Imperialismo e classe operaia multinazionale

AA.VV., Imperialismo e classe operaia multinazionale, Feltrinelli, Milano 1975 Crisi del sistema monetario internazionale, ancora ben lontana, da una soluzione; «crisi» energetica e drammatiche modificazioni dei prezzi sul mercato internazionale; dislocazione complessiva dei rapporti di forza sulla scena della politica mondiale. Un quadro in forte movimento ormai da alcuni anni – dal Sessantotto? – che non poteva non rilanciare la riflessione e il dibattito nell’ambito della sinistra, vecchia e nuova, sui temi, vecchi e nuovi, dell’imperialismo. Che validità hanno, oggi, le categorie tradizionali, emerse dal dibattito «classico» svoltosi nei primi due decenni di questo secolo? In che cosa il sistema si è venuto modificando per quel che riguarda le leggi del suo assetto internazionale? Che natura e che ruolo vi svolgono i rapporti tra i vari centri della «metropoli» (in particolare quello tra Usa ed Europa) e tra metropoli e periferia sottosviluppata? Che trasformazioni ha subito e cosa tende a divenire il mercato mondiale, specialmente in seguito all’emergenza delle multinazionali? In che cosa muta, di conseguenza, lo stesso quadro della lotta di classe nazionale? Di alcuni aspetti di tale dibattito vuoi dar conto questo volume. Nella prima parte esso contiene scritti di: J. O’Connor, che prospetta una sintesi generale del neo-imperialismo; M. Nicolaus e E. Mandel, che contrappongono direttamente, in uno scontro violentemente polemico, i punti di vista terzo-mondista e «trotzkista»; C. Neusüss che tenta una rilettura marxiana del concetto e dell’attuale dinamica del mercato mondiale. La seconda parte è specialmente dedicata all’impresa multinazionale e al suo «opposto», all’emergenza, cioè, di una nuova composizione multinazionale della stessa classe operaia, e raccoglie scritti di noti studiosi, quali R. Vernon, S. Hymer, N. Poulantzas e un contributo originale di F. Gambino. Nel suo ampio saggio introduttivo, L Ferrari Bravo sviluppa in termini generali alcune indicazioni che risultano dall’insieme dei saggi presentati, collocandole nell’ambito della storia delle teorie dell’imperialismo e insieme tentando di misurarle sul terreno concreto della lotta che torna ad opporre, oggi, sul piano mondiale, classe operaia e capitale. |
Dellavolpismo e nuova sinistra

Mario Alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra, Dedalo libri, Bari 1977
Lo studio di Mario Alcaro segue uno dei tracciati teorico-politici che hanno espresso i primi «gruppi» degli anni Sessanta e poi le posizioni attuali della nostra sinistra.
Punto di partenza l’elaborazione di G. Della Volpe in cui Alcaro legge sincronismi con la togliattiana «via italiana al socialismo», ma anche divaricazioni rispetto a questa e alla pratica teorica ufficiale del movimento operaio.
Del dellavolpismo è messa in luce la carica di rottura rispetto agli orientamenti del marxismo storicista e del «materialismo dialettico» e la sua lotta per riconvertire il marxismo da ideologia in strumento di analisi scientifica della realtà sociale.
«Tracce» di dellavolpismo sono così scoperte da Alcaro sia nel gruppo di intellettuali (Colletti ecc.) che nel 1956 ruppero con il Pci, come pure nella rilettura di «tutto Marx» che con i «Quaderni rossi» e con «classe operaia» diedero Panzieri e Tronti.
Alcaro mette però in luce la diversa finalizzazione politica cui approda in Panzieri e Tronti lo studio critico del Capitale, che nel secondo sbocca nella subalternità rispetto al partito riformista.
Il volume chiude sul dibattito «contro Togliatti o oltre Togliatti» che si è aperto nella nuova sinistra a cavallo delle elezioni del giugno 1976.
Mario Alcaro è borsista all’Università di Calabria dove si è laureato. Ha pubblicato assieme ad A. Paparazzo Lotte contadine in Calabria (Lerici 1976). Collabora a «Classe».
