Romano Madera
La musica è
politicamente sospetta
Politica e musica
La moda, anche quella politica, ha rivalutato musica, canto e danze.
Non che prima del movimento del ’77 le note politiche non esistessero. Anzi. Solo, prima della crisi della figura del militante, più o meno dal ’73 in poi, facevano sfondo, erano parte della coreografia. Come le marce militari rispetto alla battaglia. Decisiva è la battaglia, il tamburo batte nell’intervallo, per tenere in alto i cuori. Le due musiche preferite: bandiera rossa e L’internazionale futura umanità. Per essere futura quella umanità si accompagnava con alcune delle peggiori marcette dell’Ottocento. I particolari del quadro erano forniti da comizi ed esortazioni prosastiche rifocillate da qualche ritmo, pigramente stiracchiato per non annegare la voce recitante. Un revival, adattato come ogni revival che non si rispetti, del poco musicale ma tanto glorioso antenato, il proletariato Ottocento-inizio Novecento.
Possiamo azzardare due funzioni al revival. La prima è la stessa della riesumazione, fatta senza ordine alcuno, frugando in mezzo ad impettiti busti di persone gravi con i gesti casuali e un tantinello rozzi di turista in vacanza che fa shopping al Gran Bazaar, di testi sacri, liturgici e persino della raccolta di immaginette classificate con tanta cura dal movimento operaio. Ogni movimento nuovo, recitava il sacro canone, ama prendersi a prestito vecchi costumi, un po’ per nobilitarsi ai suoi propri occhi, un po’ per dare ad intendere la sua legittimità. Non essendo più prevista la provvidenziale opera di Dio, il riconoscimento del figlio legittimo deve essere, laicamente, scovato dal ragazzino della storia, moderna dea. Così facevano i rivoluzionari fine Settecento-inizio Ottocento con l’antica Roma (e, mio Dio!, i controrivoluzionari del Novecento) così facevamo noi, tirando la barba di Marx, e di molte altre divinità meno degne, per coprire di panno nobile, di alto lignaggio, le nostre trovate di ultimi venuti. Se poi si cantano gli stessi inni è ovvia la pretesa di ricostruirsi una patente di legittima eredità: siamo noi i continuatori di quelle gesta: delle lotte per le dieci ore, per il voto, della rivoluzione russa ma anche di quella anarchica mai fatta, chissà mai, di quella cinese ma pure della resistenza italiana, di Castro e di Josè Marti, e forse di Bolivar passando per via Lumumba, senza dimenticare Kronstadt che pure era vittima di un altro nostro antenato e così via. D’altra parte, l’Edipo di Sofocle, senza aspettare Freud, già lo sapeva che nelle storie di famiglia il volerla saper lunga costa caro. È infatti meglio, meglio assai davvero, ricordarsi le fanfare. Così Addio Lugano bella, L’internazionale di Lenin (e di Stalin), prendiamo la falce e il martello, le otto ore. Che Guevara, Gorizia… cantiamo ragazzi che arriva il vino, potrebbe scapparci un tarallo! Che delizia la Storia travolta dalla popolana frenesia della tarantella,
La seconda funzione di tanto riesumare era quella di arrivare, come nelle commedie piene di equivoci, all’inequivocabile riconoscimento: che mamma storia ci dicesse, oggi, riportandocelo a casa per guidare la famiglia, che il nostro papa era davvero lui, il proletariato dai tanti figli.
Benché molti ancora si ostinino, questo padre di consueto così partecipato e serio, ci tollera, al massimo, come figli adulterini, nati dalle sue meno serie avventure. Il proletariato organizzato, disciplinato e unito dalla fabbrica, camera nuziale del suo connubio, si diceva, col socialismo scientifico, non ci può soffrire. Preferisce i certificati, fa genealogie al Municipio e davanti allo Stato, sceglie la famiglia, continua ad ungere del suo crisma i primogeniti. Giacca e cravatta e voto al PCI. Qualche volta si incazza, ma è solo una lite in famiglia. Questi cenciolosi, proletari sotto e semi, sfasciume sociale di vario tipo senza neanche nomi precisi, per carità.
