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Roma­no Madera

La musi­ca è
poli­ti­ca­men­te sospetta

Poli­ti­ca e musica

La moda, anche quel­la poli­ti­ca, ha riva­lu­ta­to musi­ca, can­to e dan­ze.
Non che pri­ma del movi­men­to del ’77 le note poli­ti­che non esi­stes­se­ro. Anzi. Solo, pri­ma del­la cri­si del­la figu­ra del mili­tan­te, più o meno dal ’73 in poi, face­va­no sfon­do, era­no par­te del­la coreo­gra­fia. Come le mar­ce mili­ta­ri rispet­to alla bat­ta­glia. Deci­si­va è la bat­ta­glia, il tam­bu­ro bat­te nel­l’in­ter­val­lo, per tene­re in alto i cuo­ri. Le due musi­che pre­fe­ri­te: ban­die­ra ros­sa e L’in­ter­na­zio­na­le futu­ra uma­ni­tà. Per esse­re futu­ra quel­la uma­ni­tà si accom­pa­gna­va con alcu­ne del­le peg­gio­ri mar­cet­te del­l’Ot­to­cen­to. I par­ti­co­la­ri del qua­dro era­no for­ni­ti da comi­zi ed esor­ta­zio­ni pro­sa­sti­che rifo­cil­la­te da qual­che rit­mo, pigra­men­te sti­rac­chia­to per non anne­ga­re la voce reci­tan­te. Un revi­val, adat­ta­to come ogni revi­val che non si rispet­ti, del poco musi­ca­le ma tan­to glo­rio­so ante­na­to, il pro­le­ta­ria­to Otto­cen­to-ini­zio Nove­cen­to.
Pos­sia­mo azzar­da­re due fun­zio­ni al revi­val. La pri­ma è la stes­sa del­la rie­su­ma­zio­ne, fat­ta sen­za ordi­ne alcu­no, fru­gan­do in mez­zo ad impet­ti­ti busti di per­so­ne gra­vi con i gesti casua­li e un tan­ti­nel­lo roz­zi di turi­sta in vacan­za che fa shop­ping al Gran Bazaar, di testi sacri, litur­gi­ci e per­si­no del­la rac­col­ta di imma­gi­net­te clas­si­fi­ca­te con tan­ta cura dal movi­men­to ope­ra­io. Ogni movi­men­to nuo­vo, reci­ta­va il sacro cano­ne, ama pren­der­si a pre­sti­to vec­chi costu­mi, un po’ per nobi­li­tar­si ai suoi pro­pri occhi, un po’ per dare ad inten­de­re la sua legit­ti­mi­tà. Non essen­do più pre­vi­sta la prov­vi­den­zia­le ope­ra di Dio, il rico­no­sci­men­to del figlio legit­ti­mo deve esse­re, lai­ca­men­te, sco­va­to dal ragaz­zi­no del­la sto­ria, moder­na dea. Così face­va­no i rivo­lu­zio­na­ri fine Set­te­cen­to-ini­zio Otto­cen­to con l’an­ti­ca Roma (e, mio Dio!, i con­tro­ri­vo­lu­zio­na­ri del Nove­cen­to) così face­va­mo noi, tiran­do la bar­ba di Marx, e di mol­te altre divi­ni­tà meno degne, per copri­re di pan­no nobi­le, di alto lignag­gio, le nostre tro­va­te di ulti­mi venu­ti. Se poi si can­ta­no gli stes­si inni è ovvia la pre­te­sa di rico­struir­si una paten­te di legit­ti­ma ere­di­tà: sia­mo noi i con­ti­nua­to­ri di quel­le gesta: del­le lot­te per le die­ci ore, per il voto, del­la rivo­lu­zio­ne rus­sa ma anche di quel­la anar­chi­ca mai fat­ta, chis­sà mai, di quel­la cine­se ma pure del­la resi­sten­za ita­lia­na, di Castro e di Josè Mar­ti, e for­se di Boli­var pas­san­do per via Lumum­ba, sen­za dimen­ti­ca­re Kron­stadt che pure era vit­ti­ma di un altro nostro ante­na­to e così via. D’al­tra par­te, l’E­di­po di Sofo­cle, sen­za aspet­ta­re Freud, già lo sape­va che nel­le sto­rie di fami­glia il voler­la saper lun­ga costa caro. È infat­ti meglio, meglio assai dav­ve­ro, ricor­dar­si le fan­fa­re. Così Addio Luga­no bel­la, L’in­ter­na­zio­na­le di Lenin (e di Sta­lin), pren­dia­mo la fal­ce e il mar­tel­lo, le otto ore. Che Gue­va­ra, Gori­zia… can­tia­mo ragaz­zi che arri­va il vino, potreb­be scap­par­ci un taral­lo! Che deli­zia la Sto­ria tra­vol­ta dal­la popo­la­na fre­ne­sia del­la taran­tel­la,
La secon­da fun­zio­ne di tan­to rie­su­ma­re era quel­la di arri­va­re, come nel­le com­me­die pie­ne di equi­vo­ci, all’i­ne­qui­vo­ca­bi­le rico­no­sci­men­to: che mam­ma sto­ria ci dices­se, oggi, ripor­tan­do­ce­lo a casa per gui­da­re la fami­glia, che il nostro papa era dav­ve­ro lui, il pro­le­ta­ria­to dai tan­ti figli.
