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Canzoni come specchi

Euge­nio Finardi

Can­zo­ni come specchi

Qual­cu­no potreb­be defi­nir­mi ame­ri­co-ita­lia­no e pen­so che in par­te que­sta defi­ni­zio­ne mi sta pro­prio bene.
Le ragio­ni sono mol­te: sono pas­sa­to, come mol­ti, attra­ver­so un tun­nel di suo­ni, una spe­cie di gros­so tubo di cel­lo­phan den­tro al qua­le pote­vo sen­ti­re la musi­ca dei Rol­ling Sto­nes come la sono­ri­tà del blues sen­za dimen­ti­ca­re “i gor­gheg­gi” e il cli­ma del­la musi­ca liri­ca. Già, mia madre era una can­tan­te liri­ca e, come mol­ti bam­bi­ni che si rispet­ti­no, anch’io pen­sa­vo da gran­de di fare il can­tan­te liri­co. Ma i cama­leon­ti cam­bia­no mol­to spes­so la pel­le: ed io, che cama­leon­te non sono, pen­so di ave­re accu­mu­la­to in que­sti anni mol­te pel­li; se mi squa­mas­si si potreb­be sco­pri­re quel­la del negro dei blues, quel­la del­la musi­ca dura e del­la mito­ma­nia per Mike Jag­ger e quel­la meno mito­lo­gi­ca del can­tau­to­re di oggi. E quel­la del­l’a­me­ri­co-ita­lia­no.
Non è una bat­tu­ta: ho sin­te­tiz­za­to un pro­ces­so che ho vis­su­to usan­do come metro sia la musi­ca sia un atteg­gia­men­to men­ta­le. Infat­ti ho sem­pre visto l’A­me­ri­ca come un gran­de luna park viven­te, fat­to di neon, magliet­te, tele­film e per­so­ne che non ave­va­no tut­te le «mena­te» del lati­no, del gre­co, del­la chie­sa cat­to­li­ca, del­la reto­ri­ca e di quel genio ita­li­co che spe­ro sem­pre muo­ia sof­fo­ca­to da una mon­ta­gna di rifiu­ti. Non sono Tom­my cadu­to sul pia­ne­ta Ita­lia e nep­pu­re Mr. Smith in un viag­gio di pia­ce­re.
La con­trad­di­zio­ne, lo scon­tro, il con­fron­to con la real­tà ita­lia­na, con le radi­ci mila­ne­si, han­no sem­pre con­trad­di­stin­to la mia vita. Non ho mitiz­za­to l’A­me­ri­ca con­fron­tan­do­la con l’I­ta­lia, così come non ho disprez­za­to l’I­ta­lia con­fron­tan­do­la col mito ame­ri­ca­no: ho pre­so atto del­la diver­si­tà e del­la omo­ge­nei­tà fat­ta di squal­lo­re e di mora­li­smo. Non il fal­li­men­to di un sogno ma la con­sa­pe­vo­lez­za del­la neces­si­tà di esse­re den­tro alle mie radi­ci.
Da tut­to ciò è matu­ra­to il mio inte­res­se, il mio coin­vol­gi­men­to nel­la real­tà ita­lia­na, nel­la poli­ti­ca, nel Movi­men­to, nel­lo sbat­ti­men­to per la dro­ga, nel­la vita degli «scop­pia­ti», nel­la quo­ti­dia­na ricer­ca di un flash di feli­ci­tà.
Come tan­ti, dopo un’e­sta­te a Ter­ra­si­ni, sono usci­to dal­la dipen­den­za dal mon­do del­la dro­ga, dal mon­do del­l’i­deo­lo­gia hip­py: Par­co Lam­bro ’74, la sco­per­ta dei com­pa­gni, del­la soli­da­rie­tà, di una dimen­sio­ne poli­ti­ca. Tut­to è cam­bia­to, si è modi­fi­ca­to con entu­sia­smo, con coin­vol­gi­men­to: si è aggiun­ta un’al­tra pel­le che ha coper­to le sma­glia­tu­re pre­ce­den­ti. Can­zo­ni inge­nue, dure, sche­ma­ti­che, can­zo­ni come spec­chi nei qua­li mi riflet­te­vo tut­to: que­sto è sta­to il mio pri­mo album. Non sono «quel­lo che can­ta nei dischi per­ché c’ha i figli da man­te­ne­re», ma per­ché vuo­le par­la­re, dire, fare, cono­sce­re, con­fron­tar­si: per­ché mi pia­ce.
Ini­zia l’at­ti­vi­tà del can­tau­to­re o meglio cam­bia segno, dimen­sio­ni; il «vec­chio» Finar­di che modi­fi­ca il testo degli altri per ritro­va­re i suoi testi, la sua musi­ca, anda­re in giro.
Un modo diver­so di «sbat­ter­si»: ora la real­tà è fat­ta di sol­di, di camion, di luci, di pal­co, di miglia­ia di per­so­ne diver­se: insom­ma di lavo­ro.
Que­sto scon­tro, que­sta cono­scen­za di una real­tà diver­sa, solo pen­sa­ta come esi­sten­te ma mai veri­fi­ca­ta, cono­sciu­ta, mi ha spin­to ad una radi­ca­le modi­fi­ca­zio­ne del mio sen­ti­re, del­la mia pre­ce­den­te iden­ti­fi­ca­zio­ne con gli emar­gi­na­ti: sono usci­to da que­sto «ghet­to» non per una scel­ta ideo­lo­gi­ca ma spin­to, qua­si gui­da­to e «costret­to» da una real­tà di mas­sa, dal mon­do del lavo­ro quo­ti­dia­no.
Non un nuo­vo flash, non la con­se­guen­za di una rea­le o sup­po­sta popo­la­ri­tà, non per oppor­tu­ni­smo, ma per usci­re dai miti, dagli schie­ra­men­ti, dal­le scel­te con­di­zio­na­te, per con­ti­nua­re un lavo­ro, un mestie­re, un modo di esse­re, par­la­re, suo­na­re, comu­ni­ca­re, dire, come sento.

Disco­gra­fia: Non get­ta­te alcun ogget­to dai fine­stri­ni (Cramps); Sugo (Cramps); Die­sel (Cramps).

LA RADIO

Quan­do son solo in casa
e solo devo resta­re
per fini­re un lavo­ro
o per­ché ho il raf­fred­do­re
c’è qual­co­sa di mol­to faci­le che io pos­so fare
è accen­der la radio e met­ter­mi ad ascoltare.

Amo la radio per­ché arri­va dal­la gen­te,
entra nel­le case e ci par­la diret­ta­men­te,
e se una radio è libe­ra, ma libe­ra vera­men­te,
mi pia­ce ancor di più per­ché libe­ra la mente.

Con la radio si può scri­ve­re,
leg­ge­re o cuci­na­re
non c’è da sta­re immo­bi­li,
sedu­ti lì a guar­da­re,
for­se pro­prio quel­lo che me la fa pre­fe­ri­re
è che con la radio
non si smet­te di pen­sa­re.
Amo la radio per­ché arri­va dal­la gen­te,
entra nel­le case e ci par­la diret­ta­men­te,
e se una radio è libe­ra, ma libe­ra vera­men­te,
mi pia­ce anche di più per­ché libe­ra la mente

MUSICA RIBELLE

Anna ha diciott’anni e si sen­te tan­to sola
Ha la fac­cia tri­ste e non dice una paro­la
tan­to è sicu­ra che nes­su­no capi­reb­be
anche se capis­se, di cer­to la tra­di­reb­be
la sera in came­ra pri­ma di dor­mi­re
leg­ge di amo­ri e di tut­te le avven­tu­re
den­tro nei libri che qual­cun altro scri­ve,
che sogna di not­te, ma che di gior­no poi non vive
e ascol­ta la sua cara radio per sen­ti­re
un po’ di buon sen­so da voci pie­ne di calo­re
e le stro­fe lan­gui­de di tut­ti quei can­tan­ti
con le fac­ce da bam­bi­ni e coi loro cuo­ri infran­ti
ma da qual­che tem­po è dif­fì­ci­le scap­pa­re
c’è qual­co­sa nel­l’a­ria che non si può igno­ra­re
è dol­ce, ma for­te e non ti mol­la mai
è un’on­da che cre­sce e ti segue ovun­que vai
è la musi­ca, la musi­ca ribel­le
che ti vibra nel­le ossa, che ti entra nel­la pel­le
che ti dice di usci­re, che ti urla di cam­bia­re
di mol­la­re le mena­te e di met­ter­ti a lot­ta­re.
Mar­co di dischi lui fa la col­le­zio­ne
e cono­sce a memo­ria ogni nuo­va for­ma­zio­ne,
e intan­to sogna di anda­re in Cali­for­nia
o alle por­te del cosmo che stan­no su in Ger­ma­nia
dice: «qua da noi in fon­do la musi­ca non è male,
quel­lo che non reg­go sono solo le paro­le».
Ma poi le ritro­va ogni vol­ta che va fuo­ri
den­tro ai mani­fe­sti o scrit­te sopra i muri.
È la musi­ca, la musi­ca ribel­le
che ti vibra nel­le ossa, che ti entra nel­la pel­le
che ti dice di usci­re, che ti urla di cam­bia­re
di mol­la­re le mena­te e di met­ter­ti a lottare.

