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ROSSO n. 10

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Il processo operaio, oggi


Da «SENZA TREGUA gior­na­le degli ope­rai comu­ni­sti», spe­cia­le 


«Orga­niz­za­zio­ne del lavo­ro! Ma il lavo­ro sala­ria­to è l’at­tua­le orga­niz­za­zio­ne bor­ghe­se del lavo­ro. Sen­za di esso non vi è capi­ta­le, né bor­ghe­sia, né socie­tà bor­ghe­se.
Un pro­prio mini­ste­ro del lavo­ro! Ma i mini­ste­ri del­le finan­ze, del com­mer­cio, dei lavo­ri pub­bli­ci, non sono for­se mini­ste­ri bor­ghe­si del lavo­ro?… », alla cita­zio­ne dal Marx del ’48 pos­sia­mo oggi aggiun­ge­re: «Un Tri­bu­na­le, una Pre­tu­ra, una Giu­sti­zia del lavo­ro? Ma non si trat­ta del­la giu­sti­zia bor­ghe­se sul com­por­ta­men­to pro­le­ta­rio, sul­la lot­ta del­l’o­pe­ra­io, sui movi­men­ti del­la clas­se ope­ra­ia, già di per sé cri­mi­na­le, già di per sé irri­du­ci­bil­men­te anta­go­ni­sta, di fat­to vio­len­ta ed ever­si­va per la giu­sti­zia bor­ghe­se?». E davan­ti al Tri­bu­na­le del lavo­ro di Mila­no si pre­sen­ta­no il 15 luglio, alle ore 16, gli ope­rai che la Magne­ti Marel­li-Fiat vuo­le licen­zia­re da un anno, ma che da un anno sono ogni gior­no pre­sen­ti al loro posto di lot­ta, den­tro la fab­bri­ca.
Sia la pri­ma sca­den­za pro­ces­sua­le (il pre­to­re Bona­vi­ta­co­la davan­ti a 400 ope­rai emet­te sen­ten­za favo­re­vo­le al padro­ne), sia la secon­da sca­den­za (il pre­to­re Mun­to­ni riam­met­te in fab­bri­ca gli ope­rai che però già ci van­no), sia que­sto appel­lo di oggi han­no ria­per­to la que­stio­ne del pro­ces­so ope­ra­io, cioè la que­stio­ne del­la pre­sen­za degli ope­rai in Palaz­zo dì Giu­sti­zia. La leg­ge-Bro­do­li­ni – la leg­ge n. 300 subi­to bat­tez­za­ta «sta­tu­to dei lavo­ra­to­ri» – fu la san­zio­ne del­la pre­sen­za nel­la fab­bri­ca di un sin­da­ca­to rifon­da­to e che ave­va ret­to l’ur­to del movi­men­to; quel­la san­zio­ne di una pro­spet­ti­va accet­ta­ta dal­la bor­ghe­sia in cui la lot­ta sala­ria­le vie­ne assun­ta nel­la sua fun­zio­ne di sti­mo­lo e di dina­mi­smo del siste­ma; ma fu la trac­cia su cui lavo­ra­re per la sta­bi­liz­za­zio­ne del­la lot­ta, per il con­trol­lo del­la con­flit­tua­li­tà e lo sca­ri­co del­le ten­sio­ni quo­ti­dia­ne di clas­se den­tro i tem­pi lun­ghi del­la pro­ce­du­ra giu­di­zia­ria, fuo­ri del­la fab­bri­ca e del­la trat­ta­ti­va diret­ta, den­tro il Palaz­zo di Giu­sti­zia, den­tro la rego­la­men­ta­zio­ne di una leg­ge del­lo Sta­to, den­tro l’im­ma­gi­ne di uno Sta­to inter­me­dia­rio «inter par­tes».
In que­sto sen­so si carat­te­riz­zò da subi­to come «un’ar­ma a dop­pio taglio»: rati­fi­ca di un alto pote­re socia­le, riven­di­ca­ti­vo di clas­se (l’o­pe­ra­io come rigi­di­tà nel­la fab­bri­ca e come doman­da di beni nel­la socie­tà) nel­la fase alta del ciclo eco­no­mi­co; e «l’am­mor­tiz­za­to­re» del­le ten­sio­ni nel­la fase di cri­si e di con­trat­tac­co capi­ta­li­sti­co. Una sor­ta di mec­ca­ni­smo «a due tem­pi», capa­ce di usa­re la stes­sa appa­ren­za di «impar­zia­li­tà» e la cre­di­bi­li­tà, la legit­ti­ma­zio­ne che si gua­da­gna negli anni del­le «vac­che gras­se», per legit­ti­ma­re il suo fun­zio­na­men­to aper­ta­men­te anti­o­pe­ra­io quan­do que­sta è la com­mit­ten­za che l’in­te­res­se capi­ta­li­sti­co gli dà. Uno dei clas­si­ci stru­men­ti di inter­pre­ta­zio­ne dell’«interesse gene­ra­le» di par­te capi­ta­li­sti­ca, lega­to alla rea­liz­za­zio­ne del pro­fit­to medio, è dun­que a vol­te con­trad­dit­to­rio con l’in­te­res­se del sin­go­lo capi­ta­li­sta, «a mag­gior glo­ria» del­le rego­le gene­ra­li del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne. Come stru­men­to anti­o­pe­ra­io, ha fun­zio­na­to come un mec­ca­ni­smo a mol­la: ogni sen­ten­za favo­re­vo­le agli ope­rai ha avu­to anche l’ef­fet­to di cari­car­la, per pre­pa­ra­re il con­trac­col­po anti­o­pe­ra­io. Poco impor­ta qui nota­re come per mesi e per più di una occa­sio­ne la «leg­ge 300» ha rap­pre­sen­ta­to una san­zio­ne posi­ti­va di un movi­men­to di lot­ta che si era dispie­ga­to per due anni come gene­ra­le, che ave­va pro­fon­da­men­te segna­to la pra­ti­ca sin­da­ca­le sen­za poter ribal­ta­re la natu­ra del sin­da­ca­to.
Que­sto movi­men­to ave­va costi­tui­to un polo di attra­zio­ne per una serie di Pre­to­ri demo­cra­ti­ci, che ave­va fat­to emer­ge­re una serie di volen­te­ro­si avvo­ca­ti riu­ni­ti in comi­ta­ti e col­let­ti­vi. Que­ste varian­ti tat­ti­che non muta­no la que­stio­ne di fon­do, la fun­zio­ne stra­te­gi­ca del­la leg­ge, e, pri­ma di tut­to, il più orga­ni­co tela­io e dise­gno poli­ti­co in cui la leg­ge si inscri­ve, e che alla fine ha pre­val­so. Poco impor­ta anche nota­re qui gli infi­ni­ti erro­ri e le nume­ro­se illu­sio­ni che sono sta­te col­ti­va­te attor­no al cosid­det­to «sta­tu­to» (e sot­to­li­nea­re come la sua intro­du­zio­ne in set­to­ri a sin­da­ca­li­smo arre­tra­to sia sta­ta nega­ta sia dal­lo Sta­to, sia dal­l’i­sti­tu­to sin­da­ca­le pre­via futu­ra omo­ge­nei­tà e con­trol­lo da rag­giun­ger­si – la scuo­la è l’e­sem­pio più visto­so di que­sta sepa­ra­zio­ne).
Tut­to quan­to era in sospet­to, oggi – in una fase di chia­ri­fi­ca­zio­ne mas­si­ma del­le par­ti e di anta­go­ni­smi espli­ci­ti – vie­ne in chia­ro. In chia­ro la tenu­ta dei «Pre­to­ri demo­cra­ti­ci», in chia­ro lo schie­ra­men­to degli avvo­ca­ti sot­to e fuo­ri del­la tute­la sin­da­ca­le, in chia­ro anche il trion­fa­li­smo e l’il­lu­sio­ne di nume­ro­se avan­guar­die. La «leg­ge 300» è il frut­to di una con­ven­zio­ne di com­por­ta­men­ti tra padro­na­to e isti­tu­to sin­da­ca­le fon­da­ta sul­l’i­po­te­si (inter­clas­si­sta) e la pra­ti­ca (repres­si­va) che – stan­te una labo­rio­si­tà cre­scen­te, una accet­ta­zio­ne incon­di­zio­na­ta del­la disci­pli­na e gerar­chia pro­dut­ti­va del «pre­sta­to­re d’o­pe­ra» – sia eli­mi­na­bi­le la san­zio­ne mini­ma e mas­si­ma da par­te del padro­ne; e che comun­que si trat­ti sem­pre di ver­ten­ze com­po­ni­bi­li, di un dan­no che si risol­ve con il risar­ci­men­to.
La real­tà va in un altro modo, vi è rifiu­to del lavo­ro sala­ria­to e non cre­scen­te labo­rio­si­tà; vi è attac­co cre­scen­te alle gerar­chie di fab­bri­ca e non accet­ta­zio­ne del codi­ce disci­pli­na­re; di pre­sta­to­re d’o­pe­ra non si trat­ta ma di clas­se ope­ra­ia coscien­te; di ver­ten­za com­po­ni­bi­le non si par­la ma di un con­flit­to radi­ca­le, cre­scen­te, che assu­me spes­so le for­me mas­si­me del con­flit­to di clas­se: nien­te di tut­to que­sto può esse­re risar­ci­to in nes­sun modo; gli ope­rai rivo­lu­zio­na­ri non si ven­do­no e non ven­do­no la lot­ta, il lavo­ro poli­ti­co fat­to e da fare – e non per mora­li­smo ma per cal­co­lo mate­ria­le (i tem­pi del­la cor­ru­zio­ne del­le avan­guar­die – pen­sia­mo ad alcu­ni vec­chi epi­so­di del­l’Al­fa – appar­ten­go­no a un refe­ren­te ope­ra­io tra­di­zio­na­le, sto­ri­ca­men­te data­to, improv­vi­sa­to e con una sua fun­zio­ne tan­to momen­ta­nea quan­to spon­ta­neo era il movi­men­to di repar­to e di fab­bri­ca da essi gui­da­to).
