1 Gen, 1973 | Fondo DeriveApprodi, Musiche
Eugenio Finardi
Canzoni come specchi
Qualcuno potrebbe definirmi americo-italiano e penso che in parte questa definizione mi sta proprio bene.
Le ragioni sono molte: sono passato, come molti, attraverso un tunnel di suoni, una specie di grosso tubo di cellophan dentro al quale potevo sentire la musica dei Rolling Stones come la sonorità del blues senza dimenticare “i gorgheggi” e il clima della musica lirica. Già, mia madre era una cantante lirica e, come molti bambini che si rispettino, anch’io pensavo da grande di fare il cantante lirico. Ma i camaleonti cambiano molto spesso la pelle: ed io, che camaleonte non sono, penso di avere accumulato in questi anni molte pelli; se mi squamassi si potrebbe scoprire quella del negro dei blues, quella della musica dura e della mitomania per Mike Jagger e quella meno mitologica del cantautore di oggi. E quella dell’americo-italiano.
Non è una battuta: ho sintetizzato un processo che ho vissuto usando come metro sia la musica sia un atteggiamento mentale. Infatti ho sempre visto l’America come un grande luna park vivente, fatto di neon, magliette, telefilm e persone che non avevano tutte le «menate» del latino, del greco, della chiesa cattolica, della retorica e di quel genio italico che spero sempre muoia soffocato da una montagna di rifiuti. Non sono Tommy caduto sul pianeta Italia e neppure Mr. Smith in un viaggio di piacere.
La contraddizione, lo scontro, il confronto con la realtà italiana, con le radici milanesi, hanno sempre contraddistinto la mia vita. Non ho mitizzato l’America confrontandola con l’Italia, così come non ho disprezzato l’Italia confrontandola col mito americano: ho preso atto della diversità e della omogeneità fatta di squallore e di moralismo. Non il fallimento di un sogno ma la consapevolezza della necessità di essere dentro alle mie radici.
Da tutto ciò è maturato il mio interesse, il mio coinvolgimento nella realtà italiana, nella politica, nel Movimento, nello sbattimento per la droga, nella vita degli «scoppiati», nella quotidiana ricerca di un flash di felicità.
Come tanti, dopo un’estate a Terrasini, sono uscito dalla dipendenza dal mondo della droga, dal mondo dell’ideologia hippy: Parco Lambro ’74, la scoperta dei compagni, della solidarietà, di una dimensione politica. Tutto è cambiato, si è modificato con entusiasmo, con coinvolgimento: si è aggiunta un’altra pelle che ha coperto le smagliature precedenti. Canzoni ingenue, dure, schematiche, canzoni come specchi nei quali mi riflettevo tutto: questo è stato il mio primo album. Non sono «quello che canta nei dischi perché c’ha i figli da mantenere», ma perché vuole parlare, dire, fare, conoscere, confrontarsi: perché mi piace.
Inizia l’attività del cantautore o meglio cambia segno, dimensioni; il «vecchio» Finardi che modifica il testo degli altri per ritrovare i suoi testi, la sua musica, andare in giro.
Un modo diverso di «sbattersi»: ora la realtà è fatta di soldi, di camion, di luci, di palco, di migliaia di persone diverse: insomma di lavoro.
Questo scontro, questa conoscenza di una realtà diversa, solo pensata come esistente ma mai verificata, conosciuta, mi ha spinto ad una radicale modificazione del mio sentire, della mia precedente identificazione con gli emarginati: sono uscito da questo «ghetto» non per una scelta ideologica ma spinto, quasi guidato e «costretto» da una realtà di massa, dal mondo del lavoro quotidiano.
Non un nuovo flash, non la conseguenza di una reale o supposta popolarità, non per opportunismo, ma per uscire dai miti, dagli schieramenti, dalle scelte condizionate, per continuare un lavoro, un mestiere, un modo di essere, parlare, suonare, comunicare, dire, come sento.
Discografia: Non gettate alcun oggetto dai finestrini (Cramps); Sugo (Cramps); Diesel (Cramps).
LA RADIO
Quando son solo in casa
e solo devo restare
per finire un lavoro
o perché ho il raffreddore
c’è qualcosa di molto facile che io posso fare
è accender la radio e mettermi ad ascoltare.
Amo la radio perché arriva dalla gente,
entra nelle case e ci parla direttamente,
e se una radio è libera, ma libera veramente,
mi piace ancor di più perché libera la mente.
Con la radio si può scrivere,
leggere o cucinare
non c’è da stare immobili,
seduti lì a guardare,
forse proprio quello che me la fa preferire
è che con la radio
non si smette di pensare.
Amo la radio perché arriva dalla gente,
entra nelle case e ci parla direttamente,
e se una radio è libera, ma libera veramente,
mi piace anche di più perché libera la mente
MUSICA RIBELLE
Anna ha diciott’anni e si sente tanto sola
Ha la faccia triste e non dice una parola
tanto è sicura che nessuno capirebbe
anche se capisse, di certo la tradirebbe
la sera in camera prima di dormire
legge di amori e di tutte le avventure
dentro nei libri che qualcun altro scrive,
che sogna di notte, ma che di giorno poi non vive
e ascolta la sua cara radio per sentire
un po’ di buon senso da voci piene di calore
e le strofe languide di tutti quei cantanti
con le facce da bambini e coi loro cuori infranti
ma da qualche tempo è diffìcile scappare
c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare
è dolce, ma forte e non ti molla mai
è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai
è la musica, la musica ribelle
che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle
che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare
di mollare le menate e di metterti a lottare.
Marco di dischi lui fa la collezione
e conosce a memoria ogni nuova formazione,
e intanto sogna di andare in California
o alle porte del cosmo che stanno su in Germania
dice: «qua da noi in fondo la musica non è male,
quello che non reggo sono solo le parole».
Ma poi le ritrova ogni volta che va fuori
dentro ai manifesti o scritte sopra i muri.
È la musica, la musica ribelle
che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle
che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare
di mollare le menate e di metterti a lottare.
1 Giu, 1975 | Fondo DeriveApprodi, Musiche
Claudio Lolli
Mollate le menate
e menatene l’autore
«L’eclisse della canzone», mi verrebbe da dire, se è lecito che una cosa così terracquea (o terra-terra) come la canzone venga paragonata al dio.
Voglio semplicemente dire che, se fino a qualche tempo fa, la canzone trovava nella sua immediata rozzezza (sempre equivoca) una praticità utile per urgenza, oggi vive (o nasconde) la contraddizione di mobilitare (a pagamento) buona fetta delle masse giovanili (e delle masse-medie) senza avere niente da dire. Oppure (che è lo stesso) dicendo tutto in un modo talmente spudorato da privarsi dell’unica parvenza di funzione che potrebbe avere: l’inutilità.
L’occhio storico dovrebbe farci capire che il lanciatore di messaggi, il cantautore, ha ereditato con furbizia, magari inconsapevole, il bisogno di immaturità dell’ascolto, ha ereditato il populismo del canto (di)spiegato, ha ereditato la mediocrità del maestro di musica e dell’armonia pascoliana, ha ereditato infine il successo commerciale del divo. Ed io non vorrei che questo necessario travaglio sfociasse invece che in una scomunica, in una rinnovata investitura da parte di chi è nuovo alla scena politica, e non ha bisogno di battitori ne, appunto, dilanciatori.
Non è, naturalmente, autolesionismo, ma semmai autoironia: in ogni caso non credo né nell’intimismo crepuscolare della parola che più è trita più è «sentita», cioè nel pescare nella memoria come fonte di miti dolciastri («basta con la canzone consolatoria»), né nell’impegno socialdemocratico, da funzionario, di chi dice e spiega, e cerca di vendere il suo «world in progress» (con le contraddizioni annesse e intercambiabili, naturalmente) alle piccole burocrazie locali desiderose di «cultura» («basta con la canzone impegnata»).
