Con gli indios insorti nel Chiapas messicano
ARCHIVIO CENTRO SOCIALE KINESIS – TRADATE
30 ANNI DI MANIFESTI
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30 ANNI DI MANIFESTI
Archivio Donato Tagliapietra
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Archivio Donato Tagliapietra
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30 ANNI DI MANIFESTI
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30 ANNI DI MANIFESTI
ARCHIVIO CENTRO SOCIALE KINESIS – TRADATE
30 ANNI DI MANIFESTI
di Michele Brambilla
“Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli“
Karl Barth
XIII – VERSO LA FINE
Il 1976 è l’anno in cui il Sessantotto entra in agonia. Certo, gran parte delle battaglie cominciate otto anni prima erano state vinte: il divorzio era diventato legge dello Stato, già dal 1970 era stato varato lo Statuto dei lavoratori, nel 1975 era stato riformato il diritto di famiglia, la scuola e l’università erano state sensibilmente modificate. E certo molti degli stili di vita e delle idee dei sessantottini si erano ormai radicati nella mentalità comune: dai comportamenti sessuali al linguaggio all’atteggiamento verso l’autorità. Persino il cosiddetto apparato era stato intaccato dalla «rivoluzione» sessantottina, e di questo l’esempio forse più rilevante è costituito dalla forte influenza, nel sistema giudiziario, della corrente di sinistra dei giudici, Magistratura democratica, e del fenomeno dei «pretori d’assalto». Di tutti questi cambiamenti nei costumi, del resto, è rimasta fino ai giorni nostri una traccia che appare indelebile. Ma per quanto riguarda il suo obiettivo principale, il Sessantotto è stato innegabilmente sconfitto. Il fine dichiarato dei contestatori, soprattutto dopo l’incanalamento ideologico della protesta, era una radicale trasformazione del sistema politico ed economico; un rinnegamento del capitalismo, l’instaurazione di una democrazia «dal basso». Molti sessantottini il potere l’hanno pure preso, come si può oggi facilmente constatare dando uno sguardo a molti organigrammi: ma per farlo hanno dovuto abiurare l’antica fede, e accettare di essere strumenti di quel capitalismo che volevano distruggere.
LA CRISI DEI GRUPPI
Di questa sconfitta, nel 1976 c’era già molto più di qualche semplice segno premonitore. L’avvisaglia principale fu la crisi dei gruppi rivoluzionari organizzati, che cominciarono allora la propria dissoluzione. I gruppi avevano fallito su tutti i fronti: non erano riusciti a sottrarre la classe operaia alla fedeltà al Partito comunista e al sindacato tradizionale; e, sul versante opposto, non erano stati in grado di interpretare fino in fondo lo spirito «movimentista» dell’ultima generazione. «I gruppi» ha scritto Paul Ginsborg «erano settari, dominati da modelli rivoluzionari terzomondisti, incapaci di trarre conclusioni realistiche dai segnali che venivano dalla società italiana.»
Dicevano di combattere l’autoritarismo, ma cercarono di imporre a tutti le loro forme di lotta, i loro stili di vita e le loro idee politiche: «Il lavoratore» era scritto su un documento programmatico del Cub della Pirelli nel 1972, «deve concepire se stesso come produttore ed acquisire coscienza della sua funzione, deve aver coscienza di classe e diventare comunista, deve rendersi conto che la proprietà privata è un peso morto, è un ingombro che bisogna eliminare».
Dicevano di detestare la forma-partito, ma caddero quasi tutti nella tentazione di riprodurre in fotocopia l’organizzazione di quei partiti che volevano spazzare via. Uno degli esempi più eclatanti fu, nel 1973, la nomina di Adriano Sofri a segretario della «movimentista» Lotta continua. E fu proprio nel 1976 che Lotta continua, forse il più importante dei gruppi del Sessantotto, si sciolse.
Il 20 giugno c’erano state le elezioni politiche, e i risultati erano stati, per l’estrema sinistra, disastrosi. Democrazia proletaria, l’unica lista che avrebbe dovuto rappresentare gli eredi della contestazione del Sessantotto, aveva preso solo 557.000 voti, l’1,5 per cento, meno della metà di quanti sperava. E i radicali, pur entrando per la prima volta in Parlamento, non erano andati oltre l’1,1 per cento. Ma più che la constatazione della modestia della propria forza, a deprimere l’area della sinistra rivoluzionaria fu lo straordinario consenso elettorale ‑e quindi popolare- ancora una volta riscosso dalla Democrazia cristiana, che aveva ottenuto il 38,7 per cento, cioè il 3,7 per cento in più rispetto alle elezioni amministrative dell’anno precedente. Un risultato che smentiva la previsione, più volte espressa, di un ormai imminente crollo della Dc, e che costringeva a un rinvio sine die della rivoluzione. Certo: aveva guadagnato anche il Pci, in continua crescita, passando dal già rilevantissimo 33 per cento del 15 giugno 1975 al 34,4 per cento del 20 giugno 1976. Ma questo non era, per l’estrema sinistra, una consolazione. Anzi: come ricorda l’ex di Lotta continua Luigi Bobbio, «l’ulteriore rafforzamento del Pci non apre la strada a un’alternativa di potere alla Democrazia cristiana, ma prefigura piuttosto un processo di stabilizzazione giocato su due grossi poli convergenti. Il quadro che esce dal 20 giugno non è quello del “governo delle sinistre”; se mai, è quello del “compromesso storico”» (Storia di Lotta Continua). Lo smacco fu tale che Adriano Sofri parlò, al Comitato nazionale, di «sconfitta politica» e definì le previsioni elettorali di Lc «l’errore più clamoroso della nostra storia». Ancor più drastico fu Marco Boato, che lasciò intravedere l’ormai prossimo autoscioglimento: «Siamo a una svolta storica in cui si decide della vita e della morte di Lotta continua. Abbiamo sbagliato tutto. Un partito rivoluzionario che sbaglia tutto nella fase che ha definito storica e decisiva della lotta di classe nel nostro Paese non può permettersi di uscirne con qualche aggiustamento di tiro».
EUTANASIA DI LOTTA CONTINUA
La batosta elettorale di Democrazia proletaria non era l’unico grattacapo di Sofri e compagni. All’interno del movimento il dissenso cresceva, anche e soprattutto perché mal si tollerava la scimmiottatura dei partiti tradizionali, che come detto aveva snaturato l’originale spirito movimentista. E’ ancora Luigi Bobbio a ricordare: «Il partito… diviene il principale bersaglio dei militanti, non tanto per le scelte compiute, quanto per essersi costituito come autorità superiore e averli quindi trascinati in quell’avventurosa separazione. Il termine “espropriazione” è quello che ricorre di più nelle requisitorie, spesso cariche di recriminazioni, formulate dai compagni della base». E ad aggravare la situazione interna si aggiunse la questione delle donne e degli operai. Le prime ‑si era ormai in pieno clima femminista- da un anno avevano preso a riunirsi da sole e a praticare l’«autocoscienza». I secondi rimproveravano al nucleo dirigente di aver smarrito la «centralità operaia». Donne e operai si erano così posti alla testa della rivolta contro la linea dei vertici di Lc.
