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Clau­dio Lolli

Mol­la­te le mena­te
e mena­te­ne l’autore

«L’e­clis­se del­la can­zo­ne», mi ver­reb­be da dire, se è leci­to che una cosa così ter­rac­quea (o ter­ra-ter­ra) come la can­zo­ne ven­ga para­go­na­ta al dio.
Voglio sem­pli­ce­men­te dire che, se fino a qual­che tem­po fa, la can­zo­ne tro­va­va nel­la sua imme­dia­ta roz­zez­za (sem­pre equi­vo­ca) una pra­ti­ci­tà uti­le per urgen­za, oggi vive (o nascon­de) la con­trad­di­zio­ne di mobi­li­ta­re (a paga­men­to) buo­na fet­ta del­le mas­se gio­va­ni­li (e del­le mas­se-medie) sen­za ave­re nien­te da dire. Oppu­re (che è lo stes­so) dicen­do tut­to in un modo tal­men­te spu­do­ra­to da pri­var­si del­l’u­ni­ca par­ven­za di fun­zio­ne che potreb­be ave­re: l’i­nu­ti­li­tà.
L’oc­chio sto­ri­co dovreb­be far­ci capi­re che il lan­cia­to­re di mes­sag­gi, il can­tau­to­re, ha ere­di­ta­to con fur­bi­zia, maga­ri incon­sa­pe­vo­le, il biso­gno di imma­tu­ri­tà del­l’a­scol­to, ha ere­di­ta­to il popu­li­smo del can­to (di)spiegato, ha ere­di­ta­to la medio­cri­tà del mae­stro di musi­ca e del­l’ar­mo­nia pasco­lia­na, ha ere­di­ta­to infi­ne il suc­ces­so com­mer­cia­le del divo. Ed io non vor­rei che que­sto neces­sa­rio tra­va­glio sfo­cias­se inve­ce che in una sco­mu­ni­ca, in una rin­no­va­ta inve­sti­tu­ra da par­te di chi è nuo­vo alla sce­na poli­ti­ca, e non ha biso­gno di bat­ti­to­ri ne, appun­to, dilan­cia­to­ri.
Non è, natu­ral­men­te, auto­le­sio­ni­smo, ma sem­mai autoi­ro­nia: in ogni caso non cre­do né nel­l’in­ti­mi­smo cre­pu­sco­la­re del­la paro­la che più è tri­ta più è «sen­ti­ta», cioè nel pesca­re nel­la memo­ria come fon­te di miti dol­cia­stri («basta con la can­zo­ne con­so­la­to­ria»), né nel­l’im­pe­gno social­de­mo­cra­ti­co, da fun­zio­na­rio, di chi dice e spie­ga, e cer­ca di ven­de­re il suo «world in pro­gress» (con le con­trad­di­zio­ni annes­se e inter­cam­bia­bi­li, natu­ral­men­te) alle pic­co­le buro­cra­zie loca­li desi­de­ro­se di «cul­tu­ra» («basta con la can­zo­ne impe­gna­ta»).
Basta, pro­ba­bil­men­te, con la can­zo­ne: non per sno­bi­smo né per sen­ti­men­to di cata­stro­fe, ma per­ché oggi dob­bia­mo accor­ger­ci che la can­zo­ne non ha mai con­su­ma­to radi­cal­men­te nes­sun lin­guag­gio e sta quin­di rivo­mi­tan­do lin­guag­gi non dige­ri­ti, così come li ha divo­ra­ti: l’im­pe­gno da, un lato e il roman­ti­ci­smo dal­l’al­tro le sono ser­vi­ti da impos­si­bi­le Alka-SeI­tzer.
«Ma io non ci sto più, dis­se lo spo­so e poi»: non c’è biso­gno di impaz­zi­re per soste­ne­re che oggi «in can­zo­ne» non si può ten­ta­re che qual­co­sa di asso­lu­ta­men­te «inu­ti­le», o comun­que per­lo­me­no di inno­mi­na­bi­le: l’u­ni­co modo per dire qual­co­sa è quel­lo di non dir­lo, per­ché quel «non-dir­lo» sola­men­te può spin­ge­re a fon­do il bot­to­ne del pia­ce­re, o, se vi fa pia­ce­re, del­la com­pren­sio­ne.
È quel­lo che ho cer­ca­to di fare nel mio disco Disoc­cu­pa­te le stra­de dai sogni: pur­trop­po la real­tà non ha volu­to che il suo signi­fi­ca­to rima­nes­se a lun­go ambi­guo: la social­de­mo­cra­zia, irri­ta­ta for­se dai trom­bo­ni, ha subi­to volu­to dimo­stra­re di pos­se­de­re anche i car­riar­ma­ti; l’ul­ti­mo atto non era pre­vi­sto nel copio­ne, vie­ne solo testi­mo­nia­to, con la scam­bia­bi­li­tà del suo lin­guag­gio, nel­l’ul­ti­ma can­zo­ne I gior­na­li di mar­zo, l’u­ni­ca com­po­sta dopo il «fat­tac­cio».
Non spie­ghia­mo più nien­te: il pote­re è chia­ro ed è «uti­le», ed ha anzi biso­gno di gen­te che vada in giro a spie­ga­re la sua evi­den­za, la sua uti­li­tà. Lavo­ria­mo (o lavo­ra­te se vole­te) ad una can­zo­ne asso­lu­ta­men­te inu­ti­le. Del resto, se mi si con­ce­de la cita­zio­ne, cre­do che Ben­ja­min aves­se vera­men­te ragio­ne quan­do dice­va che «l’ar­te per l’ar­te non è sta­ta qua­si mai da pren­der­si alla let­te­ra, è sta­ta qua­si sem­pre una ban­die­ra sot­to cui viag­gia una mer­ce che non si può dichia­ra­re per­ché non ha anco­ra nome».