Basta, probabilmente, con la canzone: non per snobismo né per sentimento di catastrofe, ma perché oggi dobbiamo accorgerci che la canzone non ha mai consumato radicalmente nessun linguaggio e sta quindi rivomitando linguaggi non digeriti, così come li ha divorati: l’impegno da, un lato e il romanticismo dall’altro le sono serviti da impossibile Alka-SeItzer.
«Ma io non ci sto più, disse lo sposo e poi»: non c’è bisogno di impazzire per sostenere che oggi «in canzone» non si può tentare che qualcosa di assolutamente «inutile», o comunque perlomeno di innominabile: l’unico modo per dire qualcosa è quello di non dirlo, perché quel «non-dirlo» solamente può spingere a fondo il bottone del piacere, o, se vi fa piacere, della comprensione.
È quello che ho cercato di fare nel mio disco Disoccupate le strade dai sogni: purtroppo la realtà non ha voluto che il suo significato rimanesse a lungo ambiguo: la socialdemocrazia, irritata forse dai tromboni, ha subito voluto dimostrare di possedere anche i carriarmati; l’ultimo atto non era previsto nel copione, viene solo testimoniato, con la scambiabilità del suo linguaggio, nell’ultima canzone I giornali di marzo, l’unica composta dopo il «fattaccio».
Non spieghiamo più niente: il potere è chiaro ed è «utile», ed ha anzi bisogno di gente che vada in giro a spiegare la sua evidenza, la sua utilità. Lavoriamo (o lavorate se volete) ad una canzone assolutamente inutile. Del resto, se mi si concede la citazione, credo che Benjamin avesse veramente ragione quando diceva che «l’arte per l’arte non è stata quasi mai da prendersi alla lettera, è stata quasi sempre una bandiera sotto cui viaggia una merce che non si può dichiarare perché non ha ancora nome».
Discografia: Aspettando Godot (EMI), Un uomo in crisi Canzoni di morte, canzoni di vita (EMI), Canzoni di rabbia (EMI), Ho visto anche degli zingari felici (EMI), Disoccupate le strade dai sogni (Ultima spiaggia).
Ho visto anche degli zingari felici
E’ vero che dalle finestre
Siamo noi a far ricca la terra
noi che sopportiamo
la malattia del sonno e la malaria
noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
noi piantiamo il mais
su tutto l’altopiano.
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano
ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
con che poi tutti gli altri
restano favoriti.
E siamo noi a far bella la luna
con la nostra vita
coperta di stracci e di sassi di vetro.
Quella vita che gli altri ci respingono indietro
come un insulto,
come un ragno nella stanza.
Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,
riprendiamoci la vita,
la terra, la luna e l’abbondanza.
E’ vero che non ci capiamo
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.
E’ vero che spesso la strada ci sembra un inferno
o una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.
E’ vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra
non riusciamo a vedere la luce
perché la notte vince sempre sul giorno
e la notte sangue non ne produce,
è vero che la nostra aria
diventa sempre più ragazzina
e si fa correre dietro
lungo le strade senza uscita,
è vero che non riusciamo a parlare
e che parliamo sempre troppo.
E’ vero che sputiamo per terra
quando vediamo passare un gobbo,
un tredici o un ubriaco
o quando non vogliamo incrinare
il meraviglioso equilibrio
di un’obesità senza fine,
di una felicità senza peso.
E’ vero che non vogliamo pagare
la colpa di non avere colpe
e che preferiamo morire
piuttosto che abbassare la faccia, è vero
cerchiamo l’amore sempre
nelle braccia sbagliate.
E’ vero che non vogliamo cambiare
il nostro inverno in estate,
è vero che i poeti ci fanno paura
perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,
amano l’odore delle armi
e odiano la fine della giornata.
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.
E’ vero che non ci capiamo,
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e non facciamo mai niente.
E’ vero che spesso la strada ci sembra un inferno
e una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli,
è vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Piazza bella piazza
Piazza, bella piazza
ci passò una lepre pazza,
uno lo cucinò, uno se lo mangiò,
uno lo divorò, uno lo torturò,
uno lo scorticò, uno lo stritolò,
uno lo impiccò
e del mignolino ch’era il più piccino
più niente restò.
Piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza…
Ci passarono dieci morti
i tacchi, e i legni degli ufficiali,
teste calve, politicanti
un metro e mezzo senza le ali,
ci passai con la barba lunga
per coprire le mie vergogne,
ci passai con i pugni in tasca
senza sassi per le carogne.
Piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza…
Ci passò tutta una città
calda e tesa come un’anguilla,
si sentiva battere il cuore,
ci mancò solo una scintilla;
capivamo di essere tanti
capivamo di essere forti,
il problema era solamente
come farlo capire ai morti.
Piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza…
E fu il giorno dello stupore
e fu il giorno dell’impotenza,
si sentiva battere il cuore,
di Leone avrei fatto senza,
si sentiva qualcuno urlare
“solo fischi per quei maiali,
siamo stanchi di ritrovarci
solamente a dei funerali”.
Piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza…
Ci passarono le bandiere
un torrente di confusioni
in cui sentivo che rinasceva
l’energia dei miei giorni buoni,
ed eravamo davvero tanti,
eravamo davvero forti,
una sola contraddizione:
quella fila, quei dieci morti.
2 Mar, 1976 | Fondo DeriveApprodi, Musiche
Gianfranco Manfredi
Gianfranco Manfredi, già del Gruppo Gramsci e ora redattore di “Re Nudo”, è un autore «dell’area dell’autonomia», intendendo con questo termine non una delimitazione di confini politici di organizzazione quanto piuttosto l’indicazione di un riferimento e di un’ispirazione a comportamenti, idee, clima culturale in qualche modo omogenei. La sua presenza in questa antologia non risponde semplicemente a un’esigenza di completezza (dar voce anche a questa componente dell’area politica di sinistra) ma è motivata dalla qualità del suo lavoro. La sua produzione infatti, seppure contraddittoria e approssimativa, ha una sua originalità e ricchezza di intuizioni.
Si può dire che Manfredi non copia nessuno dei più vecchi ed esperti autori politici (cosa rarissima), ed è difficile collocarlo nei filoni tradizionali del canto militante contemporaneo; questo anche per l’eterodossia del patrimonio culturale dell’area politica a cui appartiene e di cui il suo ultimo lavoro (Ma non è una malattia) è fedele espressione. È un patrimonio culturale che meriterebbe un’analisi approfondita non perché particolarmente complesso (anche chiamarlo «patrimonio» è probabilmente eccessivo, non trattandosi di alcunché di definito e di consolidato) ma perché singolarmente contraddittorio rispetto ai consueti riferimenti culturali della sinistra riformista e di quella rivoluzionaria. Un’area politica, quella a cui Manfredi appartiene, che, nata in radicale e diretta contrapposizione alla sinistra nel suo complesso, era inevitabile rompesse radicalmente anche col retroterra ideologico di quella; tale rottura ha proceduto su due itinerari diversi ma, infine e singolarmente, coincidenti: il primo è quello del recupero del giovane Marx (quello dei Manoscritti economico-filosofici, per intenderci, della Sacra famiglia, dell”Ideologia tedesca), quello che scrive della necessità per l’uomo di riappropriarsi di «tutti i rapporti umani che ha con il mondo, vedere, udire, odorare, gustare, toccare, pensare, intuire, sentire, volere, agire, amare; in breve: tutti gli organi che costituiscono la sua individualità»; è un recupero non inutile, e perché si tratta di un Marx che il marxismo tradizionale ha censurato e mutilato, e perché in questo recupero si esprime la volontà di larghe masse di riconoscere i propri bisogni e i propri desideri dentro un’ispirazione collettiva, dentro un quadro di riferimento che è quello della concezione materialistica del mondo.