Lavoro zero n° 7/8
- Presentazione
- Aperta parentesi
- Puntini di sospensione
- Introduzione
- Parte Prima – “POVERTY PROGRAMME”
- 1 – Dieci anni di progetti
- 2 – Sradicamento della povertà
- Parte Seconda – “LA TRASFORMAZIONE DEGLI ANNI SESSANTA”
- 3 – I problemi del Capitale
- 4 – I problemi per la classe operaia
- 5 – I problemi per lo Stato
- Parte Terza – “UN COMPITO DEL GOVERNO”
- 6 – Legge e ordine
- 7 – Idee dominanti
- 8 – Managing
- Bibliografia
La tribù delle talpe

Sergio Bologna (a cura di), La tribù delle talpe, Feltrinelli, Milano 1978
Un dibattito sul «movimento del ’77», la sua natura sociale, le sue ideologie. I partecipanti sono perlopiù redattori della rivista «Primo Maggio» e appartengono a diverse generazioni di un medesimo filone della sinistra rivoluzionaria italiana. Quello che da «Quaderni rossi» e «classe operaia» finisce poi nelle organizzazioni Potere operaio e Lotta continua.
Crisi di un’ideologia, crisi di una pratica politica, affiorare dell’autonomia.
Questo dibattito dà un’immagine assai diversa degli schieramenti e delle posizioni, così come appaiono spesso nelle «mappe dell’ultrasinistra» che la grande stampa, per ricordare anniversari o per celebrare funerali, si diverte a disegnare. Un dibattito che investe non solo il movimento della «nuova sinistra» ma che tocca anche frazioni importanti del movimento operaio e sindacale.
Classe operaia e ”individuo sociale”
Da ”Magazzino” n.2 di Roberta Tomassini
Il tentativo di Braverman (H. BRAVERMAN, Lavoro e capitale monopolistico, trad. it., Einaudi, Torino, 1978) di mettere a fuoco le più rilevanti trasformazioni del processo lavorativo, dagli inizi della rivoluzione industriale ai nostri giorni, si risolve in un ambiguo pasticcio di sociologia volgare e di velleità filosofico-speculative.
L’apparente articolazione analitica dell’indagine di Braverman ha perciò un andamento talmente schematico e ripetitivo che è facilmente sintetizzabile: il lavoro salariato dipendente, che si generalizza con la prima rivoluzione industriale, consente al capitale non solo di comandare il lavoro “immediato”, ma di continuare anche ad appropriarsi delle condizioni oggettive di erogazione del lavoro concreto.
La ricerca di Braverman intende appunto descrivere le funzioni che determinano l’astrattizzazione reale del lavoro operaio che perde così ogni indipendenza, ogni autonomia rispetto al dominio capitalistico. Agli inizi, l’orizzonte del potere capitalistico sconta i limiti che gli derivano dallo sviluppo della scienza come “teoria”-“rappresentazione” della realtà separata e distinta dallo sviluppo del saper-fare, dalla intelligenza tecnica e strumentale dell’operaio di mestiere.
In tutta la fase della “meccanizzazione” è ancora l’intelligenza tecnica espropriata all’operaio di mestiere il motore dell’innovazione capitalistica dell’organizzazione del processo lavorativo: tale unità fra ideazione ed esecuzione nel lavoro operaio è il limite della divisione del lavoro e della sua massima disciplina. Soltanto la formazione di un cervello sociale, adeguato alle esigenze capitalistiche di sfruttamento del lavoro, avrebbe potuto garantire uno sviluppo tecnologico e scientifico, che proprio perché relativamente “separato” dal lavoro operaio, si costituisse appunto come intelligenza delle forme di comando e di massimo sfruttamento della forza lavoro. La nascita delle scuole politecniche per la “formazione” dell’ingegnere determina la definitiva scissione all’interno del processo lavorativo fra ideazione ed esecuzione: il passaggio dalla “meccanizzazione” all“ ‘automazione” non a caso si verifica, nei diversi paesi industrializzati, sul ritmo dell’espansione e della diffusione delle scuole politecniche. Con la scissione fra ideazione ed esecuzione, l’innovazione tecnica non è più separata dalla innovazione organizzativa: lo sviluppo tecnologico e scientifico è infatti continuamente informato dalla sociologia industriale che osserva i comportamenti operai, li codifica, li classifica e li misura in quanto funzioni puramente meccaniche ed esecutive che come tali possono essere combinate ed ordinate in una serie di ipotesi organizzative sino ad individuare quella più “produttiva”. La razionalità capitalistica, secondo Braverman, ha continuato a spingere in questa direzione imponendo la separatezza fra ideazione ed esecuzione anche al lavoro impiegatizio, amministrativo e dei servizi.