Ben­ché mol­ti anco­ra si osti­ni­no, que­sto padre di con­sue­to così par­te­ci­pa­to e serio, ci tol­le­ra, al mas­si­mo, come figli adul­te­ri­ni, nati dal­le sue meno serie avven­tu­re. Il pro­le­ta­ria­to orga­niz­za­to, disci­pli­na­to e uni­to dal­la fab­bri­ca, came­ra nuzia­le del suo con­nu­bio, si dice­va, col socia­li­smo scien­ti­fi­co, non ci può sof­fri­re. Pre­fe­ri­sce i cer­ti­fi­ca­ti, fa genea­lo­gie al Muni­ci­pio e davan­ti allo Sta­to, sce­glie la fami­glia, con­ti­nua ad unge­re del suo cri­sma i pri­mo­ge­ni­ti. Giac­ca e cra­vat­ta e voto al PCI. Qual­che vol­ta si incaz­za, ma è solo una lite in fami­glia. Que­sti cen­cio­lo­si, pro­le­ta­ri sot­to e semi, sfa­sciu­me socia­le di vario tipo sen­za nean­che nomi pre­ci­si, per cari­tà.
Non è che già allo­ra non vi fos­se chi, inquie­to, restio a cre­de­re alle ripe­ti­zio­ni, un po’ meno pro­vin­cia­le, si occu­pa­va del­la musi­ca viva del movi­men­to inter­na­zio­na­le e vi rin­trac­cia­va sin­to­mi di quel che si doves­se inten­de­re per la «natu­ra del movi­men­to».. E affan­na­to si doman­da­va se non vi fos­se qual­co­sa di più e di meno del­le avvi­sa­glie di una ripre­sa pro­le­ta­ria rivo­lu­zio­na­ria. Ci vede­va una sor­ta di movi­men­to con­tro­cul­tu­ra­le, insom­ma una lot­ta di civil­tà che pas­sa­va non più tra una clas­se e un’al­tra ma che attra­ver­sa­va la clas­se stes­sa.
Mi par­reb­be segno di acca­de­mi­smo, vie­ta puz­za sot­to il naso, non ave­re il corag­gio di dire chi. Que­sto «chi» era­no poche per­so­ne, rac­col­te prin­ci­pal­men­te attor­no a «Re Nudo» e ad Andrea Val­ca­ren­ghi. Capi­ta spes­so di sen­ti­re qual­che ex lea­der ope­rai­sta attri­buir­si la pater­ni­tà del Movi­men­to. Non solo que­ste affer­ma­zio­ni non tor­na­no in musi­ca ma nep­pu­re pos­so­no esse­re ses­sua­te, tan­to meno pro­ven­go­no da zone di coscien­za alte­ra­te. Va da sé che ai bei tem­pi si sbef­feg­gia­va­no, spu­tac­chia­va­no, si con­si­de­ra­va­no beo­ti i pochi embrio­ni, gli annun­ci sin­to­ma­ti­ci del­l’in­te­rio­re evo­lu­zio­ne-rivo­lu­zio­ne che di lì a poco avreb­be sen­si­bil­men­te muta­to gran par­te del movi­men­to di oppo­si­zio­ne.
Quin­di, da una par­te la musi­ca, nel bene e nel male, sen­ti­ta da tut­ti o qua­si, dal­l’al­tra il giu­di­zio poli­ti­co e le mar­cet­te, anche qui da par­te degli stes­si tut­ti. O qua­si. La con­sue­ta divi­sio­ne fra sen­si­bi­li­tà cul­tu­ra­le e ridu­zio­ne razio­na­li­sti­ca del­la cul­tu­ra poli­ti­ca o del­la poli­ti­ca cul­tu­ra­le.
È con­for­tan­te che nel ’73 qual­che poli­ti­co, come Gian­fran­co Man­fre­di, pre­stas­se orec­chie atten­te all’al­tra spon­da e comin­cias­se a fare del­l’i­ro­nia, in musi­ca e ver­si, sul pre­te­so uni­ver­so chiu­so del­la mili­tan­za. Non a caso, cre­do io, l’og­gi risi­bi­le nuo­vo modo di far poli­ti­ca agi­ta­va men­te e pas­sio­ni di quel­lo stra­no grup­po, era d’a­van­guar­dia va det­to, di gen­te sba­glia­ta nel mestie­re sba­glia­to col nome sba­glia­to, che era il «Gram­sci». Il ’73 è un anno di gran­de cri­si del movi­men­to del ’68.
