall’affermazione di questi bisogni si potesse organizzare materialmente la lotta contro “il padrone” Ma la crisi veniva vista anche nel sociale come inflazione che erodeva consistentemente il valore del salario e la lotta sul salario divenne quindi in quegli anni uno dei temi principali della lotta operaia. E questo anche vedendo nella lotta sul salario la condizione necessaria oltre che alla tenuta del movimento all’interno della fabbrica anche come possibilità di mobilitazione di altre forze sociali colpite dalla inflazione. L’inflazione colpiva infatti non solo i salariati ma anche tutti i redditi fissi e questo all’interno di una società quale quella italiana determinava tensione anche nei ceti “medi”.
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… va ricordato il ruolo svolto dall’uso armato dei neofascisti e della strategia della tensione con il conseguente peso negativo che ha avuto sul lavoro politico in quel periodo a Salerno. Il lavoro nel CPO si dovette confrontare con la crisi determinata dalla morte di Falvella e da tutti i problemi che ne seguirono.
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Il CPO fu un tentativo, pur limitato all’arco di tempo che va dall’estate del 1971 all’autunno del ’74, che produsse risultati concreti nell’esaltare quei minimi livelli di autonomia delle lotte della classe operaia salernitana. Seppur partendo dalla voluta centralità di queste tematiche “operaiste”, contemporaneamente si ebbe la capacità di realizzare iniziative di lotta anche su un territorio pur variegato e composito quale quello di una provincia meridionale, che aveva vissuto una sostanziale continuità politica dal fascismo al potere democristiano. Queste iniziative avvennero coniugando esigenze in origine diverse ma che trovavano alla fine obiettivi comuni proprio dal confronto su temi concreti quali la difesa dei salari dall’inflazione e il suo riverberarsi anche nel sociale
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Le iniziative effettivamente sviluppate furono in concreto: la lotta contro la “truffa” della Vanoni [1] (che si sostanziava nella richiesta di pagamento di multe per tasse arretrate: la cosiddetta “ricchezza mobile” veniva calcolata a partire da 960mila lire annue), lotta per la salute (siamo ancora a sei anni dalla riforma sanitaria) con i primi timidi tentativi di inchieste sulla salute in fabbrica (alla D’Agostino e alla Ideal Standard), superamento della divisione tra chi studia e chi lavora (le 150 ore) ma anche esperienze quali la Scuola Popolare di Angri , la lotta di massa per la casa con la occupazione delle case a S. Margherita non ancora assegnate (ottobre- novembre 1972), l’autoriduzione delle bollette Enel.
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[1] Veniva definita impropriamente Vanoni dal nome del Ministro che aveva firmato la riforma tributaria nel 1950–51 con l’introduzione dell’obbligo della dichiarazione unica annuale che all’epoca era già defunto. La riforma Vanoni era rimasta a metà strada, poiché poggiava su presupposti quali la riorganizzazione degli uffici delle imposte e la relativa stabilità nella pressione tributaria, obiettivi che furono quasi del tutto mancati. Uno degli obiettivi dichiarati della riforma tributaria degli anni Settanta fu quello di fornire al governo centrale un maggior numero di strumenti per il controllo dell’economia, fu abolita la maggior parte dei tributi caratterizzanti l’ordinamento precedente, i comuni e le province furono espropriati delle imposte con le quali riuscivano ad autofinanziarsi e compensati con trasferimenti sostitutivi da parte dello Stato. Stato che contemporaneamente istituì due nuove imposte locali: l’ILOR, imposta locale sui redditi, e l’INVIM, imposta sull’incremento di valore degli immobili.
estratto tratto da Umanità Nova
.… Giovanni è stato un anarchico il cui caso, dal luglio 1972, ha attraversato tutti gli anni settanta ed oltre: il Caso Marini, come ormai era chiamato, ha però una origine più remota, conseguenza diretta della strategia della tensione culminata nella strage di piazza Fontana nel 1969 e nell’assassinio di cinque giovani anarchici di Reggio Calabria morti in uno strano incidente. Il 27 settembre 1970 sull’autostrada del sole un camion targato Salerno viaggia con le luci posteriori spente. Lo segue una Mini Minor. Il camion frena improvvisamente e provoca un gravissimo tamponamento dell’auto che lo segue. Muoiono i cinque occupanti, la polizia politica si precipita sul posto, spariscono i documenti che i cinque anarchici volevano portare a Roma per documentare su fatti importanti della rivolta di Reggio Calabria, l’autista del camion viene lasciato andare dopo quattro ore (su questa vicenda rimando alla lettura del libro Cinque anarchici del Sud, di Fabio Cuzzola, terza ediz. in corso di stampa). Proprio sull’autista sarà condotta una inchiesta da Giovanni Marini, un compagno di Salerno, che scopre che è un uomo del golpista Valerio Borghese. Per mesi Giovanni viene fatto oggetto di pesanti minacce dai fascisti locali (per un periodo si allontana dalla città per evitare guai peggiori) sia perché è un “rosso” ma soprattutto perché non gli perdonano d’essersi interessato dell’ ”incidente”: il 7 luglio 1972 scatta l’ultima “azione punitiva” nei suoi confronti. Una decina di fascisti armati di coltelli feriscono Marini ed altri due compagni, durante lo scontro un fascista resta ferito con una coltellata all’aorta. Morirà. Marini si costituisce ed è subito tradotto in carcere. I giornali legati ai petrolieri sbattono subito il mostro in prima pagina, Giovanni Marini sarà trasferito in quindici carceri diverse nel corso di un anno e mezzo di detenzione preventiva, partecipando alle lotte dei detenuti e denunciando le condizioni igenico-sanitarie in cui versano in tutta Italia: sarà lui l’artefice di un importante documento, a firma I carcerati rossi, uscito dal carcere di Avellino. Giova ricordare che proprio per questa sua attività in carcere sarà tenuto in isolamento e subirà violenti pestaggi. In tutta Italia si susseguono manifestazioni in solidarietà a Marini e viene chiesta la sua liberazione, il Soccorso Rosso Militante, con Dario Fo e Franca Rame (e con loro molti avvocati attivi nella controinformazione), prendono una posizione importante sensibilizzando l’opinione pubblica sul Caso Marini, in particolare la costituzione del “Coordinamento Nazionale Comitati Anarchici G. Marini” sarà l’artefice di innumerevoli iniziative pubbliche finalizzate alla liberazione dell’anarchico salernitano. Al processo (febbraio 1974) Marini afferma e dimostra la sua innocenza, cade il castello di prove contro di lui mentre è chiara la precostituzione delle accuse. Il processo viene subito sospeso e mandato lontano da Salerno, a Vallo della Lucania, dove gli inquirenti sperano non possa arrivare nessuno a solidarizzare con l’imputato: a giugno-luglio ricomincia il processo e il grande impegno di tutti i compagni si concretizza con l’uscita di un quotidiano dal titolo Il processo Marini, con la cronaca del processo e le iniziative a sostegno della campagna per la liberazione di Giovanni. La sentenza di Vallo della Lucania condanna Marini a 12 anni di carcere per omicidio volontario continuato con l’attenuante della provocazione. Dopo sette anni viene rimesso in libertà (1979), confinato per un anno, e tre ancora da scontare. La persecuzione non si ferma: nel 1983 viene arrestato a Salerno assieme ad un gruppo di rivoluzionari ed accusato come brigatista rosso, una montatura che cadrà miseramente. Di Giovanni Marini resta da ricordare la sua poesia: un suo libro (Poesie, Poligraf edizioni, Salerno) vince il premio Viareggio 1975 e pubblica in seguito diversi altri testi.