Fu in questo clima che si aprì a Rimini, il 31 ottobre 1976, il secondo congresso nazionale di Lotta continua, a cui parteciparono un migliaio di militanti. Invano Sofri cercò di ricompattare le forze. Donne e operai continuarono a riunirsi, anche durante il congresso, in assemblee separate. Sul banco degli imputati, la dirigenza di Lc. La compagna Vichi di Torino intervenne invitando gli operai «a mettersi in discussione a partire dal loro rapporto sessuale e dalla loro vita», e la compagna Laura, anche lei di Torino, dichiarò che «non è possibile nessuna alleanza in questo momento fra operai e donne». Il congresso finì senza alcun ricompattamento. Il giornale «Lotta continua» lo definì, il giorno dopo la chiusura, una «straordinaria esperienza politica e umana». Il titolo del giornale del 6 novembre 1976 fu: Apriamo ovunque le nostre contraddizioni. Portiamo ovunque la ricchezza del nostro congresso. Ma il destino di Lotta continua era segnato. Pur senza alcun atto ufficiale, il movimento si sciolse. Il comitato nazionale smise di riunirsi, gli organi dirigenti non vennero rinnovati, le federazioni furono abbandonate a se stesse. Rimase in vita il giornale, che continuò a uscire fino al 1982; si videro ancora, nei cortei, gli striscioni con la scritta «Lotta continua». Molti giovani continuarono a rivendicare la propria appartenenza a quel movimento. Ma il movimento, inteso come organizzazione, non c’era più. Molto si è discusso sul perché della fine di Lotta continua. Certo la struttura, da partito, era rifiutata da gran parte della base. Certo la questione femminista ebbe un peso rilevante. Ma il fatto che i vertici di Lc non fecero, dopo Rimini, alcun tentativo di salvare il movimento, e anzi lo lasciarono deliberatamente morire, dà credito alla versione secondo cui il vero motivo dell’autoscioglimento di Lotta continua sta nell’inquietudine di molti militanti che «spingevano» affinché si passasse decisamente alla lotta armata. Sofri, già da tempo drasticamente risoluto nel condannare la scelta delle Brigate rosse, cercò di frenare queste pulsioni, tentò di isolare coloro che chiedevano di trasformare Lc in un gruppo clandestino terroristico. Ma non ci riuscì. E allora sciolse il movimento. E’ una versione, questa, mai ufficializzata, e anzi smentita dai capi di Lc, che associano sempre la fine dei movimento alla «questione femminista». A dimostrare però che la spinta verso la lotta armata c’era, sta il fatto che gran parte dei componenti della nascente Prima linea veniva da Lotta continua.
PROLIFERA IL PARTITO ARMATO
Non era un problema solo di Lotta continua. Il partito armato stava facendo proseliti un po’ dappertutto, ed ebbe la sua parte nello sfaldamento dei vari movimenti. Pareva non avesse più senso, infatti, chiamarsi «gruppi rivoluzionari», distinguendosi dai partiti della sinistra tradizionale, e non fare la rivoluzione. Sembrava più logica una scelta netta: o di qua, con il Pci, o di là, con le Brigate rosse. E infatti, in quello stesso 1976 in cui i gruppi si sciolsero, crebbero sia il Pci che le azioni dei terroristi di sinistra.
Costoro avevano subito un duro colpo, all’inizio dell’anno, con la cattura (a Milano) di Renato Curcio e Nadia Mantovani. Ma avevano in quegli stessi mesi ingrossato le file, proprio attingendo nel grande mare dei «delusi» dai gruppi tipo Lotta continua. Fra le azioni più importanti compiute nel ’76, una serie di attentati alle fabbriche (il più grave fu forse l’incendio alla Fiat Mirafiori, 3 aprile, un miliardo di danni di allora), che indussero gli operai di molte aziende a trascorrere la Pasqua negli stabilimenti per organizzare dei «presidi volontari». E poi l’uccisione, ad opera di militanti dell’Autonomia che stavano per costituire Prima linea, del consigliere provinciale del Msi milanese Enrico Pedenovi (29 aprile); l’omicidio del procuratore generale di Genova Francesco Coco e dei due carabinieri della scorta, compiuto dalle Brigate rosse a Genova l’8 giugno; l’omicidio, il 1° settembre a Biella, del vicequestore Francesco Cusano, anche lui vittima delle Br; l’agguato dei Nap al capo del nucleo antiterrorismo del Lazio Alfonso Noce (a Roma, il 14 dicembre) che finì in una sparatoria in cui rimasero uccisi l’agente Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichitella; l’altra tragica sparatoria, il giorno dopo a Sesto San Giovanni, in cui il brigatista Walter Alasia uccise il vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega, prima di rimanere a sua volta fulminato dai poliziotti. Il partito armato ‑e in particolare le Br, decisamente passate sotto la guida di Mario Moretti- stava preparando il «salto di qualità» che lo avrebbe più volte portato, negli anni successivi, a mettere in ginocchio lo Stato.
BERLINGUER E IL COMUNISMO MODERATO
Proprio mentre i gruppi rivoluzionari dichiaravano la bancarotta e le Br diventavano sempre più efficienti, il Partito comunista si trovò vicino alla presa del potere come mai era stato in precedenza, e come mai più accadde in seguito. Le elezioni del 1975, oltre a far compiere al Pci un balzo di 6 punti e mezzo in percentuale (rispetto alle amministrative del 1970), avevano portato i comunisti al governo di Lombardia, Piemonte e Liguria, oltre che a quello di regioni già «rosse» come l’Emilia Romagna, la Toscana e l’Umbria. Non solo: tutte le grandi città italiane, ad eccezione di Palermo e Bari, erano passate sotto la guida di giunte di sinistra. A favorire questo grande balzo del Pci aveva contribuito in modo sensibile la linea politica del suo segretario, Enrico Berlinguer, che si era conquistato la benevolenza di una discreta parte dei ceti borghesi, rinnegando esplicitamente il socialismo reale e dichiarandosi disponibile a una collaborazione con i cattolici. Già nell’ottobre del 1973, con un articolo su «Rinascita», Berlinguer aveva proposto il «compromesso storico» fra le due forze popolari del Paese, quella della sinistra e quella appunto cattolica. Un’idea maturata dopo il colpo di Stato che in Cile aveva spazzato via il governo socialista di Salvador Allende: Berlinguer era convinto che il golpe era stato favorito dalla mancata unità dei partiti democratici. L’articolo su «Rinascita» si intitolava appunto Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. E a questa proposta di abbraccio con la Dc, Berlinguer fece seguire, insieme con i segretari dei partiti comunisti francese e spagnolo, la creazione dell’«eurocomunismo», ossia di una via occidentale al socialismo, nettamente diversa dalle spietate dittature dell’Est. Il documento che i segretari comunisti italiano e spagnolo firmarono insieme il 12 luglio 1975 era un’autentica apostasia del marxismo-leninismo.
