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di Miche­le Bram­bil­la

“Quan­do il cie­lo si svuo­ta di Dio, la ter­ra si popo­la di ido­li“
Karl Barth

XIII – VERSO LA FINE

Il 1976 è l’an­no in cui il Ses­san­tot­to entra in ago­nia. Cer­to, gran par­te del­le bat­ta­glie comin­cia­te otto anni pri­ma era­no sta­te vin­te: il divor­zio era diven­ta­to leg­ge del­lo Sta­to, già dal 1970 era sta­to vara­to lo Sta­tu­to dei lavo­ra­to­ri, nel 1975 era sta­to rifor­ma­to il dirit­to di fami­glia, la scuo­la e l’u­ni­ver­si­tà era­no sta­te sen­si­bil­men­te modi­fi­ca­te. E cer­to mol­ti degli sti­li di vita e del­le idee dei ses­san­tot­ti­ni si era­no ormai radi­ca­ti nel­la men­ta­li­tà comu­ne: dai com­por­ta­men­ti ses­sua­li al lin­guag­gio all’at­teg­gia­men­to ver­so l’au­to­ri­tà. Per­si­no il cosid­det­to appa­ra­to era sta­to intac­ca­to dal­la «rivo­lu­zio­ne» ses­san­tot­ti­na, e di que­sto l’e­sem­pio for­se più rile­van­te è costi­tui­to dal­la for­te influen­za, nel siste­ma giu­di­zia­rio, del­la cor­ren­te di sini­stra dei giu­di­ci, Magi­stra­tu­ra demo­cra­ti­ca, e del feno­me­no dei «pre­to­ri d’as­sal­to». Di tut­ti que­sti cam­bia­men­ti nei costu­mi, del resto, è rima­sta fino ai gior­ni nostri una trac­cia che appa­re inde­le­bi­le. Ma per quan­to riguar­da il suo obiet­ti­vo prin­ci­pa­le, il Ses­san­tot­to è sta­to inne­ga­bil­men­te scon­fit­to. Il fine dichia­ra­to dei con­te­sta­to­ri, soprat­tut­to dopo l’in­ca­na­la­men­to ideo­lo­gi­co del­la pro­te­sta, era una radi­ca­le tra­sfor­ma­zio­ne del siste­ma poli­ti­co ed eco­no­mi­co; un rin­ne­ga­men­to del capi­ta­li­smo, l’in­stau­ra­zio­ne di una demo­cra­zia «dal bas­so». Mol­ti ses­san­tot­ti­ni il pote­re l’han­no pure pre­so, come si può oggi facil­men­te con­sta­ta­re dan­do uno sguar­do a mol­ti orga­ni­gram­mi: ma per far­lo han­no dovu­to abiu­ra­re l’an­ti­ca fede, e accet­ta­re di esse­re stru­men­ti di quel capi­ta­li­smo che vole­va­no distrug­ge­re.

LA CRISI DEI GRUPPI

Di que­sta scon­fit­ta, nel 1976 c’e­ra già mol­to più di qual­che sem­pli­ce segno pre­mo­ni­to­re. L’av­vi­sa­glia prin­ci­pa­le fu la cri­si dei grup­pi rivo­lu­zio­na­ri orga­niz­za­ti, che comin­cia­ro­no allo­ra la pro­pria dis­so­lu­zio­ne. I grup­pi ave­va­no fal­li­to su tut­ti i fron­ti: non era­no riu­sci­ti a sot­trar­re la clas­se ope­ra­ia alla fedel­tà al Par­ti­to comu­ni­sta e al sin­da­ca­to tra­di­zio­na­le; e, sul ver­san­te oppo­sto, non era­no sta­ti in gra­do di inter­pre­ta­re fino in fon­do lo spi­ri­to «movi­men­ti­sta» del­l’ul­ti­ma gene­ra­zio­ne. «I grup­pi» ha scrit­to Paul Gin­sborg «era­no set­ta­ri, domi­na­ti da model­li rivo­lu­zio­na­ri ter­zo­mon­di­sti, inca­pa­ci di trar­re con­clu­sio­ni rea­li­sti­che dai segna­li che veni­va­no dal­la socie­tà ita­lia­na.»
Dice­va­no di com­bat­te­re l’au­to­ri­ta­ri­smo, ma cer­ca­ro­no di impor­re a tut­ti le loro for­me di lot­ta, i loro sti­li di vita e le loro idee poli­ti­che: «Il lavo­ra­to­re» era scrit­to su un docu­men­to pro­gram­ma­ti­co del Cub del­la Pirel­li nel 1972, «deve con­ce­pi­re se stes­so come pro­dut­to­re ed acqui­si­re coscien­za del­la sua fun­zio­ne, deve aver coscien­za di clas­se e diven­ta­re comu­ni­sta, deve ren­der­si con­to che la pro­prie­tà pri­va­ta è un peso mor­to, è un ingom­bro che biso­gna eli­mi­na­re».
Dice­va­no di dete­sta­re la for­ma-par­ti­to, ma cad­de­ro qua­si tut­ti nel­la ten­ta­zio­ne di ripro­dur­re in foto­co­pia l’or­ga­niz­za­zio­ne di quei par­ti­ti che vole­va­no spaz­za­re via. Uno degli esem­pi più ecla­tan­ti fu, nel 1973, la nomi­na di Adria­no Sofri a segre­ta­rio del­la «movi­men­ti­sta» Lot­ta con­ti­nua. E fu pro­prio nel 1976 che Lot­ta con­ti­nua, for­se il più impor­tan­te dei grup­pi del Ses­san­tot­to, si sciol­se.
Il 20 giu­gno c’e­ra­no sta­te le ele­zio­ni poli­ti­che, e i risul­ta­ti era­no sta­ti, per l’e­stre­ma sini­stra, disa­stro­si. Demo­cra­zia pro­le­ta­ria, l’u­ni­ca lista che avreb­be dovu­to rap­pre­sen­ta­re gli ere­di del­la con­te­sta­zio­ne del Ses­san­tot­to, ave­va pre­so solo 557.000 voti, l’1,5 per cen­to, meno del­la metà di quan­ti spe­ra­va. E i radi­ca­li, pur entran­do per la pri­ma vol­ta in Par­la­men­to, non era­no anda­ti oltre l’1,1 per cen­to. Ma più che la con­sta­ta­zio­ne del­la mode­stia del­la pro­pria for­za, a depri­me­re l’a­rea del­la sini­stra rivo­lu­zio­na­ria fu lo straor­di­na­rio con­sen­so elet­to­ra­le ‑e quin­di popo­la­re- anco­ra una vol­ta riscos­so dal­la Demo­cra­zia cri­stia­na, che ave­va otte­nu­to il 38,7 per cen­to, cioè il 3,7 per cen­to in più rispet­to alle ele­zio­ni ammi­ni­stra­ti­ve del­l’an­no pre­ce­den­te. Un risul­ta­to che smen­ti­va la pre­vi­sio­ne, più vol­te espres­sa, di un ormai immi­nen­te crol­lo del­la Dc, e che costrin­ge­va a un rin­vio sine die del­la rivo­lu­zio­ne. Cer­to: ave­va gua­da­gna­to anche il Pci, in con­ti­nua cre­sci­ta, pas­san­do dal già rile­van­tis­si­mo 33 per cen­to del 15 giu­gno 1975 al 34,4 per cen­to del 20 giu­gno 1976. Ma que­sto non era, per l’e­stre­ma sini­stra, una con­so­la­zio­ne. Anzi: come ricor­da l’ex di Lot­ta con­ti­nua Lui­gi Bob­bio, «l’ul­te­rio­re raf­for­za­men­to del Pci non apre la stra­da a un’al­ter­na­ti­va di pote­re alla Demo­cra­zia cri­stia­na, ma pre­fi­gu­ra piut­to­sto un pro­ces­so di sta­bi­liz­za­zio­ne gio­ca­to su due gros­si poli con­ver­gen­ti. Il qua­dro che esce dal 20 giu­gno non è quel­lo del “gover­no del­le sini­stre”; se mai, è quel­lo del “com­pro­mes­so sto­ri­co”» (Sto­ria di Lot­ta Con­ti­nua). Lo smac­co fu tale che Adria­no Sofri par­lò, al Comi­ta­to nazio­na­le, di «scon­fit­ta poli­ti­ca» e defi­nì le pre­vi­sio­ni elet­to­ra­li di Lc «l’er­ro­re più cla­mo­ro­so del­la nostra sto­ria». Ancor più dra­sti­co fu Mar­co Boa­to, che lasciò intra­ve­de­re l’or­mai pros­si­mo auto­scio­gli­men­to: «Sia­mo a una svol­ta sto­ri­ca in cui si deci­de del­la vita e del­la mor­te di Lot­ta con­ti­nua. Abbia­mo sba­glia­to tut­to. Un par­ti­to rivo­lu­zio­na­rio che sba­glia tut­to nel­la fase che ha defi­ni­to sto­ri­ca e deci­si­va del­la lot­ta di clas­se nel nostro Pae­se non può per­met­ter­si di uscir­ne con qual­che aggiu­sta­men­to di tiro».

