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La terra a chi la lavora! La provincia di Lecce contro lo Stato: l’occupazione delle terre dell’Arneo

Tra la fine il 1949 e il 1951 i brac­cian­ti puglie­si, mobi­li­ta­ti dal­la Feder­brac­cian­ti, por­ta­no avan­ti una dura lot­ta per la con­ces­sio­ne del­le ter­re incol­te, con scio­pe­ri, cor­tei e occu­pa­zio­ni di ter­re­ni. Nel dicem­bre 1949 ini­zia­no le mani­fe­sta­zio­ni e le lot­te nel­la zona dell’Arneo nel Salen­to e di altre zone del­la pro­vin­cia: oltre 40.000 etta­ri di ter­re NON col­ti­va­te di pro­prie­tà di lati­fon­di­sti; 23.000 etta­ri di pro­prie­tà di sole 81 fami­glie; 20.000 brac­cian­ti e con­ta­di­ni nel­la zona dell’Arneo disoc­cu­pa­ti vivo­no in asso­lu­ta pover­tà. In Puglia la disoc­cu­pa­zio­ne supe­ra il 50%.

I con­ta­di­ni sen­za ter­ra e i brac­cian­ti deci­do­no di occu­pa­re il lati­fon­do del mar­che­se Tam­bor­ri­no di Maglie. Sono le ter­re dell’Arneo tra Nar­dò, Coper­ti­no e Veglie. Le occu­pa­zio­ni del­le ter­re e le mani­fe­sta­zio­ni gui­da­te dal­la Feder­brac­cian­ti e dal­le Leghe e han­no carat­te­re “riven­di­ca­ti­vo”, ossia pun­ta­no a far inse­ri­re le ter­re dell’Arneo nel­la Leg­ge di Rifor­ma Agra­ria in discus­sio­ne in Par­la­men­to. Dun­que sono sim­bo­li­che, si occu­pa, si sta lì qual­che gior­no, si aspet­ta­no assi­cu­ra­zio­ni da par­te dei poli­ti­ci, poi si disoccupa.

La repres­sio­ne poli­zie­sca col­pi­sce dura­men­te, usan­do anche le armi da fuo­co. Il 13 feb­bra­io 1950 in una mani­fe­sta­zio­ne a Seclì, cit­ta­di­na di 2000 abi­tan­ti in pro­vin­cia di Lec­ce, un brac­cian­te di 31 anni Anto­nio Mica­li vie­ne col­pi­to da raf­fi­che di mitra all’addome e mori­rà dopo alcu­ni gior­ni (sul­la mor­te del Mica­li vi sono ver­sio­ni con­tra­stan­ti, alcu­ni dico­no che non sia poi morto).

La lot­ta si ina­spri­sce e le occu­pa­zio­ni suc­ces­si­ve assu­mo­no un carat­te­re diver­so. Ora i brac­cian­ti e i con­ta­di­ni occu­pa­no per star­ci: spie­tra­no le ter­re, le divi­do­no tra loro e le met­to­no a col­ti­va­zio­ne. Il gover­no coglie la “novi­tà” di un “con­tro­po­te­re” in atto, di una riap­pro­pria­zio­ne effet­ti­va, si pre­oc­cu­pa e deci­de di rispon­de­re col mas­si­mo del­la fero­cia repres­si­va. Scel­ba, mini­stro dell’interno, dispie­ga miglia­ia di arma­ti. L’ordine è pre­ci­so: stron­ca­re l’occupazione con man­ga­nel­li, bom­be fumo­ge­ne e, se ser­ve, con armi da fuo­co. Per ter­ro­riz­za­re la popo­la­zio­ne, gra­zie alla col­la­bo­ra­zio­ne del mini­stro del­la dife­sa, uti­liz­za per­fi­no un aero­pla­no da guer­ra, con­tro brac­cian­ti arma­ti di sole zap­pe e ron­co­le. Fra il 28 dicem­bre 1950 e il tre gen­na­io 1951 si ebbe­ro gli scon­tri più acce­si: tre gior­ni ci vol­le­ro alle for­ze arma­te di poli­zia per sgom­bra­re, con deci­ne di feri­ti e oltre cen­to arre­sta­ti. Poi ven­ne­ro i pro­ces­si e la gale­ra, ma le ter­re dell’Arneo furo­no inse­ri­te, in par­te, nel­la rifor­ma agra­ria. Una rifor­ma che non rac­co­glie­va nem­me­no un po’ le richie­ste dei braccianti. 

Testo trat­to da contromaelstrom.com

Battipaglia – Diario di una rivolta

8 apri­le 1969

È sera, in una sala affol­la­tis­si­ma si sta svol­gen­do un con­si­glio comu­na­le straor­di­na­rio e con un uni­co tema di discus­sio­ne: la minac­cia di chiu­su­ra del­lo zuc­che­ri­fi­cio e del tabac­chi­fi­cio. I cit­ta­di­ni sono lì schie­ra­ti in pri­ma linea ad ascol­ta­re e – “tabac­chi­ne” in testa – a bron­to­la­re ad ogni inter­ven­to dei con­si­glie­ri comu­na­li. Vie­ne pro­po­sta per il gior­no suc­ces­si­vo una mani­fe-sta­zio­ne di pro­te­sta men­tre il sin­da­co e altri dele­ga­ti si sareb-bero reca­ti a Roma per sol­le­ci­ta­re una solu­zio­ne del­la vicen­da. Tut­ti approvano. 