Ma se in Italia parte della borghesia smise di associare il Pci allo spauracchio dell’Armata Rossa, negli Stati Uniti l’eurocomunismo non venne accolto bene. Anzi, fu ritenuto pericolosissimo e destabilizzante. Il 14 giugno 1976, a pochi giorni dalle elezioni politiche, il prestigioso settimanale americano «Time» pubblicò in copertina una foto di Berlinguer e il significativo titolo: Italia: la minaccia rossa. Berlinguer si diede subito da fare per tranquillizzare gli italiani, e il giorno dopo rilasciò a Giampaolo Pansa, sul «Corriere della Sera», un’intervista in cui si impegnava, in caso di vittoria elettorale, a mantenere l’Italia all’interno della Nato. «Mi sento più sicuro stando di qua» disse. Un’affermazione storica per il segretario di un partito comunista.
La tradizionale avversione degli italiani al comunismo rimaneva tuttavia molto forte, e se è vero che da un lato una certa parte della borghesia credette che il Pci fosse ormai un partito socialdemocratico, dall’altra si fece muro contro il «pericolo rosso». La Dc fu ritenuta da tutti la barriera più efficace, anzi la sola barriera possibile: e anche grazie alla campagna promossa dal laico Indro Montanelli («Queste non sono elezioni, sono un referendum: turiamoci il naso e votiamo Dc» scrisse sul «Giornale»), alla mobilitazione dei cattolici di Comunione e liberazione e al travaso di voti dall’estrema destra (il Msi perse un 3 per cento che affluì, evidentemente, alle liste democristiane), la Dc riuscì a contenere l’avanzata del Pci e a restare saldamente il partito di maggioranza relativa. Nonostante la sfida elettorale, subito dopo si aprì la stagione della collaborazione fra democristiani e comunisti, che culminò nei vari governi della «non sfiducia» e della «solidarietà nazionale»: esecutivi a guida Dc a cui il Pci diede un appoggio esterno.
ARRIVA L’AUTONOMIA
Dopo la fine dei gruppi organizzati la sinistra, come abbiamo visto, si era divisa in due: da una parte il Pci, ormai ben inserito nel potere grazie alla conquista di gran parte delle amministrazioni locali e alla collaborazione di governo con la Dc; dall’altra il partito armato. Ma la distanza fra Pci e Br era troppo grande, e in mezzo restava comunque un vuoto. Un vuoto in cui si infilò la cosiddetta autonomia, un’area molto complessa e in realtà spesso contigua alle formazioni terroristiche vere e proprie. Rispetto alle Br, l’autonomia non faceva un’esplicita scelta di lotta armata, non era costretta alla clandestinità e poteva agire alla luce del sole. Era però, come si diceva allora, «l’acqua dove nuotano i pesci»: l’ambiente, insomma, dove il partito armato poteva reclutare i suoi militanti e ottenere importanti appoggi e coperture. Secondo alcuni osservatori, l’incubatrice dell’autonomia fu l’occupazione della Fiat Mirafiori del 1973: sia perché sfuggì totalmente alla guida del sindacato e del Pci, sia perché a gestirla furono, più che i tradizionali operai Fiat emigrati dal Sud, giovani della «cintura» torinese protagonisti, cinque anni prima, del Sessantotto nelle scuole. «Le urla senza senso, senza più slogan, senza più minacce né promesse dei giovani operai con il fazzoletto rosso legato intorno alla fronte, i primi indiani metropolitani, quelle urla annunciavano che una nuova stagione si apriva per il movimento rivoluzionario in Italia. Una fase senza ideologie progressiste né fiducia nel socialismo, senza alcuna affezione per il sistema democratico, ma anche senza rispetto per i miti della rivoluzione proletaria, mostrava le sue prospettive. Fu in questo mutamento di scenario che prese forma il nuovo fenomeno politico-culturale dell’autonomia operaia» hanno scritto Nanni Balestrini e Primo Moroni. Un altro sintomo premonitore dello stile dell’autonomia furono forme di protesta tipo l’«autoriduzione» e gli «espropri proletari». L’autoriduzione nacque nell’agosto del 1974 su iniziativa di alcuni operai della Fiat Rivalta che, rifiutandosi di pagare le nuove tariffe degli autobus, spedirono alla società dei trasporti pubblici l’equivalente dei vecchi abbonamenti, e continuarono a usare i mezzi pubblici senza fare il biglietto. Dai pullman si passò all’autoriduzione delle bollette della luce e del telefono. Questa pratica si estese poi alle altre città, diventando spesso un puro pretesto per non pagare il biglietto: non solo sugli autobus, ma anche, ad esempio, al cinema, dove gruppi di estremisti assistevano alle prime visioni pagando 500 lire, e i gestori delle sale lasciavano correre temendo ritorsioni dai danni ben più gravi. Così come gli «espropri proletari» ai danni dei negozianti (qualcuno arrivò a chiamarli «riappropriazioni») furono in realtà autentici furti, o addirittura rapine quando compiuti con minacce e violenze.
Fare una mappa dell’area autonoma è ben più difficile che non fare quella dei gruppi nati dopo il 1968. Anzi, è un’impresa impossibile, essendo gli autonomi per loro stessa definizione sganciati da qualsiasi organizzazione. Si possono tuttavia, schematizzando, ricordare tre filoni. Il primo è quello cosiddetto «creativo», «spontaneo», alieno da ogni forma di gerarchia. Di questo filone, gli elementi più rappresentativi furono gli «indiani metropolitani», giovani che si dipingevano il viso, appunto, come i pellerossa, e che rifiutavano, fra le tante etichette, anche quella di essere «di sinistra». Il secondo filone è quello delle teste d’uovo: intellettuali che teorizzarono il nuovo messaggio, e che erano concentrati soprattutto all’Università di Padova e in una serie di librerie nelle maggiori città. Il terzo filone è quello che fa capo all’Autonomia operaia organizzata (con la A maiuscola; quando scriviamo autonomia con l’iniziale minuscola intendiamo invece tutta l’area che stava in mezzo fra Pci e Br; l’area, insomma, che comprende tutti e tre i filoni di cui stiamo parlando). L’Autonomia operaia organizzata conservò una linea leninista e militarista, esplicitamente favorevole alla cultura della violenza e all’organizzazione della «battaglia contro lo Stato». Questo terzo filone, strettamente legato al secondo, aveva come leader ex esponenti di Potere operaio, quali il docente universitario Toni Negri e Oreste Scalzone. A sua volta, l’Autonomia operaia organizzata aveva varie sfumature al suo interno, che si esprimevano in un’incontrollabile quantità di correnti, fra le quali ricordiamo i Comitati autonomi romani; i Comitati comunisti rivoluzionari; le Assemblee autonome operaie; i Cps, Collettivi politici studenteschi; i Collettivi autonomi, presenti nelle grandi città (famoso quello di via dei Volsci a Roma).