EUTANASIA DI LOTTA CONTINUA

La bato­sta elet­to­ra­le di Demo­cra­zia pro­le­ta­ria non era l’u­ni­co grat­ta­ca­po di Sofri e com­pa­gni. All’in­ter­no del movi­men­to il dis­sen­so cre­sce­va, anche e soprat­tut­to per­ché mal si tol­le­ra­va la scim­miot­ta­tu­ra dei par­ti­ti tra­di­zio­na­li, che come det­to ave­va sna­tu­ra­to l’o­ri­gi­na­le spi­ri­to movi­men­ti­sta. E’ anco­ra Lui­gi Bob­bio a ricor­da­re: «Il par­ti­to… divie­ne il prin­ci­pa­le ber­sa­glio dei mili­tan­ti, non tan­to per le scel­te com­piu­te, quan­to per esser­si costi­tui­to come auto­ri­tà supe­rio­re e aver­li quin­di tra­sci­na­ti in quel­l’av­ven­tu­ro­sa sepa­ra­zio­ne. Il ter­mi­ne “espro­pria­zio­ne” è quel­lo che ricor­re di più nel­le requi­si­to­rie, spes­so cari­che di recri­mi­na­zio­ni, for­mu­la­te dai com­pa­gni del­la base». E ad aggra­va­re la situa­zio­ne inter­na si aggiun­se la que­stio­ne del­le don­ne e degli ope­rai. Le pri­me ‑si era ormai in pie­no cli­ma fem­mi­ni­sta- da un anno ave­va­no pre­so a riu­nir­si da sole e a pra­ti­ca­re l’«autocoscienza». I secon­di rim­pro­ve­ra­va­no al nucleo diri­gen­te di aver smar­ri­to la «cen­tra­li­tà ope­ra­ia». Don­ne e ope­rai si era­no così posti alla testa del­la rivol­ta con­tro la linea dei ver­ti­ci di Lc.
Fu in que­sto cli­ma che si aprì a Rimi­ni, il 31 otto­bre 1976, il secon­do con­gres­so nazio­na­le di Lot­ta con­ti­nua, a cui par­te­ci­pa­ro­no un miglia­io di mili­tan­ti. Inva­no Sofri cer­cò di ricom­pat­ta­re le for­ze. Don­ne e ope­rai con­ti­nua­ro­no a riu­nir­si, anche duran­te il con­gres­so, in assem­blee sepa­ra­te. Sul ban­co degli impu­ta­ti, la diri­gen­za di Lc. La com­pa­gna Vichi di Tori­no inter­ven­ne invi­tan­do gli ope­rai «a met­ter­si in discus­sio­ne a par­ti­re dal loro rap­por­to ses­sua­le e dal­la loro vita», e la com­pa­gna Lau­ra, anche lei di Tori­no, dichia­rò che «non è pos­si­bi­le nes­su­na allean­za in que­sto momen­to fra ope­rai e don­ne». Il con­gres­so finì sen­za alcun ricom­pat­ta­men­to. Il gior­na­le «Lot­ta con­ti­nua» lo defi­nì, il gior­no dopo la chiu­su­ra, una «straor­di­na­ria espe­rien­za poli­ti­ca e uma­na». Il tito­lo del gior­na­le del 6 novem­bre 1976 fu: Apria­mo ovun­que le nostre con­trad­di­zio­ni. Por­tia­mo ovun­que la ric­chez­za del nostro con­gres­so. Ma il desti­no di Lot­ta con­ti­nua era segna­to. Pur sen­za alcun atto uffi­cia­le, il movi­men­to si sciol­se. Il comi­ta­to nazio­na­le smi­se di riu­nir­si, gli orga­ni diri­gen­ti non ven­ne­ro rin­no­va­ti, le fede­ra­zio­ni furo­no abban­do­na­te a se stes­se. Rima­se in vita il gior­na­le, che con­ti­nuò a usci­re fino al 1982; si vide­ro anco­ra, nei cor­tei, gli stri­scio­ni con la scrit­ta «Lot­ta con­ti­nua». Mol­ti gio­va­ni con­ti­nua­ro­no a riven­di­ca­re la pro­pria appar­te­nen­za a quel movi­men­to. Ma il movi­men­to, inte­so come orga­niz­za­zio­ne, non c’e­ra più. Mol­to si è discus­so sul per­ché del­la fine di Lot­ta con­ti­nua. Cer­to la strut­tu­ra, da par­ti­to, era rifiu­ta­ta da gran par­te del­la base. Cer­to la que­stio­ne fem­mi­ni­sta ebbe un peso rile­van­te. Ma il fat­to che i ver­ti­ci di Lc non fece­ro, dopo Rimi­ni, alcun ten­ta­ti­vo di sal­va­re il movi­men­to, e anzi lo lascia­ro­no deli­be­ra­ta­men­te mori­re, dà cre­di­to alla ver­sio­ne secon­do cui il vero moti­vo del­l’au­to­scio­gli­men­to di Lot­ta con­ti­nua sta nel­l’in­quie­tu­di­ne di mol­ti mili­tan­ti che «spin­ge­va­no» affin­ché si pas­sas­se deci­sa­men­te alla lot­ta arma­ta. Sofri, già da tem­po dra­sti­ca­men­te riso­lu­to nel con­dan­na­re la scel­ta del­le Bri­ga­te ros­se, cer­cò di fre­na­re que­ste pul­sio­ni, ten­tò di iso­la­re colo­ro che chie­de­va­no di tra­sfor­ma­re Lc in un grup­po clan­de­sti­no ter­ro­ri­sti­co. Ma non ci riu­scì. E allo­ra sciol­se il movi­men­to. E’ una ver­sio­ne, que­sta, mai uffi­cia­liz­za­ta, e anzi smen­ti­ta dai capi di Lc, che asso­cia­no sem­pre la fine dei movi­men­to alla «que­stio­ne fem­mi­ni­sta». A dimo­stra­re però che la spin­ta ver­so la lot­ta arma­ta c’e­ra, sta il fat­to che gran par­te dei com­po­nen­ti del­la nascen­te Pri­ma linea veni­va da Lot­ta con­ti­nua.

PROLIFERA IL PARTITO ARMATO

Non era un pro­ble­ma solo di Lot­ta con­ti­nua. Il par­ti­to arma­to sta­va facen­do pro­se­li­ti un po’ dap­per­tut­to, ed ebbe la sua par­te nel­lo sfal­da­men­to dei vari movi­men­ti. Pare­va non aves­se più sen­so, infat­ti, chia­mar­si «grup­pi rivo­lu­zio­na­ri», distin­guen­do­si dai par­ti­ti del­la sini­stra tra­di­zio­na­le, e non fare la rivo­lu­zio­ne. Sem­bra­va più logi­ca una scel­ta net­ta: o di qua, con il Pci, o di là, con le Bri­ga­te ros­se. E infat­ti, in quel­lo stes­so 1976 in cui i grup­pi si sciol­se­ro, creb­be­ro sia il Pci che le azio­ni dei ter­ro­ri­sti di sini­stra.
Costo­ro ave­va­no subi­to un duro col­po, all’i­ni­zio del­l’an­no, con la cat­tu­ra (a Mila­no) di Rena­to Cur­cio e Nadia Man­to­va­ni. Ma ave­va­no in que­gli stes­si mesi ingros­sa­to le file, pro­prio attin­gen­do nel gran­de mare dei «delu­si» dai grup­pi tipo Lot­ta con­ti­nua. Fra le azio­ni più impor­tan­ti com­piu­te nel ’76, una serie di atten­ta­ti alle fab­bri­che (il più gra­ve fu for­se l’in­cen­dio alla Fiat Mira­fio­ri, 3 apri­le, un miliar­do di dan­ni di allo­ra), che indus­se­ro gli ope­rai di mol­te azien­de a tra­scor­re­re la Pasqua negli sta­bi­li­men­ti per orga­niz­za­re dei «pre­si­di volon­ta­ri». E poi l’uc­ci­sio­ne, ad ope­ra di mili­tan­ti del­l’Au­to­no­mia che sta­va­no per costi­tui­re Pri­ma linea, del con­si­glie­re pro­vin­cia­le del Msi mila­ne­se Enri­co Pede­no­vi (29 apri­le); l’o­mi­ci­dio del pro­cu­ra­to­re gene­ra­le di Geno­va Fran­ce­sco Coco e dei due cara­bi­nie­ri del­la scor­ta, com­piu­to dal­le Bri­ga­te ros­se a Geno­va l’8 giu­gno; l’o­mi­ci­dio, il 1° set­tem­bre a Biel­la, del vice­que­sto­re Fran­ce­sco Cusa­no, anche lui vit­ti­ma del­le Br; l’ag­gua­to dei Nap al capo del nucleo anti­ter­ro­ri­smo del Lazio Alfon­so Noce (a Roma, il 14 dicem­bre) che finì in una spa­ra­to­ria in cui rima­se­ro ucci­si l’a­gen­te Pri­sco Palum­bo e il ter­ro­ri­sta Mar­ti­no Zichi­tel­la; l’al­tra tra­gi­ca spa­ra­to­ria, il gior­no dopo a Sesto San Gio­van­ni, in cui il bri­ga­ti­sta Wal­ter Ala­sia ucci­se il vice­que­sto­re Vit­to­rio Pado­va­ni e il mare­scial­lo Ser­gio Baz­ze­ga, pri­ma di rima­ne­re a sua vol­ta ful­mi­na­to dai poli­ziot­ti. Il par­ti­to arma­to ‑e in par­ti­co­la­re le Br, deci­sa­men­te pas­sa­te sot­to la gui­da di Mario Moret­ti- sta­va pre­pa­ran­do il «sal­to di qua­li­tà» che lo avreb­be più vol­te por­ta­to, negli anni suc­ces­si­vi, a met­te­re in ginoc­chio lo Sta­to.