9 apri­le

Bat­ti­pa­glia è blin­da­ta: vari posti di bloc­co sono sta­ti pre­di­spo­sti dai cara­bi­nie­ri e dal­la poli­zia sul­le vie di acces­so alla cit­tà, con mag­gio­re con­cen­tra­zio­ne su via Bel­ve­de­re, all’imbocco/uscita dell’autostrada e al pas­sag­gio a livel­lo di via Roma. Il cor­teo par­te da piaz­za del­la Repub­bli­ca con un per­cor­so pre­sta­bi­li­to che inclu­de via Roma e via Maz­zi­ni ma non Piaz­za del Popo­lo (via Ita­lia), là dove sono il Muni­ci­pio e il com­mis­sa­ria­to. Ma una par­te del cor­teo si diri­ge ver­so il Muni­ci­pio ed è qui che av-ven­go­no i pri­mi disor­di­ni. La poli­zia, agli ordi­ni del com­mis­sa­rio De Masi, comin­cia a cari­ca­re vio­len­te­men­te i mani­fe­stan­ti. Ver­so mez­zo­gior­no vie­ne occu­pa­ta la sta­zio­ne fer­ro­via­ria da una cospi­cua par­te di popo­la­zio­ne e alcu­ni mani­fe­stan­ti si sca­glia­no con­tro la poli­zia, lan­cian­do le pie­tre rac­col­te tra i bina­ri. Nel frat­tem­po altri mani­fe­stan­ti si scon­tra­no con le for­ze dell’ordine (com­pre­si i cara­bi­nie­ri) anche allo svin­co­lo auto­stra­da­le. Mol­ti blin­da­ti ven­go­no attac­ca­ti e incen­dia­ti. I poli­ziot­ti comin­cia­no a cede­re e ad usci­re allo sco­per­to. Ver­so le 15 i foco­lai si con­cen­tra­no in via Gram­sci, all’altezza del Muni­ci­pio e del Com­mis­sa­ria­to di PS. Alle 17 si dif­fon­de la noti­zia di un gio­va­ne mani­fe­stan­te in fin di vita, Car­mi­ne Citro, e del­la mor­te di Tere­sa Ric­ciar­di, col­pi­ta da un pro­iet­ti­le men­tre era affac­cia­ta al bal­co­ne. A que­ste noti­zie la rab­bia dei mani­fe­stan­ti diven­ta incon­trol­la­bi­le: il com­mis­sa­ria­to vie­ne incen­dia­to, i poli­ziot­ti e i cara­bi­nie­ri scap­pa­no, ven­go­no incen­dia­te anche le camio­net­te e i cel­lu­la­ri del­la poli­zia. Al calar del­la not­te la cit­tà è in mano ai dimostranti.

10 apri­le

La gen­te ripren­de a pro­te­sta­re chie­den­do il riti­ro imme­dia­to del­la poli­zia da Bat­ti­pa­glia. Per evi­ta­re nuo­vi disor­di­ni il sin­da­co Dome­ni­co Vici­nan­za chie­de pub­bli­ca­men­te alla poli­zia di lascia­re la cit­tà e di rila­scia­re tut­ti i fer­ma­ti. Le richie­ste ven­go­no accet­ta­te: la poli­zia se ne va da Bat­ti­pa­glia. In cit­tà si ritor­na len­ta­men­te alla nor­ma­li­tà. La rab­bia del­la popo­la­zio­ne ora si sfo­ga sui gior­na­li­sti, rei di aver scrit­to men­zo­gne e fal­si­tà e di aver cri­mi­na­liz­za­to un’intera comu­ni­tà spes­so occul­tan­do i rea­li moti­vi del­la protesta.

11 apri­le

Tra due ali di fol­la com­mos­sa si svol­go­no i fune­ra­li di Car­mi­ne Citro e Tere­sa Ric­ciar­di. In sera­ta in piaz­za del­la Repub­bli­ca si tie­ne un comi­zio con mol­ti sin­da­ca­li­sti e poli­ti­ci di vari schie­ra­men­ti che si alter­na­no sul pal­co. Tut­ti sono bom­bar­da­ti da sono­ri fischi e minac­ce, mol­ti si rifu­gia­no nel­la vici­na caser­ma dei carabinieri. 

Enzo Castal­di

Il Comitato Politico Operaio di via De Ruggiero a Pastena

Stral­ci da Memo­ria in Movi­men­to, il con­tri­bu­to com­ple­to di Ubal­do Bal­di si tro­va al seguen­te link.

