Canzoni come specchi
Eugenio Finardi
Canzoni come specchi
Qualcuno potrebbe definirmi americo-italiano e penso che in parte questa definizione mi sta proprio bene.
Le ragioni sono molte: sono passato, come molti, attraverso un tunnel di suoni, una specie di grosso tubo di cellophan dentro al quale potevo sentire la musica dei Rolling Stones come la sonorità del blues senza dimenticare “i gorgheggi” e il clima della musica lirica. Già, mia madre era una cantante lirica e, come molti bambini che si rispettino, anch’io pensavo da grande di fare il cantante lirico. Ma i camaleonti cambiano molto spesso la pelle: ed io, che camaleonte non sono, penso di avere accumulato in questi anni molte pelli; se mi squamassi si potrebbe scoprire quella del negro dei blues, quella della musica dura e della mitomania per Mike Jagger e quella meno mitologica del cantautore di oggi. E quella dell’americo-italiano.
Non è una battuta: ho sintetizzato un processo che ho vissuto usando come metro sia la musica sia un atteggiamento mentale. Infatti ho sempre visto l’America come un grande luna park vivente, fatto di neon, magliette, telefilm e persone che non avevano tutte le «menate» del latino, del greco, della chiesa cattolica, della retorica e di quel genio italico che spero sempre muoia soffocato da una montagna di rifiuti. Non sono Tommy caduto sul pianeta Italia e neppure Mr. Smith in un viaggio di piacere.
La contraddizione, lo scontro, il confronto con la realtà italiana, con le radici milanesi, hanno sempre contraddistinto la mia vita. Non ho mitizzato l’America confrontandola con l’Italia, così come non ho disprezzato l’Italia confrontandola col mito americano: ho preso atto della diversità e della omogeneità fatta di squallore e di moralismo. Non il fallimento di un sogno ma la consapevolezza della necessità di essere dentro alle mie radici.
Da tutto ciò è maturato il mio interesse, il mio coinvolgimento nella realtà italiana, nella politica, nel Movimento, nello sbattimento per la droga, nella vita degli «scoppiati», nella quotidiana ricerca di un flash di felicità.
Come tanti, dopo un’estate a Terrasini, sono uscito dalla dipendenza dal mondo della droga, dal mondo dell’ideologia hippy: Parco Lambro ’74, la scoperta dei compagni, della solidarietà, di una dimensione politica. Tutto è cambiato, si è modificato con entusiasmo, con coinvolgimento: si è aggiunta un’altra pelle che ha coperto le smagliature precedenti. Canzoni ingenue, dure, schematiche, canzoni come specchi nei quali mi riflettevo tutto: questo è stato il mio primo album. Non sono «quello che canta nei dischi perché c’ha i figli da mantenere», ma perché vuole parlare, dire, fare, conoscere, confrontarsi: perché mi piace.
Inizia l’attività del cantautore o meglio cambia segno, dimensioni; il «vecchio» Finardi che modifica il testo degli altri per ritrovare i suoi testi, la sua musica, andare in giro.
Un modo diverso di «sbattersi»: ora la realtà è fatta di soldi, di camion, di luci, di palco, di migliaia di persone diverse: insomma di lavoro.
Questo scontro, questa conoscenza di una realtà diversa, solo pensata come esistente ma mai verificata, conosciuta, mi ha spinto ad una radicale modificazione del mio sentire, della mia precedente identificazione con gli emarginati: sono uscito da questo «ghetto» non per una scelta ideologica ma spinto, quasi guidato e «costretto» da una realtà di massa, dal mondo del lavoro quotidiano.
Non un nuovo flash, non la conseguenza di una reale o supposta popolarità, non per opportunismo, ma per uscire dai miti, dagli schieramenti, dalle scelte condizionate, per continuare un lavoro, un mestiere, un modo di essere, parlare, suonare, comunicare, dire, come sento.
Discografia: Non gettate alcun oggetto dai finestrini (Cramps); Sugo (Cramps); Diesel (Cramps).
LA RADIO
Quando son solo in casa
e solo devo restare
per finire un lavoro
o perché ho il raffreddore
c’è qualcosa di molto facile che io posso fare
è accender la radio e mettermi ad ascoltare.
Amo la radio perché arriva dalla gente,
entra nelle case e ci parla direttamente,
e se una radio è libera, ma libera veramente,
mi piace ancor di più perché libera la mente.
Con la radio si può scrivere,
leggere o cucinare
non c’è da stare immobili,
seduti lì a guardare,
forse proprio quello che me la fa preferire
è che con la radio
non si smette di pensare.
Amo la radio perché arriva dalla gente,
entra nelle case e ci parla direttamente,
e se una radio è libera, ma libera veramente,
mi piace anche di più perché libera la mente
MUSICA RIBELLE
Anna ha diciott’anni e si sente tanto sola
Ha la faccia triste e non dice una parola
tanto è sicura che nessuno capirebbe
anche se capisse, di certo la tradirebbe
la sera in camera prima di dormire
legge di amori e di tutte le avventure
dentro nei libri che qualcun altro scrive,
che sogna di notte, ma che di giorno poi non vive
e ascolta la sua cara radio per sentire
un po’ di buon senso da voci piene di calore
e le strofe languide di tutti quei cantanti
con le facce da bambini e coi loro cuori infranti
ma da qualche tempo è diffìcile scappare
c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare
è dolce, ma forte e non ti molla mai
è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai
è la musica, la musica ribelle
che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle
che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare
di mollare le menate e di metterti a lottare.
Marco di dischi lui fa la collezione
e conosce a memoria ogni nuova formazione,
e intanto sogna di andare in California
o alle porte del cosmo che stanno su in Germania
dice: «qua da noi in fondo la musica non è male,
quello che non reggo sono solo le parole».
Ma poi le ritrova ogni volta che va fuori
dentro ai manifesti o scritte sopra i muri.
È la musica, la musica ribelle
che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle
che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare
di mollare le menate e di metterti a lottare.