Gli ope­rai che oggi gui­da­no que­ste lot­te di fon­do den­tro la fab­bri­ca o sono muta­ti radi­cal­men­te rispet­to alle ori­gi­ni di movi­men­to, o sono refe­ren­te ope­ra­io gio­va­ne carat­te­riz­za­to dal­la nuo­va qua­li­tà del­la lot­ta, dal­la nuo­va fun­zio­ne del­l’a­van­guar­dia non più lega­ta all’im­me­dia­ti­smo (e allo spa­zio imme­dia­to) del­la lot­ta sin­da­ca­le ed eco­no­mi­ca, ma al pro­get­to stra­te­gi­co del­la rivo­lu­zio­ne.
C’è insie­me – nel­la stret­ta del­la cri­si – una vera e pro­pria cadu­ta del­la pos­si­bi­le, ipo­tiz­za­bi­le, tra­di­zio­na­le, fun­zio­ne di par­zia­le redi­stri­bu­zio­ne di plus-valo­re che il sin­da­ca­to a vicen­de sto­ri­che alter­ne assu­me nel­la sua fun­zio­ne di isti­tu­to inter­no al siste­ma. La lot­ta sala­ria­le ope­ra­ia, la lot­ta ope­ra­ia e pro­le­ta­ria sul red­di­to, non ha più dun­que una rap­pre­sen­ta­ti­vi­tà lega­le sta­bi­le: o si muo­ve in modo indi­scri­mi­na­to e sel­vag­gio (e per­ché no, anche cor­po­ra­ti­vo), o è assun­ta nel­la rap­pre­sen­ta­ti­vi­tà rea­le di orga­ni­smi sta­bi­li, pri­ma di tut­to cre­sciu­ti sul­la discri­mi­nan­te poli­ti­ca, risul­ta­to del­le pri­me esi­gen­ze poli­ti­che di una clas­se ope­ra­ia che si pone il pro­ble­ma di come «fuo­riu­sci­re dal siste­ma» pri­ma fuo­riu­scen­do dal­le sca­den­ze, dal­le scan­sio­ni (con­trat­ti, ver­ten­ze, com­pa­ti­bi­li­tà, pro­fes­sio­na­li­tà, qua­li­fi­ca­zio­ne, disci­pli­na, esa­me, pro­prie­tà, leg­ge, Sta­to ecc.) con cui si rego­la­men­ta com­ples­si­va­men­te l’ac­cu­mu­la­zio­ne capi­ta­li­sti­ca, il domi­nio socia­le bor­ghe­se sui mez­zi di pro­du­zio­ne.
Que­sti con­te­nu­ti del­la lot­ta fan­no esplo­de­re l’i­dil­lio del­le posi­zio­ni e il gio­co del­le par­ti nel pro­ces­so ope­ra­io.
La «leg­ge 300» è sem­pre di più uno strac­cio, il carat­te­re ine­so­ra­bi­le – anche nel futi­le det­ta­glio di uno o due licen­zia­men­ti – del­la natu­ra di clas­se del­la giu­sti­zia si affer­ma, con la soli­ta appa­ren­te ottu­si­tà, che è inve­ce luci­da, fero­ce deter­mi­na­zio­ne di fon­do.
L’an­di­ri­vie­ni pre­to­ri­le vie­ne bloc­ca­to dai giu­di­ci di Tri­bu­na­le che taglia­no cor­to bru­sca­men­te con la far­sa esi­sten­zia­le del­la Pre­tu­ra e affer­ma­no la loro natu­ra di fun­zio­na­ri diret­ti del padro­na­to nel­le sue arti­co­la­zio­ni regio­na­li e cit­ta­di­ne (qui a Mila­no, l’As­so­lom­bar­da). Reg­go­no bene anche all’in­sul­to: i cor­do­ni degli armi­ge­ri di Sta­to li tute­la­no dal­le res­se e dagli assem­bra­men­ti pro­ces­sua­li ope­rai – quan­do ci sono -; non rimar­reb­be che distrug­ger­li. Nel cuo­re del­lo Sta­to, il fun­zio­na­rio sin­da­ca­le che ha con­dot­to in fab­bri­ca la par­te del­la repres­sio­ne inter­na al movi­men­to, che ha gesti­to la sot­tra­zio­ne del­la lot­ta al suo «habi­tat» tra­di­zio­na­le non è più che quel­lo che Gram­sci (par­don) chia­ma­va l’in­tel­let­tua­le di tipo rura­le: « …sono in gran par­te “tra­di­zio­na­li”; (…) que­sto tipo di intel­let­tua­le met­te a con­tat­to la mas­sa con­ta­di­na con l’am­mi­ni­stra­zio­ne sta­ta­le e per que­sta stes­sa fun­zio­ne ha una gran­de fun­zio­ne poli­ti­co-socia­le, per­ché la media­zio­ne pro­fes­sio­na­le è dif­fi­cil­men­te scin­di­bi­le dal­la media­zio­ne poli­ti­ca.
Inol­tre: nel­la cam­pa­gna l’in­tel­let­tua­le ha un medio teno­re di vita supe­rio­re o alme­no diver­so da quel­lo del medio con­ta­di­no… ». Se la for­za orga­niz­za­ta che que­sto «nuo­vo intel­let­tua­le in veste vul­ga­ta del capi­ta­le» rap­pre­sen­ta è sta­ta distrut­ta nel­la lot­ta in fab­bri­ca, anche la sua ideo­lo­gia sarà ridot­ta a car­ta strac­cia e la sua media­zio­ne non var­rà che una auto­con­vin­zio­ne. Que­sto «intel­let­tua­le» è sta­to distrut­to nel­la vicen­da Magne­ti-ope­rai licen­zia­ti, per­ché già pri­ma la sua rap­pre­sen­ta­ti­vi­tà era sta­ta distrut­ta nel repar­to e nel­la fab­bri­ca. Ma nel cuo­re del­lo Sta­to gli ope­rai rivo­lu­zio­na­ri vedo­no ten­der­si al mas­si­mo la lot­ta, la loro capa­ci­tà di orga­niz­za­zio­ne auto­no­ma, la loro capa­ci­tà di sol­le­ci­ta­re una nuo­va intel­li­gen­za anta­go­ni­sta nel­la clas­se.
Il pro­ces­so ope­ra­io rom­pe i veli del­le pre­ce­den­ti misti­fi­ca­zio­ni, fuo­rie­sce dai ten­ta­ti­vi di gover­no lega­le del­lo scon­tro di clas­se immi­se­ren­do­li di col­po, met­te da par­te il vec­chio media­to­re sin­da­ca­le e si pre­sen­ta di fron­te al giu­di­ce come a un nemi­co giu­ra­to, dispie­gan­do tut­ta la sua for­za. Del Tri­bu­na­le del lavo­ro i padro­ni han­no cer­ca­to di fare un isti­tu­to secon­da­rio che mini­miz­zas­se lo scon­tro di clas­se.
La clas­se ope­ra­ia ha inve­ce tut­to l’in­te­res­se a ripor­tar­lo alla dimen­sio­ne rea­le di vero e pro­prio Tri­bu­na­le poli­ti­co anti-ope­ra­io, dove si rico­strui­sce pro­ces­so dopo pro­ces­so una ideo­lo­gia padro­na­le e gerar­chi­ca sal­da­ta a dure san­zio­ni, a sen­ten­ze una dopo l’al­tra nega­ti­ve che chiu­do­no mesi ed anni di illu­sio­ne foren­se del­l’o­pe­ra­io di fab­bri­ca. Sta­na­re que­sti lupi è com­pi­to degli ope­rai rivo­lu­zio­na­ri, scar­di­na­re l’or­di­ne di Palaz­zo di Giu­sti­zia pre­sen­tan­do­si non come a una sca­den­za secon­da­ria, ma come a una sca­den­za poli­ti­ca.
Sap­pia­mo tut­ti quan­to di deter­mi­na­to, quan­ta volon­tà poli­ti­ca di distru­zio­ne del­la clas­se vi è nel pro­ce­de­re «obiet­ti­vo ed eco­no­mi­co» del­la ristrut­tu­ra­zio­ne, del­la cas­sa inte­gra­zio­ne, del licen­zia­men­to; abbia­mo qui, nel licen­zia­men­to poli­ti­co e nel­le sue istan­ze cele­bra­ti­ve, il «pas­so più avan­ti» che pos­sia­mo fare non da soli con­tro lo Sta­to, ma con pro­fon­de moti­va­zio­ni den­tro la lot­ta ope­ra­ia più vasta. Il Tri­bu­na­le del lavo­ro nien­te altro è che il Tri­bu­na­le del­le san­zio­ni con­tro l’in­di­sci­pli­na e la ribel­lio­ne ope­ra­ia quo­ti­dia­na al lavo­ro sala­ria­to; qui si chiu­de anche la «liber­tà di scio­pe­ro» costi­tu­zio­na­le, qui si ten­ta la per­fe­zio­ne del­la gestio­ne col­le­gia­le padro­ni-sin­da­ca­to del­lo sfrut­ta­men­to ope­ra­io; fuo­ri del­le emo­zio­ni ses­san­tot­te­sche e den­tro la radi­ca­liz­za­zio­ne cre­scen­te del­le lot­te, le istan­ze pren­do­no le giu­ste dimen­sio­ni.
Alla san­zio­ne del licen­zia­men­to padro­na­le si aggiun­ge la defi­ni­zio­ne cri­mi­na­le del­la lot­ta, si cele­bra la ripro­va­zio­ne del­lo Sta­to, si schiac­cia l’o­pe­ra­io alla dimen­sio­ne di cit­ta­di­no qual­sia­si che ha vio­la­to le leg­gi del­la comu­ne con­vi­ven­za. È tut­to que­sto che stia­mo lavo­ran­do a distrug­ge­re con la pre­sen­za ope­ra­ia in Palaz­zo di Giu­sti­zia, è com­pi­to dei rivo­lu­zio­na­ri far­lo, è que­sta – dopo la cri­si coniu­ga­le con la «dop­pia ammi­ni­stra­zio­ne», la «pre­tu­ra dei lavo­ra­to­ri» e lo «sta­tu­to dei lavo­ra­to­ri» del movi­men­to, del­le avan­guar­die, degli avvo­ca­ti – la stra­da da pren­de­re. Anche in que­sto sen­so ha agi­to la lot­ta degli ope­rai Magne­ti, anche que­sto por­ta la bat­ta­glia con­tro il licen­zia­men­to dei 4 com­pa­gni che – lo ripe­tia­mo – usci­ran­no dal­la fab­bri­ca quan­do lo deci­de­re­mo noi.