Il Comi­ta­to Poli­ti­co Ope­ra­io di via De Rug­gie­ro a Paste­na (1971–1974)

A distan­za di anni ripen­sa­re ad una espe­rien­za come quel­la del Comi­ta­to Poli­ti­co Ope­ra­io a Saler­no (1971–1974), obbli­ga cer­ta­men­te ad un ten­ta­ti­vo sep­pur mini­mo di rin­qua­dra­re il cli­ma poli­ti­co di allo­ra attra­ver­so la ricer­ca dei ter­mi­ni e del livel­lo del dibat­ti­to, del­le con­di­zio­ni ogget­ti­ve e sog­get­ti­ve del Movi­men­to Ope­ra­io in Ita­lia e a Saler­no, risi­ste­man­do – maga­ri appros­si­ma­ti­va­men­te –  le coor­di­na­te di una visio­ne del­le cose che oggi non esi­ste più.

Il CPO nac­que da una con­cre­ta ini­zia­ti­va di alcu­ni mili­tan­ti del­la sini­stra non isti­tu­zio­na­le o extra­par­la­men­ta­re, come allo­ra veni­va­mo defi­ni­ti e il tono del­la defi­ni­zio­ne era qua­si sem­pre dispre­gia­ti­vo, frut­to anche soprat­tut­to di una fit­ta col­la­bo­ra­zio­ne con le avan­guar­die sin­da­ca­li di alcu­ne fab­bri­che dell’hinterland saler­ni­ta­no. La sede fu scel­ta in base alla esi­gen­za di loca­liz­zar­la nel quar­tie­re orien­ta­le del­la cit­tà, sia per­ché all’epoca era quel­lo sicu­ra­men­te a mag­gio­ri­ta­ria com­po­si­zio­ne popo­la­re, sia per­ché più facil­men­te rag­giun­gi­bi­le dal­la peri­fe­ria extraur­ba­na (San Leo­nar­do, Fuor­ni, Pon­te­ca­gna­no, Bel­liz­zi, Bat­ti­pa­glia, ecc.). Va per inci­so ricor­da­to che il loca­le era sito al pia­no ter­ra di una pic­co­la palaz­zi­na abi­ta­ta dai paren­ti di un com­pa­gno ope­ra­io del­la Ideal Stan­dard, che lo die­de­ro in fit­to per una cifra pres­so­ché irri­so­ria (anche se noi ave­va­mo cro­ni­ca­men­te il pro­ble­ma di auto­fi­nan­zia­re qual­sia­si iniziativa). 

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Quel­lo che è inne­ga­bi­le è che ci fu una sostan­zia­le con­ti­nui­tà del rap­por­to dia­let­ti­co tra que­sto grup­po di mili­tan­ti e le avan­guar­die ope­ra­ie anche con­si­de­ran­do i pas­sag­gi di mili­tan­za da una sigla all’altra del­le orga­niz­za­zio­ni poli­ti­che pre­det­te o il loro iter poli­ti­co-orga­niz­za­ti­vo pro­gres­si­vo. In buo­na sostan­za il grup­po di “lavo­ro ope­ra­io” rima­se soli­da­men­te anco­ra­to al dibat­ti­to e alle ini­zia­ti­ve con­cre­te di inter­ven­to nei luo­ghi di lavo­ro e anzi ne costi­tuì momen­to di coe­sio­ne anche rispet­to a even­tua­li ten­den­ze disgre­ga­ti­ve pur pre­sen­ti al loro interno.

I movi­men­ti di con­te­sta­zio­ne degli anni pre­ce­den­ti, le for­mi­da­bi­li lot­te ope­ra­ie dell’autunno cal­do ave­va­no scom­pa­gi­na­to i clas­si­ci rife­ri­men­ti poli­ti­ci del­la sini­stra, vi era un acce­so dibat­ti­to sul­la buro­cra­zia dei par­ti­ti, sul fal­li­men­to del­le espe­rien­ze del socia­li­smo rea­le, sul­la attua­li­tà del cen­tra­li­smo demo­cra­ti­co, e con­tem­po­ra­nea­men­te vi era una dif­fu­sa aspi­ra­zio­ne alla ricer­ca auto­no­ma di nuo­ve for­me di demo­cra­zia rea­le e di cam­bia­men­to dei livel­li di vita deri­van­ti dai rap­por­ti eco­no­mi­ci impo­sti dal capitalismo.

In quei pri­mi anni set­tan­ta, vi era la con­sa­pe­vo­lez­za di esse­re entra­ti in una fase sto­ri­ca nuo­va dovu­ta al per­ce­pi­re sul­la pro­pria pel­le la cri­si del model­lo di svi­lup­po capi­ta­li­sti­co che si era con­so­li­da­to, anche in Ita­lia, ini­zian­do dal­la rico­stru­zio­ne del dopo­guer­ra pas­san­do attra­ver­so il for­mi­da­bi­le feno­me­no dell’emigrazione inter­na e in Euro­pa di enor­mi mas­se di con­ta­di­ni meri­dio­na­li, fino alla fine del boom eco­no­mi­co degli anni ’60.