Lo sviluppo dell’informatica e della computerizzazione proletarizza infatti la forza lavoro intellettuale mediamente qualificata ridotta a svolgere mansioni puramente esecutive, ripetitive e parcellizzate.
Il lavoro vivo, come capacità di innovazione che si differenzia dall’universo del lavoro astratto uguale, tende perciò a realizzarsi nella ristretta cerchia di una sorta di “mandarinato” che si identifica con gli interessi di capitale e che resta inaccessibile alla massificazione del lavoro sociale esecutivo.
La degradazione del lavoro, come base e condizione dell’accumulazione capitalistica, genera però assenteismo, disaffezione, deresponsabilizzazione rispetto ad un’attività lavorativa che perde ogni attrattiva e ogni possibilità di gratificazione.
Nella logica di Braverman comunque tale resistenza spontanea e massificata alla degradazione del lavoro è di per sé incapace di tradursi in un effettivo superamento delle attuali condizioni alienate della produzione. Se e nella misura in cui il capitale detiene il lavoro vivo – in quanto “organizza” e “forma” il cervello sociale come sua propria funzione di sviluppo – solo il processo di transizione che ricomponga ideazione ed esecuzione e ricostituisca la professionalità attraverso l’autogestione può riconquistare l’intelligenza ed il controllo dei mezzi di produzione. Braverman sembra riesumare dalle ceneri un dibattito che, nel marxismo italiano, si è rapidamente consumato fra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta; il capitale monopolistico divideva allora la cultura marxista italiana fra l’ottimismo di quanti attribuivano all’automazione il superamento dell’idiotismo del mestiere e quindi la formazione di un’individualità sociale ricca e liberata dalla fatica, ed il pessimismo di quanti coglievano nelle nuove condizioni della produzione il baratro della robotizzazione, del consumismo, della cultura di massa, dell’integrazione.
Le lotte dell’ ”operaio massa” e gli inizi di una ricerca marxista – l’operaismo – che ne assumeva il “punto di vista”, dimostrano come una problematica di questo genere non avrebbe potuto trovare soluzione sul piano della futurologia, del gusto profetico degli intellettuali, indipendentemente cioè dalle caratteristiche dello scontro di classe. Quanto più infatti la ricerca marxista si confronta con la qualità delle lotte operaie tanto più scopre che non è il valore del lavoro che fonda la possibilità storica dell’egemonia operaia: è unicamente la strategia del rifiuto del lavoro che sviluppa comunismo. Questo è il solo punto di vista che, pur “scandalizzando” la cultura marxista ufficiale, permette di afferrare il senso del pensiero marxiano al di là della sua apparente insuperabile contraddizione su cui tanto si è affaticato il marxismo filosofico: non vi è dubbio che quando Marx analizza lo sviluppo tecnologico e scientifico, e quindi le trasformazioni del processo lavorativo sotto il comando capitalistico, coglie nella sussunzione reale del lavoro operaio al capitale l’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro e la sua svalorizzazione.
Eppure, per Marx, quanto più il capitale astrattizza il lavoro, e quanto più lo assoggetta, tanto più si sviluppa la soggettività comunista.
Come è possibile che lo sviluppo delle forze produttive, come sviluppo del potere di capitale sul lavoro sociale, sia sviluppo delle condizioni che fondano la necessità storica del comunismo?
Per l’operaismo non è l’autonoma capacità civilizzatrice di capitale che immediatamente innalza il valore della forza lavoro, al di là della sua apparente svalorizzazione, ma è il rifiuto del lavoro che costringe il capitale a rendersi sempre più “indipendente” dal lavoro operaio, a ridurre il lavoro socialmente necessario sino al punto in cui non può più porsi come “misura” delle potenzialità produttive che ha evocato. Sino a che l’innovazione del processo lavorativo dipende dal saper-fare dell’operaio di mestiere, la professionalità operaia valorizza il capitale ma rappresenta anche fattore di rigidità e di autonomia nella produzione, che il capitale tende a distruggere sussumendo l’intelligenza tecnica e scientifica e rendendo il lavoro operaio esecutivo.