Classe operaia e ”individuo sociale”

Da ”Magaz­zi­no” n.2 di Rober­ta Tomassini


Il ten­ta­ti­vo di Bra­ver­man (H. BRAVERMAN, Lavo­ro e capi­ta­le mono­po­li­sti­co, trad. it., Einau­di, Tori­no, 1978) di met­te­re a fuo­co le più rile­van­ti tra­sfor­ma­zio­ni del pro­ces­so lavo­ra­ti­vo, dagli ini­zi del­la rivo­lu­zio­ne indu­stria­le ai nostri gior­ni, si risol­ve in un ambi­guo pastic­cio di socio­lo­gia vol­ga­re e di vel­lei­tà filo­so­fi­co-spe­cu­la­ti­ve.
L’ap­pa­ren­te arti­co­la­zio­ne ana­li­ti­ca del­l’in­da­gi­ne di Bra­ver­man ha per­ciò un anda­men­to tal­men­te sche­ma­ti­co e ripe­ti­ti­vo che è facil­men­te sin­te­tiz­za­bi­le: il lavo­ro sala­ria­to dipen­den­te, che si gene­ra­liz­za con la pri­ma rivo­lu­zio­ne indu­stria­le, con­sen­te al capi­ta­le non solo di coman­da­re il lavo­ro “imme­dia­to”, ma di con­ti­nua­re anche ad appro­priar­si del­le con­di­zio­ni ogget­ti­ve di ero­ga­zio­ne del lavo­ro con­cre­to.
La ricer­ca di Bra­ver­man inten­de appun­to descri­ve­re le fun­zio­ni che deter­mi­na­no l’a­strat­tiz­za­zio­ne rea­le del lavo­ro ope­ra­io che per­de così ogni indi­pen­den­za, ogni auto­no­mia rispet­to al domi­nio capi­ta­li­sti­co. Agli ini­zi, l’o­riz­zon­te del pote­re capi­ta­li­sti­co scon­ta i limi­ti che gli deri­va­no dal­lo svi­lup­po del­la scien­za come “teoria”-“rappresentazione” del­la real­tà sepa­ra­ta e distin­ta dal­lo svi­lup­po del saper-fare, dal­la intel­li­gen­za tec­ni­ca e stru­men­ta­le del­l’o­pe­ra­io di mestie­re.
In tut­ta la fase del­la “mec­ca­niz­za­zio­ne” è anco­ra l’in­tel­li­gen­za tec­ni­ca espro­pria­ta all’o­pe­ra­io di mestie­re il moto­re del­l’in­no­va­zio­ne capi­ta­li­sti­ca del­l’or­ga­niz­za­zio­ne del pro­ces­so lavo­ra­ti­vo: tale uni­tà fra idea­zio­ne ed ese­cu­zio­ne nel lavo­ro ope­ra­io è il limi­te del­la divi­sio­ne del lavo­ro e del­la sua mas­si­ma disci­pli­na. Sol­tan­to la for­ma­zio­ne di un cer­vel­lo socia­le, ade­gua­to alle esi­gen­ze capi­ta­li­sti­che di sfrut­ta­men­to del lavo­ro, avreb­be potu­to garan­ti­re uno svi­lup­po tec­no­lo­gi­co e scien­ti­fi­co, che pro­prio per­ché rela­ti­va­men­te “sepa­ra­to” dal lavo­ro ope­ra­io, si costi­tuis­se appun­to come intel­li­gen­za del­le for­me di coman­do e di mas­si­mo sfrut­ta­men­to del­la for­za lavo­ro. La nasci­ta del­le scuo­le poli­tec­ni­che per la “for­ma­zio­ne” del­l’in­ge­gne­re deter­mi­na la defi­ni­ti­va scis­sio­ne all’in­ter­no del pro­ces­so lavo­ra­ti­vo fra idea­zio­ne ed ese­cu­zio­ne: il pas­sag­gio dal­la “mec­ca­niz­za­zio­ne” all“ ‘auto­ma­zio­ne” non a caso si veri­fi­ca, nei diver­si pae­si indu­stria­liz­za­ti, sul rit­mo del­l’e­span­sio­ne e del­la dif­fu­sio­ne del­le scuo­le poli­tec­ni­che. Con la scis­sio­ne fra idea­zio­ne ed ese­cu­zio­ne, l’in­no­va­zio­ne tec­ni­ca non è più sepa­ra­ta dal­la inno­va­zio­ne orga­niz­za­ti­va: lo svi­lup­po tec­no­lo­gi­co e scien­ti­fi­co è infat­ti con­ti­nua­men­te infor­ma­to dal­la socio­lo­gia indu­stria­le che osser­va i com­por­ta­men­ti ope­rai, li codi­fi­ca, li clas­si­fi­ca e li misu­ra in quan­to fun­zio­ni pura­men­te mec­ca­ni­che ed ese­cu­ti­ve che come tali pos­so­no esse­re com­bi­na­te ed ordi­na­te in una serie di ipo­te­si orga­niz­za­ti­ve sino ad indi­vi­dua­re quel­la più “pro­dut­ti­va”. La razio­na­li­tà capi­ta­li­sti­ca, secon­do Bra­ver­man, ha con­ti­nua­to a spin­ge­re in que­sta dire­zio­ne impo­nen­do la sepa­ra­tez­za fra idea­zio­ne ed ese­cu­zio­ne anche al lavo­ro impie­ga­ti­zio, ammi­ni­stra­ti­vo e dei ser­vi­zi.
Lo svi­lup­po del­l’in­for­ma­ti­ca e del­la com­pu­te­riz­za­zio­ne pro­le­ta­riz­za infat­ti la for­za lavo­ro intel­let­tua­le media­men­te qua­li­fi­ca­ta ridot­ta a svol­ge­re man­sio­ni pura­men­te ese­cu­ti­ve, ripe­ti­ti­ve e par­cel­liz­za­te.
Il lavo­ro vivo, come capa­ci­tà di inno­va­zio­ne che si dif­fe­ren­zia dal­l’u­ni­ver­so del lavo­ro astrat­to ugua­le, ten­de per­ciò a rea­liz­zar­si nel­la ristret­ta cer­chia di una sor­ta di “man­da­ri­na­to” che si iden­ti­fi­ca con gli inte­res­si di capi­ta­le e che resta inac­ces­si­bi­le alla mas­si­fi­ca­zio­ne del lavo­ro socia­le ese­cu­ti­vo.
La degra­da­zio­ne del lavo­ro, come base e con­di­zio­ne del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne capi­ta­li­sti­ca, gene­ra però assen­tei­smo, disaf­fe­zio­ne, dere­spon­sa­bi­liz­za­zio­ne rispet­to ad un’at­ti­vi­tà lavo­ra­ti­va che per­de ogni attrat­ti­va e ogni pos­si­bi­li­tà di gra­ti­fi­ca­zio­ne.
Nel­la logi­ca di Bra­ver­man comun­que tale resi­sten­za spon­ta­nea e mas­si­fi­ca­ta alla degra­da­zio­ne del lavo­ro è di per sé inca­pa­ce di tra­dur­si in un effet­ti­vo supe­ra­men­to del­le attua­li con­di­zio­ni alie­na­te del­la pro­du­zio­ne. Se e nel­la misu­ra in cui il capi­ta­le detie­ne il lavo­ro vivo – in quan­to “orga­niz­za” e “for­ma” il cer­vel­lo socia­le come sua pro­pria fun­zio­ne di svi­lup­po – solo il pro­ces­so di tran­si­zio­ne che ricom­pon­ga idea­zio­ne ed ese­cu­zio­ne e rico­sti­tui­sca la pro­fes­sio­na­li­tà attra­ver­so l’au­to­ge­stio­ne può ricon­qui­sta­re l’in­tel­li­gen­za ed il con­trol­lo dei mez­zi di pro­du­zio­ne. Bra­ver­man sem­bra rie­su­ma­re dal­le cene­ri un dibat­ti­to che, nel mar­xi­smo ita­lia­no, si è rapi­da­men­te con­su­ma­to fra la fine degli anni cin­quan­ta e l’i­ni­zio degli anni ses­san­ta; il capi­ta­le mono­po­li­sti­co divi­de­va allo­ra la cul­tu­ra mar­xi­sta ita­lia­na fra l’ot­ti­mi­smo di quan­ti attri­bui­va­no all’au­to­ma­zio­ne il supe­ra­men­to del­l’i­dio­ti­smo del mestie­re e quin­di la for­ma­zio­ne di un’in­di­vi­dua­li­tà socia­le ric­ca e libe­ra­ta dal­la fati­ca, ed il pes­si­mi­smo di quan­ti coglie­va­no nel­le nuo­ve con­di­zio­ni del­la pro­du­zio­ne il bara­tro del­la robo­tiz­za­zio­ne, del con­su­mi­smo, del­la cul­tu­ra di mas­sa, del­l’in­te­gra­zio­ne.
Le lot­te dell’ ”ope­ra­io mas­sa” e gli ini­zi di una ricer­ca mar­xi­sta – l’o­pe­rai­smo – che ne assu­me­va il “pun­to di vista”, dimo­stra­no come una pro­ble­ma­ti­ca di que­sto gene­re non avreb­be potu­to tro­va­re solu­zio­ne sul pia­no del­la futu­ro­lo­gia, del gusto pro­fe­ti­co degli intel­let­tua­li, indi­pen­den­te­men­te cioè dal­le carat­te­ri­sti­che del­lo scon­tro di clas­se. Quan­to più infat­ti la ricer­ca mar­xi­sta si con­fron­ta con la qua­li­tà del­le lot­te ope­ra­ie tan­to più sco­pre che non è il valo­re del lavo­ro che fon­da la pos­si­bi­li­tà sto­ri­ca del­l’e­ge­mo­nia ope­ra­ia: è uni­ca­men­te la stra­te­gia del rifiu­to del lavo­ro che svi­lup­pa comu­ni­smo. Que­sto è il solo pun­to di vista che, pur “scan­da­liz­zan­do” la cul­tu­ra mar­xi­sta uffi­cia­le, per­met­te di affer­ra­re il sen­so del pen­sie­ro mar­xia­no al di là del­la sua appa­ren­te insu­pe­ra­bi­le con­trad­di­zio­ne su cui tan­to si è affa­ti­ca­to il mar­xi­smo filo­so­fi­co: non vi è dub­bio che quan­do Marx ana­liz­za lo svi­lup­po tec­no­lo­gi­co e scien­ti­fi­co, e quin­di le tra­sfor­ma­zio­ni del pro­ces­so lavo­ra­ti­vo sot­to il coman­do capi­ta­li­sti­co, coglie nel­la sus­sun­zio­ne rea­le del lavo­ro ope­ra­io al capi­ta­le l’in­ten­si­fi­ca­zio­ne del­lo sfrut­ta­men­to del­la for­za lavo­ro e la sua sva­lo­riz­za­zio­ne.
Eppu­re, per Marx, quan­to più il capi­ta­le astrat­tiz­za il lavo­ro, e quan­to più lo assog­get­ta, tan­to più si svi­lup­pa la sog­get­ti­vi­tà comu­ni­sta.
Come è pos­si­bi­le che lo svi­lup­po del­le for­ze pro­dut­ti­ve, come svi­lup­po del pote­re di capi­ta­le sul lavo­ro socia­le, sia svi­lup­po del­le con­di­zio­ni che fon­da­no la neces­si­tà sto­ri­ca del comu­ni­smo?
Per l’o­pe­rai­smo non è l’au­to­no­ma capa­ci­tà civi­liz­za­tri­ce di capi­ta­le che imme­dia­ta­men­te innal­za il valo­re del­la for­za lavo­ro, al di là del­la sua appa­ren­te sva­lo­riz­za­zio­ne, ma è il rifiu­to del lavo­ro che costrin­ge il capi­ta­le a ren­der­si sem­pre più “indi­pen­den­te” dal lavo­ro ope­ra­io, a ridur­re il lavo­ro social­men­te neces­sa­rio sino al pun­to in cui non può più por­si come “misu­ra” del­le poten­zia­li­tà pro­dut­ti­ve che ha evo­ca­to. Sino a che l’in­no­va­zio­ne del pro­ces­so lavo­ra­ti­vo dipen­de dal saper-fare del­l’o­pe­ra­io di mestie­re, la pro­fes­sio­na­li­tà ope­ra­ia valo­riz­za il capi­ta­le ma rap­pre­sen­ta anche fat­to­re di rigi­di­tà e di auto­no­mia nel­la pro­du­zio­ne, che il capi­ta­le ten­de a distrug­ge­re sus­su­men­do l’in­tel­li­gen­za tec­ni­ca e scien­ti­fi­ca e ren­den­do il lavo­ro ope­ra­io ese­cu­ti­vo.
Nel­la misu­ra in cui però il capi­ta­le sva­lo­riz­za la for­za lavo­ro è la clas­se ope­ra­ia che si valo­riz­za come tale: la valo­riz­za­zio­ne capi­ta­li­sti­ca dipen­de ora dal rifiu­to del lavo­ro che “coman­da” lo svi­lup­po capi­ta­li­sti­co costrin­gen­do­lo a tra­sfor­ma­re le con­di­zio­ni del­la pro­du­zio­ne ver­so una cre­scen­te auto­ma­zio­ne. La sva­lo­riz­za­zio­ne del­la for­za lavo­ro svi­lup­pa un anta­go­ni­smo qua­li­ta­ti­va­men­te nuo­vo che ren­de sto­ri­ca­men­te matu­ra la pos­si­bi­li­tà sog­get­ti­va per la clas­se ope­ra­ia di valo­riz­zar­si come for­za poli­ti­ca, nel­la con­ti­nua nega­zio­ne di sé come mer­ce che si scam­bia con capi­ta­le. Marx nel­la gene­ra­liz­za­zio­ne del lavo­ro astrat­to-ugua­le, nel­la par­cel­liz­za­zio­ne del­le man­sio­ni, nel­la loro inter­scam­bia­bi­li­tà, indi­vi­dua infat­ti la base mate­ria­le del­la dis­so­lu­zio­ne del­la divi­sio­ne del­la socie­tà in clas­si, del­la sop­pres­sio­ne del­la leg­ge del valo­re.