Con­tem­po­ra­nea­men­te la cri­si capi­ta­li­sti­ca occi­den­ta­le in que­sta fase spe­ci­fi­ca – oltre che esse­re deter­mi­na­ta da cicli­che stroz­za­tu­re del siste­ma –  mostra­va per la pri­ma vol­ta ele­men­ti costi­tu­ti­vi nuo­vi qua­li lo spet­tro del­la cri­si ener­ge­ti­ca petro­li­fe­ra e quin­di del pro­ble­ma del con­trol­lo di det­te fon­ti ener­ge­ti­che a livel­lo pla­ne­ta­rio men­tre si inco­min­cia­va a par­la­re di eco­lo­gia e all’interno dei movi­men­ti si intro­du­ce­va il prin­ci­pio del­la dife­sa ambien­ta­le. Ma for­se l’aspetto più impor­tan­te era la con­sa­pe­vo­lez­za che la cri­si capi­ta­li­sti­ca ave­va anche una cau­sa sog­get­ti­va dovu­ta all’azione auto­no­ma del­le mas­se, cosa che deter­mi­na­va l’irrompere sul­la sce­na di com­por­ta­men­ti incom­pa­ti­bi­li con i livel­li capi­ta­li­sti­ci dell’epoca, con­te­stan­do­ne i valo­ri, la qua­li­tà e i mec­ca­ni­smi sia dell’economia poli­ti­ca che del­la for­ma­zio­ne del consenso.

Veni­va­no cri­ti­ca­te le gerar­chie, la divi­sio­ne e l’organizzazione del lavo­ro, la gestio­ne del­la tute­la del­la salu­te in fab­bri­ca che nel ter­ri­to­rio, il ruo­lo del­la don­na, ma da tut­to ciò all’epoca – e poi non vi si riu­scì defi­ni­ti­va­men­te – non si era anco­ra deter­mi­na­ta una cre­sci­ta di pro­po­ste alter­na­ti­ve con­cre­te, di un pro­get­to, di un programma.

A tut­to que­sto cor­ri­spon­de­va, anche a livel­lo loca­le, una dif­fi­col­tà sog­get­ti­va del Par­ti­to e del Sin­da­ca­to a tene­re il pas­so con il sor­ge­re di sog­get­ti poli­ti­ci nuo­vi che sfug­gi­va­no di fat­to ai rigi­di mec­ca­ni­smi tra­di­zio­na­li di con­trol­lo sul­le avan­guar­die. Vi era anche una nuo­va leva di ope­rai (Ideal Stan­dard, Pen­ni­ta­lia, Landis&Gyr, Sas­so­nia, Super­box, ecc), non cer­to para­go­na­bi­le all’operaio mas­si­fi­ca­to e dequa­li­fi­ca­to del­le gran­di azien­de del nord, ma che comun­que ave­va per­so o non ave­va mai acqui­si­to, una sua spe­ci­fi­ca pro­fes­sio­na­li­tà e sul­le cui spal­le veni­va cari­ca­to tut­to il peso degli ele­men­ti costi­tu­ti­vi del­la orga­niz­za­zio­ne del lavo­ro: ripe­ti­ti­vi­tà, faci­li­tà nel­la inter­cam­bia­bi­li­tà del­la man­sio­ne, scar­sa o nul­la atten­zio­ne alla tute­la del­la salu­te e ambien­ta­le e a cui cor­ri­spon­de­va nel socia­le una cre­sci­ta del­la infla­zio­ne con con­se­guen­te per­di­ta di pote­re d’acquisto dei salari.

Pro­prio su que­ste tema­ti­che nasce­va il CPO, lo scon­tro non era solo sala­ria­le ma par­ti­va da esi­gen­ze auto­no­me e di coman­do ope­ra­io sui tem­pi di lavo­ro, sui livel­li occu­pa­zio­na­li, sul­le qua­li­fi­che, sui super­mi­ni­mi, sull’ambiente di lavo­ro, quel­li che veni­va­no defi­ni­ti i biso­gni operai.

Si teo­riz­za­va, e lo si met­te­va in pra­ti­ca, l’idea che par­ten­do dall’affermazione di que­sti biso­gni si potes­se orga­niz­za­re mate­rial­men­te la lot­ta con­tro “il padro­ne” Ma la cri­si veni­va vista anche nel socia­le come infla­zio­ne che ero­de­va con­si­sten­te­men­te il valo­re del sala­rio e la lot­ta sul sala­rio diven­ne quin­di in que­gli anni uno dei temi prin­ci­pa­li del­la lot­ta ope­ra­ia. E que­sto anche veden­do nel­la lot­ta sul sala­rio la con­di­zio­ne neces­sa­ria oltre che alla tenu­ta del movi­men­to all’interno del­la fab­bri­ca anche come pos­si­bi­li­tà di mobi­li­ta­zio­ne di altre for­ze socia­li col­pi­te dal­la infla­zio­ne. L’inflazione col­pi­va infat­ti non solo i sala­ria­ti ma anche tut­ti i red­di­ti fis­si e que­sto all’interno di una socie­tà qua­le quel­la ita­lia­na deter­mi­na­va ten­sio­ne anche nei ceti “medi”.