L’area dell’autonomia produsse anche una miriade di giornali: alcuni di fabbrica come «Senza Padroni» all’Alfa Romeo, «Lavoro Zero» a Porto Marghera, «Mirafiori Rossa» a Torino; e altri di maggiore diffusione come «Aut Aut», «Primo Maggio», «Rosso» e «Senza Tregua» a Milano, «Potere Operaio per il Comunismo» (poi trasformato in «Autonomia») in Veneto, «Rivolta di Classe» (poi diventato «I Volsci»), «Metropoli» e «Pre-print» a Roma. Quello che ebbe maggiore fortuna fu «A/traverso», fatto a Bologna dal gruppo di Francesco Berardi detto «Bifo», che nel ’77 arriverà alle 20.000 copie. Questa nascente area dell’autonomia si poneva in forte contrasto con il Pci, cui rimproverava di essere ormai «sistema». La sinistra si spaccò fra «garantiti» e «non garantiti», cioè fra coloro che nelle fabbriche potevano contare sull’«ombrello» del Pci e i giovani che, viceversa, non trovavano lavoro o perdevano quello che avevano appena trovato. Arrivato ormai nel «palazzo», il Pci non volle, o non poté, cavalcare la protesta dei «non garantiti», e anzi passò al pugno di ferro contro questi nuovi contestatori: ad esempio, schierandosi a favore del rinnovo di quella legge Reale sull’ordine pubblico contro la quale aveva invece nel 1975 votato «no».
Lo scontro fra autonomi e Pci esploderà drammaticamente nel 1977, e risulterà, alla fine, ancora più grave e più violento di quello fra lo stesso Partito comunista e i sessantottini.
XIV – IL SETTANTASETTE
Mentre sono ormai consuete, alle ricorrenze canoniche, le rievocazioni del Sessantotto, quasi mai si ricorda il movimento del 1977.
Eppure, quello fu l’anno più burrascoso del decennio. Le occupazioni delle scuole e delle università tornarono a un ritmo molto vicino a quello del 1968; e, rispetto al 1968, le manifestazioni di piazza furono molto più violente: basti pensare che, alla fine dell’anno, ci furono quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati e decine di morti e feriti. Autonomi e indiani metropolitani si sentivano tagliati fuori da tutto e da tutti. Non solo dal Pci, che aveva coniato lo slogan «la classe operaia si fa Stato» e che poteva offrire ai suoi iscritti la tutela del posto di lavoro; ma anche dai sessantottini, visti come patetici reduci che s’appuntavano sul petto medaglie di una rivoluzione mai fatta, e che ormai beneficiavano a loro volta del nuovo sistema. All’Università Statale di Milano il Movimento lavoratori per il socialismo, nato dalle ceneri del Movimento studentesco, aveva acquisito posizioni importanti in termini di potere ma anche di posti di lavoro, essendosi assicurata la gestione della libreria e della cooperativa universitaria. E’ solo un esempio, per far capire come i «settantasettini» si sentissero dimenticati e traditi non solo dallo Stato, ma anche da quella sinistra ‑Pci e gruppi del ’68- che aveva promesso il cambiamento e che si era invece limitata, ai loro occhi, a guadagnare posizioni all’interno dell’odiato «regime». Per questo la loro rabbia esplose violentissima.
LA CACCIATA DI LAMA
La recrudescenza degli scontri di piazza del ’77 aveva avuto un prologo il 7 dicembre del ’76 a Milano, quando i Circoli proletari giovanili e i Circoli giovanili (il lettore non pensi a un errore: erano proprio due formazioni diverse) avevano boicottato la tradizionale «prima» della Scala. Come otto anni prima, si voleva contestare lo spreco di denaro dell’alta borghesia milanese, che in piena crisi occupazionale si permetteva centomila lire ‑di allora- per un biglietto dello spettacolo di inizio stagione (questa volta era di scena l’Otello), e chissà quant’altro denaro per le spese di sartoria. Questa volta, però, i contestatori di Sant’Ambrogio non si limitarono al tutto sommato innocuo lancio di uova di Capanna e compagni; questa volta fu una guerriglia, che impegnò cinquemila fra poliziotti e carabinieri, e che si concluse con 250 fermati, 30 arrestati, 21 feriti e decine di tram e di automobili incendiate.
Nel ’77 la tensione si spostò però soprattutto a Roma e a Bologna. A Roma, il primo febbraio era stata occupata l’Università. Il pretesto era una circolare del ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti, democristiano, che vietava agli studenti universitari di sostenere più esami nella stessa materia. Che di un pretesto si trattasse, lo dimostra il fatto che l’occupazione continuò anche dopo il ritiro della circolare da parte dello stesso Malfatti. Gli occupanti non erano però uniti. Pci, Democrazia proletaria e Avanguardia operaia contestavano la linea dell’Autonomia, protagonista di scontri in città con estremisti di destra e polizia. Ma era proprio l’Autonomia ad avere in pugno la gestione dell’occupazione. Il 9 febbraio, il movimento del ’77 fece il suo esordio con un corteo, per le strade di Roma, di trentamila studenti. «Il Manifesto» criticò («Gli autonomi sono la faccia più negativa, e vecchia, della nuova sinistra»), la Cgil e il Pci organizzarono un comizio di Luciano Lama, per il giorno 17, all’interno dell’Università, nel tentativo di riprendere in mano la situazione. Ma Lama, il 17, non riuscì praticamente a parlare. Gli autonomi glielo impedirono, ingaggiando una furiosa battaglia con il servizio d’ordine del Pci, al grido «Via, via, la nuova polizia». Alla fine di scontri violentissimi, con decine e decine di feriti, i comunisti dovettero abbandonare l’Università. La manovra del Pci era fallita, gli autonomi si erano rivelati «ingestibili»: per i vertici di Botteghe Oscure, erano «i nuovi squadristi». La cacciata di Lama dall’Università aveva così dato vigore al movimento degli autonomi, che alla fine di febbraio si era già diffuso in molte città italiane, in particolare a Padova, dove l’Università era stata occupata. Il 5 marzo il movimento diede una prova di forza scatenando per le strade di Roma quattro ore di guerriglia, per protesta contro la condanna di Fabrizio Panzieri per l’omicidio dello studente missino Mikis Mantakas. I raid degli estremisti furono coordinati da un’emittente privata, Radio Città Futura, che inaugurò così una strategia destinata a più d’una replica nel corso dell’anno. Grazie alla radio, gli autonomi sapevano dov’era la polizia, dove potevano raggiungere i compagni, dove conveniva organizzare barricate e mettere fuori uso i semafori.