BERLINGUER E IL COMUNISMO MODERATO

Pro­prio men­tre i grup­pi rivo­lu­zio­na­ri dichia­ra­va­no la ban­ca­rot­ta e le Br diven­ta­va­no sem­pre più effi­cien­ti, il Par­ti­to comu­ni­sta si tro­vò vici­no alla pre­sa del pote­re come mai era sta­to in pre­ce­den­za, e come mai più accad­de in segui­to. Le ele­zio­ni del 1975, oltre a far com­pie­re al Pci un bal­zo di 6 pun­ti e mez­zo in per­cen­tua­le (rispet­to alle ammi­ni­stra­ti­ve del 1970), ave­va­no por­ta­to i comu­ni­sti al gover­no di Lom­bar­dia, Pie­mon­te e Ligu­ria, oltre che a quel­lo di regio­ni già «ros­se» come l’E­mi­lia Roma­gna, la Tosca­na e l’Um­bria. Non solo: tut­te le gran­di cit­tà ita­lia­ne, ad ecce­zio­ne di Paler­mo e Bari, era­no pas­sa­te sot­to la gui­da di giun­te di sini­stra. A favo­ri­re que­sto gran­de bal­zo del Pci ave­va con­tri­bui­to in modo sen­si­bi­le la linea poli­ti­ca del suo segre­ta­rio, Enri­co Ber­lin­guer, che si era con­qui­sta­to la bene­vo­len­za di una discre­ta par­te dei ceti bor­ghe­si, rin­ne­gan­do espli­ci­ta­men­te il socia­li­smo rea­le e dichia­ran­do­si dispo­ni­bi­le a una col­la­bo­ra­zio­ne con i cat­to­li­ci. Già nel­l’ot­to­bre del 1973, con un arti­co­lo su «Rina­sci­ta», Ber­lin­guer ave­va pro­po­sto il «com­pro­mes­so sto­ri­co» fra le due for­ze popo­la­ri del Pae­se, quel­la del­la sini­stra e quel­la appun­to cat­to­li­ca. Un’i­dea matu­ra­ta dopo il col­po di Sta­to che in Cile ave­va spaz­za­to via il gover­no socia­li­sta di Sal­va­dor Allen­de: Ber­lin­guer era con­vin­to che il gol­pe era sta­to favo­ri­to dal­la man­ca­ta uni­tà dei par­ti­ti demo­cra­ti­ci. L’ar­ti­co­lo su «Rina­sci­ta» si inti­to­la­va appun­to Rifles­sio­ni sul­l’I­ta­lia dopo i fat­ti del Cile. E a que­sta pro­po­sta di abbrac­cio con la Dc, Ber­lin­guer fece segui­re, insie­me con i segre­ta­ri dei par­ti­ti comu­ni­sti fran­ce­se e spa­gno­lo, la crea­zio­ne dell’«eurocomunismo», ossia di una via occi­den­ta­le al socia­li­smo, net­ta­men­te diver­sa dal­le spie­ta­te dit­ta­tu­re del­l’E­st. Il docu­men­to che i segre­ta­ri comu­ni­sti ita­lia­no e spa­gno­lo fir­ma­ro­no insie­me il 12 luglio 1975 era un’au­ten­ti­ca apo­sta­sia del mar­xi­smo-leni­ni­smo.
Ma se in Ita­lia par­te del­la bor­ghe­sia smi­se di asso­cia­re il Pci allo spau­rac­chio del­l’Ar­ma­ta Ros­sa, negli Sta­ti Uni­ti l’eu­ro­co­mu­ni­smo non ven­ne accol­to bene. Anzi, fu rite­nu­to peri­co­lo­sis­si­mo e desta­bi­liz­zan­te. Il 14 giu­gno 1976, a pochi gior­ni dal­le ele­zio­ni poli­ti­che, il pre­sti­gio­so set­ti­ma­na­le ame­ri­ca­no «Time» pub­bli­cò in coper­ti­na una foto di Ber­lin­guer e il signi­fi­ca­ti­vo tito­lo: Ita­lia: la minac­cia ros­sa. Ber­lin­guer si die­de subi­to da fare per tran­quil­liz­za­re gli ita­lia­ni, e il gior­no dopo rila­sciò a Giam­pao­lo Pan­sa, sul «Cor­rie­re del­la Sera», un’in­ter­vi­sta in cui si impe­gna­va, in caso di vit­to­ria elet­to­ra­le, a man­te­ne­re l’I­ta­lia all’in­ter­no del­la Nato. «Mi sen­to più sicu­ro stan­do di qua» dis­se. Un’af­fer­ma­zio­ne sto­ri­ca per il segre­ta­rio di un par­ti­to comu­ni­sta.
La tra­di­zio­na­le avver­sio­ne degli ita­lia­ni al comu­ni­smo rima­ne­va tut­ta­via mol­to for­te, e se è vero che da un lato una cer­ta par­te del­la bor­ghe­sia cre­det­te che il Pci fos­se ormai un par­ti­to social­de­mo­cra­ti­co, dal­l’al­tra si fece muro con­tro il «peri­co­lo ros­so». La Dc fu rite­nu­ta da tut­ti la bar­rie­ra più effi­ca­ce, anzi la sola bar­rie­ra pos­si­bi­le: e anche gra­zie alla cam­pa­gna pro­mos­sa dal lai­co Indro Mon­ta­nel­li («Que­ste non sono ele­zio­ni, sono un refe­ren­dum: turia­mo­ci il naso e votia­mo Dc» scris­se sul «Gior­na­le»), alla mobi­li­ta­zio­ne dei cat­to­li­ci di Comu­nio­ne e libe­ra­zio­ne e al tra­va­so di voti dal­l’e­stre­ma destra (il Msi per­se un 3 per cen­to che affluì, evi­den­te­men­te, alle liste demo­cri­stia­ne), la Dc riu­scì a con­te­ne­re l’a­van­za­ta del Pci e a resta­re sal­da­men­te il par­ti­to di mag­gio­ran­za rela­ti­va. Nono­stan­te la sfi­da elet­to­ra­le, subi­to dopo si aprì la sta­gio­ne del­la col­la­bo­ra­zio­ne fra demo­cri­stia­ni e comu­ni­sti, che cul­mi­nò nei vari gover­ni del­la «non sfi­du­cia» e del­la «soli­da­rie­tà nazio­na­le»: ese­cu­ti­vi a gui­da Dc a cui il Pci die­de un appog­gio ester­no.

ARRIVA L’AUTONOMIA

Dopo la fine dei grup­pi orga­niz­za­ti la sini­stra, come abbia­mo visto, si era divi­sa in due: da una par­te il Pci, ormai ben inse­ri­to nel pote­re gra­zie alla con­qui­sta di gran par­te del­le ammi­ni­stra­zio­ni loca­li e alla col­la­bo­ra­zio­ne di gover­no con la Dc; dal­l’al­tra il par­ti­to arma­to. Ma la distan­za fra Pci e Br era trop­po gran­de, e in mez­zo resta­va comun­que un vuo­to. Un vuo­to in cui si infi­lò la cosid­det­ta auto­no­mia, un’a­rea mol­to com­ples­sa e in real­tà spes­so con­ti­gua alle for­ma­zio­ni ter­ro­ri­sti­che vere e pro­prie. Rispet­to alle Br, l’au­to­no­mia non face­va un’e­spli­ci­ta scel­ta di lot­ta arma­ta, non era costret­ta alla clan­de­sti­ni­tà e pote­va agi­re alla luce del sole. Era però, come si dice­va allo­ra, «l’ac­qua dove nuo­ta­no i pesci»: l’am­bien­te, insom­ma, dove il par­ti­to arma­to pote­va reclu­ta­re i suoi mili­tan­ti e otte­ne­re impor­tan­ti appog­gi e coper­tu­re. Secon­do alcu­ni osser­va­to­ri, l’in­cu­ba­tri­ce del­l’au­to­no­mia fu l’oc­cu­pa­zio­ne del­la Fiat Mira­fio­ri del 1973: sia per­ché sfug­gì total­men­te alla gui­da del sin­da­ca­to e del Pci, sia per­ché a gestir­la furo­no, più che i tra­di­zio­na­li ope­rai Fiat emi­gra­ti dal Sud, gio­va­ni del­la «cin­tu­ra» tori­ne­se pro­ta­go­ni­sti, cin­que anni pri­ma, del Ses­san­tot­to nel­le scuo­le. «Le urla sen­za sen­so, sen­za più slo­gan, sen­za più minac­ce né pro­mes­se dei gio­va­ni ope­rai con il faz­zo­let­to ros­so lega­to intor­no alla fron­te, i pri­mi india­ni metro­po­li­ta­ni, quel­le urla annun­cia­va­no che una nuo­va sta­gio­ne si apri­va per il movi­men­to rivo­lu­zio­na­rio in Ita­lia. Una fase sen­za ideo­lo­gie pro­gres­si­ste né fidu­cia nel socia­li­smo, sen­za alcu­na affe­zio­ne per il siste­ma demo­cra­ti­co, ma anche sen­za rispet­to per i miti del­la rivo­lu­zio­ne pro­le­ta­ria, mostra­va le sue pro­spet­ti­ve. Fu in que­sto muta­men­to di sce­na­rio che pre­se for­ma il nuo­vo feno­me­no poli­ti­co-cul­tu­ra­le del­l’au­to­no­mia ope­ra­ia» han­no scrit­to Nan­ni Bale­stri­ni e Pri­mo Moro­ni. Un altro sin­to­mo pre­mo­ni­to­re del­lo sti­le del­l’au­to­no­mia furo­no for­me di pro­te­sta tipo l’«autoriduzione» e gli «espro­pri pro­le­ta­ri». L’au­to­ri­du­zio­ne nac­que nel­l’a­go­sto del 1974 su ini­zia­ti­va di alcu­ni ope­rai del­la Fiat Rival­ta che, rifiu­tan­do­si di paga­re le nuo­ve tarif­fe degli auto­bus, spe­di­ro­no alla socie­tà dei tra­spor­ti pub­bli­ci l’e­qui­va­len­te dei vec­chi abbo­na­men­ti, e con­ti­nua­ro­no a usa­re i mez­zi pub­bli­ci sen­za fare il bigliet­to. Dai pull­man si pas­sò all’au­to­ri­du­zio­ne del­le bol­let­te del­la luce e del tele­fo­no. Que­sta pra­ti­ca si este­se poi alle altre cit­tà, diven­tan­do spes­so un puro pre­te­sto per non paga­re il bigliet­to: non solo sugli auto­bus, ma anche, ad esem­pio, al cine­ma, dove grup­pi di estre­mi­sti assi­ste­va­no alle pri­me visio­ni pagan­do 500 lire, e i gesto­ri del­le sale lascia­va­no cor­re­re temen­do ritor­sio­ni dai dan­ni ben più gra­vi. Così come gli «espro­pri pro­le­ta­ri» ai dan­ni dei nego­zian­ti (qual­cu­no arri­vò a chia­mar­li «riap­pro­pria­zio­ni») furo­no in real­tà auten­ti­ci fur­ti, o addi­rit­tu­ra rapi­ne quan­do com­piu­ti con minac­ce e vio­len­ze.
Fare una map­pa del­l’a­rea auto­no­ma è ben più dif­fi­ci­le che non fare quel­la dei grup­pi nati dopo il 1968. Anzi, è un’im­pre­sa impos­si­bi­le, essen­do gli auto­no­mi per loro stes­sa defi­ni­zio­ne sgan­cia­ti da qual­sia­si orga­niz­za­zio­ne. Si pos­so­no tut­ta­via, sche­ma­tiz­zan­do, ricor­da­re tre filo­ni. Il pri­mo è quel­lo cosid­det­to «crea­ti­vo», «spon­ta­neo», alie­no da ogni for­ma di gerar­chia. Di que­sto filo­ne, gli ele­men­ti più rap­pre­sen­ta­ti­vi furo­no gli «india­ni metro­po­li­ta­ni», gio­va­ni che si dipin­ge­va­no il viso, appun­to, come i pel­le­ros­sa, e che rifiu­ta­va­no, fra le tan­te eti­chet­te, anche quel­la di esse­re «di sini­stra». Il secon­do filo­ne è quel­lo del­le teste d’uo­vo: intel­let­tua­li che teo­riz­za­ro­no il nuo­vo mes­sag­gio, e che era­no con­cen­tra­ti soprat­tut­to all’U­ni­ver­si­tà di Pado­va e in una serie di libre­rie nel­le mag­gio­ri cit­tà. Il ter­zo filo­ne è quel­lo che fa capo all’Au­to­no­mia ope­ra­ia orga­niz­za­ta (con la A maiu­sco­la; quan­do scri­via­mo auto­no­mia con l’i­ni­zia­le minu­sco­la inten­dia­mo inve­ce tut­ta l’a­rea che sta­va in mez­zo fra Pci e Br; l’a­rea, insom­ma, che com­pren­de tut­ti e tre i filo­ni di cui stia­mo par­lan­do). L’Au­to­no­mia ope­ra­ia orga­niz­za­ta con­ser­vò una linea leni­ni­sta e mili­ta­ri­sta, espli­ci­ta­men­te favo­re­vo­le alla cul­tu­ra del­la vio­len­za e all’or­ga­niz­za­zio­ne del­la «bat­ta­glia con­tro lo Sta­to». Que­sto ter­zo filo­ne, stret­ta­men­te lega­to al secon­do, ave­va come lea­der ex espo­nen­ti di Pote­re ope­ra­io, qua­li il docen­te uni­ver­si­ta­rio Toni Negri e Ore­ste Scal­zo­ne. A sua vol­ta, l’Au­to­no­mia ope­ra­ia orga­niz­za­ta ave­va varie sfu­ma­tu­re al suo inter­no, che si espri­me­va­no in un’in­con­trol­la­bi­le quan­ti­tà di cor­ren­ti, fra le qua­li ricor­dia­mo i Comi­ta­ti auto­no­mi roma­ni; i Comi­ta­ti comu­ni­sti rivo­lu­zio­na­ri; le Assem­blee auto­no­me ope­ra­ie; i Cps, Col­let­ti­vi poli­ti­ci stu­den­te­schi; i Col­let­ti­vi auto­no­mi, pre­sen­ti nel­le gran­di cit­tà (famo­so quel­lo di via dei Vol­sci a Roma).
L’a­rea del­l’au­to­no­mia pro­dus­se anche una miria­de di gior­na­li: alcu­ni di fab­bri­ca come «Sen­za Padro­ni» all’Al­fa Romeo, «Lavo­ro Zero» a Por­to Mar­ghe­ra, «Mira­fio­ri Ros­sa» a Tori­no; e altri di mag­gio­re dif­fu­sio­ne come «Aut Aut», «Pri­mo Mag­gio», «Ros­so» e «Sen­za Tre­gua» a Mila­no, «Pote­re Ope­ra­io per il Comu­ni­smo» (poi tra­sfor­ma­to in «Auto­no­mia») in Vene­to, «Rivol­ta di Clas­se» (poi diven­ta­to «I Vol­sci»), «Metro­po­li» e «Pre-print» a Roma. Quel­lo che ebbe mag­gio­re for­tu­na fu «A/​traverso», fat­to a Bolo­gna dal grup­po di Fran­ce­sco Berar­di det­to «Bifo», che nel ’77 arri­ve­rà alle 20.000 copie. Que­sta nascen­te area del­l’au­to­no­mia si pone­va in for­te con­tra­sto con il Pci, cui rim­pro­ve­ra­va di esse­re ormai «siste­ma». La sini­stra si spac­cò fra «garan­ti­ti» e «non garan­ti­ti», cioè fra colo­ro che nel­le fab­bri­che pote­va­no con­ta­re sull’«ombrello» del Pci e i gio­va­ni che, vice­ver­sa, non tro­va­va­no lavo­ro o per­de­va­no quel­lo che ave­va­no appe­na tro­va­to. Arri­va­to ormai nel «palaz­zo», il Pci non vol­le, o non poté, caval­ca­re la pro­te­sta dei «non garan­ti­ti», e anzi pas­sò al pugno di fer­ro con­tro que­sti nuo­vi con­te­sta­to­ri: ad esem­pio, schie­ran­do­si a favo­re del rin­no­vo di quel­la leg­ge Rea­le sul­l’or­di­ne pub­bli­co con­tro la qua­le ave­va inve­ce nel 1975 vota­to «no».
Lo scon­tro fra auto­no­mi e Pci esplo­de­rà dram­ma­ti­ca­men­te nel 1977, e risul­te­rà, alla fine, anco­ra più gra­ve e più vio­len­to di quel­lo fra lo stes­so Par­ti­to comu­ni­sta e i ses­san­tot­ti­ni.