Il secondo itinerario è quello del recupero della grande cultura non marxista di questo secolo per ritrovarci il filo conduttore di un discorso sull’uomo totale e annetterlo alla nuova cultura rivoluzionaria in formazione e in trasformazione. Da qui, una rilettura di Breton, Freud, Kafka, Nietzsche, Artaud, Adorno, Lacan e il ripensamento sul surrealismo e l’irrazionalismo, sul decadentismo e l’esistenzialismo.
La coincidenza tra i due itinerari non è certo facile e può comunque avvenire solo a prezzo di contraddizioni anche laceranti; ma questo non appare un limite a chi intende fare di questa «nuova cultura», innanzitutto, terreno di contrasti e di conflitti; i limiti veri sono rappresentati dal possibile schematismo nell’opporre, alla resa dei conti, Marx giovane a Marx vecchio, Marx umanistico e Marx economicista, o addirittura Marx sensuale a Marx asessuato, da una parte; e dall’altra di ripetere il vecchio discorso riformista (un’altra consueta forzatura del marxismo) sulla possibilità per la cultura della classe operaia di assumere e sintetizzare tutta la grande cultura della borghesia («La cultura rivoluzionaria come continuazione di tutta la storia della cultura delle classi dominanti», come scriveva Occhetto dieci anni fa caricaturizzando Lenin). Il che poi, sul terreno della cultura quotidiana intesa come gusti, scelte, orientamenti, porta ad affastellare indiscriminatamente, nel giudizio positivo, Sergio Leone e Peckinpah, II portiere di notte e Ultimo tango, Easy Rider, Dario Fo, Carmelo Bene, Paolo Poli, Giorgio Gaber e Kerouac (vedi la canzone Quarto Oggiaro Story, che non è solo una canzone ironica); e, ridotto in termini ancora più spiccioli, fa scrivere alla rivista «Rosso»: “A noi invece piacciono i film western, quelli della crisi, il teatro-provocazione (quando lo è veramente), il rock, i fumetti più illogici possibile, i libri senza martiri e senza eroi, la riscoperta del proprio corpo, della immaginazione e della fantasia, ci piace il whisky e il comunismo lo pensiamo come una cosa molto lussuosa dove nessuno starà a piedi nudi su una zolla di terra a sudare piscia e sangue». Tutto ciò si ritrova anche nei testi di Manfredi, detto con sapienza e dolcezza maggiori. Il risultato, musicale e letterario, ci sembra – al di là del nostro radicale dissenso – quanto di meglio 1′ «area dell’autonomia» ha prodotto in campo culturale. L’ingenuità e le leziosità, gli schematismi e le rozzezze che pure ci sono – e sono numerosi – non annullano, in sostanza, il carattere di novità del lavoro di Manfredi; e la sua coerenza nel voler esprimere in canzone il suo (loro) modo di coniugare il personale e il politico, «la curva dei fianchi» e «il mitra lucidato», «i momenti di ubriachezza» e «la fine dello Stato».
Discografia: Per lo Spettro: La crisi, 1972. Per l’Ultima spiaggia: Ma non è una malattia, 1976. Per La poiana: Liberiamo, 1976.
Alla composizione delle canzoni di Manfredi hanno collaborato Ricky Gianco e Giuliano Illiani.
Ma chi ha detto che non c’è
Sta nel fondo dei tuoi occhi
Sulla punta delle labbra,
sta nel corpo risvegliato
nella fine del peccato
Nella curva dei tuoi fianchi
Nel calore del tuo seno
Nel profondo del tuo ventre
Nell’attendere il mattino.
Sta nel sogno realizzato,
sta nel mitra lucidato.
Nella gioia e nella rabbia,
nel distruggere la gabbia
Nella morte della scuola, nel rifiuto del lavoro
Nella fabbrica deserta, nella casa senza porta
Sta nell’immaginazione, nella musica sull’erba,
sta nella provocazione, nel lavoro della talpa,
nella storia del futuro , nel presente senza storia,
nei momenti di ubriachezza, negli istanti di memoria.
Sta nel nero della pelle, nella festa collettiva,
sta nel prendersi la merce,
sta nel prendersi la mano, nel tirare i sampietrini,
nell’incendio di Milano,
nelle spranghe sui fascisti nelle pietre sui gipponi
Sta nei sogni dei teppisti
e nei giochi dei bambini,
nel conoscersi del corpo,
nell’orgasmo della mente,
nella voglia piu’ totale,
nel discorso trasparente.
Ma chi ha detto che non c’e’.
Sta nel fondo dei tuoi occhi
Ma chi ha detto che non c’e’.
Sulla punta delle labbra
Ma chi ha detto che non c’e’.
Sta nel mitra lucidato
Ma chi ha detto che non c’e’.
Nella fine dello Stato
C’e’, si’ c’e’
Ma chi ha detto che non c’e’.
Ma non è una malattia
Mi hanno detto: sei scoppiato
come ti sei rovinato
dimagrito, sembri quasi uno zombie
…sarà colpa delle notti
che ho passato ad aspettare
cose che forse dovevano arrivare.
Ma non è una malattia
no, non è una malattia
e non è una malattia
malattia.
E mia madre m’ha guardato
dice: come sei finito!
cosi in basso non t’avrei pensato mai…
Sì ma in basso puoi scoprire
le sottili incrinature che non puoi studiare all’Università.
Ma non è una malattia
no, non è una malattia
e non è una malattia
malattia.
Mi hanno detto: il tuo vestito
sembra veramente usato
non ti cambi mai, mi sembri proprio giù.
Beh scusatemi ragazzi,
oggi non ho altro da pensare
ho il mio abito di dentro da cambiare.
Ma non è una malattia
no, non è una malattia
e non è una malattia
malattia.
Mi hanno detto: il tuo lavoro
non è una cosa sicura
ogni mese cambia e dopo che farai?
Forse sono un pò svanito
ma il domani non esiste
e quest’oggi io non voglio essere triste.
Ma non è una malattia
no, non è una malattia
e non è una malattia
malattia.