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… va ricor­da­to il ruo­lo svol­to dall’uso arma­to dei neo­fa­sci­sti e del­la stra­te­gia del­la ten­sio­ne con il con­se­guen­te peso nega­ti­vo che ha avu­to sul lavo­ro poli­ti­co in quel perio­do a Saler­no. Il lavo­ro nel CPO si dovet­te con­fron­ta­re con la cri­si deter­mi­na­ta dal­la mor­te di Fal­vel­la e da tut­ti i pro­ble­mi che ne seguirono.

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Il CPO fu un ten­ta­ti­vo, pur limi­ta­to all’arco di tem­po che va dall’estate del 1971 all’autunno del ’74, che pro­dus­se risul­ta­ti con­cre­ti nell’esaltare quei mini­mi livel­li di auto­no­mia del­le lot­te del­la clas­se ope­ra­ia saler­ni­ta­na. Sep­pur par­ten­do dal­la volu­ta cen­tra­li­tà di que­ste tema­ti­che “ope­rai­ste”, con­tem­po­ra­nea­men­te si ebbe la capa­ci­tà di rea­liz­za­re ini­zia­ti­ve di lot­ta anche su un ter­ri­to­rio pur varie­ga­to e com­po­si­to qua­le quel­lo di una pro­vin­cia meri­dio­na­le, che ave­va vis­su­to una sostan­zia­le con­ti­nui­tà poli­ti­ca dal fasci­smo al pote­re demo­cri­stia­no. Que­ste ini­zia­ti­ve avven­ne­ro coniu­gan­do esi­gen­ze in ori­gi­ne diver­se ma che tro­va­va­no alla fine obiet­ti­vi comu­ni pro­prio dal con­fron­to su temi con­cre­ti qua­li la dife­sa dei sala­ri dall’inflazione e il suo river­be­rar­si anche nel sociale

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Le ini­zia­ti­ve effet­ti­va­men­te svi­lup­pa­te furo­no in con­cre­to: la lot­ta con­tro la “truf­fa” del­la Vano­ni [1] (che si sostan­zia­va nel­la richie­sta di paga­men­to di mul­te per tas­se arre­tra­te: la cosid­det­ta “ric­chez­za mobi­le” veni­va cal­co­la­ta a par­ti­re da 960mila lire annue), lot­ta per la salu­te (sia­mo anco­ra a sei anni dal­la rifor­ma sani­ta­ria) con i pri­mi timi­di ten­ta­ti­vi di inchie­ste sul­la salu­te in fab­bri­ca (alla D’Agostino e alla Ideal Stan­dard), supe­ra­men­to del­la divi­sio­ne tra chi stu­dia e chi lavo­ra (le 150 ore) ma anche espe­rien­ze qua­li la Scuo­la Popo­la­re di Angri , la lot­ta di mas­sa per la casa con la occu­pa­zio­ne del­le case a S. Mar­ghe­ri­ta non anco­ra asse­gna­te (otto­bre- novem­bre 1972), l’autoriduzione del­le bol­let­te Enel.

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[1] Veni­va defi­ni­ta impro­pria­men­te Vano­ni dal nome del Mini­stro che ave­va fir­ma­to la rifor­ma tri­bu­ta­ria nel 1950–51 con l’introduzione dell’obbligo del­la dichia­ra­zio­ne uni­ca annua­le che all’epoca era già defun­to. La rifor­ma Vano­ni era rima­sta a metà stra­da, poi­ché pog­gia­va su pre­sup­po­sti qua­li la rior­ga­niz­za­zio­ne degli uffi­ci del­le impo­ste e la rela­ti­va sta­bi­li­tà nel­la pres­sio­ne tri­bu­ta­ria, obiet­ti­vi che furo­no qua­si del tut­to man­ca­ti. Uno degli obiet­ti­vi dichia­ra­ti del­la rifor­ma tri­bu­ta­ria degli anni Set­tan­ta fu quel­lo di for­ni­re al gover­no cen­tra­le un mag­gior nume­ro di stru­men­ti per il con­trol­lo dell’economia, fu abo­li­ta la mag­gior par­te dei tri­bu­ti carat­te­riz­zan­ti l’ordinamento pre­ce­den­te, i comu­ni e le pro­vin­ce furo­no espro­pria­ti del­le impo­ste con le qua­li riu­sci­va­no ad auto­fi­nan­ziar­si e com­pen­sa­ti con tra­sfe­ri­men­ti sosti­tu­ti­vi da par­te del­lo Sta­to. Sta­to che con­tem­po­ra­nea­men­te isti­tuì due nuo­ve impo­ste loca­li: l’ILOR, impo­sta loca­le sui red­di­ti, e l’INVIM, impo­sta sull’incremento di valo­re degli immobili.