Mollate le menate e menatene l’autore

Clau­dio Lolli

Mol­la­te le mena­te
e mena­te­ne l’autore

«L’e­clis­se del­la can­zo­ne», mi ver­reb­be da dire, se è leci­to che una cosa così ter­rac­quea (o ter­ra-ter­ra) come la can­zo­ne ven­ga para­go­na­ta al dio.
Voglio sem­pli­ce­men­te dire che, se fino a qual­che tem­po fa, la can­zo­ne tro­va­va nel­la sua imme­dia­ta roz­zez­za (sem­pre equi­vo­ca) una pra­ti­ci­tà uti­le per urgen­za, oggi vive (o nascon­de) la con­trad­di­zio­ne di mobi­li­ta­re (a paga­men­to) buo­na fet­ta del­le mas­se gio­va­ni­li (e del­le mas­se-medie) sen­za ave­re nien­te da dire. Oppu­re (che è lo stes­so) dicen­do tut­to in un modo tal­men­te spu­do­ra­to da pri­var­si del­l’u­ni­ca par­ven­za di fun­zio­ne che potreb­be ave­re: l’i­nu­ti­li­tà.
L’oc­chio sto­ri­co dovreb­be far­ci capi­re che il lan­cia­to­re di mes­sag­gi, il can­tau­to­re, ha ere­di­ta­to con fur­bi­zia, maga­ri incon­sa­pe­vo­le, il biso­gno di imma­tu­ri­tà del­l’a­scol­to, ha ere­di­ta­to il popu­li­smo del can­to (di)spiegato, ha ere­di­ta­to la medio­cri­tà del mae­stro di musi­ca e del­l’ar­mo­nia pasco­lia­na, ha ere­di­ta­to infi­ne il suc­ces­so com­mer­cia­le del divo. Ed io non vor­rei che que­sto neces­sa­rio tra­va­glio sfo­cias­se inve­ce che in una sco­mu­ni­ca, in una rin­no­va­ta inve­sti­tu­ra da par­te di chi è nuo­vo alla sce­na poli­ti­ca, e non ha biso­gno di bat­ti­to­ri ne, appun­to, dilan­cia­to­ri.
Non è, natu­ral­men­te, auto­le­sio­ni­smo, ma sem­mai autoi­ro­nia: in ogni caso non cre­do né nel­l’in­ti­mi­smo cre­pu­sco­la­re del­la paro­la che più è tri­ta più è «sen­ti­ta», cioè nel pesca­re nel­la memo­ria come fon­te di miti dol­cia­stri («basta con la can­zo­ne con­so­la­to­ria»), né nel­l’im­pe­gno social­de­mo­cra­ti­co, da fun­zio­na­rio, di chi dice e spie­ga, e cer­ca di ven­de­re il suo «world in pro­gress» (con le con­trad­di­zio­ni annes­se e inter­cam­bia­bi­li, natu­ral­men­te) alle pic­co­le buro­cra­zie loca­li desi­de­ro­se di «cul­tu­ra» («basta con la can­zo­ne impe­gna­ta»).
Basta, pro­ba­bil­men­te, con la can­zo­ne: non per sno­bi­smo né per sen­ti­men­to di cata­stro­fe, ma per­ché oggi dob­bia­mo accor­ger­ci che la can­zo­ne non ha mai con­su­ma­to radi­cal­men­te nes­sun lin­guag­gio e sta quin­di rivo­mi­tan­do lin­guag­gi non dige­ri­ti, così come li ha divo­ra­ti: l’im­pe­gno da, un lato e il roman­ti­ci­smo dal­l’al­tro le sono ser­vi­ti da impos­si­bi­le Alka-SeI­tzer.
«Ma io non ci sto più, dis­se lo spo­so e poi»: non c’è biso­gno di impaz­zi­re per soste­ne­re che oggi «in can­zo­ne» non si può ten­ta­re che qual­co­sa di asso­lu­ta­men­te «inu­ti­le», o comun­que per­lo­me­no di inno­mi­na­bi­le: l’u­ni­co modo per dire qual­co­sa è quel­lo di non dir­lo, per­ché quel «non-dir­lo» sola­men­te può spin­ge­re a fon­do il bot­to­ne del pia­ce­re, o, se vi fa pia­ce­re, del­la com­pren­sio­ne.
È quel­lo che ho cer­ca­to di fare nel mio disco Disoc­cu­pa­te le stra­de dai sogni: pur­trop­po la real­tà non ha volu­to che il suo signi­fi­ca­to rima­nes­se a lun­go ambi­guo: la social­de­mo­cra­zia, irri­ta­ta for­se dai trom­bo­ni, ha subi­to volu­to dimo­stra­re di pos­se­de­re anche i car­riar­ma­ti; l’ul­ti­mo atto non era pre­vi­sto nel copio­ne, vie­ne solo testi­mo­nia­to, con la scam­bia­bi­li­tà del suo lin­guag­gio, nel­l’ul­ti­ma can­zo­ne I gior­na­li di mar­zo, l’u­ni­ca com­po­sta dopo il «fat­tac­cio».
Non spie­ghia­mo più nien­te: il pote­re è chia­ro ed è «uti­le», ed ha anzi biso­gno di gen­te che vada in giro a spie­ga­re la sua evi­den­za, la sua uti­li­tà. Lavo­ria­mo (o lavo­ra­te se vole­te) ad una can­zo­ne asso­lu­ta­men­te inu­ti­le. Del resto, se mi si con­ce­de la cita­zio­ne, cre­do che Ben­ja­min aves­se vera­men­te ragio­ne quan­do dice­va che «l’ar­te per l’ar­te non è sta­ta qua­si mai da pren­der­si alla let­te­ra, è sta­ta qua­si sem­pre una ban­die­ra sot­to cui viag­gia una mer­ce che non si può dichia­ra­re per­ché non ha anco­ra nome».

Disco­gra­fia: Aspet­tan­do Godot (EMI), Un uomo in cri­si Can­zo­ni di mor­te, can­zo­ni di vita (EMI), Can­zo­ni di rab­bia (EMI), Ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci (EMI), Disoc­cu­pa­te le stra­de dai sogni (Ulti­ma spiaggia).

Ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci

E’ vero che dal­le finestre 

Sia­mo noi a far ric­ca la ter­ra
noi che sop­por­tia­mo
la malat­tia del son­no e la mala­ria
noi man­dia­mo al rac­col­to coto­ne, riso e gra­no,
noi pian­tia­mo il mais
su tut­to l’al­to­pia­no.
Noi pene­tria­mo fore­ste, col­ti­via­mo sava­ne,
le nostre brac­cia arri­va­no
ogni gior­no più lon­ta­ne.
Da noi ven­go­no i teso­ri alla ter­ra car­pi­ti,
con che poi tut­ti gli altri
resta­no favoriti.

E sia­mo noi a far bel­la la luna
con la nostra vita
coper­ta di strac­ci e di sas­si di vetro.
Quel­la vita che gli altri ci respin­go­no indie­tro
come un insul­to,
come un ragno nel­la stan­za.
Ma ripren­dia­mo­la un mano, ripren­dia­mo­la inte­ra,
ripren­dia­mo­ci la vita,
la ter­ra, la luna e l’abbondanza.

E’ vero che non ci capia­mo
che non par­lia­mo mai
in due la stes­sa lin­gua,
e abbia­mo pau­ra del buio e anche del­la luce, è vero
che abbia­mo tan­to da fare
e che non fac­cia­mo mai nien­te.
E’ vero che spes­so la stra­da ci sem­bra un infer­no
o una voce in cui non riu­scia­mo a sta­re insie­me,
dove non rico­no­scia­mo mai i nostri fra­tel­li.
E’ vero che bevia­mo il san­gue dei nostri padri,
che odia­mo tut­te le nostre don­ne
e tut­ti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
cor­rer­si die­tro, far l’a­mo­re
e roto­lar­si per ter­ra.
Ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
in Piaz­za Mag­gio­re
ubria­car­si di luna, di ven­det­ta e di guerra.


Ma ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
cor­rer­si die­tro, far l’a­mo­re
e roto­lar­si per ter­ra.
Ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
in Piaz­za Mag­gio­re
ubria­car­si di luna, di ven­det­ta e di guerra


non riu­scia­mo a vede­re la luce
per­ché la not­te vin­ce sem­pre sul gior­no
e la not­te san­gue non ne pro­du­ce,
è vero che la nostra aria
diven­ta sem­pre più ragaz­zi­na
e si fa cor­re­re die­tro
lun­go le stra­de sen­za usci­ta,
è vero che non riu­scia­mo a par­la­re
e che par­lia­mo sem­pre troppo.

E’ vero che spu­tia­mo per ter­ra
quan­do vedia­mo pas­sa­re un gob­bo,
un tre­di­ci o un ubria­co
o quan­do non voglia­mo incri­na­re
il mera­vi­glio­so equi­li­brio
di un’o­be­si­tà sen­za fine,
di una feli­ci­tà sen­za peso.
E’ vero che non voglia­mo paga­re
la col­pa di non ave­re col­pe
e che pre­fe­ria­mo mori­re
piut­to­sto che abbas­sa­re la fac­cia, è vero
cer­chia­mo l’a­mo­re sem­pre
nel­le brac­cia sbagliate.

E’ vero che non voglia­mo cam­bia­re
il nostro inver­no in esta­te,
è vero che i poe­ti ci fan­no pau­ra
per­ché i poe­ti acca­rez­za­no trop­po le gob­be,
ama­no l’o­do­re del­le armi
e odia­no la fine del­la gior­na­ta.
Per­ché i poe­ti apro­no sem­pre la loro fine­stra
anche se noi dicia­mo che è
una fine­stra sbagliata.

E’ vero che non ci capia­mo,
che non par­lia­mo mai
in due la stes­sa lin­gua,
e abbia­mo pau­ra del buio e anche del­la luce, è vero
che abbia­mo tan­to da fare
e non fac­cia­mo mai nien­te.
E’ vero che spes­so la stra­da ci sem­bra un infer­no
e una voce in cui non riu­scia­mo a sta­re insie­me,
dove non rico­no­scia­mo mai i nostri fra­tel­li,
è vero che bevia­mo il san­gue dei nostri padri,
che odia­mo tut­te le nostre don­ne
e tut­ti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
cor­rer­si die­tro, far l’a­mo­re
e roto­lar­si per ter­ra,
ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
in Piaz­za Mag­gio­re
ubria­car­si di luna, di ven­det­ta e di guerra.

Ma ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
cor­rer­si die­tro, far l’a­mo­re
e roto­lar­si per ter­ra,
ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
in Piaz­za Mag­gio­re
ubria­car­si di luna, di ven­det­ta e di guerra.

Piaz­za bel­la piazza

Piaz­za, bel­la piaz­za
ci pas­sò una lepre paz­za,
uno lo cuci­nò, uno se lo man­giò,
uno lo divo­rò, uno lo tor­tu­rò,
uno lo scor­ti­cò, uno lo stri­to­lò,
uno lo impic­cò
e del migno­li­no ch’e­ra il più pic­ci­no
più nien­te restò.

Piaz­za, bel­la piaz­za, ci pas­sò una lepre paz­za…
Ci pas­sa­ro­no die­ci mor­ti
i tac­chi, e i legni degli uffi­cia­li,
teste cal­ve, poli­ti­can­ti
un metro e mez­zo sen­za le ali,
ci pas­sai con la bar­ba lun­ga
per copri­re le mie ver­go­gne,
ci pas­sai con i pugni in tasca
sen­za sas­si per le carogne.

Piaz­za, bel­la piaz­za, ci pas­sò una lepre paz­za…
Ci pas­sò tut­ta una cit­tà
cal­da e tesa come un’an­guil­la,
si sen­ti­va bat­te­re il cuo­re,
ci man­cò solo una scin­til­la;
capi­va­mo di esse­re tan­ti
capi­va­mo di esse­re for­ti,
il pro­ble­ma era sola­men­te
come far­lo capi­re ai morti.

Piaz­za, bel­la piaz­za, ci pas­sò una lepre paz­za…
E fu il gior­no del­lo stu­po­re
e fu il gior­no del­l’im­po­ten­za,
si sen­ti­va bat­te­re il cuo­re,
di Leo­ne avrei fat­to sen­za,
si sen­ti­va qual­cu­no urla­re
“solo fischi per quei maia­li,
sia­mo stan­chi di ritro­var­ci
sola­men­te a dei funerali”.

Piaz­za, bel­la piaz­za, ci pas­sò una lepre paz­za…
Ci pas­sa­ro­no le ban­die­re
un tor­ren­te di con­fu­sio­ni
in cui sen­ti­vo che rina­sce­va
l’e­ner­gia dei miei gior­ni buo­ni,
ed era­va­mo dav­ve­ro tan­ti,
era­va­mo dav­ve­ro for­ti,
una sola con­trad­di­zio­ne:
quel­la fila, quei die­ci morti.