Quarto Oggiaro Story
T’ho incontrata a Quarto Oggiaro davanti al Supermarket
saccheggiato (oh ye) avevi in tasca una scatola di tonno dello
Wyoming… si vede che la tua coscienza politica era scarsa…
lo ci ho qua il bourbon, io ci ho qua il vischi io ci ho qua
il caviale che a differenza del tonno non fa male, lo questa sera
mi bevo lo champagne circondato da quattro compagne…
Mentre tu te mange ‘o tonno
con quel fesso di Totonno
Ti ho incontrata alla prima visione, dopo l’appropriazione. Tu hai
visto un Franchi ed lngrassia mentre lì vicino facevano un film
inchiesta sulla CIA. Eh ma la tua coscienza politica è proprio
scarsa lo ho visto il Bertolucci, ho visto la Cavani S. Francesco
e i sette nani vestiti da nazisti ho visto Scapponsanfan’ dei
fratelli Taviani, C’eravamo tanto armati e diciotto film di marziani
(micidiale!) in cineteca. lo questa sera mi vedo i filmini svedesi
con due compagne cinesi…
E tu te vede ‘a televisione
co’ Totonno fetentone
Ti ho incontrata alla Feltrinelli, tu fregavi solo gialli, neanche
belli… ristampe. Si vede che la tua coscienza politica è proprio
scarsa. Guarda me: io ci ho qua il Kerouac, ci ho qua il Garcia
Marquez ci ho qua il teatro di Fo, chissà che cosa me ne fo…
lo questa sera mi leggo la Morante con una bimba tutta
pimpante
E tu te legge Agata Criste
co’ Totonno poro criste
T’ho incontrata davanti all’armeria in attesa, con la borsa della
spesa… esagerata! Io compravo i soldatini, tu un fucile coi
piombini. Si vede che la tua coscienza … è in crescenza. lo ci
ho a casa la Corazzata Potiemkin Politoys, ci ho la spada del
nonno carabiniere, ci ho le pistole di madreperla e il matarello
di madre pirla, ci ho le guns di plastica di Jasse James e il
mitra in simillegno con il fodero in similpelle e proiettili in
silmilsalve
E tu te mette a ffa cagnara
co’ stu cazz’ de lupara
e Totonnino ‘o fetentone
tene ‘na sberla de cannone
e un tuo amico di Potopp
tene quaranta molotopp
e uno dell’autonomia viaggia sempre co’ la zia
” cocosa c’entra la zia?” Pesa cinquecento kili e può sempre
servire.., calata dall’alto. Forse la tua coscienza è troppo
in crescenza…
Brrrr…
1 Lug, 1977 | Fondo DeriveApprodi, Musiche
Romano Madera
La musica è
politicamente sospetta
Politica e musica
La moda, anche quella politica, ha rivalutato musica, canto e danze.
Non che prima del movimento del ’77 le note politiche non esistessero. Anzi. Solo, prima della crisi della figura del militante, più o meno dal ’73 in poi, facevano sfondo, erano parte della coreografia. Come le marce militari rispetto alla battaglia. Decisiva è la battaglia, il tamburo batte nell’intervallo, per tenere in alto i cuori. Le due musiche preferite: bandiera rossa e L’internazionale futura umanità. Per essere futura quella umanità si accompagnava con alcune delle peggiori marcette dell’Ottocento. I particolari del quadro erano forniti da comizi ed esortazioni prosastiche rifocillate da qualche ritmo, pigramente stiracchiato per non annegare la voce recitante. Un revival, adattato come ogni revival che non si rispetti, del poco musicale ma tanto glorioso antenato, il proletariato Ottocento-inizio Novecento.
Possiamo azzardare due funzioni al revival. La prima è la stessa della riesumazione, fatta senza ordine alcuno, frugando in mezzo ad impettiti busti di persone gravi con i gesti casuali e un tantinello rozzi di turista in vacanza che fa shopping al Gran Bazaar, di testi sacri, liturgici e persino della raccolta di immaginette classificate con tanta cura dal movimento operaio. Ogni movimento nuovo, recitava il sacro canone, ama prendersi a prestito vecchi costumi, un po’ per nobilitarsi ai suoi propri occhi, un po’ per dare ad intendere la sua legittimità. Non essendo più prevista la provvidenziale opera di Dio, il riconoscimento del figlio legittimo deve essere, laicamente, scovato dal ragazzino della storia, moderna dea. Così facevano i rivoluzionari fine Settecento-inizio Ottocento con l’antica Roma (e, mio Dio!, i controrivoluzionari del Novecento) così facevamo noi, tirando la barba di Marx, e di molte altre divinità meno degne, per coprire di panno nobile, di alto lignaggio, le nostre trovate di ultimi venuti. Se poi si cantano gli stessi inni è ovvia la pretesa di ricostruirsi una patente di legittima eredità: siamo noi i continuatori di quelle gesta: delle lotte per le dieci ore, per il voto, della rivoluzione russa ma anche di quella anarchica mai fatta, chissà mai, di quella cinese ma pure della resistenza italiana, di Castro e di Josè Marti, e forse di Bolivar passando per via Lumumba, senza dimenticare Kronstadt che pure era vittima di un altro nostro antenato e così via. D’altra parte, l’Edipo di Sofocle, senza aspettare Freud, già lo sapeva che nelle storie di famiglia il volerla saper lunga costa caro. È infatti meglio, meglio assai davvero, ricordarsi le fanfare. Così Addio Lugano bella, L’internazionale di Lenin (e di Stalin), prendiamo la falce e il martello, le otto ore. Che Guevara, Gorizia… cantiamo ragazzi che arriva il vino, potrebbe scapparci un tarallo! Che delizia la Storia travolta dalla popolana frenesia della tarantella,
La seconda funzione di tanto riesumare era quella di arrivare, come nelle commedie piene di equivoci, all’inequivocabile riconoscimento: che mamma storia ci dicesse, oggi, riportandocelo a casa per guidare la famiglia, che il nostro papa era davvero lui, il proletariato dai tanti figli.
Benché molti ancora si ostinino, questo padre di consueto così partecipato e serio, ci tollera, al massimo, come figli adulterini, nati dalle sue meno serie avventure. Il proletariato organizzato, disciplinato e unito dalla fabbrica, camera nuziale del suo connubio, si diceva, col socialismo scientifico, non ci può soffrire. Preferisce i certificati, fa genealogie al Municipio e davanti allo Stato, sceglie la famiglia, continua ad ungere del suo crisma i primogeniti. Giacca e cravatta e voto al PCI. Qualche volta si incazza, ma è solo una lite in famiglia. Questi cenciolosi, proletari sotto e semi, sfasciume sociale di vario tipo senza neanche nomi precisi, per carità.
Non è che già allora non vi fosse chi, inquieto, restio a credere alle ripetizioni, un po’ meno provinciale, si occupava della musica viva del movimento internazionale e vi rintracciava sintomi di quel che si dovesse intendere per la «natura del movimento».. E affannato si domandava se non vi fosse qualcosa di più e di meno delle avvisaglie di una ripresa proletaria rivoluzionaria. Ci vedeva una sorta di movimento controculturale, insomma una lotta di civiltà che passava non più tra una classe e un’altra ma che attraversava la classe stessa.
Mi parrebbe segno di accademismo, vieta puzza sotto il naso, non avere il coraggio di dire chi. Questo «chi» erano poche persone, raccolte principalmente attorno a «Re Nudo» e ad Andrea Valcarenghi. Capita spesso di sentire qualche ex leader operaista attribuirsi la paternità del Movimento. Non solo queste affermazioni non tornano in musica ma neppure possono essere sessuate, tanto meno provengono da zone di coscienza alterate. Va da sé che ai bei tempi si sbeffeggiavano, sputacchiavano, si consideravano beoti i pochi embrioni, gli annunci sintomatici dell’interiore evoluzione-rivoluzione che di lì a poco avrebbe sensibilmente mutato gran parte del movimento di opposizione.
Quindi, da una parte la musica, nel bene e nel male, sentita da tutti o quasi, dall’altra il giudizio politico e le marcette, anche qui da parte degli stessi tutti. O quasi. La consueta divisione fra sensibilità culturale e riduzione razionalistica della cultura politica o della politica culturale.
È confortante che nel ’73 qualche politico, come Gianfranco Manfredi, prestasse orecchie attente all’altra sponda e cominciasse a fare dell’ironia, in musica e versi, sul preteso universo chiuso della militanza. Non a caso, credo io, l’oggi risibile nuovo modo di far politica agitava mente e passioni di quello strano gruppo, era d’avanguardia va detto, di gente sbagliata nel mestiere sbagliato col nome sbagliato, che era il «Gramsci». Il ’73 è un anno di grande crisi del movimento del ’68.