Non è che già allora non vi fosse chi, inquieto, restio a credere alle ripetizioni, un po’ meno provinciale, si occupava della musica viva del movimento internazionale e vi rintracciava sintomi di quel che si dovesse intendere per la «natura del movimento».. E affannato si domandava se non vi fosse qualcosa di più e di meno delle avvisaglie di una ripresa proletaria rivoluzionaria. Ci vedeva una sorta di movimento controculturale, insomma una lotta di civiltà che passava non più tra una classe e un’altra ma che attraversava la classe stessa.
Mi parrebbe segno di accademismo, vieta puzza sotto il naso, non avere il coraggio di dire chi. Questo «chi» erano poche persone, raccolte principalmente attorno a «Re Nudo» e ad Andrea Valcarenghi. Capita spesso di sentire qualche ex leader operaista attribuirsi la paternità del Movimento. Non solo queste affermazioni non tornano in musica ma neppure possono essere sessuate, tanto meno provengono da zone di coscienza alterate. Va da sé che ai bei tempi si sbeffeggiavano, sputacchiavano, si consideravano beoti i pochi embrioni, gli annunci sintomatici dell’interiore evoluzione-rivoluzione che di lì a poco avrebbe sensibilmente mutato gran parte del movimento di opposizione.
Quindi, da una parte la musica, nel bene e nel male, sentita da tutti o quasi, dall’altra il giudizio politico e le marcette, anche qui da parte degli stessi tutti. O quasi. La consueta divisione fra sensibilità culturale e riduzione razionalistica della cultura politica o della politica culturale.
È confortante che nel ’73 qualche politico, come Gianfranco Manfredi, prestasse orecchie attente all’altra sponda e cominciasse a fare dell’ironia, in musica e versi, sul preteso universo chiuso della militanza. Non a caso, credo io, l’oggi risibile nuovo modo di far politica agitava mente e passioni di quello strano gruppo, era d’avanguardia va detto, di gente sbagliata nel mestiere sbagliato col nome sbagliato, che era il «Gramsci». Il ’73 è un anno di grande crisi del movimento del ’68.
L’impotenza, che ben pochi seppero misurare, delle ricette partitiniche, leniniste comunque denominantesi, la miseria dell’universo scandito dalla coppia di concetti classe e Stato, covava sotto il fuoco fatuo della sinistra rivoluzionaria gruppuscolare. Dio dollaro che dal ’71 si scuoteva nel tentativo di Sisifo di rimettere in sesto il suo mondo accendeva le faville della crisi mondiale sotto barili di petrolio. D’improvviso appariva concreta la dimensione dello scontro, l’arena era il mondo, e non il mondo che tifava per il Vietnam senza avere il cannone in casa, il mondo che spareggiava i conti ogni tre mesi con la lira. Carli, Banca e Governo apparvero per quel che erano e sono, anche se Carli ha cambiato mestiere, marionette dell’invisibile burattinaio a nome mercato mondiale. Né più vicino, era possibile confortarsi tanto. Mirafiori imbandierata a grande sezione di Lotta continua concludeva una tormentata stagione d’amore. L’avventura era finita proprio quando la conquista pareva riuscita. Di lì a poco, ritrosa e stizzosa come una vera moglie, la classe operaia organizzata, la speranza universale di liberazione, sarebbe tornata, malinconicamente, tirando calci e sfuriate, al tetto legittimo, nella pur vana speranza di avere un marito decente. Ma forse la storia li ha sposati così e, in fin dei conti, se non si sa volere altro che il proprio male, recita il proverbio, non c’è che da piangere se stessi.
