Tra la fine il 1949 e il 1951 i braccianti pugliesi, mobilitati dalla Federbraccianti, portano avanti una dura lotta per la concessione delle terre incolte, con scioperi, cortei e occupazioni di terreni. Nel dicembre 1949 iniziano le manifestazioni e le lotte nella zona dell’Arneo nel Salento e di altre zone della provincia: oltre 40.000 ettari di terre NON coltivate di proprietà di latifondisti; 23.000 ettari di proprietà di sole 81 famiglie; 20.000 braccianti e contadini nella zona dell’Arneo disoccupati vivono in assoluta povertà. In Puglia la disoccupazione supera il 50%.
I contadini senza terra e i braccianti decidono di occupare il latifondo del marchese Tamborrino di Maglie. Sono le terre dell’Arneo tra Nardò, Copertino e Veglie. Le occupazioni delle terre e le manifestazioni guidate dalla Federbraccianti e dalle Leghe e hanno carattere “rivendicativo”, ossia puntano a far inserire le terre dell’Arneo nella Legge di Riforma Agraria in discussione in Parlamento. Dunque sono simboliche, si occupa, si sta lì qualche giorno, si aspettano assicurazioni da parte dei politici, poi si disoccupa.
La repressione poliziesca colpisce duramente, usando anche le armi da fuoco. Il 13 febbraio 1950 in una manifestazione a Seclì, cittadina di 2000 abitanti in provincia di Lecce, un bracciante di 31 anni Antonio Micali viene colpito da raffiche di mitra all’addome e morirà dopo alcuni giorni (sulla morte del Micali vi sono versioni contrastanti, alcuni dicono che non sia poi morto).
La lotta si inasprisce e le occupazioni successive assumono un carattere diverso. Ora i braccianti e i contadini occupano per starci: spietrano le terre, le dividono tra loro e le mettono a coltivazione. Il governo coglie la “novità” di un “contropotere” in atto, di una riappropriazione effettiva, si preoccupa e decide di rispondere col massimo della ferocia repressiva. Scelba, ministro dell’interno, dispiega migliaia di armati. L’ordine è preciso: stroncare l’occupazione con manganelli, bombe fumogene e, se serve, con armi da fuoco. Per terrorizzare la popolazione, grazie alla collaborazione del ministro della difesa, utilizza perfino un aeroplano da guerra, contro braccianti armati di sole zappe e roncole. Fra il 28 dicembre 1950 e il tre gennaio 1951 si ebbero gli scontri più accesi: tre giorni ci vollero alle forze armate di polizia per sgombrare, con decine di feriti e oltre cento arrestati. Poi vennero i processi e la galera, ma le terre dell’Arneo furono inserite, in parte, nella riforma agraria. Una riforma che non raccoglieva nemmeno un po’ le richieste dei braccianti.
È sera, in una sala affollatissima si sta svolgendo un consiglio comunale straordinario e con un unico tema di discussione: la minaccia di chiusura dello zuccherificio e del tabacchificio. I cittadini sono lì schierati in prima linea ad ascoltare e – “tabacchine” in testa – a brontolare ad ogni intervento dei consiglieri comunali. Viene proposta per il giorno successivo una manife-stazione di protesta mentre il sindaco e altri delegati si sareb-bero recati a Roma per sollecitare una soluzione della vicenda. Tutti approvano.