L’im­po­ten­za, che ben pochi sep­pe­ro misu­ra­re, del­le ricet­te par­ti­ti­ni­che, leni­ni­ste comun­que deno­mi­nan­te­si, la mise­ria del­l’u­ni­ver­so scan­di­to dal­la cop­pia di con­cet­ti clas­se e Sta­to, cova­va sot­to il fuo­co fatuo del­la sini­stra rivo­lu­zio­na­ria grup­pu­sco­la­re. Dio dol­la­ro che dal ’71 si scuo­te­va nel ten­ta­ti­vo di Sisi­fo di rimet­te­re in sesto il suo mon­do accen­de­va le favil­le del­la cri­si mon­dia­le sot­to bari­li di petro­lio. D’im­prov­vi­so appa­ri­va con­cre­ta la dimen­sio­ne del­lo scon­tro, l’a­re­na era il mon­do, e non il mon­do che tifa­va per il Viet­nam sen­za ave­re il can­no­ne in casa, il mon­do che spa­reg­gia­va i con­ti ogni tre mesi con la lira. Car­li, Ban­ca e Gover­no appar­ve­ro per quel che era­no e sono, anche se Car­li ha cam­bia­to mestie­re, mario­net­te del­l’in­vi­si­bi­le burat­ti­na­io a nome mer­ca­to mon­dia­le. Né più vici­no, era pos­si­bi­le con­for­tar­si tan­to. Mira­fio­ri imban­die­ra­ta a gran­de sezio­ne di Lot­ta con­ti­nua con­clu­de­va una tor­men­ta­ta sta­gio­ne d’a­mo­re. L’av­ven­tu­ra era fini­ta pro­prio quan­do la con­qui­sta pare­va riu­sci­ta. Di lì a poco, ritro­sa e stiz­zo­sa come una vera moglie, la clas­se ope­ra­ia orga­niz­za­ta, la spe­ran­za uni­ver­sa­le di libe­ra­zio­ne, sareb­be tor­na­ta, malin­co­ni­ca­men­te, tiran­do cal­ci e sfu­ria­te, al tet­to legit­ti­mo, nel­la pur vana spe­ran­za di ave­re un mari­to decen­te. Ma for­se la sto­ria li ha spo­sa­ti così e, in fin dei con­ti, se non si sa vole­re altro che il pro­prio male, reci­ta il pro­ver­bio, non c’è che da pian­ge­re se stes­si.
Di sop­piat­to la poli­ti­ca dei grup­pi si aggior­na­va, essen­do­ci costret­ta. In fon­do per­ché resta­re fede­li alle mar­cet­te, una vol­ta sco­per­to che l’o­pe­ra­io adul­to e maschio tira­va per le lun­ghe e che, all’in­ver­so, i gio­va­ni, pro­le­ta­ri semi e sot­to e per nien­te, le don­ne, i diver­si, allen­ta­ta la spe­ran­za e la pos­si­bi­li­tà di sca­ri­ca­re le ener­gie che pro­te­sta­va­no con­tro la gab­bia del­la Nor­ma, e del­la Con­for­mi­tà al Mon­do Così Com’è (meglio, al Mon­do come la sua fac­cia in luce atte­sta, bluf­fan­do, che sia) e di rea­liz­zar­le in mili­tan­za, nic­chia­va­no ormai ai richia­mi di mobi­li­ta­zio­ne? Meglio dar­si una spol­ve­ra­ti­na. Fare con­cer­ti. Far­li diver­ti­re que­sti ragaz­zi pre­stan­do loro qual­che secon­da­ria atten­zio­ne. E in fon­do a suon di musi­ca ci si finan­zia.
Non è sta­to così. È sta­to un bene­det­to vaso di Pan­do­ra. Pan­do­ra era curio­sa, intel­li­gen­te, non le pia­ce­va un mon­do che ser­ba­va i suoi malan­ni sot­to il coper­chio, per que­sto lo tol­se. Mil­le fili comin­cia­ro­no a ritro­var­si, anche se qual­cu­no ritie­ne che l’u­ni­co sboc­co del sen­si­bi­le mon­do che cer­ca di far­si luce sia anco­ra sem­pre e sol­tan­to quel­lo del­la poli­ti­ca. Ma per esse­re sol­tan­to o fon­da­men­tal­men­te quel­lo del­la poli­ti­ca, la cana­liz­za­zio­ne di un mon­do som­mer­so (da seco­li e, o, da mil­len­ni e, o, da sem­pre), mon­do di cor­pi, di sen­si­bi­li­tà, di for­za, con­tro mon­di di logi­che ogget­ti­ve, di valo­ri, non può che esse­re cana­liz­za­zio­ne di distru­zio­ne, vio­len­za anch’es­sa mac­chi­niz­za­ta, nuo­va nega­zio­ne di cor­pi, sen­si­bi­li­tà, for­ze, fan­ta­sie. Mil­le fili, a matas­sa, spes­so sgra­de­vo­li a veder­si, si ritro­va­no. Nes­su­no rie­sce a. for­ni­re loro, per for­tu­na, e per que­sta for­tu­na si sono così bril­lan­te­men­te sbri­glia­ti nel ’77, una soli­da pro­spet­ti­va «poli­ti­ca» per il futu­ro. Sono come era­no i loro albo­ri negli USA, dopo lo squal­li­do ritor­no dal­la Corea a metà degli anni ’50, come L’Ur­lo di Gin­sberg annun­cia­va, una malat­tia di que­sto mon­do, e per que­sto ten­do­no a rap­pre­sen­ta­re il sin­to­mo di una nuo­va civil­tà, una misu­ra e una for­ma di rela­zio­ne total­men­te diver­sa fra il mon­do som­mer­so e nega­to e il mon­do som­mer­so e affer­ma­to di que­sta civil­tà, del­la civil­tà cri­stia­no-bor­ghe­se rea­liz­za­ta come tec­ni­ca del­la pro­du­zio­ne e del domi­nio, del dispe­ra­to domi­nio del­la natu­ra e del­la socie­tà.