Di soppiatto la politica dei gruppi si aggiornava, essendoci costretta. In fondo perché restare fedeli alle marcette, una volta scoperto che l’operaio adulto e maschio tirava per le lunghe e che, all’inverso, i giovani, proletari semi e sotto e per niente, le donne, i diversi, allentata la speranza e la possibilità di scaricare le energie che protestavano contro la gabbia della Norma, e della Conformità al Mondo Così Com’è (meglio, al Mondo come la sua faccia in luce attesta, bluffando, che sia) e di realizzarle in militanza, nicchiavano ormai ai richiami di mobilitazione? Meglio darsi una spolveratina. Fare concerti. Farli divertire questi ragazzi prestando loro qualche secondaria attenzione. E in fondo a suon di musica ci si finanzia.
Non è stato così. È stato un benedetto vaso di Pandora. Pandora era curiosa, intelligente, non le piaceva un mondo che serbava i suoi malanni sotto il coperchio, per questo lo tolse. Mille fili cominciarono a ritrovarsi, anche se qualcuno ritiene che l’unico sbocco del sensibile mondo che cerca di farsi luce sia ancora sempre e soltanto quello della politica. Ma per essere soltanto o fondamentalmente quello della politica, la canalizzazione di un mondo sommerso (da secoli e, o, da millenni e, o, da sempre), mondo di corpi, di sensibilità, di forza, contro mondi di logiche oggettive, di valori, non può che essere canalizzazione di distruzione, violenza anch’essa macchinizzata, nuova negazione di corpi, sensibilità, forze, fantasie. Mille fili, a matassa, spesso sgradevoli a vedersi, si ritrovano. Nessuno riesce a. fornire loro, per fortuna, e per questa fortuna si sono così brillantemente sbrigliati nel ’77, una solida prospettiva «politica» per il futuro. Sono come erano i loro albori negli USA, dopo lo squallido ritorno dalla Corea a metà degli anni ’50, come L’Urlo di Ginsberg annunciava, una malattia di questo mondo, e per questo tendono a rappresentare il sintomo di una nuova civiltà, una misura e una forma di relazione totalmente diversa fra il mondo sommerso e negato e il mondo sommerso e affermato di questa civiltà, della civiltà cristiano-borghese realizzata come tecnica della produzione e del dominio, del disperato dominio della natura e della società.
L’urlo di ciò che è stato affogato, quasi senza interruzione, lungo più di quattrocento anni e per certi aspetti più di duemila anni e per certi aspetti da sempre, non è un gridolino educato. D’altra parte per orecchie così assordate come le nostre, solo urla feroci possono pretendere di essere udite. E forse solo un po’ d’Africa trapiantata al colmo della disperazione americana poteva favorire il parto di una musica del genere. Una musica che richiede anche gambe, va detto, è già un bel passo, non si sa per dove, l’importante è che sia un passo, e non di marcia.
Tuttavia questo non è che un aspetto. La vecchia società, sotto il manto rosso che non è più del pazzo ma del rivoluzionario lucido, macchinalmente preciso, almeno così vuol essere, cerca l’addomesticamento. Vuole che si accompagni la lotta politica. Vuole una musica belletto.
Una nuova edizione delle marcette. Finardi è purtroppo esemplare. Dice bene e riesce, sì, a vendere proprio per questo «una musica ribelle che ti entri nella pelle» ma a far che? Per «smettere le menate» e «metterti a lottare». Menata, quando ero fanciullo, era la masturbazione. La masturbazione è in effetti un eccellente metro per giudicare dai sintomi la vitalità di un mondo. Pan, il dio pan, il capro, il dio cornuto, il dio energia del tutto, il dio del desiderio, era, per i greci, il dio che era presente nella masturbazione. Si dice che marinai abbiano udito, regnante Tiberio, cristianesimo all’orizzonte, un urlo: «Pan il grande è morto». Finardi vuole la musica non per la masturbazione, faccende tra loro più affini per chi abbia orecchie non solo sulla testa ma sulla spina dorsale e sappia captare i brividi strani che la risalgono e che eccitano ascoltando musica non domestica o da cortile, brivido che ha lontane parentele con l’impulso masturbatorio, ma Finardi vuole musica per mettersi a lottare. Finardi è un po’ prete (cattivo) e un po’ generale: cioè è un cantante da messa, politica s’intende.