L’impotenza, che ben pochi seppero misurare, delle ricette partitiniche, leniniste comunque denominantesi, la miseria dell’universo scandito dalla coppia di concetti classe e Stato, covava sotto il fuoco fatuo della sinistra rivoluzionaria gruppuscolare. Dio dollaro che dal ’71 si scuoteva nel tentativo di Sisifo di rimettere in sesto il suo mondo accendeva le faville della crisi mondiale sotto barili di petrolio. D’improvviso appariva concreta la dimensione dello scontro, l’arena era il mondo, e non il mondo che tifava per il Vietnam senza avere il cannone in casa, il mondo che spareggiava i conti ogni tre mesi con la lira. Carli, Banca e Governo apparvero per quel che erano e sono, anche se Carli ha cambiato mestiere, marionette dell’invisibile burattinaio a nome mercato mondiale. Né più vicino, era possibile confortarsi tanto. Mirafiori imbandierata a grande sezione di Lotta continua concludeva una tormentata stagione d’amore. L’avventura era finita proprio quando la conquista pareva riuscita. Di lì a poco, ritrosa e stizzosa come una vera moglie, la classe operaia organizzata, la speranza universale di liberazione, sarebbe tornata, malinconicamente, tirando calci e sfuriate, al tetto legittimo, nella pur vana speranza di avere un marito decente. Ma forse la storia li ha sposati così e, in fin dei conti, se non si sa volere altro che il proprio male, recita il proverbio, non c’è che da piangere se stessi.
Di soppiatto la politica dei gruppi si aggiornava, essendoci costretta. In fondo perché restare fedeli alle marcette, una volta scoperto che l’operaio adulto e maschio tirava per le lunghe e che, all’inverso, i giovani, proletari semi e sotto e per niente, le donne, i diversi, allentata la speranza e la possibilità di scaricare le energie che protestavano contro la gabbia della Norma, e della Conformità al Mondo Così Com’è (meglio, al Mondo come la sua faccia in luce attesta, bluffando, che sia) e di realizzarle in militanza, nicchiavano ormai ai richiami di mobilitazione? Meglio darsi una spolveratina. Fare concerti. Farli divertire questi ragazzi prestando loro qualche secondaria attenzione. E in fondo a suon di musica ci si finanzia.
Non è stato così. È stato un benedetto vaso di Pandora. Pandora era curiosa, intelligente, non le piaceva un mondo che serbava i suoi malanni sotto il coperchio, per questo lo tolse. Mille fili cominciarono a ritrovarsi, anche se qualcuno ritiene che l’unico sbocco del sensibile mondo che cerca di farsi luce sia ancora sempre e soltanto quello della politica. Ma per essere soltanto o fondamentalmente quello della politica, la canalizzazione di un mondo sommerso (da secoli e, o, da millenni e, o, da sempre), mondo di corpi, di sensibilità, di forza, contro mondi di logiche oggettive, di valori, non può che essere canalizzazione di distruzione, violenza anch’essa macchinizzata, nuova negazione di corpi, sensibilità, forze, fantasie. Mille fili, a matassa, spesso sgradevoli a vedersi, si ritrovano. Nessuno riesce a. fornire loro, per fortuna, e per questa fortuna si sono così brillantemente sbrigliati nel ’77, una solida prospettiva «politica» per il futuro. Sono come erano i loro albori negli USA, dopo lo squallido ritorno dalla Corea a metà degli anni ’50, come L’Urlo di Ginsberg annunciava, una malattia di questo mondo, e per questo tendono a rappresentare il sintomo di una nuova civiltà, una misura e una forma di relazione totalmente diversa fra il mondo sommerso e negato e il mondo sommerso e affermato di questa civiltà, della civiltà cristiano-borghese realizzata come tecnica della produzione e del dominio, del disperato dominio della natura e della società.
L’urlo di ciò che è stato affogato, quasi senza interruzione, lungo più di quattrocento anni e per certi aspetti più di duemila anni e per certi aspetti da sempre, non è un gridolino educato. D’altra parte per orecchie così assordate come le nostre, solo urla feroci possono pretendere di essere udite. E forse solo un po’ d’Africa trapiantata al colmo della disperazione americana poteva favorire il parto di una musica del genere. Una musica che richiede anche gambe, va detto, è già un bel passo, non si sa per dove, l’importante è che sia un passo, e non di marcia.
Tuttavia questo non è che un aspetto. La vecchia società, sotto il manto rosso che non è più del pazzo ma del rivoluzionario lucido, macchinalmente preciso, almeno così vuol essere, cerca l’addomesticamento. Vuole che si accompagni la lotta politica. Vuole una musica belletto.
Una nuova edizione delle marcette. Finardi è purtroppo esemplare. Dice bene e riesce, sì, a vendere proprio per questo «una musica ribelle che ti entri nella pelle» ma a far che? Per «smettere le menate» e «metterti a lottare». Menata, quando ero fanciullo, era la masturbazione. La masturbazione è in effetti un eccellente metro per giudicare dai sintomi la vitalità di un mondo. Pan, il dio pan, il capro, il dio cornuto, il dio energia del tutto, il dio del desiderio, era, per i greci, il dio che era presente nella masturbazione. Si dice che marinai abbiano udito, regnante Tiberio, cristianesimo all’orizzonte, un urlo: «Pan il grande è morto». Finardi vuole la musica non per la masturbazione, faccende tra loro più affini per chi abbia orecchie non solo sulla testa ma sulla spina dorsale e sappia captare i brividi strani che la risalgono e che eccitano ascoltando musica non domestica o da cortile, brivido che ha lontane parentele con l’impulso masturbatorio, ma Finardi vuole musica per mettersi a lottare. Finardi è un po’ prete (cattivo) e un po’ generale: cioè è un cantante da messa, politica s’intende.
Non a caso, politica e messa, si servono con musica: sì, per trasferire indebitamente l’eccitazione musicale sull’adesione ad un discorso, a dei valori. Ogni politica, come ogni etica, è logicamente ed emotivamente debole. Nè la ragione né le pulsioni possono fondare i divieti, le prescrizioni etiche e politiche. Casomai è il contrario. Allora si portano pulsioni musicalmente suscitate, vi ricordate Orfeo e le fiere ammansite?, ad identificarsi Con una rappresentazione ideologica, in modo da impedire una critica solo lucida e, fissandole alla rappresentazione, impedire che le pulsioni vadano per conto loro.
Ho scelto Finardi che eccita, perché si lotti, come emblema di tanta, troppa gente della musica di movimento. Scelgo Manfredi al polo opposto, che spinge la critica alla politica nel testo così a fondo da far nascere desideri musicali al di là del sostentamento forzato, del tributo, che la musica continua a pagare alla politica.
Entrambi, presi insieme come due poli che definiscono metaforicamente uno spazio, rappresentano bene il fermento che trascina il movimento, e noi che siamo mossi dagli stessi fermenti: ora nel volere nuove rappresentazioni politiche, ora nel voler oltrepassare questa prescrizione assoggettando il politico bue all’affermazione di una cultura, nel senso di coltivazione, della vita.
Poiché fino ad oggi si è soltanto recintata la vita, si è coltivata la difesa e la reazione alla vita, pretendendo, in questo modo, di vivere. Ci tocca adesso chiarire qualcosa del rapporto fra musica e politica.
Musica e politica
Musica e politica: se teniamo l’occhio su quella «e» che unisce i due termini potremo renderci conto dell’inganno. Non si tratta, infatti, di un tranquillo ritrovarsi, né tampoco di una facile unione, si tratta di una lotta che l’opaca rassegnazione al buon senso vorrebbe, e vuole decidere: già nel segno di una vittoria della politica. Le «e» dei termini messi accanto a questa deità divoratrice li accompagnano come guinzagli di cani condotti, senza saperlo, in una passeggiata il cui segreto è la camera a gas, la morte per asfissia.