Astrat­tiz­za­zio­ne del lavo­ro social­men­te com­bi­na­to, auto­ma­zio­ne e quin­di ridu­zio­ne del tem­po di lavo­ro social­men­te neces­sa­rio impli­ca­no per Marx l’au­to­ne­ga­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia in quan­to for­za lavo­ro, nel­la sua fun­zio­ne cioè di mez­zo di pro­du­zio­ne.
La cri­si di tale fun­zio­ne stru­men­ta­le non impli­ca affat­to sva­lo­riz­za­zio­ne del­la sog­get­ti­vi­tà ope­ra­ia e pro­le­ta­ria: ne ele­va al con­tra­rio l’in­tel­let­tua­li­tà, le capa­ci­tà che ces­sa­no di esse­re deter­mi­na­te dal tem­po di lavo­ro.
L’in­dif­fe­ren­za fra i vari lavo­ri è la base mate­ria­le del­la “uni­ver­sa­liz­za­zio­ne” del­l’in­di­vi­duo socia­le il cui pote­re non è più deter­mi­na­to dal­le com­pe­ten­ze “par­zia­li” del­la for­za lavo­ro imme­dia­ta. Ma è esat­ta­men­te il Marx teo­ri­co del comu­ni­smo che Bra­ver­man si rifiu­ta di leg­ge­re, rive­lan­do­si chiu­so ad ogni logi­ca di supe­ra­men­to del­la divi­sio­ne del­la socie­tà in clas­si. Non gli resta per­ciò che con­si­de­ra­re la degra­da­zio­ne del lavo­ro per vagheg­gia­re il lavo­ro “uma­niz­za­to” anco­ra­to all’i­deo­lo­gia socia­li­sta.
È un modo come un altro per con­vin­ce­re la clas­se ope­ra­ia del­la impos­si­bi­li­tà sto­ri­ca del supe­ra­men­to del­la sua con­di­zio­ne, e del­la neces­si­tà per­ciò di lot­ta­re con­tro la degra­da­zio­ne del lavo­ro per poter incon­tra­re sen­ti­men­ti di gra­ti­fi­ca­zio­ne e di orgo­glio nel­la pro­pria con­di­zio­ne subor­di­na­ta, nel­la intel­li­gen­za del pro­prio ruo­lo stru­men­ta­le, di for­za lavo­ro, nel­la ripro­du­zio­ne socia­le. In tale fun­zio­ne ideo­lo­gi­ca il libro di Bra­ver­man, per quan­to roz­zo e supe­ra­to, susci­ta sim­pa­tie e con­sen­si da par­te di tut­te quel­le for­ze poli­ti­che impe­gna­te a repe­ri­re nuo­ve vie per sfug­gi­re il comu­ni­smo.
Ma la lot­ta con­tro la degra­da­zio­ne del lavo­ro, per la nuo­va pro­fes­sio­na­li­tà, per la ricom­po­si­zio­ne fra idea­zio­ne ed ese­cu­zio­ne, per la nuo­va qua­li­fi­ca­zio­ne, con cui Pci e sin­da­ca­ti han­no inte­so far dige­ri­re la “ristrut­tu­ra­zio­ne” all’au­tun­no cal­do, è una lot­ta che sa solo di scon­fit­ta, di rinun­cia al comu­ni­smo: come tale non pre­sen­ta nes­su­na attrat­ti­va per una clas­se ope­ra­ia esclu­si­va­men­te inte­res­sa­ta a orga­niz­za­re il rifiu­to del lavo­ro. Al pun­to che la ristrut­tu­ra­zio­ne, al di là di ogni pro­gram­ma di nuo­va pro­fes­sio­na­li­tà, attra­ver­so la robo­tiz­za­zio­ne, l’in­for­ma­ti­ca, la com­pu­te­riz­za­zio­ne, il decen­tra­men­to, le ipo­te­si di intro­du­zio­ne del tem­po di lavo­ro fles­si­bi­le ha inte­so col­pi­re le for­me di orga­niz­za­zio­ne del rifiu­to del lavo­ro. E nel­la nuo­va divi­sio­ne del lavo­ro, nel­la nuo­va orga­niz­za­zio­ne di impre­sa, si riscon­tra un’ul­te­rio­re acce­le­ra­zio­ne dei pro­ces­si di astrat­tiz­za­zio­ne del­la stes­sa socia­liz­za­zio­ne dal lavo­ro.
È pro­prio l’in­di­spo­ni­bi­li­tà a valo­riz­za­re il capi­ta­le del lavo­ra­to­re com­ples­si­vo che spin­ge il cer­vel­lo orga­niz­za­ti­vo di capi­ta­le a sot­trar­re ogni deci­sio­ne, ogni respon­sa­bi­li­tà, ogni resi­duo di lavo­ro con­cre­to alla com­bi­na­zio­ne del­le man­sio­ni che potreb­be tra­sfor­mar­si in occa­sio­ne di anta­go­ni­smo e di sabo­tag­gio.
La ten­den­za, in que­sto sen­so, al supe­ra­men­to del­la cate­na di mon­tag­gio non mira cer­to a eli­mi­na­re la disaf­fe­zio­ne e l’as­sen­tei­smo del­l’o­pe­ra­io sin­go­lo, giu­sta­men­te disin­te­res­sa­to a un lavo­ro mono­to­no e ripe­ti­ti­vo: è piut­to­sto il lavo­ro social­men­te com­bi­na­to con un pote­re di deci­sio­na­li­tà che diven­ta temi­bi­le per il capi­ta­le e che quin­di deve esse­re eli­mi­na­to. Da que­sto pun­to di vista, sem­bre­reb­be giu­sti­fi­ca­ta la moti­va­zio­ne che, al limi­te degli anni ses­san­ta, ha indot­to alcu­ni espo­nen­ti del­l’o­pe­rai­smo a rien­tra­re nel­le fila del Pei: il rifiu­to del lavo­ro – e non cer­to la degra­da­zio­ne del lavo­ro -, in quan­to non capi­ta­le, in quan­to cri­si del rap­por­to di capi­ta­le, valo­riz­za il capi­ta­le.
Il rifiu­to del lavo­ro tra­sfor­ma atti­va­men­te il rap­por­to di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­co, ma non è suf­fi­cien­te a met­ter­ne in cri­si le con­di­zio­ni di ripro­du­zio­ne poli­ti­ca.
Il dina­mi­smo di capi­ta­le capi­ta­liz­za l’an­ta­go­ni­smo ope­ra­io, attra­ver­so la tra­sfor­ma­zio­ne del pro­ces­so lavo­ra­ti­vo che non si risol­ve nel­l’in­no­va­zio­ne tec­no­lo­gi­ca in quan­to avvia pro­ces­si eco­no­mi­co-poli­ti­ci, rela­ti­va­men­te indi­pen­den­ti, che tra­sfor­ma­no dal­l’al­to la com­po­si­zio­ne tec­ni­ca di clas­se. Oggi que­sti stes­si ex-ope­rai­sti nel­l’au­to­no­mia del poli­ti­co final­men­te ci sono entra­ti.
E si sono accor­ti, a quan­to pare, che lo Sta­to post-key­ne­sia­no è ben diver­so dal castel­lo kaf­kia­no, e da ogni mito che vede aggi­rar­si nel palaz­zo “i man­da­ri­ni” del­l’au­to­no­mia del poli­ti­co. Nel­le sue più recen­ti rifles­sio­ni in pro­po­si­to M. Cac­cia­ri (Cfr. M. CACCIARI, Tra­sfor­ma­zio­ni del­lo Sta­to e pro­get­to poli­ti­co, “Cri­ti­ca Mar­xi­sta”, 5, 1978) affer­ma che lo Sta­to attua­le non si iden­ti­fi­ca più né con lo Sta­to Otto­cen­te­sco orga­ni­co agli inte­res­si del­la bor­ghe­sia, né con lo Sta­to key­ne­sia­no come luo­go del­la media­zio­ne e del­la neu­tra­liz­za­zio­ne dei con­flit­ti socia­li.
Lo Sta­to oggi è inca­pa­ce sia di espri­me­re la “com­po­si­zio­ne sin­te­ti­ca dei con­flit­ti”, sia di far­se­ne asso­lu­ta­men­te indi­pen­den­te; in que­sto sen­so, mal­gra­do l’am­pio mar­gi­ne di mano­vra degli stru­men­ti di poli­ti­ca mone­ta­ria, mal­gra­do i pro­ces­si di buro­cra­tiz­za­zio­ne, mal­gra­do la cre­scen­te fun­zio­ne di coman­do che il capi­ta­le socia­le è in gra­do di eser­ci­ta­re rispet­to ai capi­ta­li sin­go­li, la razio­na­li­tà del­lo Sta­to sem­bra ridur­si ad un asset­to fun­zio­na­le inca­pa­ce di “pro­gram­ma­zio­ne”.
La razio­na­li­tà del­lo Sta­to con­tem­po­ra­neo si ride­fi­ni­sce quin­di gior­no per gior­no a fron­te di una con­flit­tua­li­tà dif­fu­sa, per­ma­nen­te: non vi è per­ciò “supe­ra­men­to” del­la cri­si poli­ti­ca, in quan­to lo Sta­to pro­du­ce cri­si dei rap­por­ti poli­ti­ci e si pre­sen­ta più come una fun­zio­ne, solo rela­ti­va­men­te indi­pen­den­te, del­la con­flit­tua­li­tà del­la socie­tà civi­le che come supe­rio­re sin­te­si poli­ti­ca. In altre paro­le, la ricom­po­si­zio­ne poli­ti­ca è inces­san­te scom­po­si­zio­ne dei rap­por­ti di for­za che si costi­tui­sco­no fra i diver­si grup­pi di inte­res­se e le diver­se “auto­no­mie” socia­li, e quin­di non è che fun­zio­ne di svi­lup­po di cri­si poli­ti­ca mano­vra­ta. Quan­to più per­ciò lo Sta­to, nel­la gestio­ne del­la finan­za pub­bli­ca, accen­tra fun­zio­ni diret­ta­men­te pro­dut­ti­ve, tan­to più il “poli­ti­co” costi­tui­sce una fun­zio­ne del­la con­flit­tua­li­tà che ne sovra­de­ter­mi­na lo svi­lup­po com­pa­ti­bi­le alla ripro­du­zio­ne dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne.
Tut­ta­via Cac­cia­ri sot­to­li­nea come tale pro­du­zio­ne di cri­si dei rap­por­ti poli­ti­ci che iden­ti­fi­ca lo Sta­to post-key­ne­sia­no non sia inter­pre­ta­bi­le come sem­pli­ce mano­vra di accer­chia­men­to e di iso­la­men­to del­la clas­se ope­ra­ia; “esi­ste – piut­to­sto – una mate­ria­le dif­fu­sio­ne di com­por­ta­men­ti con­flit­tua­li, di obiet­ti­vi poli­ti­ci e di valo­ri… è que­sta sto­ria… che mol­ti­pli­ca il peso quan­ti­ta­ti­vo e qua­li­ta­ti­vo di nuo­vi stra­ti socia­li – è que­sta sto­ria che ope­ra un’au­ten­ti­ca “rivo­lu­zio­ne cul­tu­ra­le” all’in­ter­no del­la stes­sa clas­se ope­ra­ia, e che quin­di pro­du­ce rap­por­ti del tut­to nuo­vi con il com­ples­so del­la for­ma­zio­ne socia­le…” (Ivi, pp. 46–48).
La cri­si del ruo­lo di media­zio­ne e di neu­tra­liz­za­zio­ne dei con­flit­ti del­lo Sta­to key­ne­sia­no non è l’au­to­no­ma stra­te­gia del “poli­ti­co”: è piut­to­sto sin­to­mo del­l’ef­fet­ti­va impos­si­bi­li­tà per lo Sta­to post-key­ne­sia­no di pia­ni­fi­ca­re lo svi­lup­po dei biso­gni socia­li in base alla socia­liz­za­zio­ne dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne, in base cioè a una teo­ria del­le clas­si socia­li ogget­ti­va­men­te deter­mi­na­ta dai rap­por­ti di pro­du­zio­ne. Lo Sta­to post-key­ne­sia­no rive­la anche ai teo­ri­ci del­l’au­to­no­mia del poli­ti­co che la stra­te­gia del rifiu­to del lavo­ro non è sem­pli­ce moto­re del­la valo­riz­za­zio­ne capi­ta­li­sti­ca ma è soprat­tut­to fun­zio­ne del­l’au­to­va­lo­riz­za­zio­ne ope­ra­ia e pro­le­ta­ria.
L’an­ta­go­ni­smo ope­ra­io e pro­le­ta­rio, nel tem­po dispo­ni­bi­le e libe­ra­to dal lavo­ro, ride­fi­ni­sce la com­po­si­zio­ne di clas­se, ne tra­sfor­ma la ripro­du­zio­ne su una com­ples­si­tà di biso­gni e di com­por­ta­men­ti sog­get­ti­vi di cui sem­bra qua­si indif­fe­ren­te la spe­ci­fi­ci­tà “ope­ra­ia”.
Gli anni set­tan­ta sono infat­ti carat­te­riz­za­ti da com­por­ta­men­ti di insu­bor­di­na­zio­ne, da situa­zio­ni dif­fu­se di rigi­di­tà, da un insie­me di lot­te che han­no “poli­ti­ciz­za­to” il pri­va­to: non è sol­tan­to il tem­po di lavo­ro, la gior­na­ta lavo­ra­ti­va il luo­go di costi­tu­zio­ne dei biso­gni di clas­se, ma l’e­si­sten­za quo­ti­dia­na, il tem­po in cui l’in­di­vi­duo ripro­du­ce, rige­ne­ra se stes­so ces­sa di esse­re media­to dal­l’i­deo­lo­gia del valo­re del lavo­ro.