9 aprile
Battipaglia è blindata: vari posti di blocco sono stati predisposti dai carabinieri e dalla polizia sulle vie di accesso alla città, con maggiore concentrazione su via Belvedere, all’imbocco/uscita dell’autostrada e al passaggio a livello di via Roma. Il corteo parte da piazza della Repubblica con un percorso prestabilito che include via Roma e via Mazzini ma non Piazza del Popolo (via Italia), là dove sono il Municipio e il commissariato. Ma una parte del corteo si dirige verso il Municipio ed è qui che av-vengono i primi disordini. La polizia, agli ordini del commissario De Masi, comincia a caricare violentemente i manifestanti. Verso mezzogiorno viene occupata la stazione ferroviaria da una cospicua parte di popolazione e alcuni manifestanti si scagliano contro la polizia, lanciando le pietre raccolte tra i binari. Nel frattempo altri manifestanti si scontrano con le forze dell’ordine (compresi i carabinieri) anche allo svincolo autostradale. Molti blindati vengono attaccati e incendiati. I poliziotti cominciano a cedere e ad uscire allo scoperto. Verso le 15 i focolai si concentrano in via Gramsci, all’altezza del Municipio e del Commissariato di PS. Alle 17 si diffonde la notizia di un giovane manifestante in fin di vita, Carmine Citro, e della morte di Teresa Ricciardi, colpita da un proiettile mentre era affacciata al balcone. A queste notizie la rabbia dei manifestanti diventa incontrollabile: il commissariato viene incendiato, i poliziotti e i carabinieri scappano, vengono incendiate anche le camionette e i cellulari della polizia. Al calar della notte la città è in mano ai dimostranti.
10 aprile
La gente riprende a protestare chiedendo il ritiro immediato della polizia da Battipaglia. Per evitare nuovi disordini il sindaco Domenico Vicinanza chiede pubblicamente alla polizia di lasciare la città e di rilasciare tutti i fermati. Le richieste vengono accettate: la polizia se ne va da Battipaglia. In città si ritorna lentamente alla normalità. La rabbia della popolazione ora si sfoga sui giornalisti, rei di aver scritto menzogne e falsità e di aver criminalizzato un’intera comunità spesso occultando i reali motivi della protesta.
11 aprile
Tra due ali di folla commossa si svolgono i funerali di Carmine Citro e Teresa Ricciardi. In serata in piazza della Repubblica si tiene un comizio con molti sindacalisti e politici di vari schieramenti che si alternano sul palco. Tutti sono bombardati da sonori fischi e minacce, molti si rifugiano nella vicina caserma dei carabinieri.
Il Comitato Politico Operaio di via De Ruggiero a Pastena (1971–1974)
A distanza di anni ripensare ad una esperienza come quella del Comitato Politico Operaio a Salerno (1971–1974), obbliga certamente ad un tentativo seppur minimo di rinquadrare il clima politico di allora attraverso la ricerca dei termini e del livello del dibattito, delle condizioni oggettive e soggettive del Movimento Operaio in Italia e a Salerno, risistemando – magari approssimativamente – le coordinate di una visione delle cose che oggi non esiste più.
Il CPO nacque da una concreta iniziativa di alcuni militanti della sinistra non istituzionale o extraparlamentare, come allora venivamo definiti e il tono della definizione era quasi sempre dispregiativo, frutto anche soprattutto di una fitta collaborazione con le avanguardie sindacali di alcune fabbriche dell’hinterland salernitano. La sede fu scelta in base alla esigenza di localizzarla nel quartiere orientale della città, sia perché all’epoca era quello sicuramente a maggioritaria composizione popolare, sia perché più facilmente raggiungibile dalla periferia extraurbana (San Leonardo, Fuorni, Pontecagnano, Bellizzi, Battipaglia, ecc.). Va per inciso ricordato che il locale era sito al piano terra di una piccola palazzina abitata dai parenti di un compagno operaio della Ideal Standard, che lo diedero in fitto per una cifra pressoché irrisoria (anche se noi avevamo cronicamente il problema di autofinanziare qualsiasi iniziativa).
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Quello che è innegabile è che ci fu una sostanziale continuità del rapporto dialettico tra questo gruppo di militanti e le avanguardie operaie anche considerando i passaggi di militanza da una sigla all’altra delle organizzazioni politiche predette o il loro iter politico-organizzativo progressivo. In buona sostanza il gruppo di “lavoro operaio” rimase solidamente ancorato al dibattito e alle iniziative concrete di intervento nei luoghi di lavoro e anzi ne costituì momento di coesione anche rispetto a eventuali tendenze disgregative pur presenti al loro interno.