Ma non è una malattia

Gian­fran­co Manfredi

Gian­fran­co Man­fre­di, già del Grup­po Gram­sci e ora redat­to­re di “Re Nudo”, è un auto­re «del­l’a­rea del­l’au­to­no­mia», inten­den­do con que­sto ter­mi­ne non una deli­mi­ta­zio­ne di con­fi­ni poli­ti­ci di orga­niz­za­zio­ne quan­to piut­to­sto l’in­di­ca­zio­ne di un rife­ri­men­to e di un’i­spi­ra­zio­ne a com­por­ta­men­ti, idee, cli­ma cul­tu­ra­le in qual­che modo omo­ge­nei. La sua pre­sen­za in que­sta anto­lo­gia non rispon­de sem­pli­ce­men­te a un’e­si­gen­za di com­ple­tez­za (dar voce anche a que­sta com­po­nen­te del­l’a­rea poli­ti­ca di sini­stra) ma è moti­va­ta dal­la qua­li­tà del suo lavo­ro. La sua pro­du­zio­ne infat­ti, sep­pu­re con­trad­dit­to­ria e appros­si­ma­ti­va, ha una sua ori­gi­na­li­tà e ric­chez­za di intui­zio­ni.
Si può dire che Man­fre­di non copia nes­su­no dei più vec­chi ed esper­ti auto­ri poli­ti­ci (cosa raris­si­ma), ed è dif­fi­ci­le col­lo­car­lo nei filo­ni tra­di­zio­na­li del can­to mili­tan­te con­tem­po­ra­neo; que­sto anche per l’e­te­ro­dos­sia del patri­mo­nio cul­tu­ra­le del­l’a­rea poli­ti­ca a cui appar­tie­ne e di cui il suo ulti­mo lavo­ro (Ma non è una malat­tia) è fede­le espres­sio­ne. È un patri­mo­nio cul­tu­ra­le che meri­te­reb­be un’a­na­li­si appro­fon­di­ta non per­ché par­ti­co­lar­men­te com­ples­so (anche chia­mar­lo «patri­mo­nio» è pro­ba­bil­men­te ecces­si­vo, non trat­tan­do­si di alcun­ché di defi­ni­to e di con­so­li­da­to) ma per­ché sin­go­lar­men­te con­trad­dit­to­rio rispet­to ai con­sue­ti rife­ri­men­ti cul­tu­ra­li del­la sini­stra rifor­mi­sta e di quel­la rivo­lu­zio­na­ria. Un’a­rea poli­ti­ca, quel­la a cui Man­fre­di appar­tie­ne, che, nata in radi­ca­le e diret­ta con­trap­po­si­zio­ne alla sini­stra nel suo com­ples­so, era ine­vi­ta­bi­le rom­pes­se radi­cal­men­te anche col retro­ter­ra ideo­lo­gi­co di quel­la; tale rot­tu­ra ha pro­ce­du­to su due iti­ne­ra­ri diver­si ma, infi­ne e sin­go­lar­men­te, coin­ci­den­ti: il pri­mo è quel­lo del recu­pe­ro del gio­va­ne Marx (quel­lo dei Mano­scrit­ti eco­no­mi­co-filo­so­fi­ci, per inten­der­ci, del­la Sacra fami­glia, dell”Ideologia tede­sca), quel­lo che scri­ve del­la neces­si­tà per l’uo­mo di riap­pro­priar­si di «tut­ti i rap­por­ti uma­ni che ha con il mon­do, vede­re, udi­re, odo­ra­re, gusta­re, toc­ca­re, pen­sa­re, intui­re, sen­ti­re, vole­re, agi­re, ama­re; in bre­ve: tut­ti gli orga­ni che costi­tui­sco­no la sua indi­vi­dua­li­tà»; è un recu­pe­ro non inu­ti­le, e per­ché si trat­ta di un Marx che il mar­xi­smo tra­di­zio­na­le ha cen­su­ra­to e muti­la­to, e per­ché in que­sto recu­pe­ro si espri­me la volon­tà di lar­ghe mas­se di rico­no­sce­re i pro­pri biso­gni e i pro­pri desi­de­ri den­tro un’i­spi­ra­zio­ne col­let­ti­va, den­tro un qua­dro di rife­ri­men­to che è quel­lo del­la con­ce­zio­ne mate­ria­li­sti­ca del mon­do.
Il secon­do iti­ne­ra­rio è quel­lo del recu­pe­ro del­la gran­de cul­tu­ra non mar­xi­sta di que­sto seco­lo per ritro­var­ci il filo con­dut­to­re di un discor­so sul­l’uo­mo tota­le e annet­ter­lo alla nuo­va cul­tu­ra rivo­lu­zio­na­ria in for­ma­zio­ne e in tra­sfor­ma­zio­ne. Da qui, una rilet­tu­ra di Bre­ton, Freud, Kaf­ka, Nie­tzsche, Artaud, Ador­no, Lacan e il ripen­sa­men­to sul sur­rea­li­smo e l’ir­ra­zio­na­li­smo, sul deca­den­ti­smo e l’e­si­sten­zia­li­smo.
La coin­ci­den­za tra i due iti­ne­ra­ri non è cer­to faci­le e può comun­que avve­ni­re solo a prez­zo di con­trad­di­zio­ni anche lace­ran­ti; ma que­sto non appa­re un limi­te a chi inten­de fare di que­sta «nuo­va cul­tu­ra», innan­zi­tut­to, ter­re­no di con­tra­sti e di con­flit­ti; i limi­ti veri sono rap­pre­sen­ta­ti dal pos­si­bi­le sche­ma­ti­smo nel­l’op­por­re, alla resa dei con­ti, Marx gio­va­ne a Marx vec­chio, Marx uma­ni­sti­co e Marx eco­no­mi­ci­sta, o addi­rit­tu­ra Marx sen­sua­le a Marx ases­sua­to, da una par­te; e dal­l’al­tra di ripe­te­re il vec­chio discor­so rifor­mi­sta (un’al­tra con­sue­ta for­za­tu­ra del mar­xi­smo) sul­la pos­si­bi­li­tà per la cul­tu­ra del­la clas­se ope­ra­ia di assu­me­re e sin­te­tiz­za­re tut­ta la gran­de cul­tu­ra del­la bor­ghe­sia («La cul­tu­ra rivo­lu­zio­na­ria come con­ti­nua­zio­ne di tut­ta la sto­ria del­la cul­tu­ra del­le clas­si domi­nan­ti», come scri­ve­va Occhet­to die­ci anni fa cari­ca­tu­riz­zan­do Lenin). Il che poi, sul ter­re­no del­la cul­tu­ra quo­ti­dia­na inte­sa come gusti, scel­te, orien­ta­men­ti, por­ta ad affa­stel­la­re indi­scri­mi­na­ta­men­te, nel giu­di­zio posi­ti­vo, Ser­gio Leo­ne e Pec­kin­pah, II por­tie­re di not­te e Ulti­mo tan­go, Easy Rider, Dario Fo, Car­me­lo Bene, Pao­lo Poli, Gior­gio Gaber e Kerouac (vedi la can­zo­ne Quar­to Oggia­ro Sto­ry, che non è solo una can­zo­ne iro­ni­ca); e, ridot­to in ter­mi­ni anco­ra più spic­cio­li, fa scri­ve­re alla rivi­sta «Ros­so»: “A noi inve­ce piac­cio­no i film western, quel­li del­la cri­si, il tea­tro-pro­vo­ca­zio­ne (quan­do lo è vera­men­te), il rock, i fumet­ti più illo­gi­ci pos­si­bi­le, i libri sen­za mar­ti­ri e sen­za eroi, la risco­per­ta del pro­prio cor­po, del­la imma­gi­na­zio­ne e del­la fan­ta­sia, ci pia­ce il whi­sky e il comu­ni­smo lo pen­sia­mo come una cosa mol­to lus­suo­sa dove nes­su­no sta­rà a pie­di nudi su una zol­la di ter­ra a suda­re piscia e san­gue». Tut­to ciò si ritro­va anche nei testi di Man­fre­di, det­to con sapien­za e dol­cez­za mag­gio­ri. Il risul­ta­to, musi­ca­le e let­te­ra­rio, ci sem­bra – al di là del nostro radi­ca­le dis­sen­so – quan­to di meglio 1′ «area del­l’au­to­no­mia» ha pro­dot­to in cam­po cul­tu­ra­le. L’in­ge­nui­tà e le lezio­si­tà, gli sche­ma­ti­smi e le roz­zez­ze che pure ci sono – e sono nume­ro­si – non annul­la­no, in sostan­za, il carat­te­re di novi­tà del lavo­ro di Man­fre­di; e la sua coe­ren­za nel voler espri­me­re in can­zo­ne il suo (loro) modo di coniu­ga­re il per­so­na­le e il poli­ti­co, «la cur­va dei fian­chi» e «il mitra luci­da­to», «i momen­ti di ubria­chez­za» e «la fine del­lo Stato».

Disco­gra­fia: Per lo Spet­tro: La cri­si, 1972. Per l’Ul­ti­ma spiag­gia: Ma non è una malat­tia, 1976. Per La poia­na: Libe­ria­mo, 1976.
Alla com­po­si­zio­ne del­le can­zo­ni di Man­fre­di han­no col­la­bo­ra­to Ric­ky Gian­co e Giu­lia­no Illiani.

Ma chi ha det­to che non c’è

Sta nel fon­do dei tuoi occhi
Sul­la pun­ta del­le lab­bra,
sta nel cor­po risve­glia­to
nel­la fine del pec­ca­to
Nel­la cur­va dei tuoi fian­chi
Nel calo­re del tuo seno
Nel pro­fon­do del tuo ven­tre
Nel­l’at­ten­de­re il mat­ti­no.
Sta nel sogno rea­liz­za­to,
sta nel mitra luci­da­to.
Nel­la gio­ia e nel­la rab­bia,
nel distrug­ge­re la gab­bia
Nel­la mor­te del­la scuo­la, nel rifiu­to del lavo­ro
Nel­la fab­bri­ca deser­ta, nel­la casa sen­za por­ta
Sta nel­l’im­ma­gi­na­zio­ne, nel­la musi­ca sul­l’er­ba,
sta nel­la pro­vo­ca­zio­ne, nel lavo­ro del­la tal­pa,
nel­la sto­ria del futu­ro , nel pre­sen­te sen­za sto­ria,
nei momen­ti di ubria­chez­za, negli istan­ti di memo­ria.
Sta nel nero del­la pel­le, nel­la festa col­let­ti­va,
sta nel pren­der­si la mer­ce,
sta nel pren­der­si la mano, nel tira­re i sam­pie­tri­ni,
nel­l’in­cen­dio di Mila­no,
nel­le spran­ghe sui fasci­sti nel­le pie­tre sui gip­po­ni
Sta nei sogni dei tep­pi­sti
e nei gio­chi dei bam­bi­ni,
nel cono­scer­si del cor­po,
nel­l’or­ga­smo del­la men­te,
nel­la voglia piu’ tota­le,
nel discor­so tra­spa­ren­te.
Ma chi ha det­to che non c’e’.
Sta nel fon­do dei tuoi occhi
Ma chi ha det­to che non c’e’.
Sul­la pun­ta del­le lab­bra
Ma chi ha det­to che non c’e’.
Sta nel mitra lucidato

Ma chi ha det­to che non c’e’.
Nel­la fine del­lo Sta­to
C’e’, si’ c’e’
Ma chi ha det­to che non c’e’.

Ma non è una malattia

Mi han­no det­to: sei scop­pia­to
come ti sei rovi­na­to
dima­gri­to, sem­bri qua­si uno zom­bie
…sarà col­pa del­le not­ti
che ho pas­sa­to ad aspet­ta­re
cose che for­se dove­va­no arri­va­re.
Ma non è una malat­tia
no, non è una malat­tia
e non è una malat­tia
malat­tia.
E mia madre m’ha guar­da­to
dice: come sei fini­to!
cosi in bas­so non t’a­vrei pen­sa­to mai…
Sì ma in bas­so puoi sco­pri­re
le sot­ti­li incri­na­tu­re che non puoi stu­dia­re all’U­ni­ver­si­tà.
Ma non è una malat­tia
no, non è una malat­tia
e non è una malat­tia
malat­tia.
Mi han­no det­to: il tuo vesti­to
sem­bra vera­men­te usa­to
non ti cam­bi mai, mi sem­bri pro­prio giù.
Beh scu­sa­te­mi ragaz­zi,
oggi non ho altro da pen­sa­re
ho il mio abi­to di den­tro da cam­bia­re.
Ma non è una malat­tia
no, non è una malat­tia
e non è una malat­tia
malat­tia.
Mi han­no det­to: il tuo lavo­ro
non è una cosa sicu­ra
ogni mese cam­bia e dopo che farai?
For­se sono un pò sva­ni­to
ma il doma­ni non esi­ste
e que­st’og­gi io non voglio esse­re tri­ste.
Ma non è una malat­tia
no, non è una malat­tia
e non è una malat­tia
malat­tia.