GUERRIGLIA A BOLOGNA
E guerriglia ancora più grave fu quella scoppiata l’11 marzo a Bologna. All’istituto di anatomia dell’Università era in programma un’assemblea dei cattolici di Comunione e liberazione. Fatto assolutamente intollerabile, per un movimento che si riempiva la bocca con la parola «democrazia» ma che non ammetteva altre manifestazioni di pensiero al di fuori della propria. E infatti i ciellini furono assediati e costretti a barricarsi all’interno dell’istituto. Ancora oggi circola la versione secondo cui gli incidenti sarebbero scoppiati perché i ciellini avrebbero malmenato alcuni studenti del movimento che si erano semplicemente presentati all’ingresso dell’aula dov’era in corso l’assemblea. Ma per male che si possa o si voglia dire dei ciellini, non s’è mai sentito di pestaggi da loro compiuti. Valga il volantino diffuso lo stesso pomeriggio dal Pci e dalla Fgci, che parlava di «un’inammissibile decisione di un gruppo della cosiddetta Autonomia di impedire l’assemblea di CL». E comunque la realtà fu quella: i ciellini barricati in un’aula, e fuori gli studenti del movimento, armati e ben più numerosi, a sferrare l’attacco. Inevitabile l’intervento dei carabinieri, contro i quali gli autonomi lanciarono parecchie molotov, a dimostrazione del fatto che all’Università non erano giunti impreparati. La battaglia si allargò, e alla fine negli scontri rimase ucciso il giovane di Lotta continua Francesco Lorusso. Cominciò così il «sacco» del centro di Bologna. Gli autonomi, che oltre alle molotov avevano già le famigerate pistole «P38», ingaggiarono sparatorie ovunque; distrussero decine di negozi, innalzarono barricate, appiccarono incendi. Fu occupata la stazione ferroviaria; furono assaltati due commissariati di polizia, la redazione del «Resto del Carlino» e la sede provinciale della Dc; fu devastata la libreria di CL «Terra Promessa». I guerriglieri si sfamarono, ed evidentemente non male, al «Cantunzein», uno dei più noti ristoranti della città, le cui riserve furono ripulite con un «esproprio» proletario. Anche qui gli incidenti furono coordinati via etere: e la magistratura ordinò l’arresto di Francesco Berardi detto «Bifo», il ventottenne insegnante di lettere animatore di Radio Alice. Era stato lui, attraverso i microfoni, a guidare assalti e distruzioni, sosteneva la procura della Repubblica. Radio Alice venne chiusa, ma Bifo riuscì a sfuggire all’arresto e a rifugiarsi a Parigi.
Il saccheggio di Bologna durò tre giorni, e per ristabilire l’ordine dovettero intervenire ‑cosa mai successa neppure nel ’68- i mezzi blindati, con tremila uomini a presidiare il centro. Alla fine di quei tre giorni di guerra si contarono 131 arresti. Fu uno smacco storico per il Pci, che vantava la «sua» Bologna come fiore all’occhiello, come dimostrazione di città comunista, efficiente, ordinata e felice. Il 12 marzo, giorno successivo alla morte di Lorusso, anche Roma divenne un campo di battaglia: gli autonomi saccheggiarono due armerie e partirono all’assalto della città. Attaccarono l’ambasciata cilena in Vaticano, la sede del quotidiano democristiano «Il Popolo», la caserma dei carabinieri di piazza del Popolo, la sede della Gulf, una concessionaria della Fiat, alcune banche. Centinaia di vetrine di negozi vennero abbattute. Sparatorie e incendi si protrassero fino a notte. E, nello stesso 12 marzo, incidenti gravi scoppiarono anche a Napoli, Padova, Firenze, Palermo e Milano, dove a colpi di P38 furono mandate in frantumi le vetrate dell’Assolombarda, la sede regionale degli industriali.
UN PROBLEMA PER LA SINISTRA
Il clima era tale che il 16 marzo l’Università di Roma, quando riaprì, restò presidiata dalla polizia. L’attività poteva comunque riprendere regolarmente. Ma gli studenti del movimento vollero imporre le loro condizioni: immediato allontanamento degli agenti, università aperta dalle 8 alle 22, libera scelta dell’argomento da portare all’esame e 27 trentesimi come voto minimo garantito. Di fronte allo scontato «no» che fu opposto a queste richieste, gli autonomi rioccuparono l’Università. Il 21 aprile la polizia intervenne e riuscì a sgomberarla, in mattinata, senza particolari incidenti. Nel pomeriggio, però, gli autonomi passarono al contrattacco. Assaltarono l’Università armati di molotov e di P38, uccisero un agente di polizia ‑Settimio Passamonti, ventitré anni- e ne ferirono gravemente altri due. Il giorno dopo, vista l’eccezionale gravità della situazione dell’ordine pubblico, il governo proibì ogni manifestazione pubblica, a Roma, per un mese. Incuranti del divieto, i radicali organizzarono proprio a Roma, per il 12 maggio, una manifestazione pubblica per il terzo anniversario della vittoria nel referendum sul divorzio. La polizia intervenne e furono altri scontri, fino a tarda sera: e a cadere, uccisa da un colpo di pistola sparato da un agente, questa volta fu una dimostrante, Giorgiana Masi, vent’anni, simpatizzante radicale.
Due giorni dopo a Milano, durante un corteo di protesta per l’arresto di due avvocati di Soccorso rosso, gli autonomi uccisero in via De Amicis il brigadiere di polizia Antonino Custrà. Fu in quell’occasione che un dilettante scattò la fotografia divenuta l’immagine-simbolo degli anni di piombo: un giovane autonomo, con il volto coperto, sparava impugnando la pistola con entrambe le mani. L’Autonomia era ormai un problema grave anche per i gruppi alla sinistra del Pci. «Di Autonomia operaia e non solo delle sue violenze ultime occorre liberarsi» scrisse Rossana Rossanda sul «Manifesto» del 17 maggio. E Luca Cafiero, segretario nazionale del Mls: «Noi toglieremo le pistole agli autonomi e gliele faremo ingoiare».