I movimenti di contestazione degli anni precedenti, le formidabili lotte operaie dell’autunno caldo avevano scompaginato i classici riferimenti politici della sinistra, vi era un acceso dibattito sulla burocrazia dei partiti, sul fallimento delle esperienze del socialismo reale, sulla attualità del centralismo democratico, e contemporaneamente vi era una diffusa aspirazione alla ricerca autonoma di nuove forme di democrazia reale e di cambiamento dei livelli di vita derivanti dai rapporti economici imposti dal capitalismo.
In quei primi anni settanta, vi era la consapevolezza di essere entrati in una fase storica nuova dovuta al percepire sulla propria pelle la crisi del modello di sviluppo capitalistico che si era consolidato, anche in Italia, iniziando dalla ricostruzione del dopoguerra passando attraverso il formidabile fenomeno dell’emigrazione interna e in Europa di enormi masse di contadini meridionali, fino alla fine del boom economico degli anni ’60.
Contemporaneamente la crisi capitalistica occidentale in questa fase specifica – oltre che essere determinata da cicliche strozzature del sistema – mostrava per la prima volta elementi costitutivi nuovi quali lo spettro della crisi energetica petrolifera e quindi del problema del controllo di dette fonti energetiche a livello planetario mentre si incominciava a parlare di ecologia e all’interno dei movimenti si introduceva il principio della difesa ambientale. Ma forse l’aspetto più importante era la consapevolezza che la crisi capitalistica aveva anche una causa soggettiva dovuta all’azione autonoma delle masse, cosa che determinava l’irrompere sulla scena di comportamenti incompatibili con i livelli capitalistici dell’epoca, contestandone i valori, la qualità e i meccanismi sia dell’economia politica che della formazione del consenso.
Venivano criticate le gerarchie, la divisione e l’organizzazione del lavoro, la gestione della tutela della salute in fabbrica che nel territorio, il ruolo della donna, ma da tutto ciò all’epoca – e poi non vi si riuscì definitivamente – non si era ancora determinata una crescita di proposte alternative concrete, di un progetto, di un programma.
A tutto questo corrispondeva, anche a livello locale, una difficoltà soggettiva del Partito e del Sindacato a tenere il passo con il sorgere di soggetti politici nuovi che sfuggivano di fatto ai rigidi meccanismi tradizionali di controllo sulle avanguardie. Vi era anche una nuova leva di operai (Ideal Standard, Pennitalia, Landis&Gyr, Sassonia, Superbox, ecc), non certo paragonabile all’operaio massificato e dequalificato delle grandi aziende del nord, ma che comunque aveva perso o non aveva mai acquisito, una sua specifica professionalità e sulle cui spalle veniva caricato tutto il peso degli elementi costitutivi della organizzazione del lavoro: ripetitività, facilità nella intercambiabilità della mansione, scarsa o nulla attenzione alla tutela della salute e ambientale e a cui corrispondeva nel sociale una crescita della inflazione con conseguente perdita di potere d’acquisto dei salari.
Proprio su queste tematiche nasceva il CPO, lo scontro non era solo salariale ma partiva da esigenze autonome e di comando operaio sui tempi di lavoro, sui livelli occupazionali, sulle qualifiche, sui superminimi, sull’ambiente di lavoro, quelli che venivano definiti i bisogni operai.
Si teorizzava, e lo si metteva in pratica, l’idea che partendo dall’affermazione di questi bisogni si potesse organizzare materialmente la lotta contro “il padrone” Ma la crisi veniva vista anche nel sociale come inflazione che erodeva consistentemente il valore del salario e la lotta sul salario divenne quindi in quegli anni uno dei temi principali della lotta operaia. E questo anche vedendo nella lotta sul salario la condizione necessaria oltre che alla tenuta del movimento all’interno della fabbrica anche come possibilità di mobilitazione di altre forze sociali colpite dalla inflazione. L’inflazione colpiva infatti non solo i salariati ma anche tutti i redditi fissi e questo all’interno di una società quale quella italiana determinava tensione anche nei ceti “medi”.