La lot­ta con­tro il lavo­ro capi­ta­li­sti­co, la lot­ta per gli aumen­ti sala­ria­li sono obiet­ti­vi limi­ta­ti che ricon­se­gna­no all’in­di­vi­duo, al “pri­va­to” o meglio all’e­co­no­mia del­la fami­glia, le con­di­zio­ni pro­le­ta­rie del­la vita quo­ti­dia­na.
L’au­to­ne­ga­zio­ne del­la for­za lavo­ro si esten­de, con gli anni set­tan­ta, dal­l’im­me­dia­tez­za dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne ai modi di ripro­du­zio­ne: la com­po­si­zio­ne di clas­se atti­va nuo­vi pro­ces­si di socia­liz­za­zio­ne, non è l’in­di­vi­duo che rimuo­ve le con­di­zio­ni pro­le­ta­rie di ripro­du­zio­ne che limi­ta­no lo svi­lup­po del­la sua sog­get­ti­vi­tà, ma l’in­di­vi­duo socia­le che tra­sfor­ma i rap­por­ti socia­li in fun­zio­ne del­la pro­pria valo­riz­za­zio­ne.
Al di là di ogni ideo­lo­gia del­la dequa­li­fi­ca­zio­ne e del­la degra­da­zio­ne del lavo­ro, gli anni set­tan­ta atte­sta­no come l’in­dif­fe­ren­za fra i diver­si lavo­ri, la libe­ra­zio­ne dal­l’i­deo­lo­gia del valo­re del lavo­ro, abbia signi­fi­ca­to per la clas­se ope­ra­ia in quan­to for­za poli­ti­ca un innal­za­men­to intel­let­tua­le e cul­tu­ra­le tale da costi­tui­re for­me di pote­re a livel­lo del­la gene­ra­li­tà del­la ripro­du­zio­ne socia­le.
E non si trat­ta uni­ca­men­te del­la tra­sfor­ma­zio­ne dei valo­ri eti­ci, mora­li o gene­ri­ca­men­te cul­tu­ra­li, ma del­la capa­ci­tà del­l’in­tel­li­gen­za socia­le, che si for­ma nel­la insu­bor­di­na­zio­ne allo sfrut­ta­men­to, di saper coman­da­re per­fi­no il cer­vel­lo socia­le “orga­niz­za­to” dal capi­ta­le, quel­lo per inten­der­ci che osses­sio­na Bra­ver­man; al pun­to che lo stes­so “man­da­ri­na­to” è spes­so costret­to a fun­zio­na­re come stru­men­to ese­cu­ti­vo del­l’i­dea­zio­ne di biso­gni qua­li­ta­ti­va­men­te nuo­vi Le lot­te han­no dimo­stra­to che non c’è pos­si­bi­li­tà di svi­lup­po del­la “medi­ci­na” che non dipen­da dai biso­gni del mala­to, e così pure che non c’è avve­ni­re per qual­sia­si peda­go­gia che non dipen­da dai biso­gni di cono­scen­za e dai com­por­ta­men­ti di colo­ro che stu­dia­no, che non c’è svi­lup­po di nuo­ve fon­ti di ener­gia se non facen­do i con­ti con la resi­sten­za socia­le al pia­no nuclea­re, che non c’è svi­lup­po del­l’ur­ba­ni­sti­ca che pos­sa pre­scin­de­re dal­l’in­nal­za­men­to del teno­re di vita. A meno che fra il sape­re dei man­da­ri­ni e l’in­tel­li­gen­za socia­le non si apra una con­flit­tua­li­tà che deve esse­re “media­ta” (se non neu­tra­liz­za­ta) dal­la poli­ti­ca.
Sareb­be inte­res­san­te ana­liz­za­re a que­sto pro­po­si­to le ragio­ni per cui le isti­tu­zio­ni del sape­re si tro­va­no oggi a dover fun­zio­na­re come isti­tu­zio­ni diret­ta­men­te “poli­ti­che”, inces­san­te­men­te attra­ver­sa­te dal­la con­flit­tua­li­tà del pro­le­ta­ria­to intel­let­tua­le e dai nuo­vi biso­gni socia­li. La nuo­va intel­li­gen­za socia­le, la nuo­va con­ce­zio­ne dei rap­por­ti socia­li non è cer­to espres­sio­ne del­la coscien­za esa­spe­ra­ta che nasce all’om­bra del­l’e­mar­gi­na­zio­ne dal lavo­ro o dal­la sot­toc­cu­pa­zio­ne nel­l’i­deo­lo­gia del­l’im­me­dia­ti­smo dei biso­gni: si radi­ca al con­tra­rio nel­la fami­glia pro­le­ta­ria, anche se a vol­te in modo con­flit­tua­le, e si gene­ra­liz­za con sor­pren­den­te rapi­di­tà met­ten­do in cri­si i codi­ci del­la cul­tu­ra domi­nan­te. Que­sta enor­me poten­zia­li­tà di tra­sfor­ma­zio­ne dei rap­por­ti socia­li sca­te­na infat­ti le più sva­ria­te rea­zio­ni di riget­to da par­te del­la cul­tu­ra “uffi­cia­le”: si denun­cia la devian­za col­let­ti­va, la cri­si dei valo­ri, la regres­sio­ne del­la coscien­za poli­ti­ca a for­me di neo esi­sten­zia­li­smo, sino al momen­to in cui la nuo­va eti­ca, la nuo­va cul­tu­ra diven­ta “nor­ma” sot­ter­ra­nea da rico­no­sce­re come tale. La “for­ma­zio­ne del­l’in­di­vi­duo socia­le” ha susci­ta­to però mol­te per­ples­si­tà e pro­ble­mi anche all’in­ter­no del­la nuo­va sini­stra, così come del resto tut­to il pro­ces­so di poli­ti­ciz­za­zio­ne del “pri­va­to”: come è pos­si­bi­le l’e­man­ci­pa­zio­ne dei rap­por­ti socia­li, la for­ma­zio­ne di nuo­vi sog­get­ti, nel­la spe­ci­fi­ci­tà del­le loro esi­gen­ze, in una rela­ti­va indi­pen­den­za dal­la com­po­si­zio­ne tec­ni­ca di clas­se, dal­la ogget­ti­vi­tà dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne? Non è casua­le però il fat­to che Marx non si rife­ri­sca più all’ ”ope­ra­io com­ples­si­vo” ma all’ ”uomo” o all’ ”indi­vi­duo socia­le” quan­do descri­ve le con­di­zio­ni di svi­lup­po del­l’an­ta­go­ni­smo di clas­se: quan­to più la clas­se ope­ra­ia e pro­le­ta­ria ten­de alla pro­pria dis­so­lu­zio­ne come clas­se deter­mi­na­ta dai rap­por­ti capi­ta­li­sti­ci, tan­to più rap­pre­sen­ta l’ ”indi­vi­duo socia­le” che pren­de coscien­za dei pro­pri biso­gni al di là del­la base limi­ta­ta del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­ca.
La ridu­zio­ne del tem­po di lavo­ro social­men­te neces­sa­rio con­sen­te “il libe­ro svi­lup­po del­le indi­vi­dua­li­tà”, infat­ti “le for­ze pro­dut­ti­ve e le rela­zio­ni socia­li” sono “entram­bi lati diver­si del­lo svi­lup­po del­l’in­di­vi­duo socia­le” che “figu­ra­no per il capi­ta­le solo come mez­zi per pro­dur­re la sua base limi­ta­ta. Ma in real­tà essi sono le con­di­zio­ni per fare sal­ta­re in aria que­sta base” (K. MARX, Linea­men­ti, trad. it., La Nuo­va Ita­lia, Firen­ze, 1968, voi. II, p. 402). Nel­la misu­ra in cui il rifiu­to del lavo­ro svi­lup­pa l’a­strat­tiz­za­zio­ne rea­le del lavo­ro “non è più tan­to il lavo­ro a pre­sen­tar­si inclu­so nel pro­ces­so di pro­du­zio­ne, quan­to piut­to­sto l’uo­mo a por­si in rap­por­to al pro­ces­so di pro­du­zio­ne come sor­ve­glian­te e rego­la­to­re” e ciò “vale anche per la com­bi­na­zio­ne del­le atti­vi­tà uma­ne e per lo svi­lup­po del­le rela­zio­ni uma­ne… Egli si col­lo­ca accan­to al pro­ces­so di pro­du­zio­ne, anzi­ché esser­ne l’a­gen­te prin­ci­pa­le”, (Ivi, p. 401). Sia­mo in un oriz­zon­te total­men­te rove­scia­to rispet­to a quel­lo angu­sto e capo­vol­to di Bra­ver­man: per l’in­di­vi­duo socia­le il suo supe­ra­men­to pos­si­bi­le del­la degra­da­zio­ne del lavo­ro è la sop­pres­sio­ne del­la sua deter­mi­na­zio­ne capi­ta­li­sti­ca.
Que­sto non ha nul­la a che fare con la “uma­niz­za­zio­ne” del lavo­ro imme­dia­to, né con la regres­sio­ne al lavo­ro con­cre­to: si iden­ti­fi­ca piut­to­sto con la sop­pres­sio­ne del­la leg­ge del valo­re, del­la cen­tra­li­tà del­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va nel pote­re che essa ha di sosti­tui­re il valo­re del lavo­ro come “misu­ra” del­lo svi­lup­po dei biso­gni del­l’in­di­vi­duo socia­le. La sop­pres­sio­ne del­la leg­ge del valo­re è quin­di la rea­liz­za­zio­ne sto­ri­ca del­l’an­ta­go­ni­smo del­l’in­di­vi­duo socia­le e del­le carat­te­ri­sti­che radi­cal­men­te nuo­ve che qua­li­fi­ca­no la sua “pro­dut­ti­vi­tà gene­ra­le”: cioè la capa­ci­tà di “dire­zio­ne” e di “sor­ve­glian­za” rispet­to alle poten­zia­li­tà pro­dut­ti­ve in fun­zio­ne del­l’au­to­va­lo­riz­za­zio­ne dei rap­por­ti socia­li.
La stra­te­gia del rifiu­to del lavo­ro, del­l’au­to­ne­ga­zio­ne del­la for­za lavo­ro, svi­lup­pa la “pro­dut­ti­vi­tà gene­ra­le” come padro­nan­za del­le con­di­zio­ni del­la ripro­du­zio­ne socia­le, come inno­va­zio­ne dei rap­por­ti socia­li.
La “pro­dut­ti­vi­tà gene­ra­le” del­l’in­di­vi­duo socia­le oggi si pre­sen­ta effet­ti­va­men­te come “il gran­de pilo­ne di soste­gno del­la pro­du­zio­ne e del­la ric­chez­za” nel­la sua capa­ci­tà di inno­va­re le moda­li­tà di for­ma­zio­ne del­la ric­chez­za, nel­la socia­liz­za­zio­ne del lavo­ro som­mer­so, ma anche e soprat­tut­to nel­le nuo­ve for­me di lot­ta in cui l’an­ta­go­ni­smo socia­le si pre­sen­ta come con­di­zio­ne impre­scin­di­bi­le del­la “qua­li­tà” del­lo svi­lup­po. Il moto­re infat­ti del cer­vel­lo socia­le orga­niz­za­to dal capi­ta­le ces­sa di esse­re uni­ca­men­te il rifiu­to del lavo­ro, ma si pre­sen­ta come lavo­ro vivo, intel­li­gen­za socia­le che inces­san­te­men­te valo­riz­za le con­di­zio­ni del­la ripro­du­zio­ne, innal­zan­do i biso­gni socia­li: al pun­to che con­di­zio­ne del­lo svi­lup­po e del­la valo­riz­za­zio­ne di capi­ta­le è “l’ap­pro­pria­zio­ne del­la pro­dut­ti­vi­tà gene­ra­le”, la subor­di­na­zio­ne del­l’in­no­va­zio­ne dei rap­por­ti socia­li.
Tut­ta­via la “pro­dut­ti­vi­tà gene­ra­le” sus­sun­ta all’in­no­va­zio­ne poli­ti­ca ed orga­niz­za­ti­va di capi­ta­le è pro­dut­tri­ce di cri­si, di disgre­ga­zio­ne, di nuo­va con­flit­tua­li­tà che non con­sen­te nuo­ve for­me di dure­vo­le com­po­si­zio­ne poli­ti­ca; in quan­to la “pro­dut­ti­vi­tà gene­ra­le” del­l’in­di­vi­duo socia­le resta anco­ra­ta al valo­re d’u­so, come padro­nan­za del­le stra­te­gie di frui­zio­ne col­let­ti­va del­la ric­chez­za dispo­ni­bi­le e non è com­pa­ti­bi­le con le ragio­ni del­lo scam­bio e del­l’ac­cu­mu­la­zio­ne capi­ta­li­sti­ca. Ogni teo­ria dei gio­chi del­lo Sta­to post-key­ne­sia­no, ogni for­ma di ero­ga­zio­ne di red­di­to atta a ripri­sti­na­re il siste­ma del­la dise­gua­glian­za nel­la sod­di­sfa­zio­ne dei biso­gni del­l’in­di­vi­duo socia­le, svi­lup­pa cri­si poli­ti­ca e mol­ti­pli­ca la “pro­dut­ti­vi­tà gene­ra­le”: i cen­tri e i momen­ti dis­se­mi­na­ti del­l’an­ta­go­ni­smo. Sono que­sti i cen­tri e i momen­ti di svi­lup­po del­la stra­te­gia del­l’in­di­vi­duo socia­le nel suo pro­get­to di auto­de­ter­mi­na­zio­ne poli­ti­ca poi la nuo­va for­ma­zio­ne sociale