Non a caso, politica e messa, si servono con musica: sì, per trasferire indebitamente l’eccitazione musicale sull’adesione ad un discorso, a dei valori. Ogni politica, come ogni etica, è logicamente ed emotivamente debole. Nè la ragione né le pulsioni possono fondare i divieti, le prescrizioni etiche e politiche. Casomai è il contrario. Allora si portano pulsioni musicalmente suscitate, vi ricordate Orfeo e le fiere ammansite?, ad identificarsi Con una rappresentazione ideologica, in modo da impedire una critica solo lucida e, fissandole alla rappresentazione, impedire che le pulsioni vadano per conto loro.
Ho scelto Finardi che eccita, perché si lotti, come emblema di tanta, troppa gente della musica di movimento. Scelgo Manfredi al polo opposto, che spinge la critica alla politica nel testo così a fondo da far nascere desideri musicali al di là del sostentamento forzato, del tributo, che la musica continua a pagare alla politica.
Entrambi, presi insieme come due poli che definiscono metaforicamente uno spazio, rappresentano bene il fermento che trascina il movimento, e noi che siamo mossi dagli stessi fermenti: ora nel volere nuove rappresentazioni politiche, ora nel voler oltrepassare questa prescrizione assoggettando il politico bue all’affermazione di una cultura, nel senso di coltivazione, della vita.
Poiché fino ad oggi si è soltanto recintata la vita, si è coltivata la difesa e la reazione alla vita, pretendendo, in questo modo, di vivere. Ci tocca adesso chiarire qualcosa del rapporto fra musica e politica.
Musica e politica
Musica e politica: se teniamo l’occhio su quella «e» che unisce i due termini potremo renderci conto dell’inganno. Non si tratta, infatti, di un tranquillo ritrovarsi, né tampoco di una facile unione, si tratta di una lotta che l’opaca rassegnazione al buon senso vorrebbe, e vuole decidere: già nel segno di una vittoria della politica. Le «e» dei termini messi accanto a questa deità divoratrice li accompagnano come guinzagli di cani condotti, senza saperlo, in una passeggiata il cui segreto è la camera a gas, la morte per asfissia.
Così vuole la parola scritta, così ha voluto spesso la ragion di stato, o di nazione, o di partito, o di chiesa. Il numero è infinito, dei tentativi ripetuti di far servire la musica da belva fiaccata, da tigre ingattita, aggiogata al carro di trionfo di una qualche impersonificazione delle istituzioni. Dal canto gregoriano alla musica della riforma e della controriforma, alle marce militari, a Goebbels che gonfiava il suo povero destino cercando di trafficarlo, sottobanco, con l’emozione del destino stesso che risuonava dalla quinta beethoveniana. E alle celebrazioni sovietiche, e alla nona cantata a Pechino nel giorno della vittoria. Ma la musica è una belva difficile, la sua mansuetudine può rivelarsi d’un tratto selvaggia, può ricordarsi della sua origine e servirla, invece di inchinarsi ai suoi effetti. Accadde così che Beethoven, passeggiando con Goethe, a differenza di quest’ultimo, non si tolse il cappello davanti alla famiglia imperiale.
Lenin si emozionava tanto come ascoltatore di musica da proibirselo, per non disturbare la autocreazione di sé come perfetta macchina al servizio della causa proletaria. Settembrini, l’ideologo dell’umanesimo progressista della Montagna incantata, sentiva la musica come «politicamente sospetta». Il politico teme per il suo mestiere-identità e allontana da sé questa fonte di possibile disturbo. Ha profonda ragione, il suo istinto da animale di città è percorso da tremiti all’annuncio dell’inattesa ferocia che la musica, quando non sia addomesticata in funzione illustrativa di altro, spira da sé.