Nella misura in cui però il capitale svalorizza la forza lavoro è la classe operaia che si valorizza come tale: la valorizzazione capitalistica dipende ora dal rifiuto del lavoro che “comanda” lo sviluppo capitalistico costringendolo a trasformare le condizioni della produzione verso una crescente automazione. La svalorizzazione della forza lavoro sviluppa un antagonismo qualitativamente nuovo che rende storicamente matura la possibilità soggettiva per la classe operaia di valorizzarsi come forza politica, nella continua negazione di sé come merce che si scambia con capitale. Marx nella generalizzazione del lavoro astratto-uguale, nella parcellizzazione delle mansioni, nella loro interscambiabilità, individua infatti la base materiale della dissoluzione della divisione della società in classi, della soppressione della legge del valore.
Astrattizzazione del lavoro socialmente combinato, automazione e quindi riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario implicano per Marx l’autonegazione della classe operaia in quanto forza lavoro, nella sua funzione cioè di mezzo di produzione.
La crisi di tale funzione strumentale non implica affatto svalorizzazione della soggettività operaia e proletaria: ne eleva al contrario l’intellettualità, le capacità che cessano di essere determinate dal tempo di lavoro.
L’indifferenza fra i vari lavori è la base materiale della “universalizzazione” dell’individuo sociale il cui potere non è più determinato dalle competenze “parziali” della forza lavoro immediata. Ma è esattamente il Marx teorico del comunismo che Braverman si rifiuta di leggere, rivelandosi chiuso ad ogni logica di superamento della divisione della società in classi. Non gli resta perciò che considerare la degradazione del lavoro per vagheggiare il lavoro “umanizzato” ancorato all’ideologia socialista.
È un modo come un altro per convincere la classe operaia della impossibilità storica del superamento della sua condizione, e della necessità perciò di lottare contro la degradazione del lavoro per poter incontrare sentimenti di gratificazione e di orgoglio nella propria condizione subordinata, nella intelligenza del proprio ruolo strumentale, di forza lavoro, nella riproduzione sociale. In tale funzione ideologica il libro di Braverman, per quanto rozzo e superato, suscita simpatie e consensi da parte di tutte quelle forze politiche impegnate a reperire nuove vie per sfuggire il comunismo.
Ma la lotta contro la degradazione del lavoro, per la nuova professionalità, per la ricomposizione fra ideazione ed esecuzione, per la nuova qualificazione, con cui Pci e sindacati hanno inteso far digerire la “ristrutturazione” all’autunno caldo, è una lotta che sa solo di sconfitta, di rinuncia al comunismo: come tale non presenta nessuna attrattiva per una classe operaia esclusivamente interessata a organizzare il rifiuto del lavoro. Al punto che la ristrutturazione, al di là di ogni programma di nuova professionalità, attraverso la robotizzazione, l’informatica, la computerizzazione, il decentramento, le ipotesi di introduzione del tempo di lavoro flessibile ha inteso colpire le forme di organizzazione del rifiuto del lavoro. E nella nuova divisione del lavoro, nella nuova organizzazione di impresa, si riscontra un’ulteriore accelerazione dei processi di astrattizzazione della stessa socializzazione dal lavoro.
È proprio l’indisponibilità a valorizzare il capitale del lavoratore complessivo che spinge il cervello organizzativo di capitale a sottrarre ogni decisione, ogni responsabilità, ogni residuo di lavoro concreto alla combinazione delle mansioni che potrebbe trasformarsi in occasione di antagonismo e di sabotaggio.
La tendenza, in questo senso, al superamento della catena di montaggio non mira certo a eliminare la disaffezione e l’assenteismo dell’operaio singolo, giustamente disinteressato a un lavoro monotono e ripetitivo: è piuttosto il lavoro socialmente combinato con un potere di decisionalità che diventa temibile per il capitale e che quindi deve essere eliminato. Da questo punto di vista, sembrerebbe giustificata la motivazione che, al limite degli anni sessanta, ha indotto alcuni esponenti dell’operaismo a rientrare nelle fila del Pei: il rifiuto del lavoro – e non certo la degradazione del lavoro -, in quanto non capitale, in quanto crisi del rapporto di capitale, valorizza il capitale.