per il MOVIMENTO COMUNISTA

dal pro­ces­so ai comu­ni­sti al pro­ces­so al blitz

Lucio Castellano

AUTOVALORIZZAZIONE E NUOVI SOGGETTI

Le tema­ti­che dei «nuo­vi biso­gni», dell’«operaio socia­le», dell’«autovalorizzazione», che sono il pun­to di appro­do dell’«autonomia», sono lo svi­lup­po linea­re di que­sto approc­cio.
Il diva­rio tra pro­du­zio­ne di capi­ta­le e orga­niz­za­zio­ne socia­le si è appro­fon­di­ti fino a far cor­ri­spon­de­re ad un indi­vi­duo socia­le ric­co di capa­ci­tà, infor­ma­zio­ni, cono­scen­ze, biso­gni, desi­de­ri, una pro­du­zio­ne pove­ra che rie­sce ad orga­niz­za­re non solo una par­te cre­scen­te­men­te ridot­ta del suo tem­po, ma quel­la par­te di esso che è più mise­ra e vuo­ta, insie­me, del­le cose che si cono­sco­no e di quel­le che si desi­de­ra­no.
Una pro­du­zio­ne che costi­tui­sce solo una par­te del­le inter­re­la­zio­ni socia­li di chi vi par­te­ci­pa, che è un fram­men­to e non la sin­te­si di tut­ta la coo­pe­ra­zio­ne socia­le; soprat­tut­to, una pro­du­zio­ne che tale coo­pe­ra­zio­ne, nel suo insie­me, non rie­sce più a coman­da­re ed ordi­na­re.

La cir­co­la­zio­ne dei ruo­li e del­le cono­scen­ze in modo cre­scen­te e rile­van­te non si ordi­na più secon­do i cri­te­ri del lavo­ro pro­dut­ti­vo di capi­ta­le, secon­do le rego­le del­la pre­sta­zio­ne di lavo­ro.
Que­ste rego­le coman­da­no una quan­ti­tà di risor­se che non è più suf­fi­cien­te ad ordi­na­re l’insieme del­la ripro­du­zio­ne socia­le, i pun­ti di disper­sio­ne e disor­di­ne rispet­to ad essa si sono mol­ti­pli­ca­ti a dismi­su­ra e già si intra­ve­do­no i pri­mi, eva­ne­scen­ti segni di un pos­si­bi­le diver­so prin­ci­pio ordi­na­to­re: valo­re d’uso con­tro valo­re di scam­bio, con­cre­tez­za dei biso­gni dell’«individuo socia­le ric­co» che si con­trap­po­ne all’universo seria­le, capa­ce solo di deter­mi­na­zio­ne quan­ti­ta­ti­va, dal biso­gno ripro­dut­ti­vo del­la for­za-lavo­ro, al biso­gno astrat­to del­la «neces­si­tà», del­la «scar­si­tà natu­ra­le».
Non è più sol­tan­to sala­rio con­tro pro­fit­to, cioè l’autonomia di inte­res­si con­trap­po­sti nell’unità di un mec­ca­ni­smo socia­le, ma l’individuazione di una con­trap­po­si­zio­ne pos­si­bi­le tra due modi di pro­du­zio­ne, due uni­ver­si di rap­por­ti socia­li. Ciò che defi­ni­sce il pas­sag­gio dal­la pri­ma arti­co­la­zio­ne del discor­so – quel­la sala­ria­le – alla secon­da – il «movi­men­to del valo­re d’uso» –, è in defi­ni­ti­va la cri­si del con­cet­to di svi­lup­po: che è la capa­ci­tà di sin­te­si capi­ta­li­sta del­la dua­li­tà di pote­ri che vivo­no nel modo di pro­du­zio­ne.
Da que­sto pun­to di vista, la lun­ga alter­nan­za di cri­si e sta­gna­zio­ne che si apre con gli anni ’70, in Ita­lia e in tut­to l’Occidente, appa­re all’autonomia come inca­pa­ci­tà dell’interesse di par­te capi­ta­li­sta ad esse­re sin­te­si di tut­ta la orga­niz­za­zio­ne, comu­ni­ca­zio­ne, cono­scen­za socia­le; come inca­pa­ci­tà di orga­niz­za­re den­tro il tem­po di lavo­ro tut­te le risor­se socia­li e die­tro la gerar­chia che lo coman­da tut­to il tem­po socia­le.
È come dire che la sin­te­si pro­dut­ti­va e poli­ti­ca che il rap­por­to di capi­ta­le offre appa­re pove­ra a fron­te del­la ric­chez­za cre­scen­te del tes­su­to socia­le che si costrui­sce attor­no alle lot­te; attor­no a que­sto vie­ne a gra­vi­ta­re una quan­ti­tà estre­ma­men­te ele­va­ta di risor­se pro­dut­ti­ve in ter­mi­ni di capa­ci­tà di coo­pe­ra­zio­ne socia­le, scam­bio ed ela­bo­ra­zio­ne di infor­ma­zio­ni e cono­scen­ze, coman­do sul tem­po socia­le.