L’ur­lo di ciò che è sta­to affo­ga­to, qua­si sen­za inter­ru­zio­ne, lun­go più di quat­tro­cen­to anni e per cer­ti aspet­ti più di due­mi­la anni e per cer­ti aspet­ti da sem­pre, non è un gri­do­li­no edu­ca­to. D’al­tra par­te per orec­chie così assor­da­te come le nostre, solo urla fero­ci pos­so­no pre­ten­de­re di esse­re udi­te. E for­se solo un po’ d’A­fri­ca tra­pian­ta­ta al col­mo del­la dispe­ra­zio­ne ame­ri­ca­na pote­va favo­ri­re il par­to di una musi­ca del gene­re. Una musi­ca che richie­de anche gam­be, va det­to, è già un bel pas­so, non si sa per dove, l’im­por­tan­te è che sia un pas­so, e non di mar­cia.
Tut­ta­via que­sto non è che un aspet­to. La vec­chia socie­tà, sot­to il man­to ros­so che non è più del paz­zo ma del rivo­lu­zio­na­rio luci­do, mac­chi­nal­men­te pre­ci­so, alme­no così vuol esse­re, cer­ca l’ad­do­me­sti­ca­men­to. Vuo­le che si accom­pa­gni la lot­ta poli­ti­ca. Vuo­le una musi­ca bel­let­to.
Una nuo­va edi­zio­ne del­le mar­cet­te. Finar­di è pur­trop­po esem­pla­re. Dice bene e rie­sce, sì, a ven­de­re pro­prio per que­sto «una musi­ca ribel­le che ti entri nel­la pel­le» ma a far che? Per «smet­te­re le mena­te» e «met­ter­ti a lot­ta­re». Mena­ta, quan­do ero fan­ciul­lo, era la mastur­ba­zio­ne. La mastur­ba­zio­ne è in effet­ti un eccel­len­te metro per giu­di­ca­re dai sin­to­mi la vita­li­tà di un mon­do. Pan, il dio pan, il capro, il dio cor­nu­to, il dio ener­gia del tut­to, il dio del desi­de­rio, era, per i gre­ci, il dio che era pre­sen­te nel­la mastur­ba­zio­ne. Si dice che mari­nai abbia­no udi­to, regnan­te Tibe­rio, cri­stia­ne­si­mo all’o­riz­zon­te, un urlo: «Pan il gran­de è mor­to». Finar­di vuo­le la musi­ca non per la mastur­ba­zio­ne, fac­cen­de tra loro più affi­ni per chi abbia orec­chie non solo sul­la testa ma sul­la spi­na dor­sa­le e sap­pia cap­ta­re i bri­vi­di stra­ni che la risal­go­no e che ecci­ta­no ascol­tan­do musi­ca non dome­sti­ca o da cor­ti­le, bri­vi­do che ha lon­ta­ne paren­te­le con l’im­pul­so mastur­ba­to­rio, ma Finar­di vuo­le musi­ca per met­ter­si a lot­ta­re. Finar­di è un po’ pre­te (cat­ti­vo) e un po’ gene­ra­le: cioè è un can­tan­te da mes­sa, poli­ti­ca s’in­ten­de.
Non a caso, poli­ti­ca e mes­sa, si ser­vo­no con musi­ca: sì, per tra­sfe­ri­re inde­bi­ta­men­te l’ec­ci­ta­zio­ne musi­ca­le sul­l’a­de­sio­ne ad un discor­so, a dei valo­ri. Ogni poli­ti­ca, come ogni eti­ca, è logi­ca­men­te ed emo­ti­va­men­te debo­le. Nè la ragio­ne né le pul­sio­ni pos­so­no fon­da­re i divie­ti, le pre­scri­zio­ni eti­che e poli­ti­che. Caso­mai è il con­tra­rio. Allo­ra si por­ta­no pul­sio­ni musi­cal­men­te susci­ta­te, vi ricor­da­te Orfeo e le fie­re amman­si­te?, ad iden­ti­fi­car­si Con una rap­pre­sen­ta­zio­ne ideo­lo­gi­ca, in modo da impe­di­re una cri­ti­ca solo luci­da e, fis­san­do­le alla rap­pre­sen­ta­zio­ne, impe­di­re che le pul­sio­ni vada­no per con­to loro.