Il caso Giovanni Marini

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estrat­to trat­to da Uma­ni­tà Nova

.… Gio­van­ni è sta­to un anar­chi­co il cui caso, dal luglio 1972, ha attra­ver­sa­to tut­ti gli anni set­tan­ta ed oltre: il Caso Mari­ni, come ormai era chia­ma­to, ha però una ori­gi­ne più remo­ta, con­se­guen­za diret­ta del­la stra­te­gia del­la ten­sio­ne cul­mi­na­ta nel­la stra­ge di piaz­za Fon­ta­na nel 1969 e nel­l’as­sas­si­nio di cin­que gio­va­ni anar­chi­ci di Reg­gio Cala­bria mor­ti in uno stra­no inci­den­te. Il 27 set­tem­bre 1970 sul­l’au­to­stra­da del sole un camion tar­ga­to Saler­no viag­gia con le luci poste­rio­ri spen­te. Lo segue una Mini Minor. Il camion fre­na improv­vi­sa­men­te e pro­vo­ca un gra­vis­si­mo tam­po­na­men­to del­l’au­to che lo segue. Muo­io­no i cin­que occu­pan­ti, la poli­zia poli­ti­ca si pre­ci­pi­ta sul posto, spa­ri­sco­no i docu­men­ti che i cin­que anar­chi­ci vole­va­no por­ta­re a Roma per docu­men­ta­re su fat­ti impor­tan­ti del­la rivol­ta di Reg­gio Cala­bria, l’au­ti­sta del camion vie­ne lascia­to anda­re dopo quat­tro ore (su que­sta vicen­da riman­do alla let­tu­ra del libro Cin­que anar­chi­ci del Sud, di Fabio Cuz­zo­la, ter­za ediz. in cor­so di stam­pa). Pro­prio sul­l’au­ti­sta sarà con­dot­ta una inchie­sta da Gio­van­ni Mari­ni, un com­pa­gno di Saler­no, che sco­pre che è un uomo del gol­pi­sta Vale­rio Bor­ghe­se. Per mesi Gio­van­ni vie­ne fat­to ogget­to di pesan­ti minac­ce dai fasci­sti loca­li (per un perio­do si allon­ta­na dal­la cit­tà per evi­ta­re guai peg­gio­ri) sia per­ché è un “ros­so” ma soprat­tut­to per­ché non gli per­do­na­no d’es­ser­si inte­res­sa­to dell’ ”inci­den­te”: il 7 luglio 1972 scat­ta l’ul­ti­ma “azio­ne puni­ti­va” nei suoi con­fron­ti. Una deci­na di fasci­sti arma­ti di col­tel­li feri­sco­no Mari­ni ed altri due com­pa­gni, duran­te lo scon­tro un fasci­sta resta feri­to con una col­tel­la­ta all’aor­ta. Mori­rà. Mari­ni si costi­tui­sce ed è subi­to tra­dot­to in car­ce­re. I gior­na­li lega­ti ai petro­lie­ri sbat­to­no subi­to il mostro in pri­ma pagi­na, Gio­van­ni Mari­ni sarà tra­sfe­ri­to in quin­di­ci car­ce­ri diver­se nel cor­so di un anno e mez­zo di deten­zio­ne pre­ven­ti­va, par­te­ci­pan­do alle lot­te dei dete­nu­ti e denun­cian­do le con­di­zio­ni ige­ni­co-sani­ta­rie in cui ver­sa­no in tut­ta Ita­lia: sarà lui l’ar­te­fi­ce di un impor­tan­te docu­men­to, a fir­ma I car­ce­ra­ti ros­si, usci­to dal car­ce­re di Avel­li­no. Gio­va ricor­da­re che pro­prio per que­sta sua atti­vi­tà in car­ce­re sarà tenu­to in iso­la­men­to e subi­rà vio­len­ti pestag­gi. In tut­ta Ita­lia si sus­se­guo­no mani­fe­sta­zio­ni in soli­da­rie­tà a Mari­ni e vie­ne chie­sta la sua libe­ra­zio­ne, il Soc­cor­so Ros­so Mili­tan­te, con Dario Fo e Fran­ca Rame (e con loro mol­ti avvo­ca­ti atti­vi nel­la con­tro­in­for­ma­zio­ne), pren­do­no una posi­zio­ne impor­tan­te sen­si­bi­liz­zan­do l’o­pi­nio­ne pub­bli­ca sul Caso Mari­ni, in par­ti­co­la­re la costi­tu­zio­ne del “Coor­di­na­men­to Nazio­na­le Comi­ta­ti Anar­chi­ci G. Mari­ni” sarà l’ar­te­fi­ce di innu­me­re­vo­li ini­zia­ti­ve pub­bli­che fina­liz­za­te alla libe­ra­zio­ne del­l’a­nar­chi­co saler­ni­ta­no. Al pro­ces­so (feb­bra­io 1974) Mari­ni affer­ma e dimo­stra la sua inno­cen­za, cade il castel­lo di pro­ve con­tro di lui men­tre è chia­ra la pre­co­sti­tu­zio­ne del­le accu­se. Il pro­ces­so vie­ne subi­to sospe­so e man­da­to lon­ta­no da Saler­no, a Val­lo del­la Luca­nia, dove gli inqui­ren­ti spe­ra­no non pos­sa arri­va­re nes­su­no a soli­da­riz­za­re con l’im­pu­ta­to: a giu­gno-luglio rico­min­cia il pro­ces­so e il gran­de impe­gno di tut­ti i com­pa­gni si con­cre­tiz­za con l’u­sci­ta di un quo­ti­dia­no dal tito­lo Il pro­ces­so Mari­ni, con la cro­na­ca del pro­ces­so e le ini­zia­ti­ve a soste­gno del­la cam­pa­gna per la libe­ra­zio­ne di Gio­van­ni. La sen­ten­za di Val­lo del­la Luca­nia con­dan­na Mari­ni a 12 anni di car­ce­re per omi­ci­dio volon­ta­rio con­ti­nua­to con l’at­te­nuan­te del­la pro­vo­ca­zio­ne. Dopo set­te anni vie­ne rimes­so in liber­tà (1979), con­fi­na­to per un anno, e tre anco­ra da scon­ta­re. La per­se­cu­zio­ne non si fer­ma: nel 1983 vie­ne arre­sta­to a Saler­no assie­me ad un grup­po di rivo­lu­zio­na­ri ed accu­sa­to come bri­ga­ti­sta ros­so, una mon­ta­tu­ra che cadrà mise­ra­men­te. Di Gio­van­ni Mari­ni resta da ricor­da­re la sua poe­sia: un suo libro (Poe­sie, Poli­graf edi­zio­ni, Saler­no) vin­ce il pre­mio Via­reg­gio 1975 e pub­bli­ca in segui­to diver­si altri testi.