Così vuole la parola scritta, così ha voluto spesso la ragion di stato, o di nazione, o di partito, o di chiesa. Il numero è infinito, dei tentativi ripetuti di far servire la musica da belva fiaccata, da tigre ingattita, aggiogata al carro di trionfo di una qualche impersonificazione delle istituzioni. Dal canto gregoriano alla musica della riforma e della controriforma, alle marce militari, a Goebbels che gonfiava il suo povero destino cercando di trafficarlo, sottobanco, con l’emozione del destino stesso che risuonava dalla quinta beethoveniana. E alle celebrazioni sovietiche, e alla nona cantata a Pechino nel giorno della vittoria. Ma la musica è una belva difficile, la sua mansuetudine può rivelarsi d’un tratto selvaggia, può ricordarsi della sua origine e servirla, invece di inchinarsi ai suoi effetti. Accadde così che Beethoven, passeggiando con Goethe, a differenza di quest’ultimo, non si tolse il cappello davanti alla famiglia imperiale.
Lenin si emozionava tanto come ascoltatore di musica da proibirselo, per non disturbare la autocreazione di sé come perfetta macchina al servizio della causa proletaria. Settembrini, l’ideologo dell’umanesimo progressista della Montagna incantata, sentiva la musica come «politicamente sospetta». Il politico teme per il suo mestiere-identità e allontana da sé questa fonte di possibile disturbo. Ha profonda ragione, il suo istinto da animale di città è percorso da tremiti all’annuncio dell’inattesa ferocia che la musica, quando non sia addomesticata in funzione illustrativa di altro, spira da sé.
Come spiegare questi combattenti strani, da quali lontane regioni giunge a noi la loro inimicizia? Se Marx trova un limite alla sua capacità di spiegare e quasi si sofferma su di una soglia di mistero, ciò gli accade di fronte alla grande poesia greca e alla tragedia. Su quella soglia invece nasce il volo prodigioso di Nietzsche, che indaga la tragedia per riscoprirvi l’origine nello spirito della musica.
Gli interessi, le vesti di cittadino e, in genere, la rappresentazione di una parte – e allora, ben capite, ogni partito! – sono un’estensione del sentire il discontinuo, la separatezza degli individui fra loro e in loro, e il nesso solo sociale che li collega; l’agire politico implica lucidità e calcolabilità, attenzione al rapporto di forza, non travolgimento corporeo in balia di una scossa che ne esige il desiderio di rifusione con il tutto: «Si trasformi l’inno alla “gioia” di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l’immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la “moda sfacciata” hanno stabilito fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso. […] L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria. Qui si impasta e si sgrossa l’argilla più nobile, il marmo più prezioso, l’uomo, e ai colpi di scalpello dell’artista cosmico dionisiaco risuona il grido dei misteri eleusini: Vi prosternate, milioni? Senti il creatore, mondo?» [1].
Non è questa una via di liberazione, per lo schiavo e per il padrone, una via di ebbrezza che la troppo lucida mente del politico, di Settembrini e di Lenin, non può che avvertire come ostile, mistificatoria, oppiacea, tanto pericolosa quanto trascinante e seducente? La macchina del partito, il quadro comunista, non deve sentire le note rapinose che ne cancellano l’identità di ruolo, l’essere politico, il rappresentare una parte contro un’altra. Nel trionfante corteo dionisiaco una parte e l’altra si rivelerebbero, persino nei loro più sanguinosi reciproci affronti, maschere dello stesso gioco, e Fattore nella musica volgerebbe, inquietamente, gli occhi su di sé, ridendo fino a scoppiare di un travestimento che è la sua stessa pelle.
Ci sono tempi oscuri, o troppo chiari, forse troppo patinati, tempi nei quali la vista, attratta dalle superfici che le si offrono così nette rimane catturata, e l’abile potenza del serpente danza ridicolmente alla pantomima suggerita dall’incantatore. Tempi così lindi da inorridire dell’orrido, così esperti nel confinarlo, nell’uguagliarlo al listino di borsa e all’andamento del traffico. I carri funebri passano inosservati e, se osservati, ingiuriati dall’esorcismo più Vigliacco. Nel più funebre mondo mai spettacolarizzato sulla scena del tempo. In questi tempi così chiari ogni accenno all’abisso deve essere immantinente riscattato: se brucia una città stiamo sicuri di leggere la mattina dopo le più sperticate lodi dei pompieri o la più accesa denuncia dell’inefficienza dei pubblici poteri.
Le luci sono così potenti da non lasciare ombre sull’identità dei personaggi: tutti si sentono molto «se stessi». Il miracolo è fatto: tutti sono ognuno ma nessuno sospetta di chiamarsi nessuno, e si appoggia sicuro sulla sua identità irriproducibile, che è la pura e semplice geometria di un naso storto così e non dritto colà. Tant’è quanto resta dell’individualità. Marx aveva strappato almeno parte del segreto alla sfinge: le persone sono persone, maschere di cose, di cose-merci, di quantità di «valore».
Ma nature troppo deboli, troppo figlie del loro tempo, hanno letto i suoi messaggi. L’aria tragica che vi circola, di teatro dell’orrore e del vuoto, è stata sostituita con accorte esortazioni proteiniche a farsi forza e a non smettere di lottare né tampoco, di sperare nell’avvenire. Queste nature sfatte (e il significato è letterale: in ciascuno in quanto uguale agli altri, in questa civiltà, la natura è sfatta), queste illusioni individuali, illusorie quanto atomi distinti che pretendano differenziarsi solo perché sono distinti, come potrebbero reggere l’immersione che la musica suggerisce e talvolta compie al di là dell’io, delle tranquille certezze, in un continente di affinità così strette da confondersi e da soffocare le distanze poste fra sé e il sentimento «panico», totale della vita? In quel continente il più atroce dolore fa soltanto la sua parte nell’orchestra, la tragedia conosceva così bene la mappa di quest’avventura da innalzarla alla visione del mito, ripetendo in esso lo sforzo di una nuova individuazione, che nasce proprio da e rimane nel continuo rischio dell’annichilimento, rappresentato dalla musica nel grande tutto.
Verità storica o figura dell’anima, poco importa: la metafora dice bene quel che deve dire, l’atteggiarsi di fronte alla vita, e alla morte, ma anche all’amore, al sesso, ai bambini, a uno stadio, a un’aggressione, a una frase tagliente, a una malinconia, a un abbandono, a uno scuotimento rassegnato di testa pesante dopo il numero non numerabile dell’ultima delusione patita.
Una musica tale da essere presa sul serio e tale da farsi prendere così sul serio è incompatibile con un mondo di pallidi automi. Renderebbe senza sosta intollerabile l’intera rete dei rapporti sociali e sociali tra sé e Sé. Instillerebbe il dubbio a questi automi-persone cancellandone la tronfia sicurezza di esistere individualmente. A questa musica bisogna proibire la nascita o, nel caso, spingere a fondo la degradazione del gusto fino all’eguaglianza istupidita fra Petrus Boonekamp e dramma sinfonico. Non certo per caso trionfa Malebolge della Canzone. Dove tutto è rifuso e rifondibile, Charlie Parker Vivaldi la mondina e John Cage. La musica pericolosa è omologata alla canzone (disco impianto, come si sente bene, questo qui ha vent’anni) o esorcizzata all’antiquariato dei Conservatori e delle Gioventù Musicali.