Quar­to Oggia­ro Story

T’ho incon­tra­ta a Quar­to Oggia­ro davan­ti al Super­mar­ket
sac­cheg­gia­to (oh ye) ave­vi in tasca una sca­to­la di ton­no del­lo
Wyo­ming… si vede che la tua coscien­za poli­ti­ca era scar­sa…
lo ci ho qua il bour­bon, io ci ho qua il vischi io ci ho qua
il cavia­le che a dif­fe­ren­za del ton­no non fa male, lo que­sta sera
mi bevo lo cham­pa­gne cir­con­da­to da quat­tro com­pa­gne…
Men­tre tu te man­ge ‘o ton­no
con quel fes­so di Totonno

Ti ho incon­tra­ta alla pri­ma visio­ne, dopo l’ap­pro­pria­zio­ne. Tu hai
visto un Fran­chi ed lngras­sia men­tre lì vici­no face­va­no un film
inchie­sta sul­la CIA. Eh ma la tua coscien­za poli­ti­ca è pro­prio
scar­sa lo ho visto il Ber­to­luc­ci, ho visto la Cava­ni S. Fran­ce­sco
e i set­te nani vesti­ti da nazi­sti ho visto Scap­pon­san­fan’ dei
fra­tel­li Tavia­ni, C’e­ra­va­mo tan­to arma­ti e diciot­to film di mar­zia­ni
(mici­dia­le!) in cine­te­ca. lo que­sta sera mi vedo i fil­mi­ni sve­de­si
con due com­pa­gne cine­si…
E tu te vede ‘a tele­vi­sio­ne
co’ Toton­no fetentone

Ti ho incon­tra­ta alla Fel­tri­nel­li, tu fre­ga­vi solo gial­li, nean­che
bel­li… ristam­pe. Si vede che la tua coscien­za poli­ti­ca è pro­prio
scar­sa. Guar­da me: io ci ho qua il Kerouac, ci ho qua il Gar­cia
Mar­quez ci ho qua il tea­tro di Fo, chis­sà che cosa me ne fo…
lo que­sta sera mi leg­go la Moran­te con una bim­ba tut­ta
pim­pan­te
E tu te leg­ge Aga­ta Cri­ste
co’ Toton­no poro criste

T’ho incon­tra­ta davan­ti all’ar­me­ria in atte­sa, con la bor­sa del­la
spe­sa… esa­ge­ra­ta! Io com­pra­vo i sol­da­ti­ni, tu un fuci­le coi
piom­bi­ni. Si vede che la tua coscien­za … è in cre­scen­za. lo ci
ho a casa la Coraz­za­ta Potie­m­kin Poli­toys, ci ho la spa­da del
non­no cara­bi­nie­re, ci ho le pisto­le di madre­per­la e il mata­rel­lo
di madre pir­la, ci ho le guns di pla­sti­ca di Jas­se James e il
mitra in simil­le­gno con il fode­ro in simil­pel­le e pro­iet­ti­li in
sil­mil­sal­ve
E tu te met­te a ffa cagna­ra
co’ stu cazz’ de lupa­ra
e Toton­ni­no ‘o feten­to­ne
tene ‘na sber­la de can­no­ne
e un tuo ami­co di Potopp
tene qua­ran­ta molo­topp
e uno del­l’au­to­no­mia viag­gia sem­pre co’ la zia
” coco­sa c’en­tra la zia?” Pesa cin­que­cen­to kili e può sem­pre
ser­vi­re.., cala­ta dal­l’al­to. For­se la tua coscien­za è trop­po
in cre­scen­za…
Brrrr…