Il rifiuto del lavoro trasforma attivamente il rapporto di produzione capitalistico, ma non è sufficiente a metterne in crisi le condizioni di riproduzione politica.
Il dinamismo di capitale capitalizza l’antagonismo operaio, attraverso la trasformazione del processo lavorativo che non si risolve nell’innovazione tecnologica in quanto avvia processi economico-politici, relativamente indipendenti, che trasformano dall’alto la composizione tecnica di classe. Oggi questi stessi ex-operaisti nell’autonomia del politico finalmente ci sono entrati.
E si sono accorti, a quanto pare, che lo Stato post-keynesiano è ben diverso dal castello kafkiano, e da ogni mito che vede aggirarsi nel palazzo “i mandarini” dell’autonomia del politico. Nelle sue più recenti riflessioni in proposito M. Cacciari (Cfr. M. CACCIARI, Trasformazioni dello Stato e progetto politico, “Critica Marxista”, 5, 1978) afferma che lo Stato attuale non si identifica più né con lo Stato Ottocentesco organico agli interessi della borghesia, né con lo Stato keynesiano come luogo della mediazione e della neutralizzazione dei conflitti sociali.
Lo Stato oggi è incapace sia di esprimere la “composizione sintetica dei conflitti”, sia di farsene assolutamente indipendente; in questo senso, malgrado l’ampio margine di manovra degli strumenti di politica monetaria, malgrado i processi di burocratizzazione, malgrado la crescente funzione di comando che il capitale sociale è in grado di esercitare rispetto ai capitali singoli, la razionalità dello Stato sembra ridursi ad un assetto funzionale incapace di “programmazione”.
La razionalità dello Stato contemporaneo si ridefinisce quindi giorno per giorno a fronte di una conflittualità diffusa, permanente: non vi è perciò “superamento” della crisi politica, in quanto lo Stato produce crisi dei rapporti politici e si presenta più come una funzione, solo relativamente indipendente, della conflittualità della società civile che come superiore sintesi politica. In altre parole, la ricomposizione politica è incessante scomposizione dei rapporti di forza che si costituiscono fra i diversi gruppi di interesse e le diverse “autonomie” sociali, e quindi non è che funzione di sviluppo di crisi politica manovrata. Quanto più perciò lo Stato, nella gestione della finanza pubblica, accentra funzioni direttamente produttive, tanto più il “politico” costituisce una funzione della conflittualità che ne sovradetermina lo sviluppo compatibile alla riproduzione dei rapporti di produzione.
Tuttavia Cacciari sottolinea come tale produzione di crisi dei rapporti politici che identifica lo Stato post-keynesiano non sia interpretabile come semplice manovra di accerchiamento e di isolamento della classe operaia; “esiste – piuttosto – una materiale diffusione di comportamenti conflittuali, di obiettivi politici e di valori… è questa storia… che moltiplica il peso quantitativo e qualitativo di nuovi strati sociali – è questa storia che opera un’autentica “rivoluzione culturale” all’interno della stessa classe operaia, e che quindi produce rapporti del tutto nuovi con il complesso della formazione sociale…” (Ivi, pp. 46–48).
La crisi del ruolo di mediazione e di neutralizzazione dei conflitti dello Stato keynesiano non è l’autonoma strategia del “politico”: è piuttosto sintomo dell’effettiva impossibilità per lo Stato post-keynesiano di pianificare lo sviluppo dei bisogni sociali in base alla socializzazione dei rapporti di produzione, in base cioè a una teoria delle classi sociali oggettivamente determinata dai rapporti di produzione. Lo Stato post-keynesiano rivela anche ai teorici dell’autonomia del politico che la strategia del rifiuto del lavoro non è semplice motore della valorizzazione capitalistica ma è soprattutto funzione dell’autovalorizzazione operaia e proletaria.
L’antagonismo operaio e proletario, nel tempo disponibile e liberato dal lavoro, ridefinisce la composizione di classe, ne trasforma la riproduzione su una complessità di bisogni e di comportamenti soggettivi di cui sembra quasi indifferente la specificità “operaia”.