XIV – IL SETTANTASETTE

Men­tre sono ormai con­sue­te, alle ricor­ren­ze cano­ni­che, le rie­vo­ca­zio­ni del Ses­san­tot­to, qua­si mai si ricor­da il movi­men­to del 1977.
Eppu­re, quel­lo fu l’an­no più bur­ra­sco­so del decen­nio. Le occu­pa­zio­ni del­le scuo­le e del­le uni­ver­si­tà tor­na­ro­no a un rit­mo mol­to vici­no a quel­lo del 1968; e, rispet­to al 1968, le mani­fe­sta­zio­ni di piaz­za furo­no mol­to più vio­len­te: basti pen­sa­re che, alla fine del­l’an­no, ci furo­no qua­ran­ta­mi­la denun­cia­ti, quin­di­ci­mi­la arre­sta­ti, quat­tro­mi­la con­dan­na­ti e deci­ne di mor­ti e feri­ti. Auto­no­mi e india­ni metro­po­li­ta­ni si sen­ti­va­no taglia­ti fuo­ri da tut­to e da tut­ti. Non solo dal Pci, che ave­va conia­to lo slo­gan «la clas­se ope­ra­ia si fa Sta­to» e che pote­va offri­re ai suoi iscrit­ti la tute­la del posto di lavo­ro; ma anche dai ses­san­tot­ti­ni, visti come pate­ti­ci redu­ci che s’ap­pun­ta­va­no sul pet­to meda­glie di una rivo­lu­zio­ne mai fat­ta, e che ormai bene­fi­cia­va­no a loro vol­ta del nuo­vo siste­ma. All’U­ni­ver­si­tà Sta­ta­le di Mila­no il Movi­men­to lavo­ra­to­ri per il socia­li­smo, nato dal­le cene­ri del Movi­men­to stu­den­te­sco, ave­va acqui­si­to posi­zio­ni impor­tan­ti in ter­mi­ni di pote­re ma anche di posti di lavo­ro, essen­do­si assi­cu­ra­ta la gestio­ne del­la libre­ria e del­la coo­pe­ra­ti­va uni­ver­si­ta­ria. E’ solo un esem­pio, per far capi­re come i «set­tan­ta­set­ti­ni» si sen­tis­se­ro dimen­ti­ca­ti e tra­di­ti non solo dal­lo Sta­to, ma anche da quel­la sini­stra ‑Pci e grup­pi del ’68- che ave­va pro­mes­so il cam­bia­men­to e che si era inve­ce limi­ta­ta, ai loro occhi, a gua­da­gna­re posi­zio­ni all’in­ter­no del­l’o­dia­to «regi­me». Per que­sto la loro rab­bia esplo­se vio­len­tis­si­ma.

LA CACCIATA DI LAMA

La recru­de­scen­za degli scon­tri di piaz­za del ’77 ave­va avu­to un pro­lo­go il 7 dicem­bre del ’76 a Mila­no, quan­do i Cir­co­li pro­le­ta­ri gio­va­ni­li e i Cir­co­li gio­va­ni­li (il let­to­re non pen­si a un erro­re: era­no pro­prio due for­ma­zio­ni diver­se) ave­va­no boi­cot­ta­to la tra­di­zio­na­le «pri­ma» del­la Sca­la. Come otto anni pri­ma, si vole­va con­te­sta­re lo spre­co di dena­ro del­l’al­ta bor­ghe­sia mila­ne­se, che in pie­na cri­si occu­pa­zio­na­le si per­met­te­va cen­to­mi­la lire ‑di allo­ra- per un bigliet­to del­lo spet­ta­co­lo di ini­zio sta­gio­ne (que­sta vol­ta era di sce­na l’O­tel­lo), e chis­sà quan­t’al­tro dena­ro per le spe­se di sar­to­ria. Que­sta vol­ta, però, i con­te­sta­to­ri di San­t’Am­bro­gio non si limi­ta­ro­no al tut­to som­ma­to inno­cuo lan­cio di uova di Capan­na e com­pa­gni; que­sta vol­ta fu una guer­ri­glia, che impe­gnò cin­que­mi­la fra poli­ziot­ti e cara­bi­nie­ri, e che si con­clu­se con 250 fer­ma­ti, 30 arre­sta­ti, 21 feri­ti e deci­ne di tram e di auto­mo­bi­li incen­dia­te.
Nel ’77 la ten­sio­ne si spo­stò però soprat­tut­to a Roma e a Bolo­gna. A Roma, il pri­mo feb­bra­io era sta­ta occu­pa­ta l’U­ni­ver­si­tà. Il pre­te­sto era una cir­co­la­re del mini­stro del­la Pub­bli­ca Istru­zio­ne Fran­co Maria Mal­fat­ti, demo­cri­stia­no, che vie­ta­va agli stu­den­ti uni­ver­si­ta­ri di soste­ne­re più esa­mi nel­la stes­sa mate­ria. Che di un pre­te­sto si trat­tas­se, lo dimo­stra il fat­to che l’oc­cu­pa­zio­ne con­ti­nuò anche dopo il riti­ro del­la cir­co­la­re da par­te del­lo stes­so Mal­fat­ti. Gli occu­pan­ti non era­no però uni­ti. Pci, Demo­cra­zia pro­le­ta­ria e Avan­guar­dia ope­ra­ia con­te­sta­va­no la linea del­l’Au­to­no­mia, pro­ta­go­ni­sta di scon­tri in cit­tà con estre­mi­sti di destra e poli­zia. Ma era pro­prio l’Au­to­no­mia ad ave­re in pugno la gestio­ne del­l’oc­cu­pa­zio­ne. Il 9 feb­bra­io, il movi­men­to del ’77 fece il suo esor­dio con un cor­teo, per le stra­de di Roma, di tren­ta­mi­la stu­den­ti. «Il Mani­fe­sto» cri­ti­cò («Gli auto­no­mi sono la fac­cia più nega­ti­va, e vec­chia, del­la nuo­va sini­stra»), la Cgil e il Pci orga­niz­za­ro­no un comi­zio di Lucia­no Lama, per il gior­no 17, all’in­ter­no del­l’U­ni­ver­si­tà, nel ten­ta­ti­vo di ripren­de­re in mano la situa­zio­ne. Ma Lama, il 17, non riu­scì pra­ti­ca­men­te a par­la­re. Gli auto­no­mi glie­lo impe­di­ro­no, ingag­gian­do una furio­sa bat­ta­glia con il ser­vi­zio d’or­di­ne del Pci, al gri­do «Via, via, la nuo­va poli­zia». Alla fine di scon­tri vio­len­tis­si­mi, con deci­ne e deci­ne di feri­ti, i comu­ni­sti dovet­te­ro abban­do­na­re l’U­ni­ver­si­tà. La mano­vra del Pci era fal­li­ta, gli auto­no­mi si era­no rive­la­ti «inge­sti­bi­li»: per i ver­ti­ci di Bot­te­ghe Oscu­re, era­no «i nuo­vi squa­dri­sti». La cac­cia­ta di Lama dal­l’U­ni­ver­si­tà ave­va così dato vigo­re al movi­men­to degli auto­no­mi, che alla fine di feb­bra­io si era già dif­fu­so in mol­te cit­tà ita­lia­ne, in par­ti­co­la­re a Pado­va, dove l’U­ni­ver­si­tà era sta­ta occu­pa­ta. Il 5 mar­zo il movi­men­to die­de una pro­va di for­za sca­te­nan­do per le stra­de di Roma quat­tro ore di guer­ri­glia, per pro­te­sta con­tro la con­dan­na di Fabri­zio Pan­zie­ri per l’o­mi­ci­dio del­lo stu­den­te mis­si­no Mikis Man­ta­kas. I raid degli estre­mi­sti furo­no coor­di­na­ti da un’e­mit­ten­te pri­va­ta, Radio Cit­tà Futu­ra, che inau­gu­rò così una stra­te­gia desti­na­ta a più d’u­na repli­ca nel cor­so del­l’an­no. Gra­zie alla radio, gli auto­no­mi sape­va­no dov’e­ra la poli­zia, dove pote­va­no rag­giun­ge­re i com­pa­gni, dove con­ve­ni­va orga­niz­za­re bar­ri­ca­te e met­te­re fuo­ri uso i sema­fo­ri.