La musica è politicamente sospetta

Roma­no Madera

La musi­ca è
poli­ti­ca­men­te sospetta

Poli­ti­ca e musica

La moda, anche quel­la poli­ti­ca, ha riva­lu­ta­to musi­ca, can­to e dan­ze.
Non che pri­ma del movi­men­to del ’77 le note poli­ti­che non esi­stes­se­ro. Anzi. Solo, pri­ma del­la cri­si del­la figu­ra del mili­tan­te, più o meno dal ’73 in poi, face­va­no sfon­do, era­no par­te del­la coreo­gra­fia. Come le mar­ce mili­ta­ri rispet­to alla bat­ta­glia. Deci­si­va è la bat­ta­glia, il tam­bu­ro bat­te nel­l’in­ter­val­lo, per tene­re in alto i cuo­ri. Le due musi­che pre­fe­ri­te: ban­die­ra ros­sa e L’in­ter­na­zio­na­le futu­ra uma­ni­tà. Per esse­re futu­ra quel­la uma­ni­tà si accom­pa­gna­va con alcu­ne del­le peg­gio­ri mar­cet­te del­l’Ot­to­cen­to. I par­ti­co­la­ri del qua­dro era­no for­ni­ti da comi­zi ed esor­ta­zio­ni pro­sa­sti­che rifo­cil­la­te da qual­che rit­mo, pigra­men­te sti­rac­chia­to per non anne­ga­re la voce reci­tan­te. Un revi­val, adat­ta­to come ogni revi­val che non si rispet­ti, del poco musi­ca­le ma tan­to glo­rio­so ante­na­to, il pro­le­ta­ria­to Otto­cen­to-ini­zio Nove­cen­to.
Pos­sia­mo azzar­da­re due fun­zio­ni al revi­val. La pri­ma è la stes­sa del­la rie­su­ma­zio­ne, fat­ta sen­za ordi­ne alcu­no, fru­gan­do in mez­zo ad impet­ti­ti busti di per­so­ne gra­vi con i gesti casua­li e un tan­ti­nel­lo roz­zi di turi­sta in vacan­za che fa shop­ping al Gran Bazaar, di testi sacri, litur­gi­ci e per­si­no del­la rac­col­ta di imma­gi­net­te clas­si­fi­ca­te con tan­ta cura dal movi­men­to ope­ra­io. Ogni movi­men­to nuo­vo, reci­ta­va il sacro cano­ne, ama pren­der­si a pre­sti­to vec­chi costu­mi, un po’ per nobi­li­tar­si ai suoi pro­pri occhi, un po’ per dare ad inten­de­re la sua legit­ti­mi­tà. Non essen­do più pre­vi­sta la prov­vi­den­zia­le ope­ra di Dio, il rico­no­sci­men­to del figlio legit­ti­mo deve esse­re, lai­ca­men­te, sco­va­to dal ragaz­zi­no del­la sto­ria, moder­na dea. Così face­va­no i rivo­lu­zio­na­ri fine Set­te­cen­to-ini­zio Otto­cen­to con l’an­ti­ca Roma (e, mio Dio!, i con­tro­ri­vo­lu­zio­na­ri del Nove­cen­to) così face­va­mo noi, tiran­do la bar­ba di Marx, e di mol­te altre divi­ni­tà meno degne, per copri­re di pan­no nobi­le, di alto lignag­gio, le nostre tro­va­te di ulti­mi venu­ti. Se poi si can­ta­no gli stes­si inni è ovvia la pre­te­sa di rico­struir­si una paten­te di legit­ti­ma ere­di­tà: sia­mo noi i con­ti­nua­to­ri di quel­le gesta: del­le lot­te per le die­ci ore, per il voto, del­la rivo­lu­zio­ne rus­sa ma anche di quel­la anar­chi­ca mai fat­ta, chis­sà mai, di quel­la cine­se ma pure del­la resi­sten­za ita­lia­na, di Castro e di Josè Mar­ti, e for­se di Boli­var pas­san­do per via Lumum­ba, sen­za dimen­ti­ca­re Kron­stadt che pure era vit­ti­ma di un altro nostro ante­na­to e così via. D’al­tra par­te, l’E­di­po di Sofo­cle, sen­za aspet­ta­re Freud, già lo sape­va che nel­le sto­rie di fami­glia il voler­la saper lun­ga costa caro. È infat­ti meglio, meglio assai dav­ve­ro, ricor­dar­si le fan­fa­re. Così Addio Luga­no bel­la, L’in­ter­na­zio­na­le di Lenin (e di Sta­lin), pren­dia­mo la fal­ce e il mar­tel­lo, le otto ore. Che Gue­va­ra, Gori­zia… can­tia­mo ragaz­zi che arri­va il vino, potreb­be scap­par­ci un taral­lo! Che deli­zia la Sto­ria tra­vol­ta dal­la popo­la­na fre­ne­sia del­la taran­tel­la,
La secon­da fun­zio­ne di tan­to rie­su­ma­re era quel­la di arri­va­re, come nel­le com­me­die pie­ne di equi­vo­ci, all’i­ne­qui­vo­ca­bi­le rico­no­sci­men­to: che mam­ma sto­ria ci dices­se, oggi, ripor­tan­do­ce­lo a casa per gui­da­re la fami­glia, che il nostro papa era dav­ve­ro lui, il pro­le­ta­ria­to dai tan­ti figli.
Ben­ché mol­ti anco­ra si osti­ni­no, que­sto padre di con­sue­to così par­te­ci­pa­to e serio, ci tol­le­ra, al mas­si­mo, come figli adul­te­ri­ni, nati dal­le sue meno serie avven­tu­re. Il pro­le­ta­ria­to orga­niz­za­to, disci­pli­na­to e uni­to dal­la fab­bri­ca, came­ra nuzia­le del suo con­nu­bio, si dice­va, col socia­li­smo scien­ti­fi­co, non ci può sof­fri­re. Pre­fe­ri­sce i cer­ti­fi­ca­ti, fa genea­lo­gie al Muni­ci­pio e davan­ti allo Sta­to, sce­glie la fami­glia, con­ti­nua ad unge­re del suo cri­sma i pri­mo­ge­ni­ti. Giac­ca e cra­vat­ta e voto al PCI. Qual­che vol­ta si incaz­za, ma è solo una lite in fami­glia. Que­sti cen­cio­lo­si, pro­le­ta­ri sot­to e semi, sfa­sciu­me socia­le di vario tipo sen­za nean­che nomi pre­ci­si, per cari­tà.
Non è che già allo­ra non vi fos­se chi, inquie­to, restio a cre­de­re alle ripe­ti­zio­ni, un po’ meno pro­vin­cia­le, si occu­pa­va del­la musi­ca viva del movi­men­to inter­na­zio­na­le e vi rin­trac­cia­va sin­to­mi di quel che si doves­se inten­de­re per la «natu­ra del movi­men­to».. E affan­na­to si doman­da­va se non vi fos­se qual­co­sa di più e di meno del­le avvi­sa­glie di una ripre­sa pro­le­ta­ria rivo­lu­zio­na­ria. Ci vede­va una sor­ta di movi­men­to con­tro­cul­tu­ra­le, insom­ma una lot­ta di civil­tà che pas­sa­va non più tra una clas­se e un’al­tra ma che attra­ver­sa­va la clas­se stes­sa.
Mi par­reb­be segno di acca­de­mi­smo, vie­ta puz­za sot­to il naso, non ave­re il corag­gio di dire chi. Que­sto «chi» era­no poche per­so­ne, rac­col­te prin­ci­pal­men­te attor­no a «Re Nudo» e ad Andrea Val­ca­ren­ghi. Capi­ta spes­so di sen­ti­re qual­che ex lea­der ope­rai­sta attri­buir­si la pater­ni­tà del Movi­men­to. Non solo que­ste affer­ma­zio­ni non tor­na­no in musi­ca ma nep­pu­re pos­so­no esse­re ses­sua­te, tan­to meno pro­ven­go­no da zone di coscien­za alte­ra­te. Va da sé che ai bei tem­pi si sbef­feg­gia­va­no, spu­tac­chia­va­no, si con­si­de­ra­va­no beo­ti i pochi embrio­ni, gli annun­ci sin­to­ma­ti­ci del­l’in­te­rio­re evo­lu­zio­ne-rivo­lu­zio­ne che di lì a poco avreb­be sen­si­bil­men­te muta­to gran par­te del movi­men­to di oppo­si­zio­ne.
Quin­di, da una par­te la musi­ca, nel bene e nel male, sen­ti­ta da tut­ti o qua­si, dal­l’al­tra il giu­di­zio poli­ti­co e le mar­cet­te, anche qui da par­te degli stes­si tut­ti. O qua­si. La con­sue­ta divi­sio­ne fra sen­si­bi­li­tà cul­tu­ra­le e ridu­zio­ne razio­na­li­sti­ca del­la cul­tu­ra poli­ti­ca o del­la poli­ti­ca cul­tu­ra­le.
È con­for­tan­te che nel ’73 qual­che poli­ti­co, come Gian­fran­co Man­fre­di, pre­stas­se orec­chie atten­te all’al­tra spon­da e comin­cias­se a fare del­l’i­ro­nia, in musi­ca e ver­si, sul pre­te­so uni­ver­so chiu­so del­la mili­tan­za. Non a caso, cre­do io, l’og­gi risi­bi­le nuo­vo modo di far poli­ti­ca agi­ta­va men­te e pas­sio­ni di quel­lo stra­no grup­po, era d’a­van­guar­dia va det­to, di gen­te sba­glia­ta nel mestie­re sba­glia­to col nome sba­glia­to, che era il «Gram­sci». Il ’73 è un anno di gran­de cri­si del movi­men­to del ’68.