AL BAR SI MUORE
Che il 1977 sia stato un anno di guerra lo testimoniano, oltre al numero degli scontri di piazza, anche le azioni delle Brigate rosse e delle altre formazioni clandestine, che in quell’anno si erano fatte ancor più efficienti e spietate. Il 28 aprile, a Torino, le Br uccisero il presidente dell’Ordine degli avvocati Fulvio Croce: un omicidio-avvertimento nel più classico stile mafioso, perché Croce avrebbe dovuto designare i difensori d’ufficio al processo contro Curcio e altri terroristi; si volle in questo modo intimidire avvocati e giudici popolari, e infatti questi ultimi, il 31 maggio, rifiutarono l’incarico, provocando il rinvio del processo. Anche i giornalisti finirono nel mirino delle Br. Nel mese di giugno ne furono feriti alle gambe dodici, fra cui Indro Montanelli, il direttore del Tg 1 Emilio Rossi e il vicedirettore del «Secolo XIX» di Genova Vittorio Bruno. E il 16 novembre, a Torino, ancora le Br uccisero il vicedirettore della «Stampa» Carlo Casalegno, definito un «servo dello Stato». Quanto alle fabbriche, i dirigenti e i capireparto «gambizzati» in quell’anno furono decine. Ma per dare un’idea di quanto questa guerra fosse una minaccia costante per tutti, si pensi che il pericolo poteva raggiungere chiunque e ovunque. Come dimostrano la morte di Roberto Crescenzio e i sette feriti del bar di largo Porto di Classe.
L’assalto al bar di largo Porto di Classe a Milano, zona Città Studi, fu opera di commando di Avanguardia operaia e dei Caf, i comitati antifascisti. Scattò il 31 marzo 1976, alle sei di sera. Il bar era ritenuto un covo di «neri». Quella sera, però, di fascisti all’interno del locale non ce n’era neanche uno. Gli estremisti ‑in buona parte erano gli stessi che un anno prima avevano ucciso Ramelli- incendiarono il bar lanciando bottiglie molotov, e sprangarono gli avventori in fuga. In sette rimasero feriti in modo grave, e tre di loro portano ancora oggi i segni del pestaggio. Un atto tanto vile da provocare, nei giorni seguenti, una discussione interna che fu uno dei primi sintomi della crisi di Avanguardia operaia. Massimo Bogni, uno dei responsabili dell’assalto, in seguito convertitosi al cattolicesimo e sinceramente pentito (si presentò spontaneamente al giudice istruttore), ha raccontato al processo, celebrato nell’87: «Emulavamo gli eroi, Garibaldi e Guevara, e poi eravamo vigliacchi».
Anche Roberto Crescenzio non era un fascista. Aveva ventidue anni, ed era un perito chimico disoccupato. Ebbe la tragica sfortuna di trovarsi, il l° ottobre 1977, al bar l’«Angelo azzurro» di Torino. Quel giorno Torino, come Roma e altre città italiane, fu sconvolta da nuovi, furibondi scontri fra la polizia e i giovani di estrema sinistra, inferociti per l’uccisione avvenuta il giorno prima a Roma, ad opera di neofascisti, del militante di Lotta continua Walter Rossi. A un certo punto il corteo passò vicino all’«Angelo azzurro» e qualcuno riferì di aver visto, al liceo Gioberti, una scritta secondo cui quel bar era un punto di ritrovo dei fascisti. Tanto bastò per scatenare l’attacco.
Il locale fu incendiato e gli avventori costretti a fuggire all’esterno. Un bimbo di tre anni e la sua baby-sitter sedicenne rimasero semiasfissiati e furono portati in ospedale. Roberto Crescenzio restò intrappolato nella toilette. Quando, con le ultime energie, riuscì a spalancare l’uscio, ad attraversare la sala del bar, a sfondare una vetrata e a gettarsi sull’asfalto, all’aperto, il suo corpo era ormai devastato dal fuoco. Ed era troppo tardi.
Anche in questo caso la morte di un innocente (ammesso che altri possano essere considerati colpevoli) provocò una crisi all’interno del movimento. Proprio pochi giorni dopo il rogo dell’«Angelo azzurro» in corso Valdocco qualcuno tracciò su un muro una grande scritta: «E’ un momentaccio». Un piccolo, ma non insignificante indizio di un travaglio che i più sensibili cominciavano ad avvertire, e che avrebbe portato, di lì a poco, a un ripensamento da parte di tutti. In fondo non solo la gente comune, ma anche la maggioranza dei giovani che andavano in corteo cominciava a essere stanca di tanto sangue e di tanti lutti.
GLI INTELLETTUALI E LA REPRESSIONE
Ma, contrariamente alla gente comune, gli intellettuali ‑o almeno certi intellettuali- rimanevano convinti che tutta quella violenza fosse frutto della repressione organizzata da un sistema che andava sempre più assumendo la sostanza di una nuova dittatura. Così pensavano, ad esempio, Nanni Balestrini ed Elvio Facchinelli, i quali chiesero, polemicamente, che un padiglione della Biennale di Venezia venisse riservato al dissenso in Italia. E altri uomini di cultura, fra cui Leonardo Sciascia, si mantennero in una posizione che il comunista Giorgio Amendola, con un duro articolo sull’«Unità», definì ambigua. Ma fu da Parigi, dove l’intellighenzia italiana cerca solitamente la propria consacrazione, che venne l’attacco più duro contro il nuovo «regime» Dc-Pci.
L’8 luglio, proprio a Parigi, era stato arrestato Bifo, l’animatore di Radio Alice e delle riviste «A/traverso» e «Zut», accusato, come abbiamo visto, di avere incitato e promosso, via radio, gli incidenti dell’11 marzo a Bologna («Ammazzate, ammazzate, abbiamo bisogno di cadaveri», una delle frasi che gli furono contestate). A Parigi, dov’era scappato per sottrarsi al mandato di cattura firmato dal tribunale di Bologna, Bifo aveva trovato alloggio nientemeno che a casa del professor Felix Guattari, lo psicanalista direttore della rivista «Recherches» e autore, con il filosofo Gilles Deleuze, dell’Anti-Edipo.