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… va ricordato il ruolo svolto dall’uso armato dei neofascisti e della strategia della tensione con il conseguente peso negativo che ha avuto sul lavoro politico in quel periodo a Salerno. Il lavoro nel CPO si dovette confrontare con la crisi determinata dalla morte di Falvella e da tutti i problemi che ne seguirono.
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Il CPO fu un tentativo, pur limitato all’arco di tempo che va dall’estate del 1971 all’autunno del ’74, che produsse risultati concreti nell’esaltare quei minimi livelli di autonomia delle lotte della classe operaia salernitana. Seppur partendo dalla voluta centralità di queste tematiche “operaiste”, contemporaneamente si ebbe la capacità di realizzare iniziative di lotta anche su un territorio pur variegato e composito quale quello di una provincia meridionale, che aveva vissuto una sostanziale continuità politica dal fascismo al potere democristiano. Queste iniziative avvennero coniugando esigenze in origine diverse ma che trovavano alla fine obiettivi comuni proprio dal confronto su temi concreti quali la difesa dei salari dall’inflazione e il suo riverberarsi anche nel sociale
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Le iniziative effettivamente sviluppate furono in concreto: la lotta contro la “truffa” della Vanoni [1] (che si sostanziava nella richiesta di pagamento di multe per tasse arretrate: la cosiddetta “ricchezza mobile” veniva calcolata a partire da 960mila lire annue), lotta per la salute (siamo ancora a sei anni dalla riforma sanitaria) con i primi timidi tentativi di inchieste sulla salute in fabbrica (alla D’Agostino e alla Ideal Standard), superamento della divisione tra chi studia e chi lavora (le 150 ore) ma anche esperienze quali la Scuola Popolare di Angri , la lotta di massa per la casa con la occupazione delle case a S. Margherita non ancora assegnate (ottobre- novembre 1972), l’autoriduzione delle bollette Enel.
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[1] Veniva definita impropriamente Vanoni dal nome del Ministro che aveva firmato la riforma tributaria nel 1950–51 con l’introduzione dell’obbligo della dichiarazione unica annuale che all’epoca era già defunto. La riforma Vanoni era rimasta a metà strada, poiché poggiava su presupposti quali la riorganizzazione degli uffici delle imposte e la relativa stabilità nella pressione tributaria, obiettivi che furono quasi del tutto mancati. Uno degli obiettivi dichiarati della riforma tributaria degli anni Settanta fu quello di fornire al governo centrale un maggior numero di strumenti per il controllo dell’economia, fu abolita la maggior parte dei tributi caratterizzanti l’ordinamento precedente, i comuni e le province furono espropriati delle imposte con le quali riuscivano ad autofinanziarsi e compensati con trasferimenti sostitutivi da parte dello Stato. Stato che contemporaneamente istituì due nuove imposte locali: l’ILOR, imposta locale sui redditi, e l’INVIM, imposta sull’incremento di valore degli immobili.