L’im­po­ten­za, che ben pochi sep­pe­ro misu­ra­re, del­le ricet­te par­ti­ti­ni­che, leni­ni­ste comun­que deno­mi­nan­te­si, la mise­ria del­l’u­ni­ver­so scan­di­to dal­la cop­pia di con­cet­ti clas­se e Sta­to, cova­va sot­to il fuo­co fatuo del­la sini­stra rivo­lu­zio­na­ria grup­pu­sco­la­re. Dio dol­la­ro che dal ’71 si scuo­te­va nel ten­ta­ti­vo di Sisi­fo di rimet­te­re in sesto il suo mon­do accen­de­va le favil­le del­la cri­si mon­dia­le sot­to bari­li di petro­lio. D’im­prov­vi­so appa­ri­va con­cre­ta la dimen­sio­ne del­lo scon­tro, l’a­re­na era il mon­do, e non il mon­do che tifa­va per il Viet­nam sen­za ave­re il can­no­ne in casa, il mon­do che spa­reg­gia­va i con­ti ogni tre mesi con la lira. Car­li, Ban­ca e Gover­no appar­ve­ro per quel che era­no e sono, anche se Car­li ha cam­bia­to mestie­re, mario­net­te del­l’in­vi­si­bi­le burat­ti­na­io a nome mer­ca­to mon­dia­le. Né più vici­no, era pos­si­bi­le con­for­tar­si tan­to. Mira­fio­ri imban­die­ra­ta a gran­de sezio­ne di Lot­ta con­ti­nua con­clu­de­va una tor­men­ta­ta sta­gio­ne d’a­mo­re. L’av­ven­tu­ra era fini­ta pro­prio quan­do la con­qui­sta pare­va riu­sci­ta. Di lì a poco, ritro­sa e stiz­zo­sa come una vera moglie, la clas­se ope­ra­ia orga­niz­za­ta, la spe­ran­za uni­ver­sa­le di libe­ra­zio­ne, sareb­be tor­na­ta, malin­co­ni­ca­men­te, tiran­do cal­ci e sfu­ria­te, al tet­to legit­ti­mo, nel­la pur vana spe­ran­za di ave­re un mari­to decen­te. Ma for­se la sto­ria li ha spo­sa­ti così e, in fin dei con­ti, se non si sa vole­re altro che il pro­prio male, reci­ta il pro­ver­bio, non c’è che da pian­ge­re se stes­si.
Di sop­piat­to la poli­ti­ca dei grup­pi si aggior­na­va, essen­do­ci costret­ta. In fon­do per­ché resta­re fede­li alle mar­cet­te, una vol­ta sco­per­to che l’o­pe­ra­io adul­to e maschio tira­va per le lun­ghe e che, all’in­ver­so, i gio­va­ni, pro­le­ta­ri semi e sot­to e per nien­te, le don­ne, i diver­si, allen­ta­ta la spe­ran­za e la pos­si­bi­li­tà di sca­ri­ca­re le ener­gie che pro­te­sta­va­no con­tro la gab­bia del­la Nor­ma, e del­la Con­for­mi­tà al Mon­do Così Com’è (meglio, al Mon­do come la sua fac­cia in luce atte­sta, bluf­fan­do, che sia) e di rea­liz­zar­le in mili­tan­za, nic­chia­va­no ormai ai richia­mi di mobi­li­ta­zio­ne? Meglio dar­si una spol­ve­ra­ti­na. Fare con­cer­ti. Far­li diver­ti­re que­sti ragaz­zi pre­stan­do loro qual­che secon­da­ria atten­zio­ne. E in fon­do a suon di musi­ca ci si finan­zia.
Non è sta­to così. È sta­to un bene­det­to vaso di Pan­do­ra. Pan­do­ra era curio­sa, intel­li­gen­te, non le pia­ce­va un mon­do che ser­ba­va i suoi malan­ni sot­to il coper­chio, per que­sto lo tol­se. Mil­le fili comin­cia­ro­no a ritro­var­si, anche se qual­cu­no ritie­ne che l’u­ni­co sboc­co del sen­si­bi­le mon­do che cer­ca di far­si luce sia anco­ra sem­pre e sol­tan­to quel­lo del­la poli­ti­ca. Ma per esse­re sol­tan­to o fon­da­men­tal­men­te quel­lo del­la poli­ti­ca, la cana­liz­za­zio­ne di un mon­do som­mer­so (da seco­li e, o, da mil­len­ni e, o, da sem­pre), mon­do di cor­pi, di sen­si­bi­li­tà, di for­za, con­tro mon­di di logi­che ogget­ti­ve, di valo­ri, non può che esse­re cana­liz­za­zio­ne di distru­zio­ne, vio­len­za anch’es­sa mac­chi­niz­za­ta, nuo­va nega­zio­ne di cor­pi, sen­si­bi­li­tà, for­ze, fan­ta­sie. Mil­le fili, a matas­sa, spes­so sgra­de­vo­li a veder­si, si ritro­va­no. Nes­su­no rie­sce a. for­ni­re loro, per for­tu­na, e per que­sta for­tu­na si sono così bril­lan­te­men­te sbri­glia­ti nel ’77, una soli­da pro­spet­ti­va «poli­ti­ca» per il futu­ro. Sono come era­no i loro albo­ri negli USA, dopo lo squal­li­do ritor­no dal­la Corea a metà degli anni ’50, come L’Ur­lo di Gin­sberg annun­cia­va, una malat­tia di que­sto mon­do, e per que­sto ten­do­no a rap­pre­sen­ta­re il sin­to­mo di una nuo­va civil­tà, una misu­ra e una for­ma di rela­zio­ne total­men­te diver­sa fra il mon­do som­mer­so e nega­to e il mon­do som­mer­so e affer­ma­to di que­sta civil­tà, del­la civil­tà cri­stia­no-bor­ghe­se rea­liz­za­ta come tec­ni­ca del­la pro­du­zio­ne e del domi­nio, del dispe­ra­to domi­nio del­la natu­ra e del­la socie­tà.
L’ur­lo di ciò che è sta­to affo­ga­to, qua­si sen­za inter­ru­zio­ne, lun­go più di quat­tro­cen­to anni e per cer­ti aspet­ti più di due­mi­la anni e per cer­ti aspet­ti da sem­pre, non è un gri­do­li­no edu­ca­to. D’al­tra par­te per orec­chie così assor­da­te come le nostre, solo urla fero­ci pos­so­no pre­ten­de­re di esse­re udi­te. E for­se solo un po’ d’A­fri­ca tra­pian­ta­ta al col­mo del­la dispe­ra­zio­ne ame­ri­ca­na pote­va favo­ri­re il par­to di una musi­ca del gene­re. Una musi­ca che richie­de anche gam­be, va det­to, è già un bel pas­so, non si sa per dove, l’im­por­tan­te è che sia un pas­so, e non di mar­cia.
Tut­ta­via que­sto non è che un aspet­to. La vec­chia socie­tà, sot­to il man­to ros­so che non è più del paz­zo ma del rivo­lu­zio­na­rio luci­do, mac­chi­nal­men­te pre­ci­so, alme­no così vuol esse­re, cer­ca l’ad­do­me­sti­ca­men­to. Vuo­le che si accom­pa­gni la lot­ta poli­ti­ca. Vuo­le una musi­ca bel­let­to.
Una nuo­va edi­zio­ne del­le mar­cet­te. Finar­di è pur­trop­po esem­pla­re. Dice bene e rie­sce, sì, a ven­de­re pro­prio per que­sto «una musi­ca ribel­le che ti entri nel­la pel­le» ma a far che? Per «smet­te­re le mena­te» e «met­ter­ti a lot­ta­re». Mena­ta, quan­do ero fan­ciul­lo, era la mastur­ba­zio­ne. La mastur­ba­zio­ne è in effet­ti un eccel­len­te metro per giu­di­ca­re dai sin­to­mi la vita­li­tà di un mon­do. Pan, il dio pan, il capro, il dio cor­nu­to, il dio ener­gia del tut­to, il dio del desi­de­rio, era, per i gre­ci, il dio che era pre­sen­te nel­la mastur­ba­zio­ne. Si dice che mari­nai abbia­no udi­to, regnan­te Tibe­rio, cri­stia­ne­si­mo all’o­riz­zon­te, un urlo: «Pan il gran­de è mor­to». Finar­di vuo­le la musi­ca non per la mastur­ba­zio­ne, fac­cen­de tra loro più affi­ni per chi abbia orec­chie non solo sul­la testa ma sul­la spi­na dor­sa­le e sap­pia cap­ta­re i bri­vi­di stra­ni che la risal­go­no e che ecci­ta­no ascol­tan­do musi­ca non dome­sti­ca o da cor­ti­le, bri­vi­do che ha lon­ta­ne paren­te­le con l’im­pul­so mastur­ba­to­rio, ma Finar­di vuo­le musi­ca per met­ter­si a lot­ta­re. Finar­di è un po’ pre­te (cat­ti­vo) e un po’ gene­ra­le: cioè è un can­tan­te da mes­sa, poli­ti­ca s’in­ten­de.
Non a caso, poli­ti­ca e mes­sa, si ser­vo­no con musi­ca: sì, per tra­sfe­ri­re inde­bi­ta­men­te l’ec­ci­ta­zio­ne musi­ca­le sul­l’a­de­sio­ne ad un discor­so, a dei valo­ri. Ogni poli­ti­ca, come ogni eti­ca, è logi­ca­men­te ed emo­ti­va­men­te debo­le. Nè la ragio­ne né le pul­sio­ni pos­so­no fon­da­re i divie­ti, le pre­scri­zio­ni eti­che e poli­ti­che. Caso­mai è il con­tra­rio. Allo­ra si por­ta­no pul­sio­ni musi­cal­men­te susci­ta­te, vi ricor­da­te Orfeo e le fie­re amman­si­te?, ad iden­ti­fi­car­si Con una rap­pre­sen­ta­zio­ne ideo­lo­gi­ca, in modo da impe­di­re una cri­ti­ca solo luci­da e, fis­san­do­le alla rap­pre­sen­ta­zio­ne, impe­di­re che le pul­sio­ni vada­no per con­to loro.
Ho scel­to Finar­di che ecci­ta, per­ché si lot­ti, come emble­ma di tan­ta, trop­pa gen­te del­la musi­ca di movi­men­to. Scel­go Man­fre­di al polo oppo­sto, che spin­ge la cri­ti­ca alla poli­ti­ca nel testo così a fon­do da far nasce­re desi­de­ri musi­ca­li al di là del sosten­ta­men­to for­za­to, del tri­bu­to, che la musi­ca con­ti­nua a paga­re alla poli­ti­ca.
Entram­bi, pre­si insie­me come due poli che defi­ni­sco­no meta­fo­ri­ca­men­te uno spa­zio, rap­pre­sen­ta­no bene il fer­men­to che tra­sci­na il movi­men­to, e noi che sia­mo mos­si dagli stes­si fer­men­ti: ora nel vole­re nuo­ve rap­pre­sen­ta­zio­ni poli­ti­che, ora nel voler oltre­pas­sa­re que­sta pre­scri­zio­ne assog­get­tan­do il poli­ti­co bue all’af­fer­ma­zio­ne di una cul­tu­ra, nel sen­so di col­ti­va­zio­ne, del­la vita.
Poi­ché fino ad oggi si è sol­tan­to recin­ta­ta la vita, si è col­ti­va­ta la dife­sa e la rea­zio­ne alla vita, pre­ten­den­do, in que­sto modo, di vive­re. Ci toc­ca ades­so chia­ri­re qual­co­sa del rap­por­to fra musi­ca e politica.