La comu­ni­ca­zio­ne socia­le appa­re allar­gar­si a dismi­su­ra, svin­co­lan­do­si in lar­ga par­te dal prin­ci­pio di pre­sta­zio­ne che rego­la il rap­por­to di sala­rio, e que­sto non è più capa­ce di coman­da­re in modo pie­no la gerar­chia socia­le: una quo­ta cre­scen­te del­la ric­chez­za socia­le è inchio­da­ta a finan­zia­re, attra­ver­so le più diver­se for­me di assi­sten­za, non la pre­sta­zio­ne lavo­ra­ti­va ma la rigi­di­tà rispet­to ad essa e il suo rifiu­to, con­tem­po­ra­nea­men­te ren­den­do social­men­te irri­le­van­te, non mar­gi­na­liz­zan­te, la esclu­sio­ne da essa.
D’altro can­to, la fab­bri­ca non coman­da più, attra­ver­so il mer­ca­to del lavo­ro, l’insieme dei com­por­ta­men­ti socia­li, e la coo­pe­ra­zio­ne socia­le appa­re più lar­ga e ric­ca di quel­la che ani­ma il lavo­ro pro­dut­ti­vo di capi­ta­le: grup­pi socia­li in lar­ga misu­ra espul­si dal rap­por­to di lavo­ro, i gio­va­ni e le don­ne, con­qui­sta­no for­za di espres­sio­ne e pote­re socia­le, e men­tre il tem­po di lavo­ro di ognu­no non solo vie­ne sog­get­ti­va­men­te vis­su­to come espro­pria­zio­ne di vita, come con­dan­na e mise­ria, ma ogget­ti­va­men­te si svuo­ta di cono­scen­za e for­za crea­ti­va, il tem­po libe­ro in misu­ra cre­scen­te ces­sa di esse­re il tem­po subal­ter­no del­la ripro­du­zio­ne del­la for­za-lavo­ro per dive­ni­re tem­po ric­co di scam­bi e rela­zio­ni socia­li, capa­ce di comu­ni­ca­zio­ne, ela­bo­ra­zio­ne, coor­di­na­men­to, deten­to­re di risor­se ingen­ti e cono­scen­ze; insom­ma, una for­za pro­dut­ti­va, che non è ugua­le al lavo­ro, ha un regi­me socia­le più lar­go, è atti­va­men­te abi­ta­ta dal­la lot­ta con­tro il lavo­ro.
Tut­to que­sto tes­su­to di fat­ti nuo­vi, que­sta modi­fi­ca­zio­ne pro­fon­da inter­ve­nu­ta nel modo di pro­du­zio­ne, è even­to poten­te, non emar­gi­na­bi­le.
A sua vol­ta però non è capa­ce di esse­re uni­vo­ca­men­te for­za di una sin­te­si alter­na­ti­va: trop­pe cose non sa maneg­gia­re, trop­pe risor­se gli sfug­go­no, anche se non è vero che ha quel pes­si­mo rap­por­to con la tec­no­lo­gia che si dice, ed anche se sul ter­re­no del­la pro­du­zio­ne è comin­cia­to ad entra­re non più solo come resi­sten­za e sabo­tag­gio ma anche come for­za crea­ti­va.

È un discor­so sul­la tran­si­zio­ne, sul­la migra­zio­ne di mas­sa dal lavo­ro pro­dut­ti­vo di capi­ta­le, e sui suoi pos­si­bi­li esi­ti.
In sostan­za, rispet­to alle rot­tu­re ope­ra­te dall’operaismo sul cor­pus teo­ri­co del mar­xi­smo-leni­ni­smo, l’esperienza «auto­no­ma» aggiun­ge una con­ce­zio­ne del­la cri­si che non è più quel­la del «col­las­so socia­le», dell’esplosione del­la inca­pa­ci­tà di fon­do del capi­ta­le di far fron­te alle esi­gen­ze socia­li, ben­sì quel­la del­la esplo­sio­ne di rela­zio­ni socia­li, trop­po ric­che per esse­re ricon­dot­te al rap­por­to di capi­ta­le, quel­la dei limi­ti del coman­do di capi­ta­le su tut­ta la socie­tà: non il cre­sce­re del­la mise­ria, ma del movi­men­to di eman­ci­pa­zio­ne, sta alla base del «biso­gno di comu­ni­smo».
Come dire, il con­tra­rio di una teo­ria del­la cata­stro­fe: alla base di tut­to ci si accor­ge che c’è la rile­va­zio­ne del­la ina­de­gua­tez­za, del­la pover­tà, dei rap­por­ti di pote­re pre­sen­ti a fron­te del­la ric­chez­za del­le rela­zio­ni socia­li che si sono svi­lup­pa­te e sono operanti.

IL RAPPORTO CON LE ISTITUZIONI NELLA STORIA DELL’AUTONOMIA

Den­tro que­sta for­ma del muta­men­to socia­le, den­tro que­sto pro­ble­ma del pas­sag­gio di pote­ri dal lavo­ro al non lavo­ro, la que­stio­ne del pote­re sta­ta­le si pone sem­pre in ter­mi­ni di con­trat­ta­zio­ne, mai di «occu­pa­zio­ne» o sosti­tu­zio­ne. Nel­la sto­ria del­l’au­to­no­mia ciò vuol dire che esso si pre­sen­ta sem­pre in ter­mi­ni di «tat­ti­ca», mai di «stra­te­gia», e che dif­fi­cil­men­te si pre­sta ad esse­re il luo­go cen­tra­le del­l’i­den­ti­tà poli­ti­ca.

È pro­ble­ma tat­ti­co, di rimo­zio­ne del­le resi­sten­ze, non stra­te­gi­co, di costru­zio­ne del mec­ca­ni­smo di gui­da del pro­ces­so.
Pro­ble­ma «tat­ti­co» in sen­so for­te nel­la pri­ma fase del movi­men­ti, fino allo scio­gli­men­to di Pote­re ope­ra­io; «tat­ti­co» in sen­so debo­le nel­la secon­da fase, quel­la dell’area dal­l’au­to­no­mia pro­pria­men­te det­ta.
«In sen­so for­te» vuoi dire capa­ce di espri­me­re una iden­ti­tà poli­ti­ca e orga­niz­za­ti­va com­ples­sa, un pro­get­to di par­ti­to: al movi­men­to la stra­te­gia, il comu­ni­smo, al par­ti­to la tat­ti­ca, la rimo­zio­ne degli osta­co­li, la capa­ci­tà di rot­tu­ra.
Come dire, Pote­re ope­ra­io, il «par­ti­to dell’insurrezione».
Dove insur­re­zio­ne non è pro­get­to di pote­re poli­ti­co — nè «tut­to il pote­re ai soviet» né «gover­no ope­ra­io» — ma ricom­po­si­zio­ne del movi­men­to, rot­tu­ra del con­trol­lo poli­ti­co-socia­le attor­no alla for­za uni­fi­can­te di alcu­ne paro­le d’or­di­ne, come «sala­rio garan­ti­to», capa­ci di coa­gu­la­re in un pun­to le ener­gie per met­te­re un cuneo, far arre­tra­re le isti­tu­zio­ni, allar­ga­re gli spa­zi del movi­men­to.

Uni­fi­ca­re il movi­men­to, scar­di­na­re il con­trol­lo, que­sto il pro­ble­ma. E il con­trol­lo non è mili­ta­re se non in ulti­ma istan­za: non è que­stio­ne di guer­ra ma di diso­mo­ge­nei­tà nel­la com­po­si­zio­ne di clas­se, di pun­ti for­ti e debo­li, di con­trad­di­zio­ni, e del­la pos­si­bi­li­tà di tro­va­re quel mini­mo comu­ne deno­mi­na­to­re che fun­zio­ni da maglio e per­met­ta che la cre­sci­ta ripren­da a un livel­lo più avan­za­to.
Non è la pre­sa del pote­re ma la rot­tu­ra degli argi­ni.
Ma c’è un’en­fa­si, un’an­sia, una for­za­tu­ra che non tro­va­no riscon­tro.
Enfa­si sul­la for­za degli argi­ni, ansia sul­la tenu­ta del movi­men­to, for­za­tu­ra sul carat­te­re neces­sa­ria­men­te fron­ta­le del­lo scon­tro: il bloc­co del­le lot­te, la disar­ti­co­la­zio­ne di clas­se, il riflus­so di fron­te alla ristrut­tu­ra­zio­ne appa­ri­va­no i pun­ti di rife­ri­men­to obbli­ga­ti del discor­so sul­la rot­tu­ra.

Nel­la real­tà gli argi­ni sono sta­ti tut­ti aggi­ra­ti, a un costo bas­so, e la cri­si eco­no­mi­ca ha sapu­to misu­ra­re non tan­to la viru­len­za del con­trat­tac­co capi­ta­li­sti­co quan­to la ampiez­za degli spa­zi con­qui­sta­ti dal movi­men­to.
Il movi­men­to del rifiu­to del lavo­ro non ha assal­ta­to la socie­tà poli­ti­ca, si è mes­so a girar­le attor­no, con­fer­man­do tut­ti gli stru­men­ti di gover­no ma ponen­do vin­co­li cre­scen­ti alla loro selet­ti­vi­tà, impe­gnan­do una lar­ga fet­ta di ric­chez­za a paga­re in modo indif­fe­ren­zia­to il con­sen­so tri­bui­to: nel­la sostan­za, ha anti­ci­pa­to e caval­ca­to la ristrut­tu­ra­zio­ne capi­ta­li­sta pie­gan­do­la al rispet­to del­la pro­pria uni­tà, ren­den­do­la con­trad­dit­to­ria, ero­den­do­ne la capa­ci­tà di coman­do socia­le ed allar­gan­do i pro­pri spa­zi di pote­re e gestio­ne.
La rigi­di­tà del­le isti­tu­zio­ni è sta­ta mas­si­ma sul pia­no for­ma­le, al pun­to da impe­di­re qual­sia­si for­ma di rap­pre­sen­ta­zio­ne poli­ti­ca del muta­men­to, da rimuo­ve­re per­fi­no il pro­ble­ma del­la sua legit­ti­mi­tà, ma que­sta ope­ra­zio­ne ha avu­to un cor­ri­spet­ti­vo pesan­te in ter­mi­ni di fra­gi­li­tà sostan­zia­le, di per­di­ta sec­ca di capa­ci­tà di governo.In que­sto slit­ta­men­to dei pia­ni del con­fron­to è nau­fra­ga­to il pro­get­to poli­ti­co di Pote­re ope­ra­io; nel ’73 esplo­de la sua cri­si.
L’u­ni­fi­ca­zio­ne «tat­ti­ca» che esso pro­po­ne appa­re ridut­ti­va di fron­te alla mol­te­pli­ci­tà dei livel­li di scon­tro che si sono aper­ti, dei lin­guag­gi che il movi­men­to pra­ti­ca, degli spa­zi di cre­sci­ta agi­bi­li da par­te di una ric­chez­za di sog­get­ti socia­li la cui iden­ti­tà col­let­ti­va è com­ples­sa, non ridu­ci­bi­le ad una « uni­tà » di bre­ve momen­to.