.… Giovanni è stato un anarchico il cui caso, dal luglio 1972, ha attraversato tutti gli anni settanta ed oltre: il Caso Marini, come ormai era chiamato, ha però una origine più remota, conseguenza diretta della strategia della tensione culminata nella strage di piazza Fontana nel 1969 e nell’assassinio di cinque giovani anarchici di Reggio Calabria morti in uno strano incidente. Il 27 settembre 1970 sull’autostrada del sole un camion targato Salerno viaggia con le luci posteriori spente. Lo segue una Mini Minor. Il camion frena improvvisamente e provoca un gravissimo tamponamento dell’auto che lo segue. Muoiono i cinque occupanti, la polizia politica si precipita sul posto, spariscono i documenti che i cinque anarchici volevano portare a Roma per documentare su fatti importanti della rivolta di Reggio Calabria, l’autista del camion viene lasciato andare dopo quattro ore (su questa vicenda rimando alla lettura del libro Cinque anarchici del Sud, di Fabio Cuzzola, terza ediz. in corso di stampa). Proprio sull’autista sarà condotta una inchiesta da Giovanni Marini, un compagno di Salerno, che scopre che è un uomo del golpista Valerio Borghese. Per mesi Giovanni viene fatto oggetto di pesanti minacce dai fascisti locali (per un periodo si allontana dalla città per evitare guai peggiori) sia perché è un “rosso” ma soprattutto perché non gli perdonano d’essersi interessato dell’ ”incidente”: il 7 luglio 1972 scatta l’ultima “azione punitiva” nei suoi confronti. Una decina di fascisti armati di coltelli feriscono Marini ed altri due compagni, durante lo scontro un fascista resta ferito con una coltellata all’aorta. Morirà. Marini si costituisce ed è subito tradotto in carcere. I giornali legati ai petrolieri sbattono subito il mostro in prima pagina, Giovanni Marini sarà trasferito in quindici carceri diverse nel corso di un anno e mezzo di detenzione preventiva, partecipando alle lotte dei detenuti e denunciando le condizioni igenico-sanitarie in cui versano in tutta Italia: sarà lui l’artefice di un importante documento, a firma I carcerati rossi, uscito dal carcere di Avellino. Giova ricordare che proprio per questa sua attività in carcere sarà tenuto in isolamento e subirà violenti pestaggi. In tutta Italia si susseguono manifestazioni in solidarietà a Marini e viene chiesta la sua liberazione, il Soccorso Rosso Militante, con Dario Fo e Franca Rame (e con loro molti avvocati attivi nella controinformazione), prendono una posizione importante sensibilizzando l’opinione pubblica sul Caso Marini, in particolare la costituzione del “Coordinamento Nazionale Comitati Anarchici G. Marini” sarà l’artefice di innumerevoli iniziative pubbliche finalizzate alla liberazione dell’anarchico salernitano. Al processo (febbraio 1974) Marini afferma e dimostra la sua innocenza, cade il castello di prove contro di lui mentre è chiara la precostituzione delle accuse. Il processo viene subito sospeso e mandato lontano da Salerno, a Vallo della Lucania, dove gli inquirenti sperano non possa arrivare nessuno a solidarizzare con l’imputato: a giugno-luglio ricomincia il processo e il grande impegno di tutti i compagni si concretizza con l’uscita di un quotidiano dal titolo Il processo Marini, con la cronaca del processo e le iniziative a sostegno della campagna per la liberazione di Giovanni. La sentenza di Vallo della Lucania condanna Marini a 12 anni di carcere per omicidio volontario continuato con l’attenuante della provocazione. Dopo sette anni viene rimesso in libertà (1979), confinato per un anno, e tre ancora da scontare. La persecuzione non si ferma: nel 1983 viene arrestato a Salerno assieme ad un gruppo di rivoluzionari ed accusato come brigatista rosso, una montatura che cadrà miseramente. Di Giovanni Marini resta da ricordare la sua poesia: un suo libro (Poesie, Poligraf edizioni, Salerno) vince il premio Viareggio 1975 e pubblica in seguito diversi altri testi.
A Lamezia Terme la situazione non è delle più tranquille. Da qualche notte le mani dei soliti noti imbrattano i muri con scritte fasciste. I provocatori non si firmano ma il paese è piccolo e tutti lo sanno che a inneggiare al Duce sono le stesse persone che insultano i militanti della sinistra e che, in qualche caso, arrivano a picchiare chi li affronta a viso aperto e li contraddice.
Adelchi Argada ha le mani grandi come le palanche del cantiere di Modena dove deve andare a lavorare. E le spalle larghe di chi solleva blocchetti e sacchi di cemento. Può avere paura delle condizioni di sfruttamento a cui sono costretti lui e quelli come lui, non certo di qualche fascistello incontrato per strada, la sigaretta all’angolo della bocca, la pettinatura fresca di barbiere e quell’aria molle e gonfia di chi si trascina nel pigro far niente dei figli di papà.