GUERRIGLIA A BOLOGNA


E guer­ri­glia anco­ra più gra­ve fu quel­la scop­pia­ta l’11 mar­zo a Bolo­gna. All’i­sti­tu­to di ana­to­mia del­l’U­ni­ver­si­tà era in pro­gram­ma un’as­sem­blea dei cat­to­li­ci di Comu­nio­ne e libe­ra­zio­ne. Fat­to asso­lu­ta­men­te intol­le­ra­bi­le, per un movi­men­to che si riem­pi­va la boc­ca con la paro­la «demo­cra­zia» ma che non ammet­te­va altre mani­fe­sta­zio­ni di pen­sie­ro al di fuo­ri del­la pro­pria. E infat­ti i ciel­li­ni furo­no asse­dia­ti e costret­ti a bar­ri­car­si all’in­ter­no del­l’i­sti­tu­to. Anco­ra oggi cir­co­la la ver­sio­ne secon­do cui gli inci­den­ti sareb­be­ro scop­pia­ti per­ché i ciel­li­ni avreb­be­ro mal­me­na­to alcu­ni stu­den­ti del movi­men­to che si era­no sem­pli­ce­men­te pre­sen­ta­ti all’in­gres­so del­l’au­la dov’e­ra in cor­so l’as­sem­blea. Ma per male che si pos­sa o si voglia dire dei ciel­li­ni, non s’è mai sen­ti­to di pestag­gi da loro com­piu­ti. Val­ga il volan­ti­no dif­fu­so lo stes­so pome­rig­gio dal Pci e dal­la Fgci, che par­la­va di «un’i­nam­mis­si­bi­le deci­sio­ne di un grup­po del­la cosid­det­ta Auto­no­mia di impe­di­re l’as­sem­blea di CL». E comun­que la real­tà fu quel­la: i ciel­li­ni bar­ri­ca­ti in un’au­la, e fuo­ri gli stu­den­ti del movi­men­to, arma­ti e ben più nume­ro­si, a sfer­ra­re l’at­tac­co. Ine­vi­ta­bi­le l’in­ter­ven­to dei cara­bi­nie­ri, con­tro i qua­li gli auto­no­mi lan­cia­ro­no parec­chie molo­tov, a dimo­stra­zio­ne del fat­to che all’U­ni­ver­si­tà non era­no giun­ti impre­pa­ra­ti. La bat­ta­glia si allar­gò, e alla fine negli scon­tri rima­se ucci­so il gio­va­ne di Lot­ta con­ti­nua Fran­ce­sco Lorus­so. Comin­ciò così il «sac­co» del cen­tro di Bolo­gna. Gli auto­no­mi, che oltre alle molo­tov ave­va­no già le fami­ge­ra­te pisto­le «P38», ingag­gia­ro­no spa­ra­to­rie ovun­que; distrus­se­ro deci­ne di nego­zi, innal­za­ro­no bar­ri­ca­te, appic­ca­ro­no incen­di. Fu occu­pa­ta la sta­zio­ne fer­ro­via­ria; furo­no assal­ta­ti due com­mis­sa­ria­ti di poli­zia, la reda­zio­ne del «Resto del Car­li­no» e la sede pro­vin­cia­le del­la Dc; fu deva­sta­ta la libre­ria di CL «Ter­ra Pro­mes­sa». I guer­ri­glie­ri si sfa­ma­ro­no, ed evi­den­te­men­te non male, al «Can­tun­zein», uno dei più noti risto­ran­ti del­la cit­tà, le cui riser­ve furo­no ripu­li­te con un «espro­prio» pro­le­ta­rio. Anche qui gli inci­den­ti furo­no coor­di­na­ti via ete­re: e la magi­stra­tu­ra ordi­nò l’ar­re­sto di Fran­ce­sco Berar­di det­to «Bifo», il ven­tot­ten­ne inse­gnan­te di let­te­re ani­ma­to­re di Radio Ali­ce. Era sta­to lui, attra­ver­so i micro­fo­ni, a gui­da­re assal­ti e distru­zio­ni, soste­ne­va la pro­cu­ra del­la Repub­bli­ca. Radio Ali­ce ven­ne chiu­sa, ma Bifo riu­scì a sfug­gi­re all’ar­re­sto e a rifu­giar­si a Pari­gi.
Il sac­cheg­gio di Bolo­gna durò tre gior­ni, e per rista­bi­li­re l’or­di­ne dovet­te­ro inter­ve­ni­re ‑cosa mai suc­ces­sa nep­pu­re nel ’68- i mez­zi blin­da­ti, con tre­mi­la uomi­ni a pre­si­dia­re il cen­tro. Alla fine di quei tre gior­ni di guer­ra si con­ta­ro­no 131 arre­sti. Fu uno smac­co sto­ri­co per il Pci, che van­ta­va la «sua» Bolo­gna come fio­re all’oc­chiel­lo, come dimo­stra­zio­ne di cit­tà comu­ni­sta, effi­cien­te, ordi­na­ta e feli­ce. Il 12 mar­zo, gior­no suc­ces­si­vo alla mor­te di Lorus­so, anche Roma diven­ne un cam­po di bat­ta­glia: gli auto­no­mi sac­cheg­gia­ro­no due arme­rie e par­ti­ro­no all’as­sal­to del­la cit­tà. Attac­ca­ro­no l’am­ba­scia­ta cile­na in Vati­ca­no, la sede del quo­ti­dia­no demo­cri­stia­no «Il Popo­lo», la caser­ma dei cara­bi­nie­ri di piaz­za del Popo­lo, la sede del­la Gulf, una con­ces­sio­na­ria del­la Fiat, alcu­ne ban­che. Cen­ti­na­ia di vetri­ne di nego­zi ven­ne­ro abbat­tu­te. Spa­ra­to­rie e incen­di si pro­tras­se­ro fino a not­te. E, nel­lo stes­so 12 mar­zo, inci­den­ti gra­vi scop­pia­ro­no anche a Napo­li, Pado­va, Firen­ze, Paler­mo e Mila­no, dove a col­pi di P38 furo­no man­da­te in fran­tu­mi le vetra­te del­l’As­so­lom­bar­da, la sede regio­na­le degli indu­stria­li.

UN PROBLEMA PER LA SINISTRA

Il cli­ma era tale che il 16 mar­zo l’U­ni­ver­si­tà di Roma, quan­do ria­prì, restò pre­si­dia­ta dal­la poli­zia. L’at­ti­vi­tà pote­va comun­que ripren­de­re rego­lar­men­te. Ma gli stu­den­ti del movi­men­to vol­le­ro impor­re le loro con­di­zio­ni: imme­dia­to allon­ta­na­men­to degli agen­ti, uni­ver­si­tà aper­ta dal­le 8 alle 22, libe­ra scel­ta del­l’ar­go­men­to da por­ta­re all’e­sa­me e 27 tren­te­si­mi come voto mini­mo garan­ti­to. Di fron­te allo scon­ta­to «no» che fu oppo­sto a que­ste richie­ste, gli auto­no­mi rioc­cu­pa­ro­no l’U­ni­ver­si­tà. Il 21 apri­le la poli­zia inter­ven­ne e riu­scì a sgom­be­rar­la, in mat­ti­na­ta, sen­za par­ti­co­la­ri inci­den­ti. Nel pome­rig­gio, però, gli auto­no­mi pas­sa­ro­no al con­trat­tac­co. Assal­ta­ro­no l’U­ni­ver­si­tà arma­ti di molo­tov e di P38, ucci­se­ro un agen­te di poli­zia ‑Set­ti­mio Pas­sa­mon­ti, ven­ti­tré anni- e ne feri­ro­no gra­ve­men­te altri due. Il gior­no dopo, vista l’ec­ce­zio­na­le gra­vi­tà del­la situa­zio­ne del­l’or­di­ne pub­bli­co, il gover­no proi­bì ogni mani­fe­sta­zio­ne pub­bli­ca, a Roma, per un mese. Incu­ran­ti del divie­to, i radi­ca­li orga­niz­za­ro­no pro­prio a Roma, per il 12 mag­gio, una mani­fe­sta­zio­ne pub­bli­ca per il ter­zo anni­ver­sa­rio del­la vit­to­ria nel refe­ren­dum sul divor­zio. La poli­zia inter­ven­ne e furo­no altri scon­tri, fino a tar­da sera: e a cade­re, ucci­sa da un col­po di pisto­la spa­ra­to da un agen­te, que­sta vol­ta fu una dimo­stran­te, Gior­gia­na Masi, ven­t’an­ni, sim­pa­tiz­zan­te radi­ca­le.
Due gior­ni dopo a Mila­no, duran­te un cor­teo di pro­te­sta per l’ar­re­sto di due avvo­ca­ti di Soc­cor­so ros­so, gli auto­no­mi ucci­se­ro in via De Ami­cis il bri­ga­die­re di poli­zia Anto­ni­no Custrà. Fu in quel­l’oc­ca­sio­ne che un dilet­tan­te scat­tò la foto­gra­fia dive­nu­ta l’im­ma­gi­ne-sim­bo­lo degli anni di piom­bo: un gio­va­ne auto­no­mo, con il vol­to coper­to, spa­ra­va impu­gnan­do la pisto­la con entram­be le mani. L’Au­to­no­mia era ormai un pro­ble­ma gra­ve anche per i grup­pi alla sini­stra del Pci. «Di Auto­no­mia ope­ra­ia e non solo del­le sue vio­len­ze ulti­me occor­re libe­rar­si» scris­se Ros­sa­na Ros­san­da sul «Mani­fe­sto» del 17 mag­gio. E Luca Cafie­ro, segre­ta­rio nazio­na­le del Mls: «Noi toglie­re­mo le pisto­le agli auto­no­mi e glie­le fare­mo ingo­ia­re».