Adelchi Argada

A Lame­zia Ter­me la situa­zio­ne non è del­le più tran­quil­le. Da qual­che not­te le mani dei soli­ti noti imbrat­ta­no i muri con scrit­te fasci­ste. I pro­vo­ca­to­ri non si fir­ma­no ma il pae­se è pic­co­lo e tut­ti lo san­no che a inneg­gia­re al Duce sono le stes­se per­so­ne che insul­ta­no i mili­tan­ti del­la sini­stra e che, in qual­che caso, arri­va­no a pic­chia­re chi li affron­ta a viso aper­to e li contraddice.

Adel­chi Arga­da ha le mani gran­di come le palan­che del can­tie­re di Mode­na dove deve anda­re a lavo­ra­re. E le spal­le lar­ghe di chi sol­le­va bloc­chet­ti e sac­chi di cemen­to. Può ave­re pau­ra del­le con­di­zio­ni di sfrut­ta­men­to a cui sono costret­ti lui e quel­li come lui, non cer­to di qual­che fasci­stel­lo incon­tra­to per stra­da, la siga­ret­ta all’angolo del­la boc­ca, la pet­ti­na­tu­ra fre­sca di bar­bie­re e quell’aria mol­le e gon­fia di chi si tra­sci­na nel pigro far nien­te dei figli di papà. 

Tipi così, Adel­chi li incon­tra a pas­seg­gio per Lame­zia il pome­rig­gio del 20 otto­bre, dal­le par­ti del­la chie­sa di San Dome­ni­co. Con lui c’è suo fra­tel­lo Otel­lo e poi i fra­tel­li Morel­lo, vec­chi ami­ci di Adel­chi. Svol­ta­to l’angolo, ecco Miche­le De Fazio e Oscar Por­chia. Il pri­mo stu­dia Leg­ge a Firen­ze, ragaz­zo di buo­na fami­glia cono­sciu­to sia dai fasci­sti del posto che da quel­li dell’università tosca­na. Il secon­do, anche lui stu­den­te, è un mili­tan­te del Movi­men­to socia­le e per un paio d’anni è sta­to anche il segre­ta­rio del Fron­te del­la gio­ven­tù di Lame­zia. Adel­chi mili­ta nel Fron­te popo­la­re Comu­ni­sta Rivo­lu­zio­na­rio (FPCR), un’organizzazione di osser­van­za leni­ni­sta a sini­stra del PCI che, tra le altre cose, si era distin­ta nel­le azio­ni di soli­da­rie­tà per Pie­tro Val­pre­da, ingiu­sta­men­te pro­ces­sa­to a Catan­za­ro per l’attentato di Piaz­za Fontana. 