Gli anni settanta sono infatti caratterizzati da comportamenti di insubordinazione, da situazioni diffuse di rigidità, da un insieme di lotte che hanno “politicizzato” il privato: non è soltanto il tempo di lavoro, la giornata lavorativa il luogo di costituzione dei bisogni di classe, ma l’esistenza quotidiana, il tempo in cui l’individuo riproduce, rigenera se stesso cessa di essere mediato dall’ideologia del valore del lavoro.
La lotta contro il lavoro capitalistico, la lotta per gli aumenti salariali sono obiettivi limitati che riconsegnano all’individuo, al “privato” o meglio all’economia della famiglia, le condizioni proletarie della vita quotidiana.
L’autonegazione della forza lavoro si estende, con gli anni settanta, dall’immediatezza dei rapporti di produzione ai modi di riproduzione: la composizione di classe attiva nuovi processi di socializzazione, non è l’individuo che rimuove le condizioni proletarie di riproduzione che limitano lo sviluppo della sua soggettività, ma l’individuo sociale che trasforma i rapporti sociali in funzione della propria valorizzazione.
Al di là di ogni ideologia della dequalificazione e della degradazione del lavoro, gli anni settanta attestano come l’indifferenza fra i diversi lavori, la liberazione dall’ideologia del valore del lavoro, abbia significato per la classe operaia in quanto forza politica un innalzamento intellettuale e culturale tale da costituire forme di potere a livello della generalità della riproduzione sociale.
E non si tratta unicamente della trasformazione dei valori etici, morali o genericamente culturali, ma della capacità dell’intelligenza sociale, che si forma nella insubordinazione allo sfruttamento, di saper comandare perfino il cervello sociale “organizzato” dal capitale, quello per intenderci che ossessiona Braverman; al punto che lo stesso “mandarinato” è spesso costretto a funzionare come strumento esecutivo dell’ideazione di bisogni qualitativamente nuovi Le lotte hanno dimostrato che non c’è possibilità di sviluppo della “medicina” che non dipenda dai bisogni del malato, e così pure che non c’è avvenire per qualsiasi pedagogia che non dipenda dai bisogni di conoscenza e dai comportamenti di coloro che studiano, che non c’è sviluppo di nuove fonti di energia se non facendo i conti con la resistenza sociale al piano nucleare, che non c’è sviluppo dell’urbanistica che possa prescindere dall’innalzamento del tenore di vita. A meno che fra il sapere dei mandarini e l’intelligenza sociale non si apra una conflittualità che deve essere “mediata” (se non neutralizzata) dalla politica.
Sarebbe interessante analizzare a questo proposito le ragioni per cui le istituzioni del sapere si trovano oggi a dover funzionare come istituzioni direttamente “politiche”, incessantemente attraversate dalla conflittualità del proletariato intellettuale e dai nuovi bisogni sociali. La nuova intelligenza sociale, la nuova concezione dei rapporti sociali non è certo espressione della coscienza esasperata che nasce all’ombra dell’emarginazione dal lavoro o dalla sottoccupazione nell’ideologia dell’immediatismo dei bisogni: si radica al contrario nella famiglia proletaria, anche se a volte in modo conflittuale, e si generalizza con sorprendente rapidità mettendo in crisi i codici della cultura dominante. Questa enorme potenzialità di trasformazione dei rapporti sociali scatena infatti le più svariate reazioni di rigetto da parte della cultura “ufficiale”: si denuncia la devianza collettiva, la crisi dei valori, la regressione della coscienza politica a forme di neo esistenzialismo, sino al momento in cui la nuova etica, la nuova cultura diventa “norma” sotterranea da riconoscere come tale. La “formazione dell’individuo sociale” ha suscitato però molte perplessità e problemi anche all’interno della nuova sinistra, così come del resto tutto il processo di politicizzazione del “privato”: come è possibile l’emancipazione dei rapporti sociali, la formazione di nuovi soggetti, nella specificità delle loro esigenze, in una relativa indipendenza dalla composizione tecnica di classe, dalla oggettività dei rapporti di produzione? Non è casuale però il fatto che Marx non si riferisca più all’ ”operaio complessivo” ma all’ ”uomo” o all’ ”individuo sociale” quando descrive le condizioni di sviluppo dell’antagonismo di classe: quanto più la classe operaia e proletaria tende alla propria dissoluzione come classe determinata dai rapporti capitalistici, tanto più rappresenta l’ ”individuo sociale” che prende coscienza dei propri bisogni al di là della base limitata della produzione capitalistica.
La riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario consente “il libero sviluppo delle individualità”, infatti “le forze produttive e le relazioni sociali” sono “entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale” che “figurano per il capitale solo come mezzi per produrre la sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per fare saltare in aria questa base” (K. MARX, Lineamenti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze, 1968, voi. II, p. 402). Nella misura in cui il rifiuto del lavoro sviluppa l’astrattizzazione reale del lavoro “non è più tanto il lavoro a presentarsi incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore” e ciò “vale anche per la combinazione delle attività umane e per lo sviluppo delle relazioni umane… Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale”, (Ivi, p. 401). Siamo in un orizzonte totalmente rovesciato rispetto a quello angusto e capovolto di Braverman: per l’individuo sociale il suo superamento possibile della degradazione del lavoro è la soppressione della sua determinazione capitalistica.
Questo non ha nulla a che fare con la “umanizzazione” del lavoro immediato, né con la regressione al lavoro concreto: si identifica piuttosto con la soppressione della legge del valore, della centralità della giornata lavorativa nel potere che essa ha di sostituire il valore del lavoro come “misura” dello sviluppo dei bisogni dell’individuo sociale. La soppressione della legge del valore è quindi la realizzazione storica dell’antagonismo dell’individuo sociale e delle caratteristiche radicalmente nuove che qualificano la sua “produttività generale”: cioè la capacità di “direzione” e di “sorveglianza” rispetto alle potenzialità produttive in funzione dell’autovalorizzazione dei rapporti sociali.
La strategia del rifiuto del lavoro, dell’autonegazione della forza lavoro, sviluppa la “produttività generale” come padronanza delle condizioni della riproduzione sociale, come innovazione dei rapporti sociali.
La “produttività generale” dell’individuo sociale oggi si presenta effettivamente come “il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza” nella sua capacità di innovare le modalità di formazione della ricchezza, nella socializzazione del lavoro sommerso, ma anche e soprattutto nelle nuove forme di lotta in cui l’antagonismo sociale si presenta come condizione imprescindibile della “qualità” dello sviluppo. Il motore infatti del cervello sociale organizzato dal capitale cessa di essere unicamente il rifiuto del lavoro, ma si presenta come lavoro vivo, intelligenza sociale che incessantemente valorizza le condizioni della riproduzione, innalzando i bisogni sociali: al punto che condizione dello sviluppo e della valorizzazione di capitale è “l’appropriazione della produttività generale”, la subordinazione dell’innovazione dei rapporti sociali.
Tuttavia la “produttività generale” sussunta all’innovazione politica ed organizzativa di capitale è produttrice di crisi, di disgregazione, di nuova conflittualità che non consente nuove forme di durevole composizione politica; in quanto la “produttività generale” dell’individuo sociale resta ancorata al valore d’uso, come padronanza delle strategie di fruizione collettiva della ricchezza disponibile e non è compatibile con le ragioni dello scambio e dell’accumulazione capitalistica. Ogni teoria dei giochi dello Stato post-keynesiano, ogni forma di erogazione di reddito atta a ripristinare il sistema della diseguaglianza nella soddisfazione dei bisogni dell’individuo sociale, sviluppa crisi politica e moltiplica la “produttività generale”: i centri e i momenti disseminati dell’antagonismo. Sono questi i centri e i momenti di sviluppo della strategia dell’individuo sociale nel suo progetto di autodeterminazione politica poi la nuova formazione sociale
Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia
Ideologia, fatti, prospettive

Sabino S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in italia. Ideologia, fatti, prospettive, Rizzoli, Milano 1979
Questo libro di Sabino Acquaviva è forse la prima analisi organica della guerriglia italiana, senza indulgere, tuttavia, ad un linguaggio complesso e al preziosismo scientifico. In maniera piana sono analizzate le origini, le cause, le caratteristiche, i possibili sviluppi della lotta armata in Italia, guardando anche all’ideologia e alle condizioni sociali che la reggono. Ne emerge un quadro drammatico di una guerriglia che ha alle spalle uno spazio politico e organizzativo radicato nelle deficienze e nei bisogni della società italiana di oggi. Appaiono chiaramente i legami della lotta armata con il Movimento degli studenti, le sue lontane origini politiche, culturali e psicologiche insieme alla necessità e difficoltà per la guerriglia di conservare questi legami, di esprimere sempre i bisogni del Movimento.