AL BAR SI MUORE

Che il 1977 sia sta­to un anno di guer­ra lo testi­mo­nia­no, oltre al nume­ro degli scon­tri di piaz­za, anche le azio­ni del­le Bri­ga­te ros­se e del­le altre for­ma­zio­ni clan­de­sti­ne, che in quel­l’an­no si era­no fat­te ancor più effi­cien­ti e spie­ta­te. Il 28 apri­le, a Tori­no, le Br ucci­se­ro il pre­si­den­te del­l’Or­di­ne degli avvo­ca­ti Ful­vio Cro­ce: un omi­ci­dio-avver­ti­men­to nel più clas­si­co sti­le mafio­so, per­ché Cro­ce avreb­be dovu­to desi­gna­re i difen­so­ri d’uf­fi­cio al pro­ces­so con­tro Cur­cio e altri ter­ro­ri­sti; si vol­le in que­sto modo inti­mi­di­re avvo­ca­ti e giu­di­ci popo­la­ri, e infat­ti que­sti ulti­mi, il 31 mag­gio, rifiu­ta­ro­no l’in­ca­ri­co, pro­vo­can­do il rin­vio del pro­ces­so. Anche i gior­na­li­sti fini­ro­no nel miri­no del­le Br. Nel mese di giu­gno ne furo­no feri­ti alle gam­be dodi­ci, fra cui Indro Mon­ta­nel­li, il diret­to­re del Tg 1 Emi­lio Ros­si e il vice­di­ret­to­re del «Seco­lo XIX» di Geno­va Vit­to­rio Bru­no. E il 16 novem­bre, a Tori­no, anco­ra le Br ucci­se­ro il vice­di­ret­to­re del­la «Stam­pa» Car­lo Casa­le­gno, defi­ni­to un «ser­vo del­lo Sta­to». Quan­to alle fab­bri­che, i diri­gen­ti e i capi­re­par­to «gam­biz­za­ti» in quel­l’an­no furo­no deci­ne. Ma per dare un’i­dea di quan­to que­sta guer­ra fos­se una minac­cia costan­te per tut­ti, si pen­si che il peri­co­lo pote­va rag­giun­ge­re chiun­que e ovun­que. Come dimo­stra­no la mor­te di Rober­to Cre­scen­zio e i set­te feri­ti del bar di lar­go Por­to di Clas­se.
L’as­sal­to al bar di lar­go Por­to di Clas­se a Mila­no, zona Cit­tà Stu­di, fu ope­ra di com­man­do di Avan­guar­dia ope­ra­ia e dei Caf, i comi­ta­ti anti­fa­sci­sti. Scat­tò il 31 mar­zo 1976, alle sei di sera. Il bar era rite­nu­to un covo di «neri». Quel­la sera, però, di fasci­sti all’in­ter­no del loca­le non ce n’e­ra nean­che uno. Gli estre­mi­sti ‑in buo­na par­te era­no gli stes­si che un anno pri­ma ave­va­no ucci­so Ramel­li- incen­dia­ro­no il bar lan­cian­do bot­ti­glie molo­tov, e spran­ga­ro­no gli avven­to­ri in fuga. In set­te rima­se­ro feri­ti in modo gra­ve, e tre di loro por­ta­no anco­ra oggi i segni del pestag­gio. Un atto tan­to vile da pro­vo­ca­re, nei gior­ni seguen­ti, una discus­sio­ne inter­na che fu uno dei pri­mi sin­to­mi del­la cri­si di Avan­guar­dia ope­ra­ia. Mas­si­mo Bogni, uno dei respon­sa­bi­li del­l’as­sal­to, in segui­to con­ver­ti­to­si al cat­to­li­ce­si­mo e sin­ce­ra­men­te pen­ti­to (si pre­sen­tò spon­ta­nea­men­te al giu­di­ce istrut­to­re), ha rac­con­ta­to al pro­ces­so, cele­bra­to nell’87: «Emu­la­va­mo gli eroi, Gari­bal­di e Gue­va­ra, e poi era­va­mo vigliac­chi».
Anche Rober­to Cre­scen­zio non era un fasci­sta. Ave­va ven­ti­due anni, ed era un peri­to chi­mi­co disoc­cu­pa­to. Ebbe la tra­gi­ca sfor­tu­na di tro­var­si, il l° otto­bre 1977, al bar l’«Angelo azzur­ro» di Tori­no. Quel gior­no Tori­no, come Roma e altre cit­tà ita­lia­ne, fu scon­vol­ta da nuo­vi, furi­bon­di scon­tri fra la poli­zia e i gio­va­ni di estre­ma sini­stra, infe­ro­ci­ti per l’uc­ci­sio­ne avve­nu­ta il gior­no pri­ma a Roma, ad ope­ra di neo­fa­sci­sti, del mili­tan­te di Lot­ta con­ti­nua Wal­ter Ros­si. A un cer­to pun­to il cor­teo pas­sò vici­no all’«Angelo azzur­ro» e qual­cu­no rife­rì di aver visto, al liceo Gio­ber­ti, una scrit­ta secon­do cui quel bar era un pun­to di ritro­vo dei fasci­sti. Tan­to bastò per sca­te­na­re l’at­tac­co.
Il loca­le fu incen­dia­to e gli avven­to­ri costret­ti a fug­gi­re all’e­ster­no. Un bim­bo di tre anni e la sua baby-sit­ter sedi­cen­ne rima­se­ro semia­sfis­sia­ti e furo­no por­ta­ti in ospe­da­le. Rober­to Cre­scen­zio restò intrap­po­la­to nel­la toi­let­te. Quan­do, con le ulti­me ener­gie, riu­scì a spa­lan­ca­re l’u­scio, ad attra­ver­sa­re la sala del bar, a sfon­da­re una vetra­ta e a get­tar­si sul­l’a­sfal­to, all’a­per­to, il suo cor­po era ormai deva­sta­to dal fuo­co. Ed era trop­po tar­di.
Anche in que­sto caso la mor­te di un inno­cen­te (ammes­so che altri pos­sa­no esse­re con­si­de­ra­ti col­pe­vo­li) pro­vo­cò una cri­si all’in­ter­no del movi­men­to. Pro­prio pochi gior­ni dopo il rogo dell’«Angelo azzur­ro» in cor­so Val­doc­co qual­cu­no trac­ciò su un muro una gran­de scrit­ta: «E’ un momen­tac­cio». Un pic­co­lo, ma non insi­gni­fi­can­te indi­zio di un tra­va­glio che i più sen­si­bi­li comin­cia­va­no ad avver­ti­re, e che avreb­be por­ta­to, di lì a poco, a un ripen­sa­men­to da par­te di tut­ti. In fon­do non solo la gen­te comu­ne, ma anche la mag­gio­ran­za dei gio­va­ni che anda­va­no in cor­teo comin­cia­va a esse­re stan­ca di tan­to san­gue e di tan­ti lut­ti.

GLI INTELLETTUALI E LA REPRESSIONE

Ma, con­tra­ria­men­te alla gen­te comu­ne, gli intel­let­tua­li ‑o alme­no cer­ti intel­let­tua­li- rima­ne­va­no con­vin­ti che tut­ta quel­la vio­len­za fos­se frut­to del­la repres­sio­ne orga­niz­za­ta da un siste­ma che anda­va sem­pre più assu­men­do la sostan­za di una nuo­va dit­ta­tu­ra. Così pen­sa­va­no, ad esem­pio, Nan­ni Bale­stri­ni ed Elvio Fac­chi­nel­li, i qua­li chie­se­ro, pole­mi­ca­men­te, che un padi­glio­ne del­la Bien­na­le di Vene­zia venis­se riser­va­to al dis­sen­so in Ita­lia. E altri uomi­ni di cul­tu­ra, fra cui Leo­nar­do Scia­scia, si man­ten­ne­ro in una posi­zio­ne che il comu­ni­sta Gior­gio Amen­do­la, con un duro arti­co­lo sull’«Unità», defi­nì ambi­gua. Ma fu da Pari­gi, dove l’in­tel­li­ghen­zia ita­lia­na cer­ca soli­ta­men­te la pro­pria con­sa­cra­zio­ne, che ven­ne l’at­tac­co più duro con­tro il nuo­vo «regi­me» Dc-Pci.
L’8 luglio, pro­prio a Pari­gi, era sta­to arre­sta­to Bifo, l’a­ni­ma­to­re di Radio Ali­ce e del­le rivi­ste «A/​traverso» e «Zut», accu­sa­to, come abbia­mo visto, di ave­re inci­ta­to e pro­mos­so, via radio, gli inci­den­ti dell’11 mar­zo a Bolo­gna («Ammaz­za­te, ammaz­za­te, abbia­mo biso­gno di cada­ve­ri», una del­le fra­si che gli furo­no con­te­sta­te). A Pari­gi, dov’e­ra scap­pa­to per sot­trar­si al man­da­to di cat­tu­ra fir­ma­to dal tri­bu­na­le di Bolo­gna, Bifo ave­va tro­va­to allog­gio nien­te­me­no che a casa del pro­fes­sor Felix Guat­ta­ri, lo psi­ca­na­li­sta diret­to­re del­la rivi­sta «Recher­ches» e auto­re, con il filo­so­fo Gil­les Deleu­ze, del­l’An­ti-Edi­po.
L’8 luglio, come det­to, fu arre­sta­to. Poco impor­ta­va che solo tre gior­ni dopo le auto­ri­tà fran­ce­si l’a­ves­se­ro rimes­so in liber­tà, negan­do l’e­stra­di­zio­ne alla giu­sti­zia ita­lia­na e impo­nen­do all’im­pu­ta­to l’u­ni­co vin­co­lo del­la fir­ma da appor­re, ogni quin­di­ci gior­ni, su un regi­stro al palaz­zo del­la pre­fet­tu­ra di poli­zia di Pari­gi. Il man­da­to di cat­tu­ra con­tro Bifo con­vin­se un grup­po di intel­let­tua­li fran­ce­si a invia­re a Bel­gra­do, dov’e­ra in cor­so una con­fe­ren­za Est-Ove­st, un «appel­lo con­tro la repres­sio­ne in Ita­lia». «Noi voglia­mo atti­ra­re l’at­ten­zio­ne» era scrit­to nel­l’ap­pel­lo «sui gra­vi avve­ni­men­ti che si svol­go­no attual­men­te in Ita­lia e, più par­ti­co­lar­men­te, sul­la repres­sio­ne che si sta abbat­ten­do sui mili­tan­ti ope­rai e sui dis­si­den­ti intel­let­tua­li in lot­ta con­tro il com­pro­mes­so sto­ri­co. «In que­ste con­di­zio­ni» pro­se­gui­va l’ap­pel­lo «che vuol dire oggi, in Ita­lia, “com­pro­mes­so sto­ri­co”? Il “socia­li­smo dal vol­to uma­no” ha, negli ulti­mi mesi, sve­la­to il suo vero aspet­to: da un lato svi­lup­po di un siste­ma di con­trol­lo repres­si­vo su una clas­se ope­ra­ia e un pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le che rifiu­ta­no di paga­re il prez­zo del­la cri­si; dal­l’al­tro, pro­get­to di spar­ti­zio­ne del­lo Sta­to con la Dc (ban­che ed eser­ci­to alla Dc; poli­zia, con­trol­lo socia­le e ter­ri­to­ria­le al Pci) per mez­zo di un rea­le par­ti­to “uni­co”; è con­tro que­sto sta­to di fat­to che si sono ribel­la­ti in que­sti ulti­mi mesi i gio­va­ni pro­le­ta­ri e i dis­si­den­ti intel­let­tua­li. (…)
«I sot­to­scrit­ti» ter­mi­na­va poi l’ap­pel­lo «esi­go­no la libe­ra­zio­ne imme­dia­ta di tut­ti i mili­tan­ti arre­sta­ti, la fine del­la per­se­cu­zio­ne e del­la cam­pa­gna di dif­fa­ma­zio­ne con­tro il movi­men­to e la sua atti­vi­tà cul­tu­ra­le pro­cla­man­do la loro soli­da­rie­tà con tut­ti i dis­si­den­ti attual­men­te sot­to inchie­sta.» Segui­va­no le fir­me di Jean-Paul Sar­tre, Michel Fou­cault, Felix Guat­ta­ri, Gil­les Deleu­ze, Roland Bar­thes, Phi­lip­pe Sol­lers, Fra­nçois Cha­te­let, Clau­de Mau­riac, Pier­re Cle­men­ti, Maria Anto­niet­ta Mac­cioc­chi e in segui­to anche Dario Fo e altre per­so­na­li­tà del­la cul­tu­ra e del­lo spet­ta­co­lo. L’ap­pel­lo fu com­men­ta­to mol­to dura­men­te in Ita­lia. Il «Cor­rie­re del­la Sera» osser­vò: «Imma­gi­na­re [alla Bien­na­le di Vene­zia, n.d.a.] un padi­glio­ne del dis­sen­so ita­lia­no, maga­ri a due pas­si da quel­lo sovie­ti­co, è assur­do. Man­dar peti­zio­ni alla con­fe­ren­za di Bel­gra­do, dove il pro­ble­ma mag­gio­re è quel­lo di ridur­re il nume­ro degli inter­na­ti negli asi­li psi­chia­tri­ci e di impe­di­re che l’Urss met­ta a tace­re una vol­ta per sem­pre la voce di Sacha­rov, rive­la una mio­pia libre­sca che non gio­va a chi se ne fa pro­mo­to­re». Ma anche i gior­na­li comu­ni­sti, «l’U­ni­tà» e «Pae­se Sera», furo­no duris­si­mi; e pure «il Mani­fe­sto» ebbe paro­le seve­re. Il fat­to è che il Pci, entran­do nel­la gestio­ne del­lo Sta­to, ave­va dovu­to per for­za di cose abbas­sa­re la voce del­la pro­te­sta, mode­rar­ne i toni, distin­gue­re fra ciò che era pos­si­bi­le con­qui­sta­re subi­to e ciò che anda­va rin­via­to e atte­so con pazien­za. E alla sua sini­stra s’e­ra crea­to lo spa­zio per riven­di­ca­zio­ni liber­ta­rie e uto­pi­sti­che.

