Il Comitato Politico Operaio di via De Ruggiero a Pastena
Stralci da Memoria in Movimento, il contributo completo di Ubaldo Baldi si trova al seguente link.
Il Comitato Politico Operaio di via De Ruggiero a Pastena (1971–1974)
A distanza di anni ripensare ad una esperienza come quella del Comitato Politico Operaio a Salerno (1971–1974), obbliga certamente ad un tentativo seppur minimo di rinquadrare il clima politico di allora attraverso la ricerca dei termini e del livello del dibattito, delle condizioni oggettive e soggettive del Movimento Operaio in Italia e a Salerno, risistemando – magari approssimativamente – le coordinate di una visione delle cose che oggi non esiste più.
Il CPO nacque da una concreta iniziativa di alcuni militanti della sinistra non istituzionale o extraparlamentare, come allora venivamo definiti e il tono della definizione era quasi sempre dispregiativo, frutto anche soprattutto di una fitta collaborazione con le avanguardie sindacali di alcune fabbriche dell’hinterland salernitano. La sede fu scelta in base alla esigenza di localizzarla nel quartiere orientale della città, sia perché all’epoca era quello sicuramente a maggioritaria composizione popolare, sia perché più facilmente raggiungibile dalla periferia extraurbana (San Leonardo, Fuorni, Pontecagnano, Bellizzi, Battipaglia, ecc.). Va per inciso ricordato che il locale era sito al piano terra di una piccola palazzina abitata dai parenti di un compagno operaio della Ideal Standard, che lo diedero in fitto per una cifra pressoché irrisoria (anche se noi avevamo cronicamente il problema di autofinanziare qualsiasi iniziativa).
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Quello che è innegabile è che ci fu una sostanziale continuità del rapporto dialettico tra questo gruppo di militanti e le avanguardie operaie anche considerando i passaggi di militanza da una sigla all’altra delle organizzazioni politiche predette o il loro iter politico-organizzativo progressivo. In buona sostanza il gruppo di “lavoro operaio” rimase solidamente ancorato al dibattito e alle iniziative concrete di intervento nei luoghi di lavoro e anzi ne costituì momento di coesione anche rispetto a eventuali tendenze disgregative pur presenti al loro interno.
I movimenti di contestazione degli anni precedenti, le formidabili lotte operaie dell’autunno caldo avevano scompaginato i classici riferimenti politici della sinistra, vi era un acceso dibattito sulla burocrazia dei partiti, sul fallimento delle esperienze del socialismo reale, sulla attualità del centralismo democratico, e contemporaneamente vi era una diffusa aspirazione alla ricerca autonoma di nuove forme di democrazia reale e di cambiamento dei livelli di vita derivanti dai rapporti economici imposti dal capitalismo.
In quei primi anni settanta, vi era la consapevolezza di essere entrati in una fase storica nuova dovuta al percepire sulla propria pelle la crisi del modello di sviluppo capitalistico che si era consolidato, anche in Italia, iniziando dalla ricostruzione del dopoguerra passando attraverso il formidabile fenomeno dell’emigrazione interna e in Europa di enormi masse di contadini meridionali, fino alla fine del boom economico degli anni ’60.
Contemporaneamente la crisi capitalistica occidentale in questa fase specifica – oltre che essere determinata da cicliche strozzature del sistema – mostrava per la prima volta elementi costitutivi nuovi quali lo spettro della crisi energetica petrolifera e quindi del problema del controllo di dette fonti energetiche a livello planetario mentre si incominciava a parlare di ecologia e all’interno dei movimenti si introduceva il principio della difesa ambientale. Ma forse l’aspetto più importante era la consapevolezza che la crisi capitalistica aveva anche una causa soggettiva dovuta all’azione autonoma delle masse, cosa che determinava l’irrompere sulla scena di comportamenti incompatibili con i livelli capitalistici dell’epoca, contestandone i valori, la qualità e i meccanismi sia dell’economia politica che della formazione del consenso.
Venivano criticate le gerarchie, la divisione e l’organizzazione del lavoro, la gestione della tutela della salute in fabbrica che nel territorio, il ruolo della donna, ma da tutto ciò all’epoca – e poi non vi si riuscì definitivamente – non si era ancora determinata una crescita di proposte alternative concrete, di un progetto, di un programma.