Tipi così, Adelchi li incontra a passeggio per Lamezia il pomeriggio del 20 ottobre, dalle parti della chiesa di San Domenico. Con lui c’è suo fratello Otello e poi i fratelli Morello, vecchi amici di Adelchi. Svoltato l’angolo, ecco Michele De Fazio e Oscar Porchia. Il primo studia Legge a Firenze, ragazzo di buona famiglia conosciuto sia dai fascisti del posto che da quelli dell’università toscana. Il secondo, anche lui studente, è un militante del Movimento sociale e per un paio d’anni è stato anche il segretario del Fronte della gioventù di Lamezia. Adelchi milita nel Fronte popolare Comunista Rivoluzionario (FPCR), un’organizzazione di osservanza leninista a sinistra del PCI che, tra le altre cose, si era distinta nelle azioni di solidarietà per Pietro Valpreda, ingiustamente processato a Catanzaro per l’attentato di Piazza Fontana.
Il percorso politico intrapreso dalla sezione di Lamezia frequentata da Adelchi nel corso del 1973, ha messo il FPCR sulla rotta tracciata da Avanguardia Operaia, movimento radicato nei CUB delle principali fabbriche del Nord e orgogliosamente composto per la quasi totalità da soli quadri operai. L’opinione di Adelchi su gente come Porchia e De Fazio può essere data per scontata. I giovani comunisti calabresi conoscono bene la matrice fascista degli attentati che, negli anni Settanta, insanguinano la regione. Eppure, quella mattina, Adelchi non ha nulla da dire a Porchia e De Fazio. A rivolgersi ai fascisti ci pensa il suo amico, Giovanni Morello, disgustato dalla vigliaccheria dimostrata dai due solo ventiquattro ore prima, quando avevano picchiato il fratello più piccolo, quattordici anni appena. Con il ragazzino Porchia e De Fazio hanno mostrato i muscoli. Ora sono senza parole e, immediatamente, mettono mano alle pistole. Il primo colpo ferisce Giovanni Morello alla coscia: una frazione di secondo in cui Adelchi Argada non ha altro pensiero che quello di gettarsi verso il compagno colpito per aiutarlo e metterlo in salvo.
E a Giovanni, Adelchi la vita gliel’ha salvata davvero, incassando una dopo l’altra quattro delle quattordici pallottole sparate addosso ai militanti. La seconda pallottola, quella fatale per Adelchi, ha trapassato il colpo del giovane perforandogli il cuore. Mentre Adelchi muore, chi ha sparato scappa, inseguito dal grido “bastardi” che corre più veloce di loro, oltrepassa i comuni della piana lametina, supera i binari delle locomotive dirette a Nord e porta la notizia di uno striscione appeso nel luogo in cui il giovane operaio è stato ucciso.
Uno striscione che dice: “QUI E’ STATO ASSASSINATO IL COMPAGNO ARGADA”. Il giorno dei funerali, sono trentamila le persone che pretendono di salutare Adelchi Argada. La cattedrale non basta a contenerli tutti e, per le orazioni, viene utilizzato il palco della festa de “l’Avanti”, ancora montato nella piazza del Municipio per il concerto della sera precedente.
Jovine, uno studente di sinistra, parla a nome dei ragazzi di Lamezia: “Conoscevamo Adelchi Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato dalla parte degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un operaio, uno dei tanti giovani costretto a una certa età a lavorare perché per i proletari, per i figli dei lavoratori, non esistono privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una scelta, si è messo dalla parte di chi vuole una società diversa non a parole, in cui lo sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio”.
Arrestati, gli assassini di Adelchi Argada hanno dalla loro parte soltanto una pretestuosa tesi di legittima difesa. Una posizione che più di qualche giornale conservatore fa propria e diffonde con forza. Nel caso di Oscar Porchia e Michele De Fazio sostenere di avere sparato per difendersi non funziona: imputati di omicidio, dopo aver ottenuto di spostare la tesi processuale a Napoli, nel 1977 vengono condannati rispettivamente a quindici anni e quattro mesi e a otto anni e tre mesi di reclusione.
Dal libro “Cuori Rossi” di Cristiano Armati, Newton Compton Editori, 2008.
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