Il per­cor­so poli­ti­co intra­pre­so dal­la sezio­ne di Lame­zia fre­quen­ta­ta da Adel­chi nel cor­so del 1973, ha mes­so il FPCR sul­la rot­ta trac­cia­ta da Avan­guar­dia Ope­ra­ia, movi­men­to radi­ca­to nei CUB del­le prin­ci­pa­li fab­bri­che del Nord e orgo­glio­sa­men­te com­po­sto per la qua­si tota­li­tà da soli qua­dri ope­rai. L’opinione di Adel­chi su gen­te come Por­chia e De Fazio può esse­re data per scon­ta­ta. I gio­va­ni comu­ni­sti cala­bre­si cono­sco­no bene la matri­ce fasci­sta degli atten­ta­ti che, negli anni Set­tan­ta, insan­gui­na­no la regio­ne. Eppu­re, quel­la mat­ti­na, Adel­chi non ha nul­la da dire a Por­chia e De Fazio. A rivol­ger­si ai fasci­sti ci pen­sa il suo ami­co, Gio­van­ni Morel­lo, disgu­sta­to dal­la vigliac­che­ria dimo­stra­ta dai due solo ven­ti­quat­tro ore pri­ma, quan­do ave­va­no pic­chia­to il fra­tel­lo più pic­co­lo, quat­tor­di­ci anni appe­na. Con il ragaz­zi­no Por­chia e De Fazio han­no mostra­to i musco­li. Ora sono sen­za paro­le e, imme­dia­ta­men­te, met­to­no mano alle pisto­le. Il pri­mo col­po feri­sce Gio­van­ni Morel­lo alla coscia: una fra­zio­ne di secon­do in cui Adel­chi Arga­da non ha altro pen­sie­ro che quel­lo di get­tar­si ver­so il com­pa­gno col­pi­to per aiu­tar­lo e met­ter­lo in salvo. 

E a Gio­van­ni, Adel­chi la vita gliel’ha sal­va­ta dav­ve­ro, incas­san­do una dopo l’altra quat­tro del­le quat­tor­di­ci pal­lot­to­le spa­ra­te addos­so ai mili­tan­ti. La secon­da pal­lot­to­la, quel­la fata­le per Adel­chi, ha tra­pas­sa­to il col­po del gio­va­ne per­fo­ran­do­gli il cuo­re. Men­tre Adel­chi muo­re, chi ha spa­ra­to scap­pa, inse­gui­to dal gri­do “bastar­di” che cor­re più velo­ce di loro, oltre­pas­sa i comu­ni del­la pia­na lame­ti­na, supe­ra i bina­ri del­le loco­mo­ti­ve diret­te a Nord e por­ta la noti­zia di uno stri­scio­ne appe­so nel luo­go in cui il gio­va­ne ope­ra­io è sta­to ucciso. 

Uno stri­scio­ne che dice: “QUI E’ STATO ASSASSINATO IL COMPAGNO ARGADA”. Il gior­no dei fune­ra­li, sono tren­ta­mi­la le per­so­ne che pre­ten­do­no di salu­ta­re Adel­chi Arga­da. La cat­te­dra­le non basta a con­te­ner­li tut­ti e, per le ora­zio­ni, vie­ne uti­liz­za­to il pal­co del­la festa de “l’Avanti”, anco­ra mon­ta­to nel­la piaz­za del Muni­ci­pio per il con­cer­to del­la sera precedente. 

Jovi­ne, uno stu­den­te di sini­stra, par­la a nome dei ragaz­zi di Lame­zia: “Cono­sce­va­mo Adel­chi Arga­da come uno dei nostri miglio­ri mili­tan­ti, sem­pre schie­ra­to dal­la par­te degli oppres­si. Biso­gna capi­re per­ché è mor­to; era un ope­ra­io, uno dei tan­ti gio­va­ni costret­to a una cer­ta età a lavo­ra­re per­ché per i pro­le­ta­ri, per i figli dei lavo­ra­to­ri, non esi­sto­no pri­vi­le­gi che sono di altri. Arga­da ha fat­to una scel­ta, si è mes­so dal­la par­te di chi vuo­le una socie­tà diver­sa non a paro­le, in cui lo sfrut­ta­men­to sia abo­li­to e il fasci­smo non pos­sa tro­va­re spazio”. 

Arre­sta­ti, gli assas­si­ni di Adel­chi Arga­da han­no dal­la loro par­te sol­tan­to una pre­te­stuo­sa tesi di legit­ti­ma dife­sa. Una posi­zio­ne che più di qual­che gior­na­le con­ser­va­to­re fa pro­pria e dif­fon­de con for­za. Nel caso di Oscar Por­chia e Miche­le De Fazio soste­ne­re di ave­re spa­ra­to per difen­der­si non fun­zio­na: impu­ta­ti di omi­ci­dio, dopo aver otte­nu­to di spo­sta­re la tesi pro­ces­sua­le a Napo­li, nel 1977 ven­go­no con­dan­na­ti rispet­ti­va­men­te a quin­di­ci anni e quat­tro mesi e a otto anni e tre mesi di reclusione.


Dal libro “Cuo­ri Ros­si” di Cri­stia­no Arma­ti, New­ton Comp­ton Edi­to­ri, 2008.

Bollettino Operaio del Collettivo Autonomo Proletario

  • Pre­sen­ta­zio­ne
  • Auto­no­mi da chi e per­chè – pag. 3
  • Cri­si dei padro­ni e pro­gram­ma ope­ra­io – pag. 4
  • Situa­zio­ne all’Al­fa Sud – pag. 9
  • Ver­ten­za Cam­pa­nia: occu­pa­zio­ne o ristrut­tu­ra­zio­ne? – pag. 13
  • Ver­so i con­trat­ti – pag. 14
  • L’an­ti­fa­sci­smo mili­tan­te – pag. 17
  • Anco­ra un omi­ci­dio di Stato