Disco­gra­fia: Aspet­tan­do Godot (EMI), Un uomo in cri­si Can­zo­ni di mor­te, can­zo­ni di vita (EMI), Can­zo­ni di rab­bia (EMI), Ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci (EMI), Disoc­cu­pa­te le stra­de dai sogni (Ulti­ma spiaggia).

Ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci

E’ vero che dal­le finestre 

Sia­mo noi a far ric­ca la ter­ra
noi che sop­por­tia­mo
la malat­tia del son­no e la mala­ria
noi man­dia­mo al rac­col­to coto­ne, riso e gra­no,
noi pian­tia­mo il mais
su tut­to l’al­to­pia­no.
Noi pene­tria­mo fore­ste, col­ti­via­mo sava­ne,
le nostre brac­cia arri­va­no
ogni gior­no più lon­ta­ne.
Da noi ven­go­no i teso­ri alla ter­ra car­pi­ti,
con che poi tut­ti gli altri
resta­no favoriti.

E sia­mo noi a far bel­la la luna
con la nostra vita
coper­ta di strac­ci e di sas­si di vetro.
Quel­la vita che gli altri ci respin­go­no indie­tro
come un insul­to,
come un ragno nel­la stan­za.
Ma ripren­dia­mo­la un mano, ripren­dia­mo­la inte­ra,
ripren­dia­mo­ci la vita,
la ter­ra, la luna e l’abbondanza.

E’ vero che non ci capia­mo
che non par­lia­mo mai
in due la stes­sa lin­gua,
e abbia­mo pau­ra del buio e anche del­la luce, è vero
che abbia­mo tan­to da fare
e che non fac­cia­mo mai nien­te.
E’ vero che spes­so la stra­da ci sem­bra un infer­no
o una voce in cui non riu­scia­mo a sta­re insie­me,
dove non rico­no­scia­mo mai i nostri fra­tel­li.
E’ vero che bevia­mo il san­gue dei nostri padri,
che odia­mo tut­te le nostre don­ne
e tut­ti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
cor­rer­si die­tro, far l’a­mo­re
e roto­lar­si per ter­ra.
Ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
in Piaz­za Mag­gio­re
ubria­car­si di luna, di ven­det­ta e di guerra.


Ma ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
cor­rer­si die­tro, far l’a­mo­re
e roto­lar­si per ter­ra.
Ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
in Piaz­za Mag­gio­re
ubria­car­si di luna, di ven­det­ta e di guerra


non riu­scia­mo a vede­re la luce
per­ché la not­te vin­ce sem­pre sul gior­no
e la not­te san­gue non ne pro­du­ce,
è vero che la nostra aria
diven­ta sem­pre più ragaz­zi­na
e si fa cor­re­re die­tro
lun­go le stra­de sen­za usci­ta,
è vero che non riu­scia­mo a par­la­re
e che par­lia­mo sem­pre troppo.