Ho scel­to Finar­di che ecci­ta, per­ché si lot­ti, come emble­ma di tan­ta, trop­pa gen­te del­la musi­ca di movi­men­to. Scel­go Man­fre­di al polo oppo­sto, che spin­ge la cri­ti­ca alla poli­ti­ca nel testo così a fon­do da far nasce­re desi­de­ri musi­ca­li al di là del sosten­ta­men­to for­za­to, del tri­bu­to, che la musi­ca con­ti­nua a paga­re alla poli­ti­ca.
Entram­bi, pre­si insie­me come due poli che defi­ni­sco­no meta­fo­ri­ca­men­te uno spa­zio, rap­pre­sen­ta­no bene il fer­men­to che tra­sci­na il movi­men­to, e noi che sia­mo mos­si dagli stes­si fer­men­ti: ora nel vole­re nuo­ve rap­pre­sen­ta­zio­ni poli­ti­che, ora nel voler oltre­pas­sa­re que­sta pre­scri­zio­ne assog­get­tan­do il poli­ti­co bue all’af­fer­ma­zio­ne di una cul­tu­ra, nel sen­so di col­ti­va­zio­ne, del­la vita.
Poi­ché fino ad oggi si è sol­tan­to recin­ta­ta la vita, si è col­ti­va­ta la dife­sa e la rea­zio­ne alla vita, pre­ten­den­do, in que­sto modo, di vive­re. Ci toc­ca ades­so chia­ri­re qual­co­sa del rap­por­to fra musi­ca e politica.

Musi­ca e politica

Musi­ca e poli­ti­ca: se tenia­mo l’oc­chio su quel­la «e» che uni­sce i due ter­mi­ni potre­mo ren­der­ci con­to del­l’in­gan­no. Non si trat­ta, infat­ti, di un tran­quil­lo ritro­var­si, né tam­po­co di una faci­le unio­ne, si trat­ta di una lot­ta che l’o­pa­ca ras­se­gna­zio­ne al buon sen­so vor­reb­be, e vuo­le deci­de­re: già nel segno di una vit­to­ria del­la poli­ti­ca. Le «e» dei ter­mi­ni mes­si accan­to a que­sta dei­tà divo­ra­tri­ce li accom­pa­gna­no come guin­za­gli di cani con­dot­ti, sen­za saper­lo, in una pas­seg­gia­ta il cui segre­to è la came­ra a gas, la mor­te per asfis­sia.
Così vuo­le la paro­la scrit­ta, così ha volu­to spes­so la ragion di sta­to, o di nazio­ne, o di par­ti­to, o di chie­sa. Il nume­ro è infi­ni­to, dei ten­ta­ti­vi ripe­tu­ti di far ser­vi­re la musi­ca da bel­va fiac­ca­ta, da tigre ingat­ti­ta, aggio­ga­ta al car­ro di trion­fo di una qual­che imper­so­ni­fi­ca­zio­ne del­le isti­tu­zio­ni. Dal can­to gre­go­ria­no alla musi­ca del­la rifor­ma e del­la con­tro­ri­for­ma, alle mar­ce mili­ta­ri, a Goeb­bels che gon­fia­va il suo pove­ro desti­no cer­can­do di traf­fi­car­lo, sot­to­ban­co, con l’e­mo­zio­ne del desti­no stes­so che risuo­na­va dal­la quin­ta bee­tho­ve­nia­na. E alle cele­bra­zio­ni sovie­ti­che, e alla nona can­ta­ta a Pechi­no nel gior­no del­la vit­to­ria. Ma la musi­ca è una bel­va dif­fi­ci­le, la sua man­sue­tu­di­ne può rive­lar­si d’un trat­to sel­vag­gia, può ricor­dar­si del­la sua ori­gi­ne e ser­vir­la, inve­ce di inchi­nar­si ai suoi effet­ti. Accad­de così che Bee­tho­ven, pas­seg­gian­do con Goe­the, a dif­fe­ren­za di que­st’ul­ti­mo, non si tol­se il cap­pel­lo davan­ti alla fami­glia impe­ria­le.