L’8 luglio, come detto, fu arrestato. Poco importava che solo tre giorni dopo le autorità francesi l’avessero rimesso in libertà, negando l’estradizione alla giustizia italiana e imponendo all’imputato l’unico vincolo della firma da apporre, ogni quindici giorni, su un registro al palazzo della prefettura di polizia di Parigi. Il mandato di cattura contro Bifo convinse un gruppo di intellettuali francesi a inviare a Belgrado, dov’era in corso una conferenza Est-Ovest, un «appello contro la repressione in Italia». «Noi vogliamo attirare l’attenzione» era scritto nell’appello «sui gravi avvenimenti che si svolgono attualmente in Italia e, più particolarmente, sulla repressione che si sta abbattendo sui militanti operai e sui dissidenti intellettuali in lotta contro il compromesso storico. «In queste condizioni» proseguiva l’appello «che vuol dire oggi, in Italia, “compromesso storico”? Il “socialismo dal volto umano” ha, negli ultimi mesi, svelato il suo vero aspetto: da un lato sviluppo di un sistema di controllo repressivo su una classe operaia e un proletariato giovanile che rifiutano di pagare il prezzo della crisi; dall’altro, progetto di spartizione dello Stato con la Dc (banche ed esercito alla Dc; polizia, controllo sociale e territoriale al Pci) per mezzo di un reale partito “unico”; è contro questo stato di fatto che si sono ribellati in questi ultimi mesi i giovani proletari e i dissidenti intellettuali. (…)
«I sottoscritti» terminava poi l’appello «esigono la liberazione immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale proclamando la loro solidarietà con tutti i dissidenti attualmente sotto inchiesta.» Seguivano le firme di Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Felix Guattari, Gilles Deleuze, Roland Barthes, Philippe Sollers, François Chatelet, Claude Mauriac, Pierre Clementi, Maria Antonietta Macciocchi e in seguito anche Dario Fo e altre personalità della cultura e dello spettacolo. L’appello fu commentato molto duramente in Italia. Il «Corriere della Sera» osservò: «Immaginare [alla Biennale di Venezia, n.d.a.] un padiglione del dissenso italiano, magari a due passi da quello sovietico, è assurdo. Mandar petizioni alla conferenza di Belgrado, dove il problema maggiore è quello di ridurre il numero degli internati negli asili psichiatrici e di impedire che l’Urss metta a tacere una volta per sempre la voce di Sacharov, rivela una miopia libresca che non giova a chi se ne fa promotore». Ma anche i giornali comunisti, «l’Unità» e «Paese Sera», furono durissimi; e pure «il Manifesto» ebbe parole severe. Il fatto è che il Pci, entrando nella gestione dello Stato, aveva dovuto per forza di cose abbassare la voce della protesta, moderarne i toni, distinguere fra ciò che era possibile conquistare subito e ciò che andava rinviato e atteso con pazienza. E alla sua sinistra s’era creato lo spazio per rivendicazioni libertarie e utopistiche.
IL CONVEGNO DI BOLOGNA
Proprio Guattari e gli altri intellettuali, comunque, erano riusciti a dare il la a quello che si rivelò poi l’ultimo grande avvenimento della stagione della contestazione: il convegno di Bologna sulla repressione. Il 23, 24 e 25 settembre nel capoluogo emiliano calarono chi dice cento, chi dice cinquanta, chi dice venticinquemila giovani provenienti da tutta Italia e in piccola parte anche dall’estero. C’erano ovviamente gli autonomi e gli indiani metropolitani; ma anche ciò che restava dei gruppi organizzati. E non mancavano ‑lo accerteranno poi diverse inchieste giudiziarie- «osservatori» delle Br e di altre formazioni, venuti a caccia di nuove reclute. Il Pci accettò la sfida: «Bologna è la città più libera del mondo» disse il sindaco comunista Renato Zangheri. Ma è ovvio che la paura di una replica della guerriglia di marzo era enorme. Proprio in quei giorni, fra l’altro, Berlinguer gettò benzina sul fuoco definendo gli autonomi «poveri untorelli».
Bologna fu invasa anche da polizia e carabinieri. Ma non ci fu, contrariamente ai timori, alcun incidente. I tre giorni trascorsero fra bivacchi e spettacoli nelle piazze e le assemblee al Palazzetto dello Sport. Ecco, le uniche violenze furono proprio lì dentro, al Palazzetto dello Sport, dove si trovarono a convivere decine di posizioni diverse, a volte radicalmente diverse: dall’ideologia ancora impregnata di marxismo-leninismo dei vecchi gruppi alla tematica del «rifiuto del lavoro» degli autonomi e degli indiani metropolitani. Divergenze che si manifestarono spesso con botte da orbi, a colpi di sedia in testa, per strapparsi il microfono. Alla fine, l’Autonomia operaia organizzata riuscì a prendere in mano il controllo dell’assemblea, dalla quale furono espulsi, nell’ordine, prima il Mls, poi Avanguardia operaia e infine Lotta continua.
Tutti quanti, poi, si ritrovarono insieme nel grande corteo (trentacinquemila persone, secondo la stima della questura) che il giorno 25 concluse il convegno. C’erano tutti, e quelli dei gruppi tentarono, in realtà senza riuscirci troppo, di tenere gli autonomi al centro del corteo, per controllarli meglio. Comunque, non ci furono incidenti. E gli stessi slogan urlati in quell’occasione mostrarono l’eterogeneità del corteo. C’erano quelli che agitavano le mani con le dita a pistola e gridavano «Con la P38 / ti spunta un foro in bocca», «Lotta armata / per la rivoluzione», «Per il comunismo / per la rivoluzione», «Carabiniere, basco nero / il tuo posto è al cimitero». Quelli che cercavano la satira: «Carabiniere levati il cappello / e fumati con noi uno spinello». Le femministe che pensavano soprattutto alle proprie rivendicazioni: «Nelle case e nelle galere / siamo sempre prigioniere». Gli omosessuali che avevano trovato la formula per vincere la rivoluzione: «Coito anale / abbatte il capitale».
Nonostante la straordinaria massa numerica, il convegno di Bologna non rappresentò una vittoria del movimento, ma una sconfitta. L’ultima sconfitta, quella decisiva. Il movimento aveva radunato centinaia di voci di rifiuto, di dissenso, di rivolta, ma non era riuscito a coagularle. Era emersa, in modo ancor più netto che in passato, l’impossibilità di un’azione unitaria. I nouveaux philosophes francesi che erano venuti a cavalcare la rivolta fecero la misera figura degli opportunisti, e non trovarono alcun seguito fra quei giovani che avevano cercato di blandire. Anche l’intervento che Bifo aveva inviato dalla sua latitanza di Parigi, e che fu letto durante l’assemblea al Palasport, venne sonoramente fischiato. Privo di una guida, privo di unità ma ancor più privo di fondamenta veramente solide, il movimento si sciolse. E il Sessantotto finì veramente lì, quel 25 settembre 1977.
EPILOGO
S’è detto che, contrariamente ai moti del 1968, quelli del 1977 raramente hanno diritto di cittadinanza nelle rievocazioni e negli stessi libri di storia. Forse, la differenza di attenzione è motivata dal fatto che il primo fu un fenomeno mondiale, e il secondo quasi esclusivamente italiano, e come tale meno importante. Ma forse c’è anche, da parte di molti, una sorta di tentativo di rimozione. Il movimento del 1977 non ha goduto ‑a parte le snobistiche prese di posizione di certi intellettuali- della benevolenza e degli ammiccamenti che erano stati elargiti, nove anni prima, ai sessantottini; i suoi protagonisti erano dei «veri» proletari, e non figli della borghesia come furono, nella stragrande maggioranza, gli universitari del ’68; per certi versi la protesta del ’77 era, come vedremo, più giustificata; e a cavalcarla non c’era più, non poteva più esserci quel Pci ormai entrato nel Palazzo, e ben più risoluto nel chiedere le maniere forti contro i «sediziosi» di quanto non fossero stati, in precedenza, i vari presidenti del Consiglio e ministri democristiani.