Musi­ca e politica

Musi­ca e poli­ti­ca: se tenia­mo l’oc­chio su quel­la «e» che uni­sce i due ter­mi­ni potre­mo ren­der­ci con­to del­l’in­gan­no. Non si trat­ta, infat­ti, di un tran­quil­lo ritro­var­si, né tam­po­co di una faci­le unio­ne, si trat­ta di una lot­ta che l’o­pa­ca ras­se­gna­zio­ne al buon sen­so vor­reb­be, e vuo­le deci­de­re: già nel segno di una vit­to­ria del­la poli­ti­ca. Le «e» dei ter­mi­ni mes­si accan­to a que­sta dei­tà divo­ra­tri­ce li accom­pa­gna­no come guin­za­gli di cani con­dot­ti, sen­za saper­lo, in una pas­seg­gia­ta il cui segre­to è la came­ra a gas, la mor­te per asfis­sia.
Così vuo­le la paro­la scrit­ta, così ha volu­to spes­so la ragion di sta­to, o di nazio­ne, o di par­ti­to, o di chie­sa. Il nume­ro è infi­ni­to, dei ten­ta­ti­vi ripe­tu­ti di far ser­vi­re la musi­ca da bel­va fiac­ca­ta, da tigre ingat­ti­ta, aggio­ga­ta al car­ro di trion­fo di una qual­che imper­so­ni­fi­ca­zio­ne del­le isti­tu­zio­ni. Dal can­to gre­go­ria­no alla musi­ca del­la rifor­ma e del­la con­tro­ri­for­ma, alle mar­ce mili­ta­ri, a Goeb­bels che gon­fia­va il suo pove­ro desti­no cer­can­do di traf­fi­car­lo, sot­to­ban­co, con l’e­mo­zio­ne del desti­no stes­so che risuo­na­va dal­la quin­ta bee­tho­ve­nia­na. E alle cele­bra­zio­ni sovie­ti­che, e alla nona can­ta­ta a Pechi­no nel gior­no del­la vit­to­ria. Ma la musi­ca è una bel­va dif­fi­ci­le, la sua man­sue­tu­di­ne può rive­lar­si d’un trat­to sel­vag­gia, può ricor­dar­si del­la sua ori­gi­ne e ser­vir­la, inve­ce di inchi­nar­si ai suoi effet­ti. Accad­de così che Bee­tho­ven, pas­seg­gian­do con Goe­the, a dif­fe­ren­za di que­st’ul­ti­mo, non si tol­se il cap­pel­lo davan­ti alla fami­glia impe­ria­le.
Lenin si emo­zio­na­va tan­to come ascol­ta­to­re di musi­ca da proi­bir­se­lo, per non distur­ba­re la auto­crea­zio­ne di sé come per­fet­ta mac­chi­na al ser­vi­zio del­la cau­sa pro­le­ta­ria. Set­tem­bri­ni, l’i­deo­lo­go del­l’u­ma­ne­si­mo pro­gres­si­sta del­la Mon­ta­gna incan­ta­ta, sen­ti­va la musi­ca come «poli­ti­ca­men­te sospet­ta». Il poli­ti­co teme per il suo mestie­re-iden­ti­tà e allon­ta­na da sé que­sta fon­te di pos­si­bi­le distur­bo. Ha pro­fon­da ragio­ne, il suo istin­to da ani­ma­le di cit­tà è per­cor­so da tre­mi­ti all’an­nun­cio del­l’i­nat­te­sa fero­cia che la musi­ca, quan­do non sia addo­me­sti­ca­ta in fun­zio­ne illu­stra­ti­va di altro, spi­ra da sé.
Come spie­ga­re que­sti com­bat­ten­ti stra­ni, da qua­li lon­ta­ne regio­ni giun­ge a noi la loro ini­mi­ci­zia? Se Marx tro­va un limi­te alla sua capa­ci­tà di spie­ga­re e qua­si si sof­fer­ma su di una soglia di miste­ro, ciò gli acca­de di fron­te alla gran­de poe­sia gre­ca e alla tra­ge­dia. Su quel­la soglia inve­ce nasce il volo pro­di­gio­so di Nie­tzsche, che inda­ga la tra­ge­dia per risco­prir­vi l’o­ri­gi­ne nel­lo spi­ri­to del­la musi­ca.
Gli inte­res­si, le vesti di cit­ta­di­no e, in gene­re, la rap­pre­sen­ta­zio­ne di una par­te – e allo­ra, ben capi­te, ogni par­ti­to! – sono un’e­sten­sio­ne del sen­ti­re il discon­ti­nuo, la sepa­ra­tez­za degli indi­vi­dui fra loro e in loro, e il nes­so solo socia­le che li col­le­ga; l’a­gi­re poli­ti­co impli­ca luci­di­tà e cal­co­la­bi­li­tà, atten­zio­ne al rap­por­to di for­za, non tra­vol­gi­men­to cor­po­reo in balia di una scos­sa che ne esi­ge il desi­de­rio di rifu­sio­ne con il tut­to: «Si tra­sfor­mi l’in­no alla “gio­ia” di Bee­tho­ven in un qua­dro e non si riman­ga indie­tro con l’im­ma­gi­na­zio­ne, quan­do i milio­ni si pro­ster­na­no rab­bri­vi­den­do nel­la pol­ve­re: così ci si potrà avvi­ci­na­re al dio­ni­sia­co. Ora lo schia­vo è uomo libe­ro, ora s’in­fran­go­no tut­te le rigi­de, osti­li deli­mi­ta­zio­ni che la neces­si­tà, l’ar­bi­trio o la “moda sfac­cia­ta” han­no sta­bi­li­to fra gli uomi­ni. Ora, nel van­ge­lo del­l’ar­mo­nia uni­ver­sa­le, ognu­no si sen­te non solo riu­ni­to, ricon­ci­lia­to, fuso col suo pros­si­mo, ma addi­rit­tu­ra uno con esso. […] L’uo­mo non è più arti­sta, è dive­nu­to ope­ra d’ar­te: si rive­la qui fra i bri­vi­di del­l’eb­brez­za il pote­re arti­sti­co del­l’in­te­ra natu­ra, con il mas­si­mo appa­ga­men­to esta­ti­co del­l’u­ni­tà ori­gi­na­ria. Qui si impa­sta e si sgros­sa l’ar­gil­la più nobi­le, il mar­mo più pre­zio­so, l’uo­mo, e ai col­pi di scal­pel­lo del­l’ar­ti­sta cosmi­co dio­ni­sia­co risuo­na il gri­do dei miste­ri eleu­si­ni: Vi pro­ster­na­te, milio­ni? Sen­ti il crea­to­re, mon­do?» [1].
Non è que­sta una via di libe­ra­zio­ne, per lo schia­vo e per il padro­ne, una via di ebbrez­za che la trop­po luci­da men­te del poli­ti­co, di Set­tem­bri­ni e di Lenin, non può che avver­ti­re come osti­le, misti­fi­ca­to­ria, oppia­cea, tan­to peri­co­lo­sa quan­to tra­sci­nan­te e sedu­cen­te? La mac­chi­na del par­ti­to, il qua­dro comu­ni­sta, non deve sen­ti­re le note rapi­no­se che ne can­cel­la­no l’i­den­ti­tà di ruo­lo, l’es­se­re poli­ti­co, il rap­pre­sen­ta­re una par­te con­tro un’al­tra. Nel trion­fan­te cor­teo dio­ni­sia­co una par­te e l’al­tra si rive­le­reb­be­ro, per­si­no nei loro più san­gui­no­si reci­pro­ci affron­ti, masche­re del­lo stes­so gio­co, e Fat­to­re nel­la musi­ca vol­ge­reb­be, inquie­ta­men­te, gli occhi su di sé, riden­do fino a scop­pia­re di un tra­ve­sti­men­to che è la sua stes­sa pel­le.
Ci sono tem­pi oscu­ri, o trop­po chia­ri, for­se trop­po pati­na­ti, tem­pi nei qua­li la vista, attrat­ta dal­le super­fi­ci che le si offro­no così net­te rima­ne cat­tu­ra­ta, e l’a­bi­le poten­za del ser­pen­te dan­za ridi­col­men­te alla pan­to­mi­ma sug­ge­ri­ta dal­l’in­can­ta­to­re. Tem­pi così lin­di da inor­ri­di­re del­l’or­ri­do, così esper­ti nel con­fi­nar­lo, nel­l’u­gua­gliar­lo al listi­no di bor­sa e all’an­da­men­to del traf­fi­co. I car­ri fune­bri pas­sa­no inos­ser­va­ti e, se osser­va­ti, ingiu­ria­ti dal­l’e­sor­ci­smo più Vigliac­co. Nel più fune­bre mon­do mai spet­ta­co­la­riz­za­to sul­la sce­na del tem­po. In que­sti tem­pi così chia­ri ogni accen­no all’a­bis­so deve esse­re imman­ti­nen­te riscat­ta­to: se bru­cia una cit­tà stia­mo sicu­ri di leg­ge­re la mat­ti­na dopo le più sper­ti­ca­te lodi dei pom­pie­ri o la più acce­sa denun­cia del­l’i­nef­fi­cien­za dei pub­bli­ci pote­ri.
Le luci sono così poten­ti da non lascia­re ombre sul­l’i­den­ti­tà dei per­so­nag­gi: tut­ti si sen­to­no mol­to «se stes­si». Il mira­co­lo è fat­to: tut­ti sono ognu­no ma nes­su­no sospet­ta di chia­mar­si nes­su­no, e si appog­gia sicu­ro sul­la sua iden­ti­tà irri­pro­du­ci­bi­le, che è la pura e sem­pli­ce geo­me­tria di un naso stor­to così e non drit­to colà. Tan­t’è quan­to resta del­l’in­di­vi­dua­li­tà. Marx ave­va strap­pa­to alme­no par­te del segre­to alla sfin­ge: le per­so­ne sono per­so­ne, masche­re di cose, di cose-mer­ci, di quan­ti­tà di «valo­re».
Ma natu­re trop­po debo­li, trop­po figlie del loro tem­po, han­no let­to i suoi mes­sag­gi. L’a­ria tra­gi­ca che vi cir­co­la, di tea­tro del­l’or­ro­re e del vuo­to, è sta­ta sosti­tui­ta con accor­te esor­ta­zio­ni pro­tei­ni­che a far­si for­za e a non smet­te­re di lot­ta­re né tam­po­co, di spe­ra­re nel­l’av­ve­ni­re. Que­ste natu­re sfat­te (e il signi­fi­ca­to è let­te­ra­le: in cia­scu­no in quan­to ugua­le agli altri, in que­sta civil­tà, la natu­ra è sfat­ta), que­ste illu­sio­ni indi­vi­dua­li, illu­so­rie quan­to ato­mi distin­ti che pre­ten­da­no dif­fe­ren­ziar­si solo per­ché sono distin­ti, come potreb­be­ro reg­ge­re l’im­mer­sio­ne che la musi­ca sug­ge­ri­sce e tal­vol­ta com­pie al di là del­l’io, del­le tran­quil­le cer­tez­ze, in un con­ti­nen­te di affi­ni­tà così stret­te da con­fon­der­si e da sof­fo­ca­re le distan­ze poste fra sé e il sen­ti­men­to «pani­co», tota­le del­la vita? In quel con­ti­nen­te il più atro­ce dolo­re fa sol­tan­to la sua par­te nel­l’or­che­stra, la tra­ge­dia cono­sce­va così bene la map­pa di que­st’av­ven­tu­ra da innal­zar­la alla visio­ne del mito, ripe­ten­do in esso lo sfor­zo di una nuo­va indi­vi­dua­zio­ne, che nasce pro­prio da e rima­ne nel con­ti­nuo rischio del­l’an­ni­chi­li­men­to, rap­pre­sen­ta­to dal­la musi­ca nel gran­de tut­to.
Veri­tà sto­ri­ca o figu­ra del­l’a­ni­ma, poco impor­ta: la meta­fo­ra dice bene quel che deve dire, l’at­teg­giar­si di fron­te alla vita, e alla mor­te, ma anche all’a­mo­re, al ses­so, ai bam­bi­ni, a uno sta­dio, a un’ag­gres­sio­ne, a una fra­se taglien­te, a una malin­co­nia, a un abban­do­no, a uno scuo­ti­men­to ras­se­gna­to di testa pesan­te dopo il nume­ro non nume­ra­bi­le del­l’ul­ti­ma delu­sio­ne pati­ta.
Una musi­ca tale da esse­re pre­sa sul serio e tale da far­si pren­de­re così sul serio è incom­pa­ti­bi­le con un mon­do di pal­li­di auto­mi. Ren­de­reb­be sen­za sosta intol­le­ra­bi­le l’in­te­ra rete dei rap­por­ti socia­li e socia­li tra sé e Sé. Instil­le­reb­be il dub­bio a que­sti auto­mi-per­so­ne can­cel­lan­do­ne la tron­fia sicu­rez­za di esi­ste­re indi­vi­dual­men­te. A que­sta musi­ca biso­gna proi­bi­re la nasci­ta o, nel caso, spin­ge­re a fon­do la degra­da­zio­ne del gusto fino all’e­gua­glian­za istu­pi­di­ta fra Petrus Boo­ne­kamp e dram­ma sin­fo­ni­co. Non cer­to per caso trion­fa Male­bol­ge del­la Can­zo­ne. Dove tut­to è rifu­so e rifon­di­bi­le, Char­lie Par­ker Vival­di la mon­di­na e John Cage. La musi­ca peri­co­lo­sa è omo­lo­ga­ta alla can­zo­ne (disco impian­to, come si sen­te bene, que­sto qui ha ven­t’an­ni) o esor­ciz­za­ta all’an­ti­qua­ria­to dei Con­ser­va­to­ri e del­le Gio­ven­tù Musi­ca­li.
La poli­ti­ca, per­si­no nei casi più musi­ca­li di sto­ria poli­ti­ca (la rivo­lu­zio­ne fran­ce­se o quel­la cine­se), non può che cer­ca­re di addo­me­sti­ca­re la musi­ca. Di far­la diven­ta­re, lei, nega­tri­ce del­le par­ti se non nel­la par­ti­tu­ra, nazio­na­le, di clas­se, di ceto, di età ecc. ecc. Di pie­gar­la pro­prio come la natu­ra a sce­na­rio, fun­zio­ne illu­stra­ti­va ed esor­ta­ti­va del­l’a­zio­ne: o scim­mia ammae­stra­ta per stuz­zi­ca­re i pas­san­ti ad entra­re nel ten­do­ne del cir­co poli­ti­co. Per la poli­ti­ca tut­to deve esse­re maci­na­to nel­lo stret­to imbu­to del­la sto­ria e dei pro­ble­mi «con­cre­ti». Ciò che fuo­rie­sce, qua­si tut­to ad una con­si­de­ra­zio­ne sol­tan­to corag­gio­sa, deve esse­re can­cel­la­to, mes­so in secon­do pia­no, tra­la­scia­to. Mol­ti segni negli ulti­mi ven­ti anni han­no par­la­to diver­sa­men­te. Una poe­sia che ha lace­ra­to il museo let­te­ra­rio tro­va­va accen­ti nel­la musi­ca, nel­la musi­ca meno doma­ta per­ché cre­sciu­ta, dal­la sua nasci­ta in cate­ne, ben oltre l’al­tez­za del car­ce­rie­re – Gin­sberg – Kerouac – Char­lie Par­ker – be bop. Era que­sta la cate­na che uni­va l’an­nun­cio di un movi­men­to di Rina­sci­ta, di diver­sa civil­tà, di nuo­va for­ma equi­li­brio e misu­ra fra l’au­to­cra­ti­ca ragio­ne e l’a­nar­chi­smo pul­sio­na­le. E, irri­den­do le inten­zio­ni dei suoi ese­cu­to­ri e dei suoi ascol­ta­to­ri, una spe­cie di sim­bo­lo­gia orgia­sti­ca rit­ma­ta, fra le maglie già costrui­te di nuo­ve pri­gio­ni e nuo­vi imme­schi­ni­men­ti, si è fat­ta stra­da ovun­que.
In fon­do gli ulti­mi a capir­lo, men­tre l’im­me­schi­ni­to da tem­po pre­va­le, sono i poli­ti­ci che, pate­ti­ca­men­te, alla fine, discu­to­no anche di musi­ca. Anco­ra vor­reb­be­ro far­la ser­vi­re alla lot­ta men­tre fra­go­ro­sa­men­te la nota irri­de il testo e chie­de di bat­te­re il rit­mo. Qual­che altro è inve­ce già un’in­di­ca­zio­ne: comin­cia anche nel testo a irri­der­ne le pre­te­se poli­ti­che. Spe­ria­mo sia un buon annun­cio per l’av­ve­ni­re musi­ca­le. E chi ha tem­po per la musi­ca, e per le altre Muse sue sorel­le, avrà sem­pre meno tem­po per l’i­dio­zia. Cioè per la civil­tà cri­stia­no-bor­ghe­se che ne è il festi­val, tra­gi­co e bel­lo in que­sta figu­ra del­l’i­dio­ta, ma pro­prio per que­sto ripe­ti­ti­vo, solo osses­si­vo e autocratico.