Lenin si emo­zio­na­va tan­to come ascol­ta­to­re di musi­ca da proi­bir­se­lo, per non distur­ba­re la auto­crea­zio­ne di sé come per­fet­ta mac­chi­na al ser­vi­zio del­la cau­sa pro­le­ta­ria. Set­tem­bri­ni, l’i­deo­lo­go del­l’u­ma­ne­si­mo pro­gres­si­sta del­la Mon­ta­gna incan­ta­ta, sen­ti­va la musi­ca come «poli­ti­ca­men­te sospet­ta». Il poli­ti­co teme per il suo mestie­re-iden­ti­tà e allon­ta­na da sé que­sta fon­te di pos­si­bi­le distur­bo. Ha pro­fon­da ragio­ne, il suo istin­to da ani­ma­le di cit­tà è per­cor­so da tre­mi­ti all’an­nun­cio del­l’i­nat­te­sa fero­cia che la musi­ca, quan­do non sia addo­me­sti­ca­ta in fun­zio­ne illu­stra­ti­va di altro, spi­ra da sé.
Come spie­ga­re que­sti com­bat­ten­ti stra­ni, da qua­li lon­ta­ne regio­ni giun­ge a noi la loro ini­mi­ci­zia? Se Marx tro­va un limi­te alla sua capa­ci­tà di spie­ga­re e qua­si si sof­fer­ma su di una soglia di miste­ro, ciò gli acca­de di fron­te alla gran­de poe­sia gre­ca e alla tra­ge­dia. Su quel­la soglia inve­ce nasce il volo pro­di­gio­so di Nie­tzsche, che inda­ga la tra­ge­dia per risco­prir­vi l’o­ri­gi­ne nel­lo spi­ri­to del­la musi­ca.
Gli inte­res­si, le vesti di cit­ta­di­no e, in gene­re, la rap­pre­sen­ta­zio­ne di una par­te – e allo­ra, ben capi­te, ogni par­ti­to! – sono un’e­sten­sio­ne del sen­ti­re il discon­ti­nuo, la sepa­ra­tez­za degli indi­vi­dui fra loro e in loro, e il nes­so solo socia­le che li col­le­ga; l’a­gi­re poli­ti­co impli­ca luci­di­tà e cal­co­la­bi­li­tà, atten­zio­ne al rap­por­to di for­za, non tra­vol­gi­men­to cor­po­reo in balia di una scos­sa che ne esi­ge il desi­de­rio di rifu­sio­ne con il tut­to: «Si tra­sfor­mi l’in­no alla “gio­ia” di Bee­tho­ven in un qua­dro e non si riman­ga indie­tro con l’im­ma­gi­na­zio­ne, quan­do i milio­ni si pro­ster­na­no rab­bri­vi­den­do nel­la pol­ve­re: così ci si potrà avvi­ci­na­re al dio­ni­sia­co. Ora lo schia­vo è uomo libe­ro, ora s’in­fran­go­no tut­te le rigi­de, osti­li deli­mi­ta­zio­ni che la neces­si­tà, l’ar­bi­trio o la “moda sfac­cia­ta” han­no sta­bi­li­to fra gli uomi­ni. Ora, nel van­ge­lo del­l’ar­mo­nia uni­ver­sa­le, ognu­no si sen­te non solo riu­ni­to, ricon­ci­lia­to, fuso col suo pros­si­mo, ma addi­rit­tu­ra uno con esso. […] L’uo­mo non è più arti­sta, è dive­nu­to ope­ra d’ar­te: si rive­la qui fra i bri­vi­di del­l’eb­brez­za il pote­re arti­sti­co del­l’in­te­ra natu­ra, con il mas­si­mo appa­ga­men­to esta­ti­co del­l’u­ni­tà ori­gi­na­ria. Qui si impa­sta e si sgros­sa l’ar­gil­la più nobi­le, il mar­mo più pre­zio­so, l’uo­mo, e ai col­pi di scal­pel­lo del­l’ar­ti­sta cosmi­co dio­ni­sia­co risuo­na il gri­do dei miste­ri eleu­si­ni: Vi pro­ster­na­te, milio­ni? Sen­ti il crea­to­re, mon­do?» [1].
Non è que­sta una via di libe­ra­zio­ne, per lo schia­vo e per il padro­ne, una via di ebbrez­za che la trop­po luci­da men­te del poli­ti­co, di Set­tem­bri­ni e di Lenin, non può che avver­ti­re come osti­le, misti­fi­ca­to­ria, oppia­cea, tan­to peri­co­lo­sa quan­to tra­sci­nan­te e sedu­cen­te? La mac­chi­na del par­ti­to, il qua­dro comu­ni­sta, non deve sen­ti­re le note rapi­no­se che ne can­cel­la­no l’i­den­ti­tà di ruo­lo, l’es­se­re poli­ti­co, il rap­pre­sen­ta­re una par­te con­tro un’al­tra. Nel trion­fan­te cor­teo dio­ni­sia­co una par­te e l’al­tra si rive­le­reb­be­ro, per­si­no nei loro più san­gui­no­si reci­pro­ci affron­ti, masche­re del­lo stes­so gio­co, e Fat­to­re nel­la musi­ca vol­ge­reb­be, inquie­ta­men­te, gli occhi su di sé, riden­do fino a scop­pia­re di un tra­ve­sti­men­to che è la sua stes­sa pel­le.