IL CONVEGNO DI BOLOGNA

Pro­prio Guat­ta­ri e gli altri intel­let­tua­li, comun­que, era­no riu­sci­ti a dare il la a quel­lo che si rive­lò poi l’ul­ti­mo gran­de avve­ni­men­to del­la sta­gio­ne del­la con­te­sta­zio­ne: il con­ve­gno di Bolo­gna sul­la repres­sio­ne. Il 23, 24 e 25 set­tem­bre nel capo­luo­go emi­lia­no cala­ro­no chi dice cen­to, chi dice cin­quan­ta, chi dice ven­ti­cin­que­mi­la gio­va­ni pro­ve­nien­ti da tut­ta Ita­lia e in pic­co­la par­te anche dal­l’e­ste­ro. C’e­ra­no ovvia­men­te gli auto­no­mi e gli india­ni metro­po­li­ta­ni; ma anche ciò che resta­va dei grup­pi orga­niz­za­ti. E non man­ca­va­no ‑lo accer­te­ran­no poi diver­se inchie­ste giu­di­zia­rie- «osser­va­to­ri» del­le Br e di altre for­ma­zio­ni, venu­ti a cac­cia di nuo­ve reclu­te. Il Pci accet­tò la sfi­da: «Bolo­gna è la cit­tà più libe­ra del mon­do» dis­se il sin­da­co comu­ni­sta Rena­to Zan­ghe­ri. Ma è ovvio che la pau­ra di una repli­ca del­la guer­ri­glia di mar­zo era enor­me. Pro­prio in quei gior­ni, fra l’al­tro, Ber­lin­guer get­tò ben­zi­na sul fuo­co defi­nen­do gli auto­no­mi «pove­ri unto­rel­li».
Bolo­gna fu inva­sa anche da poli­zia e cara­bi­nie­ri. Ma non ci fu, con­tra­ria­men­te ai timo­ri, alcun inci­den­te. I tre gior­ni tra­scor­se­ro fra bivac­chi e spet­ta­co­li nel­le piaz­ze e le assem­blee al Palaz­zet­to del­lo Sport. Ecco, le uni­che vio­len­ze furo­no pro­prio lì den­tro, al Palaz­zet­to del­lo Sport, dove si tro­va­ro­no a con­vi­ve­re deci­ne di posi­zio­ni diver­se, a vol­te radi­cal­men­te diver­se: dal­l’i­deo­lo­gia anco­ra impre­gna­ta di mar­xi­smo-leni­ni­smo dei vec­chi grup­pi alla tema­ti­ca del «rifiu­to del lavo­ro» degli auto­no­mi e degli india­ni metro­po­li­ta­ni. Diver­gen­ze che si mani­fe­sta­ro­no spes­so con bot­te da orbi, a col­pi di sedia in testa, per strap­par­si il micro­fo­no. Alla fine, l’Au­to­no­mia ope­ra­ia orga­niz­za­ta riu­scì a pren­de­re in mano il con­trol­lo del­l’as­sem­blea, dal­la qua­le furo­no espul­si, nel­l’or­di­ne, pri­ma il Mls, poi Avan­guar­dia ope­ra­ia e infi­ne Lot­ta con­ti­nua.
Tut­ti quan­ti, poi, si ritro­va­ro­no insie­me nel gran­de cor­teo (tren­ta­cin­que­mi­la per­so­ne, secon­do la sti­ma del­la que­stu­ra) che il gior­no 25 con­clu­se il con­ve­gno. C’e­ra­no tut­ti, e quel­li dei grup­pi ten­ta­ro­no, in real­tà sen­za riu­scir­ci trop­po, di tene­re gli auto­no­mi al cen­tro del cor­teo, per con­trol­lar­li meglio. Comun­que, non ci furo­no inci­den­ti. E gli stes­si slo­gan urla­ti in quel­l’oc­ca­sio­ne mostra­ro­no l’e­te­ro­ge­nei­tà del cor­teo. C’e­ra­no quel­li che agi­ta­va­no le mani con le dita a pisto­la e gri­da­va­no «Con la P38 /​ ti spun­ta un foro in boc­ca», «Lot­ta arma­ta /​ per la rivo­lu­zio­ne», «Per il comu­ni­smo /​ per la rivo­lu­zio­ne», «Cara­bi­nie­re, basco nero /​ il tuo posto è al cimi­te­ro». Quel­li che cer­ca­va­no la sati­ra: «Cara­bi­nie­re leva­ti il cap­pel­lo /​ e fuma­ti con noi uno spi­nel­lo». Le fem­mi­ni­ste che pen­sa­va­no soprat­tut­to alle pro­prie riven­di­ca­zio­ni: «Nel­le case e nel­le gale­re /​ sia­mo sem­pre pri­gio­nie­re». Gli omo­ses­sua­li che ave­va­no tro­va­to la for­mu­la per vin­ce­re la rivo­lu­zio­ne: «Coi­to ana­le /​ abbat­te il capi­ta­le».
Nono­stan­te la straor­di­na­ria mas­sa nume­ri­ca, il con­ve­gno di Bolo­gna non rap­pre­sen­tò una vit­to­ria del movi­men­to, ma una scon­fit­ta. L’ul­ti­ma scon­fit­ta, quel­la deci­si­va. Il movi­men­to ave­va radu­na­to cen­ti­na­ia di voci di rifiu­to, di dis­sen­so, di rivol­ta, ma non era riu­sci­to a coa­gu­lar­le. Era emer­sa, in modo ancor più net­to che in pas­sa­to, l’im­pos­si­bi­li­tà di un’a­zio­ne uni­ta­ria. I nou­veaux phi­lo­so­phes fran­ce­si che era­no venu­ti a caval­ca­re la rivol­ta fece­ro la mise­ra figu­ra degli oppor­tu­ni­sti, e non tro­va­ro­no alcun segui­to fra quei gio­va­ni che ave­va­no cer­ca­to di blan­di­re. Anche l’in­ter­ven­to che Bifo ave­va invia­to dal­la sua lati­tan­za di Pari­gi, e che fu let­to duran­te l’as­sem­blea al Pala­sport, ven­ne sono­ra­men­te fischia­to. Pri­vo di una gui­da, pri­vo di uni­tà ma ancor più pri­vo di fon­da­men­ta vera­men­te soli­de, il movi­men­to si sciol­se. E il Ses­san­tot­to finì vera­men­te lì, quel 25 set­tem­bre 1977.