[1] F. NIETZSCHE, La nasci­ta del­la tra­ge­dia, Mila­no, Adel­phi, 1977, pp. 24–5.

Ricky Gianco

Tu sei rock e su que­sto rock
costrui­rò la mia chiesak

«Ora sei rima­sta sola, pian­gi e non ricor­di nul­la», non è una ammor­bi­di­ta fra­se del­lo Stec­chet­ti (poe­ta male­det­to): è il capo­ver­so di una mia vec­chis­si­ma can­zo­ne anni ’60–61 che tor­na stra­na­men­te d’at­tua­li­tà, a distan­za di 15 anni, al Festi­val del­la stam­pa d’op­po­si­zio­ne al Par­co Raviz­za a Mila­no. Ver­so la fine del mio spet­ta­co­lo, ana­liz­zo in modo auto­cri­ti­co le mie ori­gi­ni musi­ca­li «roc­chet­ta­re» e il revi­val par­te per l’ap­pun­to con la sopra cita­ta Ora sei rima­sta sola. È in quel­la situa­zio­ne mol­to tesa che mi chie­do­no di can­ta­re tut­ta la can­zo­ne, lascian­do­mi a dir poco stu­pi­to; mi vie­ne spon­ta­neo repli­ca­re: «Sì d’ac­cor­do, però can­ta­te anche voi». A que­sto pun­to si met­to­no a can­ta­re in sei­mi­la (più o meno) e mi tro­vo improv­vi­sa­men­te in imba­raz­zo, a disa­gio, let­te­ral­men­te nel­la mer­da, ma ormai can­tia­mo in coro.
Da que­sto appa­ren­te super­fi­cia­li­tà nasce, secon­do me, una chia­ra spie­ga­zio­ne del cosid­det­to feno­me­no del revi­val. Non è un ripe­scag­gio dovu­to a vec­chi nostal­gi­ci, è la curio­si­tà di gio­va­ni che vaga­men­te cono­sco­no o che comun­que, per man­can­za di nuo­vo (maga­ri diver­ten­te o rilas­san­te) han­no voglia di tem­po libe­ro e non liber­ti­ci­da.
È altret­tan­to espli­ci­to che que­sto tipo di eva­sio­ne è pos­si­bi­le in un par­ti­co­la­re con­te­sto dove, dopo ave­re con­trol­la­to i docu­men­ti, la coscien­za poli­ti­ca e la sicu­rez­za del­la stes­sa, vie­ne di con­se­guen­za la pos­si­bi­li­tà di ammet­te­re: «Ma sì, lascia­mo­ci anda­re a coglio­nag­gi­ni per un momen­to, can­tia­mo un po’ facen­do­ci un paio di auto­no­me risa­te». Sta­bi­li­to quin­di il tipo di sdop­pia­men­to che da una par­te si iden­ti­fi­ca nel­l’In­ter­na­zio­na­le e dal­l’al­tra nel­la ricrea­zio­ne del rock, l’u­ni­ca cosa impor­tan­te è che cre­de­re nel rock vor­reb­be dire cor­re­re il rischio di inzup­par­si in una spe­cie di bie­ca fede ma che, per pren­de­re fia­to, va benis­si­mo. Nes­su­no, pen­so, vor­reb­be ritro­var­si nei pan­nac­ci di chi, dime­nan­do­si spie­ta­ta­men­te ad 80 anni, si spie­gas­se addu­cen­do: «Ho spe­so tut­ta la mia vita per il roc­k’­n’­roll». Tra l’al­tro cor­re­reb­be il rischio di ritro­var­si con­vo­glia­to tra le fila di un cor­teo com­po­sto di alpi­ni e mari­nai, nel ruo­lo di roc­ken­rol­la­ro.
La real­tà cre­do sia che non ci han­no mai inse­gna­to nien­te, e che ci han­no sem­pre lascia­to fare l’a­mo­re in modo spa­ven­ta­to e dram­ma­ti­co, sen­za per­met­ter­ci il nor­ma­le pia­ce­re di una sin­ce­ra risa­ta, pri­ma, duran­te e dopo; così le can­zo­ni ci han­no accom­pa­gna­to e segui­to, il più del­le vol­te per­se­gui­tan­do­ci nel­la repres­sa real­tà di sem­pre. C’è, di con­se­guen­za, una rab­bia, una ribel­lio­ne, una rivo­lu­zio­ne che a slo­gan rit­mi­ci por­ta anche la can­zo­ne a una nuo­va espres­sio­ne di con­te­sta­zio­ne e di biso­gno epi­der­mi­co di par­la­re di esi­gen­ze rea­li, non di «Amo­ri stel­la­ri e fran­ce­schia­ni» (mi rife­ri­sco a Bat­ti­sti-Mogol che non han­no anco­ra capi­to che era pro­prio Fran­ce­sca e mi sem­bra più che giu­sto).
Sia­mo ora ad una fase in cui, da una par­te, esi­ste un lin­guag­gio indub­bia­men­te e deci­sa­men­te cam­bia­to, dal­l’al­tra una for­mu­la e un modu­lo musi­ca­le che non è cam­bia­to qua­si per nien­te. For­se il pro­ble­ma è «fare suo­na­re le paro­le e fare però par­la­re la musi­ca». Io ci sto pro­van­do, e dico que­sto per­ché mi ren­do con­to che è pos­si­bi­le, anche se dif­fi­ci­le e a vol­te sfra­cel­lan­te (mi rife­ri­sco a A Ner­vi nel ’92 e a Com­pa­gno sì, com­pa­gno no, com­pa­gno un caz­zo).
Ades­so vor­rei fare un pas­so indie­tro, pre­met­ten­do che non cre­do nel­la rein­car­na­zio­ne né quin­di nel­la fati­co­sa pos­si­bi­li­tà di nasce­re e mori­re due o più vol­te. Con que­sto non voglio intro­dur­re il soli­to e sem­pre­ver­de miste­rio­so inter­ro­ga­ti­vo «Che cos’è la vita? » ma dicia­mo che mi limi­te­rò all’e­si­gen­za di una più faci­le, anche se spe­ri­co­la­ta, rispo­sta: la vita è un wal­tzer, anzi – in que­sto caso – un roc­k’­n’­roll.
Que­sta spe­cie di post­pre­fa­zio­ne è dedi­ca­ta a quel­li che sicu­ra­men­te acco­ste­ran­no alla let­tu­ra cro­no­lo­gi­ca dei testi la facil­li­ma defi­ni­zio­ne «Il vec­chio Ric­ky Gian­co e il nuo­vo Ric­ky Gian­co» sen­za così toglie­re una vol­ta per tut­te a Gesù Cri­sto quel­lo che natu­ral­men­te era di Laz­za­ro. Il rock and roll nasce con un musi­ci­sta disc-jokey di nome Alan Freed che, ascol­tan­do dischi di rithm and blues nel­l’A­me­ri­ca del 1951, ini­zia un pro­gram­ma radio­fo­ni­co inti­to­la­to: «Moon­do­g’s Roc­k’­n’­Roll Par­ty». L’ac­co­sta­men­to del­le paro­le R’n’R (Roc­k’­n’­roll) si ispi­ra auto­ma­ti­ca­men­te a R’n’B’ (rithm and blues).
Nel 1954 par­te defi­ni­ti­va­men­te il rivo­lu­zio­na­rio perio­do con in testa il defun­to Elvis, che, fra l’al­tro, mol­ti ascol­ta­to­ri sta­tu­ni­ten­si cre­do­no can­tan­te di colo­re; così si sca­te­na un nuo­vo modo di esi­ste­re e il diver­so lin­guag­gio comin­cia a entra­re in tut­te le case ame­ri­ca­ne stra­col­me di tee­na­gers cre­sciu­ti nel mac­car­ti­smo, ma comun­que desi­de­ro­si di nuo­vo, oltre che di vec­chi e soli­ti ham­bur­gers.
Ogni casa disco­gra­fi­ca cer­ca imme­dia­ta­men­te l’i­do­lo da con­trap­por­re a Elvis ed è così che si svi­lup­pa­no vari tipi di rock e di ese­cu­to­ri, che io divi­de­rei appros­si­ma­ti­va­men­te in que­sti grup­pi: 1) rock bian­co, sel­vag­gio, cari­co di ses­so e vio­len­za (Pre­sley – E. Cochran – J.L. Lewis – G. Vin­cent – B. Hol­ly); 2) rock nero, chia­ve base di blues e rit­mo e stru­men­to non di lot­ta per la fine del ghet­to ma per l’u­sci­ta o la fuga da esso (L. Richard – F. Domi­no – C. Ber­ry – B. Didd­ley); 3) rock bian­co per­be­ni­sta e puri­ta­no con rit­mi edu­ca­ti e abban­do­no a tra­di­zio­ni coun­try ed hill­bil­ly, roba da vec­chio Sud, meglio se ric­co (R. Nel­son – Ever­ly Bro­thers – R. Orbin­son – C. Twit­ty – P. Boo­ne); 4) rock del pian­to, fal­so rit­mi­ca­men­te e melen­so melo­di­ca­men­te, con pun­te di sof­fe­ren­za mas­si­ma anche in caso di pia­ce­vo­li e feli­ci situa­zio­ni tipo: You are my desti­nyPut your head on my shoul­derThe dia­ryHap­py bir­th­day sweet six­teen (P. Anka – N. Seda­ka – F. Ava­lon – R. Luke).
Natu­ral­men­te, que­sta non è la sto­ria del rock, ma un modo per spie­ga­re abba­stan­za chia­ra­men­te come io, un po’ per sfi­ga, un po’ per mia insi­pien­za, sia cre­sciu­to nel filo­ne del rock del pian­to. Pro­ba­bil­men­te, anche se in manie­ra vit­ti­mi­sta, per usci­re dal mio metro e ses­san­ta e dai miei per­se­gui­tan­ti bru­fo­li (1957–58, I bru­fo­li non li ho più). Sono pas­sa­to, in 21 anni di lavo­ro, attra­ver­so: feste sco­la­sti­che – festi­val del dilet­tan­te (tipo «Cap­pio d’o­ro», dove i fischi del pub­bli­co pote­va­no met­ter­ti nel­la con­di­zio­ne di esse­re tra­sci­na­to fuo­ri dal pal­co, men­tre can­ta­vi, gra­zie appun­to al famo­so «Cap­pio»); feste di piaz­za – avan­spet­ta­co­lo – festi­val di San­re­mo – bale­re – tea­tri-caba­ret – sta­di – festi­val del­l’U­ni­tà – del­l’A­van­ti ecc. cre­scen­do sem­pre a con­tat­to con pub­bli­ci diver­si.
Anche se i com­por­ta­men­ti sono cam­bia­ti, le rea­zio­ni del pub­bli­co sono spes­so, a parer mio, qua­si iden­ti­che. Il diver­so sta in tut­to lo spet­ta­co­lo come fat­to cul­tu­ra­le, che si è in bloc­co con­ti­nua­men­te evo­lu­to nel tem­po e nel­le sostan­ze.
Quel­lo che voglio dire è che un Vil­la anco­ra oggi è applau­di­to, ma dal­lo stes­so vec­chio pub­bli­co di allo­ra, men­tre un Gaber ha un pub­bli­co nuo­vo che non accet­te­reb­be sicu­ra­men­te Vil­la.
L’in­te­res­san­te sta nel fat­to che for­se un Gaber potreb­be recu­pe­ra­re il vec­chio pub­bli­co di Vil­la, non cer­ta­men­te il con­tra­rio. Quan­do gl’in­tel­let­tual-bor­ghe­si degl’an­ni ’60 ascol­ta­va­no Pao­li, Bin­di, e poi Ten­co e De Andrè, sor­ri­den­do per­ché a cono­scen­za dei vari Vian, Bras­sens, Brel ecc., con­si­de­ra­va­no il feno­me­no tut­to loro e fra i libri di Bau­de­lai­re, Bre­cht e Marx infi­la­va­no i dischi di que­ste diver­ten­ti e intel­li­gen­ti can­zo­ni. I bale­ra-peo­ple, inve­ce, meno como­da­men­te sedu­ti, non segui­va­no i con­te­nu­ti (con­si­de­ra­to anche che la loro mer­ce ne era pri­va) ma si tuf­fa­va­no nel­la dan­za lascian­do solo ai vec­chi il pia­ce­re di una can­ta­ta in oste­ria.
Così, in un secon­do tem­po, men­tre i bor­ghe­si si but­ta­va­no sul mon­di­nag­gio salot­tie­ro, i pro­le­ta­ri e sot­to­pro­le­ta­ri più o meno incaz­za­ti, comin­cia­va­no a chie­de­re e poi a pre­ten­de­re ciò che gli appar­te­ne­va e che era la loro cul­tu­ra popo­la­re fat­ta di lot­te con­ti­nue col sem­pre più fati­co­so, quo­ti­dia­no. Con la lot­ta comu­ni­sta d’op­po­si­zio­ne pri­ma e defi­ni­ti­va­men­te col ’68–69 dopo, si ripren­de un duro lavo­ro poli­ti­co (non per la miste­rio­sa «rico­stru­zio­ne») per una costru­zio­ne col­let­ti­va che coin­vol­ge tut­ti, mili­tan­ti e non, che sve­glia anche chi vive chiu­so in casa coi pro­pri pro­ble­mi per­so­na­li.
La can­zo­ne poli­ti­ca per anto­no­ma­sia diven­ta così non solo una denun­cia fat­ta di «Ban­die­re ros­se» o «A mor­te il padro­ne», ma anche di per­so­na­le che, in que­sta manie­ra, diven­ta poli­ti­co. Can­tau­to­ri e can­tau­to­ri poli­ti­ciz­za­ti fan­no del­la musi­ca ita­lia­na un fat­to di infor­ma­zio­ne e attua­li­tà, come for­se era cono­sciu­ta seco­li pri­ma da can­ta­sto­rie pun­gen­ti e iro­ni­ci. Per quel­lo che mi riguar­da cre­do mol­to in que­sta dire­zio­ne, sen­za con ciò rin­ne­ga­re la mia ori­gi­ne fat­ta di rock, ma piut­to­sto medi­tan­do sul fat­to che se Elvis Pre­sley aves­se potu­to sce­glie­re tra mafia e movi­men­to, pro­ba­bil­men­te avrem­mo avu­to un gros­so lea­der. (La let­te­ra di Lenin su Mus­so­li­ni mi è venu­ta in men­te solo dopo, lo giu­ro: anche se non so su «cosa»).

Disco­gra­fia: Una gior­na­ta con Ric­ky Gian­co (Jaguar); Ai miei ami­ci di Ciao Ami­ci (Jaguar); Ric­ky Gian­co Spe­cial (Ricor­di); Disco del­l’an­go­scia (Ulti­ma spiag­gia); Alla mia mam… (Ulti­ma spiaggia).

Alla com­po­si­zio­ne del­le can­zo­ni di Ric­ky Gian­co han­no col­la­bo­ra­to Miki Del Pre­te (Sei rima­sta sola), Det­to-Don Bac­ky-Del Pre­te (Tu vedrai), G. Pie­ret­ti (II ven­to del­l’e­st), E. Green‑C. Mont­go­me­ry (Que­sta casa non la mol­le­rò) e Gian­fran­co Manfredi.

COMPAGNO UN CAZZO!

Sto facen­do un noti­zia­rio cam­bo­gia­no
da una radio libe­ra, per chi?
Il micro­fo­no è un po’ fal­li­co però
il pote­re non ce l’ho no, no!]
Cir­con­da­to dai mass media sul­la sedia
io lavo­ro sem­pre gra­tis ma
c’è Anto­niet­ta che mi ama e che mi aspet­ta
tut­ta not­te lei mi ascolterà

Com­pa­gno sì, Com­pa­gno no, Com­pa­gno un caz­zo!
Com­pa­gno sì, Com­pa­gno no, Com­pa­gno un cazzo!

Io c’ho il pro­fu­go cile­no a casa mia
è arri­va­to nel ‘73
e da allo­ra lui non è più anda­to via
Anto­niet­ta fam­mi star da te
pas­sa un gior­no, pas­sa un mese, pas­sa un anno
L’u­ni­tà scon­fig­ge­rà il padro­ne
ma Anto­niet­ta mi ha but­ta­to per la stra­da
vuoi veder che sono io il coglione

Com­pa­gno sì…

Vado a pren­de­re un po’ d’er­ba da un ami­co
ad Anto­niet­ta la rega­le­rò
io la lascio chiu­sa in mac­chi­na un secon­do
per anda­re a bere un buon caf­fè
quan­do esco m’han spac­ca­to il fine­stri­no
e un ragaz­zo sta sal­tan­do il muro
come fai a man­da­re uno a San Vit­to­re
poi fini­sce che gli fan­no il culo
Si avvi­ci­na un tizio con cra­vat­ta e giac­ca
tira fuo­ri in fret­ta un tes­se­ri­no
e mi dice: «Tu sei uno di sini­stra
sta’ tran­quil­lo sono un cele­ri­no
son pulot­to sì, ma son del Sin­da­ca­to-
for­za dim­mi cosa ti ha ruba­to»
Io gli dico: «Lascia per­de­re com­pa­gno
è un pro­ble­ma trop­po delicato »

Com­pa­gno sì, Com­pa­gno no, Com­pa­gno un cazzo!

[1977]

Que­sta casa non la mollerò

Son qui per but­tar­ci fuo­ri di cit­tà
son tut­ti in fila lì per sei però non sono mica ami­ci miei
sono venu­ti tut­ti qui per noi, ma guar­da che adu­na­ta di cow­boys
di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

In ter­za fila vedo uno che somi­glia pro­prio a mio cugi­no
por­co cane è pro­prio Bru­no, ma per­ché s’è fat­to cele­ri­no
ma se ci pro­va a veni­re su, io dal­le sca­le lo ribut­to giù
di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

E c’è una don­na qui con me che non ave­va visto mai un bidè
quan­do lo schiz­zo vie­ne su, si met­te a ric­fe­re, non ne può più
tri­pli ser­vi­zi, ma tu guar­da un po’, pas­sa­no il gior­no a fare la popò
di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

Sul pavi­men­to le pia­strel­le son dipin­te tut­te quan­te a stel­le
sul­la pare­te abbia­mo scrit­to «que­sta casa è nel nostro dirit­to»
se le tene­te vuo­te cari miei, le con­ser­via­mo intan­to noi per voi
di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

Uh can­de­lot­to vie­ne su, non si respi­ra, non se ne può più
mia moglie strin­ge fra le brac­cia un bei bam­bi­no luci­do da cac­cia
di que­sti tem­pi non ci sono san­ti, con tan­ti ladri è meglio sta­re pron­ti
ma di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

Pre­sto la por­ta si apri­rà, un poli­ziot­to ci sor­ri­de­rà
d chie­de­rà se per favo­re voglia­mo scen­de­re in un paio d’o­re
sarà gen­ti­le ci darà del Lei, ne ammaz­ze­rà sol­tan­to cin­que o sei
ma di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

[1974]