Negli svelti capitoli del suo saggio, Sabino Acquaviva analizza anche le linee strategiche e tattiche della guerriglia: distingue fra guerriglia urbana, guerriglia rurale, guerriglia «dei grandi spazi», vagliandone caratteristiche e possibilità a breve e lungo termine. Mette a fuoco le tecniche di lotta dei guerriglieri: la propaganda armata, la possibilità per la guerriglia italiana di creare basi di appoggio, lo spazio sociale in cui cresce: scuola, carceri, emarginati, classe operaia.
Il libro è insieme una sintesi, un bilancio e una previsione, un’analisi che guarda ad alcuni aspetti possibili del nostro futuro negli anni a venire.
Sabino Acquaviva è uno dei più noti sociologi italiani, è professore ordinario di sociologia nell’Università di Padova e «Visiting Yellow» dell’All Souis College di Oxford. Si è affermato con alcuni libri di successo tra i quali Automazione e nuova classe (3ed. 1968), in cui anticipava di anni alcune tesi del nuovo stato industriale di Galbright, In principio era il corpo (1976), Social Structure in Italy. Crisis of a System (in collaborazione con M. Santuccio, 1976), un profilo della crisi della società italiana contemporanea scritto per il mondo culturale anglosassone, L’eclissi del sacro nella società industriale (5° ed. 1978), tradotto in più lingue. Collabora al «Corriere della Sera» ed a molti altri quotidiani e periodici italiani e stranieri, scientifici e culturali.
Proletari e Stato
Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico

Antonio Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico, Feltrinelli, III edizione, Milano 1977
Ora in:
Toni Negri, I libri del rogo: Crisi dello Stato-piano, Partito operaio contro il lavoro, Proletari e Stato, Per la critica della costituzione materiale, Il dominio e il sabotaggio, DeriveApprodi, Roma 2006
Antonio Negri ha già pubblicato negli «Opuscoli marxisti» un saggio intitolato Crisi dello Stato-piano, comunismo e organizzazione rivoluzionaria.
In questo nuovo contributo, attraverso una serie di tesi teorico-politiche, Negri discute radicalmente le ipotesi e la pratica del compromesso storico. Il punto centrale della polemica riguarda l’analisi delle classi: al sostanziale interclassismo, sul quale secondo Negri si appoggia la politica del compromesso storico, bisogna contrapporre un’analisi che riesca ad individuare il processo di trasformazione che sta avvenendo entro la classe operaia.
All’operaio-massa degli anni Sessanta si va sostituendo un «nuovo operaio» sociale che configura una nozione quantitativamente e qualitativamente diversa di proletariato. Se si dimentica questa trasformazione nei comportamenti e nella coscienza antagonistica, si resta necessariamente legati a un’analisi della società e dello stato ampiamente ideologico.
Gli anni affollati
La rivista politica antagonista negli anni ’70
a cura del centro giovanile tradatese e del centro di documentazione di Varese
PRIMO MAGGIO n° 17
- 3 La classe operaia italiana e la Polonia di Cesare Bermani
- 11 Milano nella crisi di C.S./D.P.
- 13 Dopo la FIAT l’Alfa? di Domenico Potenzoni
- 23 L’autunno caldo del precariato sociale di Cosimo Scarinzi
- 28 Scala mobile: analisi del dibattito recente di Riccardo Bellofiore
- 37 Un elogio dell’inflazione nell’URSS del 1920 di Alessandro Arcangeli
- 45 Il Grande Calibano: la lotta contro il corpo ribelle di Silvia Federici
- 55 Memoria e composizione di classe: dal convegno di Mantova in poi di Bruno Cartosio
- 59 Un intervento su ontologia dell’essere sociale e composizione di classe di Giuliano Naria