Come spiegare questi combattenti strani, da quali lontane regioni giunge a noi la loro inimicizia? Se Marx trova un limite alla sua capacità di spiegare e quasi si sofferma su di una soglia di mistero, ciò gli accade di fronte alla grande poesia greca e alla tragedia. Su quella soglia invece nasce il volo prodigioso di Nietzsche, che indaga la tragedia per riscoprirvi l’origine nello spirito della musica.
Gli interessi, le vesti di cittadino e, in genere, la rappresentazione di una parte – e allora, ben capite, ogni partito! – sono un’estensione del sentire il discontinuo, la separatezza degli individui fra loro e in loro, e il nesso solo sociale che li collega; l’agire politico implica lucidità e calcolabilità, attenzione al rapporto di forza, non travolgimento corporeo in balia di una scossa che ne esige il desiderio di rifusione con il tutto: «Si trasformi l’inno alla “gioia” di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l’immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la “moda sfacciata” hanno stabilito fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso. […] L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria. Qui si impasta e si sgrossa l’argilla più nobile, il marmo più prezioso, l’uomo, e ai colpi di scalpello dell’artista cosmico dionisiaco risuona il grido dei misteri eleusini: Vi prosternate, milioni? Senti il creatore, mondo?» [1].
Non è questa una via di liberazione, per lo schiavo e per il padrone, una via di ebbrezza che la troppo lucida mente del politico, di Settembrini e di Lenin, non può che avvertire come ostile, mistificatoria, oppiacea, tanto pericolosa quanto trascinante e seducente? La macchina del partito, il quadro comunista, non deve sentire le note rapinose che ne cancellano l’identità di ruolo, l’essere politico, il rappresentare una parte contro un’altra. Nel trionfante corteo dionisiaco una parte e l’altra si rivelerebbero, persino nei loro più sanguinosi reciproci affronti, maschere dello stesso gioco, e Fattore nella musica volgerebbe, inquietamente, gli occhi su di sé, ridendo fino a scoppiare di un travestimento che è la sua stessa pelle.
Ci sono tempi oscuri, o troppo chiari, forse troppo patinati, tempi nei quali la vista, attratta dalle superfici che le si offrono così nette rimane catturata, e l’abile potenza del serpente danza ridicolmente alla pantomima suggerita dall’incantatore. Tempi così lindi da inorridire dell’orrido, così esperti nel confinarlo, nell’uguagliarlo al listino di borsa e all’andamento del traffico. I carri funebri passano inosservati e, se osservati, ingiuriati dall’esorcismo più Vigliacco. Nel più funebre mondo mai spettacolarizzato sulla scena del tempo. In questi tempi così chiari ogni accenno all’abisso deve essere immantinente riscattato: se brucia una città stiamo sicuri di leggere la mattina dopo le più sperticate lodi dei pompieri o la più accesa denuncia dell’inefficienza dei pubblici poteri.
Le luci sono così potenti da non lasciare ombre sull’identità dei personaggi: tutti si sentono molto «se stessi». Il miracolo è fatto: tutti sono ognuno ma nessuno sospetta di chiamarsi nessuno, e si appoggia sicuro sulla sua identità irriproducibile, che è la pura e semplice geometria di un naso storto così e non dritto colà. Tant’è quanto resta dell’individualità. Marx aveva strappato almeno parte del segreto alla sfinge: le persone sono persone, maschere di cose, di cose-merci, di quantità di «valore».
Ma nature troppo deboli, troppo figlie del loro tempo, hanno letto i suoi messaggi. L’aria tragica che vi circola, di teatro dell’orrore e del vuoto, è stata sostituita con accorte esortazioni proteiniche a farsi forza e a non smettere di lottare né tampoco, di sperare nell’avvenire. Queste nature sfatte (e il significato è letterale: in ciascuno in quanto uguale agli altri, in questa civiltà, la natura è sfatta), queste illusioni individuali, illusorie quanto atomi distinti che pretendano differenziarsi solo perché sono distinti, come potrebbero reggere l’immersione che la musica suggerisce e talvolta compie al di là dell’io, delle tranquille certezze, in un continente di affinità così strette da confondersi e da soffocare le distanze poste fra sé e il sentimento «panico», totale della vita? In quel continente il più atroce dolore fa soltanto la sua parte nell’orchestra, la tragedia conosceva così bene la mappa di quest’avventura da innalzarla alla visione del mito, ripetendo in esso lo sforzo di una nuova individuazione, che nasce proprio da e rimane nel continuo rischio dell’annichilimento, rappresentato dalla musica nel grande tutto.