La politica, persino nei casi più musicali di storia politica (la rivoluzione francese o quella cinese), non può che cercare di addomesticare la musica. Di farla diventare, lei, negatrice delle parti se non nella partitura, nazionale, di classe, di ceto, di età ecc. ecc. Di piegarla proprio come la natura a scenario, funzione illustrativa ed esortativa dell’azione: o scimmia ammaestrata per stuzzicare i passanti ad entrare nel tendone del circo politico. Per la politica tutto deve essere macinato nello stretto imbuto della storia e dei problemi «concreti». Ciò che fuoriesce, quasi tutto ad una considerazione soltanto coraggiosa, deve essere cancellato, messo in secondo piano, tralasciato. Molti segni negli ultimi venti anni hanno parlato diversamente. Una poesia che ha lacerato il museo letterario trovava accenti nella musica, nella musica meno domata perché cresciuta, dalla sua nascita in catene, ben oltre l’altezza del carceriere – Ginsberg – Kerouac – Charlie Parker – be bop. Era questa la catena che univa l’annuncio di un movimento di Rinascita, di diversa civiltà, di nuova forma equilibrio e misura fra l’autocratica ragione e l’anarchismo pulsionale. E, irridendo le intenzioni dei suoi esecutori e dei suoi ascoltatori, una specie di simbologia orgiastica ritmata, fra le maglie già costruite di nuove prigioni e nuovi immeschinimenti, si è fatta strada ovunque.
In fondo gli ultimi a capirlo, mentre l’immeschinito da tempo prevale, sono i politici che, pateticamente, alla fine, discutono anche di musica. Ancora vorrebbero farla servire alla lotta mentre fragorosamente la nota irride il testo e chiede di battere il ritmo. Qualche altro è invece già un’indicazione: comincia anche nel testo a irriderne le pretese politiche. Speriamo sia un buon annuncio per l’avvenire musicale. E chi ha tempo per la musica, e per le altre Muse sue sorelle, avrà sempre meno tempo per l’idiozia. Cioè per la civiltà cristiano-borghese che ne è il festival, tragico e bello in questa figura dell’idiota, ma proprio per questo ripetitivo, solo ossessivo e autocratico.
[1] F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1977, pp. 24–5.
2 Nov, 1977 | Fondo DeriveApprodi, Musiche
Tu sei rock e su questo rock
costruirò la mia chiesak
«Ora sei rimasta sola, piangi e non ricordi nulla», non è una ammorbidita frase dello Stecchetti (poeta maledetto): è il capoverso di una mia vecchissima canzone anni ’60–61 che torna stranamente d’attualità, a distanza di 15 anni, al Festival della stampa d’opposizione al Parco Ravizza a Milano. Verso la fine del mio spettacolo, analizzo in modo autocritico le mie origini musicali «rocchettare» e il revival parte per l’appunto con la sopra citata Ora sei rimasta sola. È in quella situazione molto tesa che mi chiedono di cantare tutta la canzone, lasciandomi a dir poco stupito; mi viene spontaneo replicare: «Sì d’accordo, però cantate anche voi». A questo punto si mettono a cantare in seimila (più o meno) e mi trovo improvvisamente in imbarazzo, a disagio, letteralmente nella merda, ma ormai cantiamo in coro.
Da questo apparente superficialità nasce, secondo me, una chiara spiegazione del cosiddetto fenomeno del revival. Non è un ripescaggio dovuto a vecchi nostalgici, è la curiosità di giovani che vagamente conoscono o che comunque, per mancanza di nuovo (magari divertente o rilassante) hanno voglia di tempo libero e non liberticida.
È altrettanto esplicito che questo tipo di evasione è possibile in un particolare contesto dove, dopo avere controllato i documenti, la coscienza politica e la sicurezza della stessa, viene di conseguenza la possibilità di ammettere: «Ma sì, lasciamoci andare a coglionaggini per un momento, cantiamo un po’ facendoci un paio di autonome risate». Stabilito quindi il tipo di sdoppiamento che da una parte si identifica nell’Internazionale e dall’altra nella ricreazione del rock, l’unica cosa importante è che credere nel rock vorrebbe dire correre il rischio di inzupparsi in una specie di bieca fede ma che, per prendere fiato, va benissimo. Nessuno, penso, vorrebbe ritrovarsi nei pannacci di chi, dimenandosi spietatamente ad 80 anni, si spiegasse adducendo: «Ho speso tutta la mia vita per il rock’n’roll». Tra l’altro correrebbe il rischio di ritrovarsi convogliato tra le fila di un corteo composto di alpini e marinai, nel ruolo di rockenrollaro.
La realtà credo sia che non ci hanno mai insegnato niente, e che ci hanno sempre lasciato fare l’amore in modo spaventato e drammatico, senza permetterci il normale piacere di una sincera risata, prima, durante e dopo; così le canzoni ci hanno accompagnato e seguito, il più delle volte perseguitandoci nella repressa realtà di sempre. C’è, di conseguenza, una rabbia, una ribellione, una rivoluzione che a slogan ritmici porta anche la canzone a una nuova espressione di contestazione e di bisogno epidermico di parlare di esigenze reali, non di «Amori stellari e franceschiani» (mi riferisco a Battisti-Mogol che non hanno ancora capito che era proprio Francesca e mi sembra più che giusto).
Siamo ora ad una fase in cui, da una parte, esiste un linguaggio indubbiamente e decisamente cambiato, dall’altra una formula e un modulo musicale che non è cambiato quasi per niente. Forse il problema è «fare suonare le parole e fare però parlare la musica». Io ci sto provando, e dico questo perché mi rendo conto che è possibile, anche se difficile e a volte sfracellante (mi riferisco a A Nervi nel ’92 e a Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo).
Adesso vorrei fare un passo indietro, premettendo che non credo nella reincarnazione né quindi nella faticosa possibilità di nascere e morire due o più volte. Con questo non voglio introdurre il solito e sempreverde misterioso interrogativo «Che cos’è la vita? » ma diciamo che mi limiterò all’esigenza di una più facile, anche se spericolata, risposta: la vita è un waltzer, anzi – in questo caso – un rock’n’roll.
Questa specie di postprefazione è dedicata a quelli che sicuramente accosteranno alla lettura cronologica dei testi la facillima definizione «Il vecchio Ricky Gianco e il nuovo Ricky Gianco» senza così togliere una volta per tutte a Gesù Cristo quello che naturalmente era di Lazzaro. Il rock and roll nasce con un musicista disc-jokey di nome Alan Freed che, ascoltando dischi di rithm and blues nell’America del 1951, inizia un programma radiofonico intitolato: «Moondog’s Rock’n’Roll Party». L’accostamento delle parole R’n’R (Rock’n’roll) si ispira automaticamente a R’n’B’ (rithm and blues).
Nel 1954 parte definitivamente il rivoluzionario periodo con in testa il defunto Elvis, che, fra l’altro, molti ascoltatori statunitensi credono cantante di colore; così si scatena un nuovo modo di esistere e il diverso linguaggio comincia a entrare in tutte le case americane stracolme di teenagers cresciuti nel maccartismo, ma comunque desiderosi di nuovo, oltre che di vecchi e soliti hamburgers.