Ci sono tem­pi oscu­ri, o trop­po chia­ri, for­se trop­po pati­na­ti, tem­pi nei qua­li la vista, attrat­ta dal­le super­fi­ci che le si offro­no così net­te rima­ne cat­tu­ra­ta, e l’a­bi­le poten­za del ser­pen­te dan­za ridi­col­men­te alla pan­to­mi­ma sug­ge­ri­ta dal­l’in­can­ta­to­re. Tem­pi così lin­di da inor­ri­di­re del­l’or­ri­do, così esper­ti nel con­fi­nar­lo, nel­l’u­gua­gliar­lo al listi­no di bor­sa e all’an­da­men­to del traf­fi­co. I car­ri fune­bri pas­sa­no inos­ser­va­ti e, se osser­va­ti, ingiu­ria­ti dal­l’e­sor­ci­smo più Vigliac­co. Nel più fune­bre mon­do mai spet­ta­co­la­riz­za­to sul­la sce­na del tem­po. In que­sti tem­pi così chia­ri ogni accen­no all’a­bis­so deve esse­re imman­ti­nen­te riscat­ta­to: se bru­cia una cit­tà stia­mo sicu­ri di leg­ge­re la mat­ti­na dopo le più sper­ti­ca­te lodi dei pom­pie­ri o la più acce­sa denun­cia del­l’i­nef­fi­cien­za dei pub­bli­ci pote­ri.
Le luci sono così poten­ti da non lascia­re ombre sul­l’i­den­ti­tà dei per­so­nag­gi: tut­ti si sen­to­no mol­to «se stes­si». Il mira­co­lo è fat­to: tut­ti sono ognu­no ma nes­su­no sospet­ta di chia­mar­si nes­su­no, e si appog­gia sicu­ro sul­la sua iden­ti­tà irri­pro­du­ci­bi­le, che è la pura e sem­pli­ce geo­me­tria di un naso stor­to così e non drit­to colà. Tan­t’è quan­to resta del­l’in­di­vi­dua­li­tà. Marx ave­va strap­pa­to alme­no par­te del segre­to alla sfin­ge: le per­so­ne sono per­so­ne, masche­re di cose, di cose-mer­ci, di quan­ti­tà di «valo­re».
Ma natu­re trop­po debo­li, trop­po figlie del loro tem­po, han­no let­to i suoi mes­sag­gi. L’a­ria tra­gi­ca che vi cir­co­la, di tea­tro del­l’or­ro­re e del vuo­to, è sta­ta sosti­tui­ta con accor­te esor­ta­zio­ni pro­tei­ni­che a far­si for­za e a non smet­te­re di lot­ta­re né tam­po­co, di spe­ra­re nel­l’av­ve­ni­re. Que­ste natu­re sfat­te (e il signi­fi­ca­to è let­te­ra­le: in cia­scu­no in quan­to ugua­le agli altri, in que­sta civil­tà, la natu­ra è sfat­ta), que­ste illu­sio­ni indi­vi­dua­li, illu­so­rie quan­to ato­mi distin­ti che pre­ten­da­no dif­fe­ren­ziar­si solo per­ché sono distin­ti, come potreb­be­ro reg­ge­re l’im­mer­sio­ne che la musi­ca sug­ge­ri­sce e tal­vol­ta com­pie al di là del­l’io, del­le tran­quil­le cer­tez­ze, in un con­ti­nen­te di affi­ni­tà così stret­te da con­fon­der­si e da sof­fo­ca­re le distan­ze poste fra sé e il sen­ti­men­to «pani­co», tota­le del­la vita? In quel con­ti­nen­te il più atro­ce dolo­re fa sol­tan­to la sua par­te nel­l’or­che­stra, la tra­ge­dia cono­sce­va così bene la map­pa di que­st’av­ven­tu­ra da innal­zar­la alla visio­ne del mito, ripe­ten­do in esso lo sfor­zo di una nuo­va indi­vi­dua­zio­ne, che nasce pro­prio da e rima­ne nel con­ti­nuo rischio del­l’an­ni­chi­li­men­to, rap­pre­sen­ta­to dal­la musi­ca nel gran­de tut­to.
Veri­tà sto­ri­ca o figu­ra del­l’a­ni­ma, poco impor­ta: la meta­fo­ra dice bene quel che deve dire, l’at­teg­giar­si di fron­te alla vita, e alla mor­te, ma anche all’a­mo­re, al ses­so, ai bam­bi­ni, a uno sta­dio, a un’ag­gres­sio­ne, a una fra­se taglien­te, a una malin­co­nia, a un abban­do­no, a uno scuo­ti­men­to ras­se­gna­to di testa pesan­te dopo il nume­ro non nume­ra­bi­le del­l’ul­ti­ma delu­sio­ne pati­ta.