Gli autonomi e gli indiani metropolitani del 1977 vengono rimossi anche perché la loro devastante violenza, in molti casi palesemente complice del peggiore brigatismo, è un fantasma ingombrante per una sinistra che prima ha predicato la lotta di classe e la rivoluzione (chi stando nel partito, chi stando nei salotti) e poi ha detto che la rivoluzione non andava fatta più (chi perché ormai arrivato dentro il sistema, chi perché ancora ben inserito nei salotti). Per buona parte della sinistra, gli autonomi e gli indiani metropolitani sono quindi figli, o nipoti, con cui non si vuole avere nulla a che fare, e che è meglio disconoscere. E non è un caso che si tenti sempre di scindere i due fenomeni, e dire che il Sessantotto è una cosa, il Settantasette un’altra. Pur nelle loro differenze, le due proteste sono invece strettamente legate fra loro, anzi sono l’inizio e la fine del medesimo avvenimento. Come ha scritto Toni Negri: “In Italia il ’77 è la seconda fase del ’68. (…). Il ’77 è l’ultima data dentro la quale questo processo [quello iniziato nel ’68, n.d.a.] viene complendosi, un processo perciò di rottura ma soprattutto di continuità, work in progress”.
Del Sessantotto, i «settantasettini» hanno pagato gli errori più evidenti: se Capanna e soci avevano trovato una scuola vecchia e imbalsamata, loro ne hanno trovata una inesistente, trasformata grazie alla logica tutta sessantottina del «sei politico» e degli esami di gruppo in una fabbrica di disoccupati. Posti di fronte a una crisi economica più grave di quella di nove anni prima, i giovani proletari del 1977 faticavano a trovare lavoro, e si accorgevano che nemmeno impegnandosi a fondo in un’università ormai a pezzi potevano sperare di emanciparsi. Ma c’è un altro motivo ‑più profondo, anche se forse meno evidente- per cui i giovani del 1977, ne siano o no consapevoli, sono stati i veri «fregati» dal Sessantotto. Del Sessantotto hanno infatti ereditato la sconfitta più grave, e cioè il nulla con cui si cercò di colmare un vuoto esistanziale. A una generazione che non si accontentava degli idoli offerti dal mondo borghese ‑una «posizione», una bella macchina, un’amante- il Sessantotto ha offerto altri idoli, non meno fallaci.
Il movimento del 1977 cercò, pateticamente, di accreditarsi come gioioso, ironico, creativo, traboccante di allegria, e si inventò la retorica delle «feste» quale arma contro l’alienazione. In realtà il giovane del ’77 ‑nonostante la regia delle solite teste d’uovo marxiste-leniniste- nei cortei non urlava contro lo Stato o contro il capitalismo, e neanche contro il compromesso storico, ma, più tragicamente, contro la sua noia e la sua disperazione. Si leggano le molte lettere giunte in quell’anno a quella specie di confessionale pubblico che era diventato il quotidiano «Lotta continua». In una di queste lettere, pubblicata il 29 ottobre 1977 e firmata «Antonella, una quattordicenne stanca di vivere», è scritto: «Sono arrivata al punto di non poter più uscire da questa tremenda sensazione quale è la solitudine. Questo mi ha fatto pensare al suicidio, ma forse ho paura di aver paura di morire. Personalmente lotterò finché questa mia lunga vita non si fermerà. Saluti rivoluzionari».
Ha scritto allora Mino Monicelli (L’ultrasinistra in Italia): «La nuova etica purtroppo non è nata; e poiché quella vecchia, dello studio, del lavoro, della famiglia, della militanza è sempre più rifiutata, passa solo l’etica della morte. Siccome ‘la vita non ha alcun valore e non me ne frega niente’ si è disposti anche a rischiarla. Questa è l’elaborazione teorica che oggi esprimono settori importanti del movimento: una specie di etica del negativo che coinvolge, in modo più o meno serio, molti giovani, dalla base della Fgci all’Autonomia». Non è un caso se i giovani eroinomani siano passati, in Italia, dai diecimila del 1976 ai settantamila del 1978. Non è un caso se fu proprio in quel 1977 che nacquero, prima in Inghilterra e poi un pò ovunque, quei movimenti dei «punk», dei «dark», degli «skin» che (fra l’altro con una singolare liturgia funerea, evidentissima già nell’abbigliamento e nei simboli) incarnano il disagio sprofondando nel più totale nichilismo.
Passato il convegno sulla repressione di Bologna, il movimento del ’77 si dissolverà. Dopo di che, resterà solo la lotta armata di un manipolo di uomini che continueranno a credere nella rivoluzione. Ma nelle strade e nelle piazze, più niente. E i ventenni del 1968 saranno i quarantenni che gestiranno, negli anni Ottanta, la più spietatamente egoistica ed edonistica delle società, quella del «reaganismo» e dello «yuppismo» rampante. Una contraddizione? Del resto, l’eredità del Sessantotto pare tutta contraddire le attese di chi fu protagonista di quella protesta. Il Sessantotto ‑parliamo del nocciolo, dell’essenza dell’ideologia del Sessantotto- voleva spazzare via il capitalismo ed edificare un uomo nuovo e una società giusta ed egualitaria. Voleva, con la rivoluzione sessuale, mettere finalmente sullo stesso piano i rapporti fra uomo e donna. Voleva, rivendicando il diritto di ciascuno di fare ciò che vuole purché non danneggi gli altri, portare finalmente alla felicità una gioventù che si sentiva sgomenta di fronte alla prospettiva di una vita borghese. Ma per ottenere tutto questo ha sbaraccato quei residui valori tradizionali che, forse, erano proprio l’ultimo freno allo scatenamento della parte peggiore del capitalismo.
La messa in liquidazione di una certa religiosità, di un prevalere del trascendente sul materiale e, non ultimo, di un certo senso della parsimonia e della rinuncia, hanno consentito l’esplosione del consumismo più sfrenato. Il crollo di quelli che venivano chiamati «tabù sessuali» ha portato a un’espansione senza precedenti del mercato della pornografia e a un’impennata dei reati di stupro, cioè a quanto di meno rispettoso della dignità della donna. La caduta di quel saggio senso di autodifesa che veniva considerato una barriera contro il proprio piacere, ha indotto una generazione disperatamente alla ricerca della felicità a cadere nella schiavitù della droga.
Sembra insomma che ogni speranza del Sessantotto si sia rovesciata nel suo contrario. Ma questo, a ben pensarci, è stato il destino di tutti i tentativi dell’uomo di stabilire lui cosa sia il bene e cosa sia il male, e di costruire in terra il suo paradiso. Tentativi di cui la storia è piena, e che sono sempre, misteriosamente ma implacabilmente, falliti.
Da Storia del Sessantotto, Rizzoli, Milano 1994