Verità storica o figura dell’anima, poco importa: la metafora dice bene quel che deve dire, l’atteggiarsi di fronte alla vita, e alla morte, ma anche all’amore, al sesso, ai bambini, a uno stadio, a un’aggressione, a una frase tagliente, a una malinconia, a un abbandono, a uno scuotimento rassegnato di testa pesante dopo il numero non numerabile dell’ultima delusione patita.
Una musica tale da essere presa sul serio e tale da farsi prendere così sul serio è incompatibile con un mondo di pallidi automi. Renderebbe senza sosta intollerabile l’intera rete dei rapporti sociali e sociali tra sé e Sé. Instillerebbe il dubbio a questi automi-persone cancellandone la tronfia sicurezza di esistere individualmente. A questa musica bisogna proibire la nascita o, nel caso, spingere a fondo la degradazione del gusto fino all’eguaglianza istupidita fra Petrus Boonekamp e dramma sinfonico. Non certo per caso trionfa Malebolge della Canzone. Dove tutto è rifuso e rifondibile, Charlie Parker Vivaldi la mondina e John Cage. La musica pericolosa è omologata alla canzone (disco impianto, come si sente bene, questo qui ha vent’anni) o esorcizzata all’antiquariato dei Conservatori e delle Gioventù Musicali.
La politica, persino nei casi più musicali di storia politica (la rivoluzione francese o quella cinese), non può che cercare di addomesticare la musica. Di farla diventare, lei, negatrice delle parti se non nella partitura, nazionale, di classe, di ceto, di età ecc. ecc. Di piegarla proprio come la natura a scenario, funzione illustrativa ed esortativa dell’azione: o scimmia ammaestrata per stuzzicare i passanti ad entrare nel tendone del circo politico. Per la politica tutto deve essere macinato nello stretto imbuto della storia e dei problemi «concreti». Ciò che fuoriesce, quasi tutto ad una considerazione soltanto coraggiosa, deve essere cancellato, messo in secondo piano, tralasciato. Molti segni negli ultimi venti anni hanno parlato diversamente. Una poesia che ha lacerato il museo letterario trovava accenti nella musica, nella musica meno domata perché cresciuta, dalla sua nascita in catene, ben oltre l’altezza del carceriere – Ginsberg – Kerouac – Charlie Parker – be bop. Era questa la catena che univa l’annuncio di un movimento di Rinascita, di diversa civiltà, di nuova forma equilibrio e misura fra l’autocratica ragione e l’anarchismo pulsionale. E, irridendo le intenzioni dei suoi esecutori e dei suoi ascoltatori, una specie di simbologia orgiastica ritmata, fra le maglie già costruite di nuove prigioni e nuovi immeschinimenti, si è fatta strada ovunque.
In fondo gli ultimi a capirlo, mentre l’immeschinito da tempo prevale, sono i politici che, pateticamente, alla fine, discutono anche di musica. Ancora vorrebbero farla servire alla lotta mentre fragorosamente la nota irride il testo e chiede di battere il ritmo. Qualche altro è invece già un’indicazione: comincia anche nel testo a irriderne le pretese politiche. Speriamo sia un buon annuncio per l’avvenire musicale. E chi ha tempo per la musica, e per le altre Muse sue sorelle, avrà sempre meno tempo per l’idiozia. Cioè per la civiltà cristiano-borghese che ne è il festival, tragico e bello in questa figura dell’idiota, ma proprio per questo ripetitivo, solo ossessivo e autocratico.
[1] F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1977, pp. 24–5.