E’ vero che spu­tia­mo per ter­ra
quan­do vedia­mo pas­sa­re un gob­bo,
un tre­di­ci o un ubria­co
o quan­do non voglia­mo incri­na­re
il mera­vi­glio­so equi­li­brio
di un’o­be­si­tà sen­za fine,
di una feli­ci­tà sen­za peso.
E’ vero che non voglia­mo paga­re
la col­pa di non ave­re col­pe
e che pre­fe­ria­mo mori­re
piut­to­sto che abbas­sa­re la fac­cia, è vero
cer­chia­mo l’a­mo­re sem­pre
nel­le brac­cia sbagliate.

E’ vero che non voglia­mo cam­bia­re
il nostro inver­no in esta­te,
è vero che i poe­ti ci fan­no pau­ra
per­ché i poe­ti acca­rez­za­no trop­po le gob­be,
ama­no l’o­do­re del­le armi
e odia­no la fine del­la gior­na­ta.
Per­ché i poe­ti apro­no sem­pre la loro fine­stra
anche se noi dicia­mo che è
una fine­stra sbagliata.

E’ vero che non ci capia­mo,
che non par­lia­mo mai
in due la stes­sa lin­gua,
e abbia­mo pau­ra del buio e anche del­la luce, è vero
che abbia­mo tan­to da fare
e non fac­cia­mo mai nien­te.
E’ vero che spes­so la stra­da ci sem­bra un infer­no
e una voce in cui non riu­scia­mo a sta­re insie­me,
dove non rico­no­scia­mo mai i nostri fra­tel­li,
è vero che bevia­mo il san­gue dei nostri padri,
che odia­mo tut­te le nostre don­ne
e tut­ti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
cor­rer­si die­tro, far l’a­mo­re
e roto­lar­si per ter­ra,
ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
in Piaz­za Mag­gio­re
ubria­car­si di luna, di ven­det­ta e di guerra.

Ma ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
cor­rer­si die­tro, far l’a­mo­re
e roto­lar­si per ter­ra,
ho visto anche degli zin­ga­ri feli­ci
in Piaz­za Mag­gio­re
ubria­car­si di luna, di ven­det­ta e di guerra.

Piaz­za bel­la piazza

Piaz­za, bel­la piaz­za
ci pas­sò una lepre paz­za,
uno lo cuci­nò, uno se lo man­giò,
uno lo divo­rò, uno lo tor­tu­rò,
uno lo scor­ti­cò, uno lo stri­to­lò,
uno lo impic­cò
e del migno­li­no ch’e­ra il più pic­ci­no
più nien­te restò.

Piaz­za, bel­la piaz­za, ci pas­sò una lepre paz­za…
Ci pas­sa­ro­no die­ci mor­ti
i tac­chi, e i legni degli uffi­cia­li,
teste cal­ve, poli­ti­can­ti
un metro e mez­zo sen­za le ali,
ci pas­sai con la bar­ba lun­ga
per copri­re le mie ver­go­gne,
ci pas­sai con i pugni in tasca
sen­za sas­si per le carogne.

Piaz­za, bel­la piaz­za, ci pas­sò una lepre paz­za…
Ci pas­sò tut­ta una cit­tà
cal­da e tesa come un’an­guil­la,
si sen­ti­va bat­te­re il cuo­re,
ci man­cò solo una scin­til­la;
capi­va­mo di esse­re tan­ti
capi­va­mo di esse­re for­ti,
il pro­ble­ma era sola­men­te
come far­lo capi­re ai morti.

Piaz­za, bel­la piaz­za, ci pas­sò una lepre paz­za…
E fu il gior­no del­lo stu­po­re
e fu il gior­no del­l’im­po­ten­za,
si sen­ti­va bat­te­re il cuo­re,
di Leo­ne avrei fat­to sen­za,
si sen­ti­va qual­cu­no urla­re
“solo fischi per quei maia­li,
sia­mo stan­chi di ritro­var­ci
sola­men­te a dei funerali”.

Piaz­za, bel­la piaz­za, ci pas­sò una lepre paz­za…
Ci pas­sa­ro­no le ban­die­re
un tor­ren­te di con­fu­sio­ni
in cui sen­ti­vo che rina­sce­va
l’e­ner­gia dei miei gior­ni buo­ni,
ed era­va­mo dav­ve­ro tan­ti,
era­va­mo dav­ve­ro for­ti,
una sola con­trad­di­zio­ne:
quel­la fila, quei die­ci morti.