Una musi­ca tale da esse­re pre­sa sul serio e tale da far­si pren­de­re così sul serio è incom­pa­ti­bi­le con un mon­do di pal­li­di auto­mi. Ren­de­reb­be sen­za sosta intol­le­ra­bi­le l’in­te­ra rete dei rap­por­ti socia­li e socia­li tra sé e Sé. Instil­le­reb­be il dub­bio a que­sti auto­mi-per­so­ne can­cel­lan­do­ne la tron­fia sicu­rez­za di esi­ste­re indi­vi­dual­men­te. A que­sta musi­ca biso­gna proi­bi­re la nasci­ta o, nel caso, spin­ge­re a fon­do la degra­da­zio­ne del gusto fino all’e­gua­glian­za istu­pi­di­ta fra Petrus Boo­ne­kamp e dram­ma sin­fo­ni­co. Non cer­to per caso trion­fa Male­bol­ge del­la Can­zo­ne. Dove tut­to è rifu­so e rifon­di­bi­le, Char­lie Par­ker Vival­di la mon­di­na e John Cage. La musi­ca peri­co­lo­sa è omo­lo­ga­ta alla can­zo­ne (disco impian­to, come si sen­te bene, que­sto qui ha ven­t’an­ni) o esor­ciz­za­ta all’an­ti­qua­ria­to dei Con­ser­va­to­ri e del­le Gio­ven­tù Musi­ca­li.
La poli­ti­ca, per­si­no nei casi più musi­ca­li di sto­ria poli­ti­ca (la rivo­lu­zio­ne fran­ce­se o quel­la cine­se), non può che cer­ca­re di addo­me­sti­ca­re la musi­ca. Di far­la diven­ta­re, lei, nega­tri­ce del­le par­ti se non nel­la par­ti­tu­ra, nazio­na­le, di clas­se, di ceto, di età ecc. ecc. Di pie­gar­la pro­prio come la natu­ra a sce­na­rio, fun­zio­ne illu­stra­ti­va ed esor­ta­ti­va del­l’a­zio­ne: o scim­mia ammae­stra­ta per stuz­zi­ca­re i pas­san­ti ad entra­re nel ten­do­ne del cir­co poli­ti­co. Per la poli­ti­ca tut­to deve esse­re maci­na­to nel­lo stret­to imbu­to del­la sto­ria e dei pro­ble­mi «con­cre­ti». Ciò che fuo­rie­sce, qua­si tut­to ad una con­si­de­ra­zio­ne sol­tan­to corag­gio­sa, deve esse­re can­cel­la­to, mes­so in secon­do pia­no, tra­la­scia­to. Mol­ti segni negli ulti­mi ven­ti anni han­no par­la­to diver­sa­men­te. Una poe­sia che ha lace­ra­to il museo let­te­ra­rio tro­va­va accen­ti nel­la musi­ca, nel­la musi­ca meno doma­ta per­ché cre­sciu­ta, dal­la sua nasci­ta in cate­ne, ben oltre l’al­tez­za del car­ce­rie­re – Gin­sberg – Kerouac – Char­lie Par­ker – be bop. Era que­sta la cate­na che uni­va l’an­nun­cio di un movi­men­to di Rina­sci­ta, di diver­sa civil­tà, di nuo­va for­ma equi­li­brio e misu­ra fra l’au­to­cra­ti­ca ragio­ne e l’a­nar­chi­smo pul­sio­na­le. E, irri­den­do le inten­zio­ni dei suoi ese­cu­to­ri e dei suoi ascol­ta­to­ri, una spe­cie di sim­bo­lo­gia orgia­sti­ca rit­ma­ta, fra le maglie già costrui­te di nuo­ve pri­gio­ni e nuo­vi imme­schi­ni­men­ti, si è fat­ta stra­da ovun­que.
In fon­do gli ulti­mi a capir­lo, men­tre l’im­me­schi­ni­to da tem­po pre­va­le, sono i poli­ti­ci che, pate­ti­ca­men­te, alla fine, discu­to­no anche di musi­ca. Anco­ra vor­reb­be­ro far­la ser­vi­re alla lot­ta men­tre fra­go­ro­sa­men­te la nota irri­de il testo e chie­de di bat­te­re il rit­mo. Qual­che altro è inve­ce già un’in­di­ca­zio­ne: comin­cia anche nel testo a irri­der­ne le pre­te­se poli­ti­che. Spe­ria­mo sia un buon annun­cio per l’av­ve­ni­re musi­ca­le. E chi ha tem­po per la musi­ca, e per le altre Muse sue sorel­le, avrà sem­pre meno tem­po per l’i­dio­zia. Cioè per la civil­tà cri­stia­no-bor­ghe­se che ne è il festi­val, tra­gi­co e bel­lo in que­sta figu­ra del­l’i­dio­ta, ma pro­prio per que­sto ripe­ti­ti­vo, solo osses­si­vo e autocratico.

[1] F. NIETZSCHE, La nasci­ta del­la tra­ge­dia, Mila­no, Adel­phi, 1977, pp. 24–5.