EPILOGO

S’è det­to che, con­tra­ria­men­te ai moti del 1968, quel­li del 1977 rara­men­te han­no dirit­to di cit­ta­di­nan­za nel­le rie­vo­ca­zio­ni e negli stes­si libri di sto­ria. For­se, la dif­fe­ren­za di atten­zio­ne è moti­va­ta dal fat­to che il pri­mo fu un feno­me­no mon­dia­le, e il secon­do qua­si esclu­si­va­men­te ita­lia­no, e come tale meno impor­tan­te. Ma for­se c’è anche, da par­te di mol­ti, una sor­ta di ten­ta­ti­vo di rimo­zio­ne. Il movi­men­to del 1977 non ha godu­to ‑a par­te le sno­bi­sti­che pre­se di posi­zio­ne di cer­ti intel­let­tua­li- del­la bene­vo­len­za e degli ammic­ca­men­ti che era­no sta­ti elar­gi­ti, nove anni pri­ma, ai ses­san­tot­ti­ni; i suoi pro­ta­go­ni­sti era­no dei «veri» pro­le­ta­ri, e non figli del­la bor­ghe­sia come furo­no, nel­la stra­gran­de mag­gio­ran­za, gli uni­ver­si­ta­ri del ’68; per cer­ti ver­si la pro­te­sta del ’77 era, come vedre­mo, più giu­sti­fi­ca­ta; e a caval­car­la non c’e­ra più, non pote­va più esser­ci quel Pci ormai entra­to nel Palaz­zo, e ben più riso­lu­to nel chie­de­re le manie­re for­ti con­tro i «sedi­zio­si» di quan­to non fos­se­ro sta­ti, in pre­ce­den­za, i vari pre­si­den­ti del Con­si­glio e mini­stri demo­cri­stia­ni.
Gli auto­no­mi e gli india­ni metro­po­li­ta­ni del 1977 ven­go­no rimos­si anche per­ché la loro deva­stan­te vio­len­za, in mol­ti casi pale­se­men­te com­pli­ce del peg­gio­re bri­ga­ti­smo, è un fan­ta­sma ingom­bran­te per una sini­stra che pri­ma ha pre­di­ca­to la lot­ta di clas­se e la rivo­lu­zio­ne (chi stan­do nel par­ti­to, chi stan­do nei salot­ti) e poi ha det­to che la rivo­lu­zio­ne non anda­va fat­ta più (chi per­ché ormai arri­va­to den­tro il siste­ma, chi per­ché anco­ra ben inse­ri­to nei salot­ti). Per buo­na par­te del­la sini­stra, gli auto­no­mi e gli india­ni metro­po­li­ta­ni sono quin­di figli, o nipo­ti, con cui non si vuo­le ave­re nul­la a che fare, e che è meglio disco­no­sce­re. E non è un caso che si ten­ti sem­pre di scin­de­re i due feno­me­ni, e dire che il Ses­san­tot­to è una cosa, il Set­tan­ta­set­te un’al­tra. Pur nel­le loro dif­fe­ren­ze, le due pro­te­ste sono inve­ce stret­ta­men­te lega­te fra loro, anzi sono l’i­ni­zio e la fine del mede­si­mo avve­ni­men­to. Come ha scrit­to Toni Negri: “In Ita­lia il ’77 è la secon­da fase del ’68. (…). Il ’77 è l’ul­ti­ma data den­tro la qua­le que­sto pro­ces­so [quel­lo ini­zia­to nel ’68, n.d.a.] vie­ne com­plen­do­si, un pro­ces­so per­ciò di rot­tu­ra ma soprat­tut­to di con­ti­nui­tà, work in pro­gress”.
Del Ses­san­tot­to, i «set­tan­ta­set­ti­ni» han­no paga­to gli erro­ri più evi­den­ti: se Capan­na e soci ave­va­no tro­va­to una scuo­la vec­chia e imbal­sa­ma­ta, loro ne han­no tro­va­ta una ine­si­sten­te, tra­sfor­ma­ta gra­zie alla logi­ca tut­ta ses­san­tot­ti­na del «sei poli­ti­co» e degli esa­mi di grup­po in una fab­bri­ca di disoc­cu­pa­ti. Posti di fron­te a una cri­si eco­no­mi­ca più gra­ve di quel­la di nove anni pri­ma, i gio­va­ni pro­le­ta­ri del 1977 fati­ca­va­no a tro­va­re lavo­ro, e si accor­ge­va­no che nem­me­no impe­gnan­do­si a fon­do in un’u­ni­ver­si­tà ormai a pez­zi pote­va­no spe­ra­re di eman­ci­par­si. Ma c’è un altro moti­vo ‑più pro­fon­do, anche se for­se meno evi­den­te- per cui i gio­va­ni del 1977, ne sia­no o no con­sa­pe­vo­li, sono sta­ti i veri «fre­ga­ti» dal Ses­san­tot­to. Del Ses­san­tot­to han­no infat­ti ere­di­ta­to la scon­fit­ta più gra­ve, e cioè il nul­la con cui si cer­cò di col­ma­re un vuo­to esi­stan­zia­le. A una gene­ra­zio­ne che non si accon­ten­ta­va degli ido­li offer­ti dal mon­do bor­ghe­se ‑una «posi­zio­ne», una bel­la mac­chi­na, un’a­man­te- il Ses­san­tot­to ha offer­to altri ido­li, non meno fal­la­ci.
Il movi­men­to del 1977 cer­cò, pate­ti­ca­men­te, di accre­di­tar­si come gio­io­so, iro­ni­co, crea­ti­vo, tra­boc­can­te di alle­gria, e si inven­tò la reto­ri­ca del­le «feste» qua­le arma con­tro l’a­lie­na­zio­ne. In real­tà il gio­va­ne del ’77 ‑nono­stan­te la regia del­le soli­te teste d’uo­vo mar­xi­ste-leni­ni­ste- nei cor­tei non urla­va con­tro lo Sta­to o con­tro il capi­ta­li­smo, e nean­che con­tro il com­pro­mes­so sto­ri­co, ma, più tra­gi­ca­men­te, con­tro la sua noia e la sua dispe­ra­zio­ne. Si leg­ga­no le mol­te let­te­re giun­te in quel­l’an­no a quel­la spe­cie di con­fes­sio­na­le pub­bli­co che era diven­ta­to il quo­ti­dia­no «Lot­ta con­ti­nua». In una di que­ste let­te­re, pub­bli­ca­ta il 29 otto­bre 1977 e fir­ma­ta «Anto­nel­la, una quat­tor­di­cen­ne stan­ca di vive­re», è scrit­to: «Sono arri­va­ta al pun­to di non poter più usci­re da que­sta tre­men­da sen­sa­zio­ne qua­le è la soli­tu­di­ne. Que­sto mi ha fat­to pen­sa­re al sui­ci­dio, ma for­se ho pau­ra di aver pau­ra di mori­re. Per­so­nal­men­te lot­te­rò fin­ché que­sta mia lun­ga vita non si fer­me­rà. Salu­ti rivo­lu­zio­na­ri».
Ha scrit­to allo­ra Mino Moni­cel­li (L’ul­tra­si­ni­stra in Ita­lia): «La nuo­va eti­ca pur­trop­po non è nata; e poi­ché quel­la vec­chia, del­lo stu­dio, del lavo­ro, del­la fami­glia, del­la mili­tan­za è sem­pre più rifiu­ta­ta, pas­sa solo l’e­ti­ca del­la mor­te. Sic­co­me ‘la vita non ha alcun valo­re e non me ne fre­ga nien­te’ si è dispo­sti anche a rischiar­la. Que­sta è l’e­la­bo­ra­zio­ne teo­ri­ca che oggi espri­mo­no set­to­ri impor­tan­ti del movi­men­to: una spe­cie di eti­ca del nega­ti­vo che coin­vol­ge, in modo più o meno serio, mol­ti gio­va­ni, dal­la base del­la Fgci all’Au­to­no­mia». Non è un caso se i gio­va­ni eroi­no­ma­ni sia­no pas­sa­ti, in Ita­lia, dai die­ci­mi­la del 1976 ai set­tan­ta­mi­la del 1978. Non è un caso se fu pro­prio in quel 1977 che nac­que­ro, pri­ma in Inghil­ter­ra e poi un pò ovun­que, quei movi­men­ti dei «punk», dei «dark», degli «skin» che (fra l’al­tro con una sin­go­la­re litur­gia fune­rea, evi­den­tis­si­ma già nel­l’ab­bi­glia­men­to e nei sim­bo­li) incar­na­no il disa­gio spro­fon­dan­do nel più tota­le nichi­li­smo.
Pas­sa­to il con­ve­gno sul­la repres­sio­ne di Bolo­gna, il movi­men­to del ’77 si dis­sol­ve­rà. Dopo di che, reste­rà solo la lot­ta arma­ta di un mani­po­lo di uomi­ni che con­ti­nue­ran­no a cre­de­re nel­la rivo­lu­zio­ne. Ma nel­le stra­de e nel­le piaz­ze, più nien­te. E i ven­ten­ni del 1968 saran­no i qua­ran­ten­ni che gesti­ran­no, negli anni Ottan­ta, la più spie­ta­ta­men­te egoi­sti­ca ed edo­ni­sti­ca del­le socie­tà, quel­la del «rea­ga­ni­smo» e del­lo «yup­pi­smo» ram­pan­te. Una con­trad­di­zio­ne? Del resto, l’e­re­di­tà del Ses­san­tot­to pare tut­ta con­trad­di­re le atte­se di chi fu pro­ta­go­ni­sta di quel­la pro­te­sta. Il Ses­san­tot­to ‑par­lia­mo del noc­cio­lo, del­l’es­sen­za del­l’i­deo­lo­gia del Ses­san­tot­to- vole­va spaz­za­re via il capi­ta­li­smo ed edi­fi­ca­re un uomo nuo­vo e una socie­tà giu­sta ed egua­li­ta­ria. Vole­va, con la rivo­lu­zio­ne ses­sua­le, met­te­re final­men­te sul­lo stes­so pia­no i rap­por­ti fra uomo e don­na. Vole­va, riven­di­can­do il dirit­to di cia­scu­no di fare ciò che vuo­le pur­ché non dan­neg­gi gli altri, por­ta­re final­men­te alla feli­ci­tà una gio­ven­tù che si sen­ti­va sgo­men­ta di fron­te alla pro­spet­ti­va di una vita bor­ghe­se. Ma per otte­ne­re tut­to que­sto ha sba­rac­ca­to quei resi­dui valo­ri tra­di­zio­na­li che, for­se, era­no pro­prio l’ul­ti­mo fre­no allo sca­te­na­men­to del­la par­te peg­gio­re del capi­ta­li­smo.
La mes­sa in liqui­da­zio­ne di una cer­ta reli­gio­si­tà, di un pre­va­le­re del tra­scen­den­te sul mate­ria­le e, non ulti­mo, di un cer­to sen­so del­la par­si­mo­nia e del­la rinun­cia, han­no con­sen­ti­to l’e­splo­sio­ne del con­su­mi­smo più sfre­na­to. Il crol­lo di quel­li che veni­va­no chia­ma­ti «tabù ses­sua­li» ha por­ta­to a un’e­span­sio­ne sen­za pre­ce­den­ti del mer­ca­to del­la por­no­gra­fia e a un’im­pen­na­ta dei rea­ti di stu­pro, cioè a quan­to di meno rispet­to­so del­la digni­tà del­la don­na. La cadu­ta di quel sag­gio sen­so di auto­di­fe­sa che veni­va con­si­de­ra­to una bar­rie­ra con­tro il pro­prio pia­ce­re, ha indot­to una gene­ra­zio­ne dispe­ra­ta­men­te alla ricer­ca del­la feli­ci­tà a cade­re nel­la schia­vi­tù del­la dro­ga.
Sem­bra insom­ma che ogni spe­ran­za del Ses­san­tot­to si sia rove­scia­ta nel suo con­tra­rio. Ma que­sto, a ben pen­sar­ci, è sta­to il desti­no di tut­ti i ten­ta­ti­vi del­l’uo­mo di sta­bi­li­re lui cosa sia il bene e cosa sia il male, e di costrui­re in ter­ra il suo para­di­so. Ten­ta­ti­vi di cui la sto­ria è pie­na, e che sono sem­pre, miste­rio­sa­men­te ma impla­ca­bil­men­te, fal­li­ti.

Da Sto­ria del Ses­san­tot­to, Riz­zo­li, Mila­no 1994