A tutto questo corrispondeva, anche a livello locale, una difficoltà soggettiva del Partito e del Sindacato a tenere il passo con il sorgere di soggetti politici nuovi che sfuggivano di fatto ai rigidi meccanismi tradizionali di controllo sulle avanguardie. Vi era anche una nuova leva di operai (Ideal Standard, Pennitalia, Landis&Gyr, Sassonia, Superbox, ecc), non certo paragonabile all’operaio massificato e dequalificato delle grandi aziende del nord, ma che comunque aveva perso o non aveva mai acquisito, una sua specifica professionalità e sulle cui spalle veniva caricato tutto il peso degli elementi costitutivi della organizzazione del lavoro: ripetitività, facilità nella intercambiabilità della mansione, scarsa o nulla attenzione alla tutela della salute e ambientale e a cui corrispondeva nel sociale una crescita della inflazione con conseguente perdita di potere d’acquisto dei salari.
Proprio su queste tematiche nasceva il CPO, lo scontro non era solo salariale ma partiva da esigenze autonome e di comando operaio sui tempi di lavoro, sui livelli occupazionali, sulle qualifiche, sui superminimi, sull’ambiente di lavoro, quelli che venivano definiti i bisogni operai.
Si teorizzava, e lo si metteva in pratica, l’idea che partendo dall’affermazione di questi bisogni si potesse organizzare materialmente la lotta contro “il padrone” Ma la crisi veniva vista anche nel sociale come inflazione che erodeva consistentemente il valore del salario e la lotta sul salario divenne quindi in quegli anni uno dei temi principali della lotta operaia. E questo anche vedendo nella lotta sul salario la condizione necessaria oltre che alla tenuta del movimento all’interno della fabbrica anche come possibilità di mobilitazione di altre forze sociali colpite dalla inflazione. L’inflazione colpiva infatti non solo i salariati ma anche tutti i redditi fissi e questo all’interno di una società quale quella italiana determinava tensione anche nei ceti “medi”.
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… va ricordato il ruolo svolto dall’uso armato dei neofascisti e della strategia della tensione con il conseguente peso negativo che ha avuto sul lavoro politico in quel periodo a Salerno. Il lavoro nel CPO si dovette confrontare con la crisi determinata dalla morte di Falvella e da tutti i problemi che ne seguirono.
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Il CPO fu un tentativo, pur limitato all’arco di tempo che va dall’estate del 1971 all’autunno del ’74, che produsse risultati concreti nell’esaltare quei minimi livelli di autonomia delle lotte della classe operaia salernitana. Seppur partendo dalla voluta centralità di queste tematiche “operaiste”, contemporaneamente si ebbe la capacità di realizzare iniziative di lotta anche su un territorio pur variegato e composito quale quello di una provincia meridionale, che aveva vissuto una sostanziale continuità politica dal fascismo al potere democristiano. Queste iniziative avvennero coniugando esigenze in origine diverse ma che trovavano alla fine obiettivi comuni proprio dal confronto su temi concreti quali la difesa dei salari dall’inflazione e il suo riverberarsi anche nel sociale
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Le iniziative effettivamente sviluppate furono in concreto: la lotta contro la “truffa” della Vanoni [1] (che si sostanziava nella richiesta di pagamento di multe per tasse arretrate: la cosiddetta “ricchezza mobile” veniva calcolata a partire da 960mila lire annue), lotta per la salute (siamo ancora a sei anni dalla riforma sanitaria) con i primi timidi tentativi di inchieste sulla salute in fabbrica (alla D’Agostino e alla Ideal Standard), superamento della divisione tra chi studia e chi lavora (le 150 ore) ma anche esperienze quali la Scuola Popolare di Angri , la lotta di massa per la casa con la occupazione delle case a S. Margherita non ancora assegnate (ottobre- novembre 1972), l’autoriduzione delle bollette Enel.
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[1] Veniva definita impropriamente Vanoni dal nome del Ministro che aveva firmato la riforma tributaria nel 1950–51 con l’introduzione dell’obbligo della dichiarazione unica annuale che all’epoca era già defunto. La riforma Vanoni era rimasta a metà strada, poiché poggiava su presupposti quali la riorganizzazione degli uffici delle imposte e la relativa stabilità nella pressione tributaria, obiettivi che furono quasi del tutto mancati. Uno degli obiettivi dichiarati della riforma tributaria degli anni Settanta fu quello di fornire al governo centrale un maggior numero di strumenti per il controllo dell’economia, fu abolita la maggior parte dei tributi caratterizzanti l’ordinamento precedente, i comuni e le province furono espropriati delle imposte con le quali riuscivano ad autofinanziarsi e compensati con trasferimenti sostitutivi da parte dello Stato. Stato che contemporaneamente istituì due nuove imposte locali: l’ILOR, imposta locale sui redditi, e l’INVIM, imposta sull’incremento di valore degli immobili.