Ogni casa discografica cerca immediatamente l’idolo da contrapporre a Elvis ed è così che si sviluppano vari tipi di rock e di esecutori, che io dividerei approssimativamente in questi gruppi: 1) rock bianco, selvaggio, carico di sesso e violenza (Presley – E. Cochran – J.L. Lewis – G. Vincent – B. Holly); 2) rock nero, chiave base di blues e ritmo e strumento non di lotta per la fine del ghetto ma per l’uscita o la fuga da esso (L. Richard – F. Domino – C. Berry – B. Diddley); 3) rock bianco perbenista e puritano con ritmi educati e abbandono a tradizioni country ed hillbilly, roba da vecchio Sud, meglio se ricco (R. Nelson – Everly Brothers – R. Orbinson – C. Twitty – P. Boone); 4) rock del pianto, falso ritmicamente e melenso melodicamente, con punte di sofferenza massima anche in caso di piacevoli e felici situazioni tipo: You are my destiny, Put your head on my shoulder, The diary, Happy birthday sweet sixteen (P. Anka – N. Sedaka – F. Avalon – R. Luke).
Naturalmente, questa non è la storia del rock, ma un modo per spiegare abbastanza chiaramente come io, un po’ per sfiga, un po’ per mia insipienza, sia cresciuto nel filone del rock del pianto. Probabilmente, anche se in maniera vittimista, per uscire dal mio metro e sessanta e dai miei perseguitanti brufoli (1957–58, I brufoli non li ho più). Sono passato, in 21 anni di lavoro, attraverso: feste scolastiche – festival del dilettante (tipo «Cappio d’oro», dove i fischi del pubblico potevano metterti nella condizione di essere trascinato fuori dal palco, mentre cantavi, grazie appunto al famoso «Cappio»); feste di piazza – avanspettacolo – festival di Sanremo – balere – teatri-cabaret – stadi – festival dell’Unità – dell’Avanti ecc. crescendo sempre a contatto con pubblici diversi.
Anche se i comportamenti sono cambiati, le reazioni del pubblico sono spesso, a parer mio, quasi identiche. Il diverso sta in tutto lo spettacolo come fatto culturale, che si è in blocco continuamente evoluto nel tempo e nelle sostanze.
Quello che voglio dire è che un Villa ancora oggi è applaudito, ma dallo stesso vecchio pubblico di allora, mentre un Gaber ha un pubblico nuovo che non accetterebbe sicuramente Villa.
L’interessante sta nel fatto che forse un Gaber potrebbe recuperare il vecchio pubblico di Villa, non certamente il contrario. Quando gl’intellettual-borghesi degl’anni ’60 ascoltavano Paoli, Bindi, e poi Tenco e De Andrè, sorridendo perché a conoscenza dei vari Vian, Brassens, Brel ecc., consideravano il fenomeno tutto loro e fra i libri di Baudelaire, Brecht e Marx infilavano i dischi di queste divertenti e intelligenti canzoni. I balera-people, invece, meno comodamente seduti, non seguivano i contenuti (considerato anche che la loro merce ne era priva) ma si tuffavano nella danza lasciando solo ai vecchi il piacere di una cantata in osteria.
Così, in un secondo tempo, mentre i borghesi si buttavano sul mondinaggio salottiero, i proletari e sottoproletari più o meno incazzati, cominciavano a chiedere e poi a pretendere ciò che gli apparteneva e che era la loro cultura popolare fatta di lotte continue col sempre più faticoso, quotidiano. Con la lotta comunista d’opposizione prima e definitivamente col ’68–69 dopo, si riprende un duro lavoro politico (non per la misteriosa «ricostruzione») per una costruzione collettiva che coinvolge tutti, militanti e non, che sveglia anche chi vive chiuso in casa coi propri problemi personali.
La canzone politica per antonomasia diventa così non solo una denuncia fatta di «Bandiere rosse» o «A morte il padrone», ma anche di personale che, in questa maniera, diventa politico. Cantautori e cantautori politicizzati fanno della musica italiana un fatto di informazione e attualità, come forse era conosciuta secoli prima da cantastorie pungenti e ironici. Per quello che mi riguarda credo molto in questa direzione, senza con ciò rinnegare la mia origine fatta di rock, ma piuttosto meditando sul fatto che se Elvis Presley avesse potuto scegliere tra mafia e movimento, probabilmente avremmo avuto un grosso leader. (La lettera di Lenin su Mussolini mi è venuta in mente solo dopo, lo giuro: anche se non so su «cosa»).
Discografia: Una giornata con Ricky Gianco (Jaguar); Ai miei amici di Ciao Amici (Jaguar); Ricky Gianco Special (Ricordi); Disco dell’angoscia (Ultima spiaggia); Alla mia mam… (Ultima spiaggia).
Alla composizione delle canzoni di Ricky Gianco hanno collaborato Miki Del Prete (Sei rimasta sola), Detto-Don Backy-Del Prete (Tu vedrai), G. Pieretti (II vento dell’est), E. Green‑C. Montgomery (Questa casa non la mollerò) e Gianfranco Manfredi.
COMPAGNO UN CAZZO!
Sto facendo un notiziario cambogiano
da una radio libera, per chi?
Il microfono è un po’ fallico però
il potere non ce l’ho no, no!]
Circondato dai mass media sulla sedia
io lavoro sempre gratis ma
c’è Antonietta che mi ama e che mi aspetta
tutta notte lei mi ascolterà
Compagno sì, Compagno no, Compagno un cazzo!
Compagno sì, Compagno no, Compagno un cazzo!
Io c’ho il profugo cileno a casa mia
è arrivato nel ‘73
e da allora lui non è più andato via
Antonietta fammi star da te
passa un giorno, passa un mese, passa un anno
L’unità sconfiggerà il padrone
ma Antonietta mi ha buttato per la strada
vuoi veder che sono io il coglione
Compagno sì…
Vado a prendere un po’ d’erba da un amico
ad Antonietta la regalerò
io la lascio chiusa in macchina un secondo
per andare a bere un buon caffè
quando esco m’han spaccato il finestrino
e un ragazzo sta saltando il muro
come fai a mandare uno a San Vittore
poi finisce che gli fanno il culo
Si avvicina un tizio con cravatta e giacca
tira fuori in fretta un tesserino
e mi dice: «Tu sei uno di sinistra
sta’ tranquillo sono un celerino
son pulotto sì, ma son del Sindacato-
forza dimmi cosa ti ha rubato»
Io gli dico: «Lascia perdere compagno
è un problema troppo delicato »
Compagno sì, Compagno no, Compagno un cazzo!
[1977]
Questa casa non la mollerò
Son qui per buttarci fuori di città
son tutti in fila lì per sei però non sono mica amici miei
sono venuti tutti qui per noi, ma guarda che adunata di cowboys
di qui non uscirò, questa casa non la mollerò
In terza fila vedo uno che somiglia proprio a mio cugino
porco cane è proprio Bruno, ma perché s’è fatto celerino
ma se ci prova a venire su, io dalle scale lo ributto giù
di qui non uscirò, questa casa non la mollerò
E c’è una donna qui con me che non aveva visto mai un bidè
quando lo schizzo viene su, si mette a ricfere, non ne può più
tripli servizi, ma tu guarda un po’, passano il giorno a fare la popò
di qui non uscirò, questa casa non la mollerò
Sul pavimento le piastrelle son dipinte tutte quante a stelle
sulla parete abbiamo scritto «questa casa è nel nostro diritto»
se le tenete vuote cari miei, le conserviamo intanto noi per voi
di qui non uscirò, questa casa non la mollerò
Uh candelotto viene su, non si respira, non se ne può più
mia moglie stringe fra le braccia un bei bambino lucido da caccia
di questi tempi non ci sono santi, con tanti ladri è meglio stare pronti
ma di qui non uscirò, questa casa non la mollerò
Presto la porta si aprirà, un poliziotto ci sorriderà
d chiederà se per favore vogliamo scendere in un paio d’ore
sarà gentile ci darà del Lei, ne ammazzerà soltanto cinque o sei
ma di qui non uscirò, questa casa non la mollerò
[1974]