La rap­pre­sen­ta­zio­ne gene­ra­le del movi­men­to in una sem­pli­ce chia­ve anti­sti­tu­zio­na­le appa­re insie­me impos­si­bi­le e non neces­sa­ria, una for­za­tu­ra estre­mi­sta.
Su que­ste basi Pote­re ope­ra­io si scioglie.La pro­spet­ti­va aper­ta a que­sto pun­to, per l’au­to­no­mia, è quel­la di un’a­de­ren­za tota­le al movi­men­to den­tro l’ab­ban­do­no di ogni pro­get­to di «gran­de tat­ti­ca», di cen­tra­liz­za­zio­ne e uni­fi­ca­zio­ne, che vada oltre il ter­re­no effet­ti­va­men­te offer­to dai con­te­nu­ti e livel­li di cre­sci­ta vol­ta a vol­ta dati: non è pos­si­bi­le man­te­ne­re la diva­ri­ca­zio­ne di tat­ti­ca e stra­te­gia, di par­ti­to e movi­men­to, di poli­ti­ca e comu­ni­smo.
Il solo ter­re­no di uni­fi­ca­zio­ne del movi­men­to che appa­re pra­ti­ca­bi­le non è poli­ti­co ma pro­dut­ti­vo, è la sin­te­si pra­ti­ca degli spa­zi di pote­re vol­ta a vol­ta con­qui­sta­ti: il pote­re comu­ni­sta cre­sce gior­no per gior­no nel­lo scon­tro tra lavo­ro e rifiu­to del lavo­ro, con for­me e moda­li­tà vol­ta a vol­ta diver­se, e su que­sto mede­si­mo ter­re­no deve por­si il pro­ble­ma del­la tat­ti­ca, su que­sto esse­re risol­to quel­lo del­lo sta­to.
Non vi è posto per una iden­ti­tà di movi­men­to diver­sa da que­sta, né più sem­pli­ce del­la costru­zio­ne del comu­ni­smo che cre­sce nel­la socie­tà, e il coman­do poli­ti­co-mili­ta­re del­lo Sta­to va affron­ta­to là dove emer­ge come spe­ci­fi­ca con­trad­di­zio­ne, nei suoi luo­ghi ter­mi­na­li che van­no pia­no pia­no rosic­chia­ti.
Il pro­ble­ma del­lo Sta­to ces­sa di esse­re il luo­go di una iden­ti­tà «tat­ti­ca» faci­le, vie­ne rias­sor­bi­to nel­la dimen­sio­ne più com­ples­sa del­la costi­tu­zio­ne dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne emer­gen­ti.

Allar­ga­men­to degli spa­zi sul ter­re­no su cui si apro­no, in nes­sun caso con­cen­tra­zio­ne del­le for­ze attor­no ad un’u­ni­tà mini­ma­le e «rap­pre­sen­ta­ti­va», ma sca­vo in pro­fon­do den­tro le diso­mo­ge­nei­tà, le discon­ti­nui­tà del tes­su­to di clas­se per­ché è attor­no ad esse che si arti­co­la il pote­re nuo­vo. Che è dif­fu­so, disper­so, non sin­te­ti­co.
È un discor­so attor­no al qua­le ruo­ta un gene­ra­le spo­sta­men­to di atten­zio­ne sul pia­no del­le tema­ti­che e degli obiet­ti­vi, non solo del­la for­ma orga­niz­za­ti­va: dall’«insurrezione» alla «lot­ta di lun­ga dura­ta», dal­le «sca­den­ze» attor­no ad obiet­ti­vi uni­fi­can­ti alla appro­pria­zio­ne.
«La pra­ti­ca del­l’ap­pro­pria­zio­ne» divie­ne il pun­to d’i­den­ti­tà for­se più rile­van­te del­l’a­rea poli­ti­ca che si costi­tui­sce.
Appro­pria­zio­ne di beni, cioè espro­prio, ille­ga­li­tà di mas­sa, «vio­len­za dif­fu­sa»; ma anche auto­ri­du­zio­ne del­le tarif­fe socia­li, cioè allar­ga­men­to del­la lega­li­tà sul­la base del con­sen­so; e «appro­pria­zio­ne» in fab­bri­ca del­la ridu­zio­ne del­l’o­ra­rio di lavo­ro, sua ridu­zio­ne uni­la­te­ra­le, non con­trat­ta­ta ma attua­zio­ne ope­ra­ti­va di una deci­sio­ne di par­te, di un «decre­to».
Insom­ma, appro­pria­zio­ne come supe­ra­men­to del­la trat­ta­ti­va, come gestio­ne di un pote­re di fat­to sul­la distri­bu­zio­ne del­la ric­chez­za come sul­l’o­ra­rio di lavo­ro là ove que­sto sia pra­ti­ca­bi­le: una tema­ti­ca che ben si adat­ta ad un discor­so «mole­co­la­re» sul pote­re, ma i cui limi­ti arti­gia­na­li sono evi­den­ti.

Sono il loca­li­smo, la ridu­zio­ne del pro­ble­ma del­la misu­ra gene­ra­le dei rap­por­ti di for­za alla pra­ti­ca loca­le del con­tro-pote­re.
In effet­ti, ogni vol­ta che una lot­ta cre­sce­rà fino a por­re pro­ble­mi di carat­te­re gene­ra­le per il movi­men­to, ogni vol­ta che il ter­re­no di scon­tro si alze­rà fino ad assu­me­re una valen­za esem­pla­re, que­sto discor­so mostre­rà la cor­da, divi­so com’è tra la volon­tà di una iden­ti­tà pie­na­men­te socia­le e il biso­gno del­la poli­ti­ca, del­la «rap­pre­sen­ta­zio­ne gene­ra­le» del­le for­ze in cam­po, del­la con­cen­tra­zio­ne del­le risor­se.

Una con­trad­di­zio­ne mai supe­ra­ta, che si espri­me­rà da un lato come vita­li­tà e dif­fu­sio­ne, capa­ci­tà di inter­pre­ta­re il nuo­vo ed ade­rir­vi, del­l’a­rea del­l’au­to­no­mia, dal­l’al­tro come pover­tà e fram­men­ta­rie­tà dei suoi livel­li orga­niz­za­ti­vi e, insie­me, come costan­te dispo­ni­bi­li­tà alla enfa­tiz­za­zio­ne mino­ri­ta­ria ed esem­pla­re del­la pro­pria azio­ne nel ten­ta­ti­vo di far fron­te ai pro­ble­mi inso­lu­ti del­l’i­den­ti­tà e del­lo scon­tro poli­ti­co.
È den­tro que­sta situa­zio­ne che la tema­ti­ca del con­tro-pote­re vie­ne for­za­ta ad esse­re, da base poten­te ma loca­le di con­so­li­da­men­to di ben defi­ni­te espe­rien­ze orga­niz­za­ti­ve, ideo­lo­gia col­let­ti­va, iden­ti­tà gene­ra­le di movi­men­to. Una iden­ti­tà impos­si­bi­le, per­ché solo in casi estre­mi e per stra­ti socia­li mol­to par­ti­co­la­ri, rigi­da­men­te defi­ni­ti nel sen­so del­l’e­sclu­sio­ne da rap­por­ti par­te­ci­pa­ti­vi, un muta­men­to nel­la distri­bu­zio­ne socia­le del pote­re si espri­me come «con­tro-pote­re»: in gene­ra­le i mec­ca­ni­smi del­la con­trat­ta­zio­ne infor­ma­le e quel­la par­ti­co­la­re for­ma di appro­pria­zio­ne di risor­se — mone­ta­rie e di tem­po — che si mani­fe­sta nel­la cadu­ta di effi­cien­za nel rap­por­to di pre­sta­zio­ne, costi­tui­sco­no solu­zio­ni meno dispen­dio­se social­men­te e poli­ti­ca­men­te.
Una iden­ti­tà impos­si­bi­le, ma che con natu­ra­lez­za ten­de a pre­sen­tar­si come pra­ti­ca «nor­ma­le» del rap­por­to col pote­re quan­do lo scon­tro è con un tes­su­to isti­tu­zio­na­le con­no­ta­to da una rigi­di­tà, da una inca­pa­ci­tà di modi­fi­ca­zio­ne e rifor­ma, tale da por­re il pro­ble­ma del pote­re quo­ti­dia­na­men­te in ter­mi­ni tota­li­ta­ri.
Per­ché è un tes­su­to isti­tu­zio­na­le pro­te­so ad acqui­si­re alla clas­se poli­ti­ca ogni ter­re­no di espres­sio­ne socia­le, a gio­ca­re le sue car­te non sul ter­re­no del mono­po­lio del­la rap­pre­sen­tan­za legit­ti­ma ma su quel­lo socia­li­sta del mono­po­lio del­la comu­ni­ca­zio­ne socia­le.

In que­sta acce­zio­ne del «con­tro-pote­re», il pro­ble­ma del­lo Sta­to sole mar­gi­nal­men­te costi­tui­sce luo­go di iden­ti­tà socia­le e poli­ti­ca del movi­men­to: ciò avvie­ne per alcu­ne, impor­tan­ti ma limi­ta­te, espe­rien­ze orga­niz­za­ti­ve ma non rie­sce ad esse­re il tes­su­to con­net­ti­vo effet­ti­vo del­le più con­si­sten­ti espe­rien­ze di lot­ta.
E allo­ra la sto­ria del­l’au­to­no­mia di que­sti anni appa­re pri­va di un vero cen­tro foca­le: due espe­rien­ze sal­da­men­te radi­ca­te in fasce lar­ghe di pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le e ope­ra­io a Roma e Pado­va; una gran­de ric­chez­za di espe­rien­ze, dal­la Assem­blea auto­no­ma del­l’Al­fa ai cir­co­li del pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le, a Mila­no, den­tro una flui­di­tà orga­niz­za­ti­va pra­ti­ca­men­te ine­stri­ca­bi­le; un per­cor­so di gran­dis­si­me espe­rien­ze di lot­ta, dal­l’oc­cu­pa­zio­ne del ’73 alle lot­te del ’74 fino ai pic­chet­ti cit­ta­di­ni del ’79 alla Fiat, sen­za una tra­ma orga­niz­za­ti­va in qual­che modo sta­bi­liz­za­ta e rico­no­sci­bi­le; una quan­ti­tà enor­me e non cen­si­bi­le di col­let­ti­vi loca­li spar­si ovun­que; le esplo­sio­ni del ’77 a Roma e Bolo­gna, in nes­sun modo ricon­du­ci­bi­li ad espe­rien­ze orga­niz­za­ti­ve ante­ce­den­ti ma che tut­te le inglo­ba­no.
In que­sto modo com­ples­so, fat­to di discon­ti­nui­tà e diva­rio fra lot­te ed orga­niz­za­zio­ne, il movi­men­to del rifiu­to del lavo­ro si incro­cia con una sto­ria poli­ti­ca che, pur volen­do ade­rir­vi ed essen­do­ne con­ti­nua­men­te ali­men­ta­ta, non rie­sce ad esse­re rispo­sta ai pro­ble­mi che ven­go­no posti.
È una sto­ria che ha una chia­ve sem­pli­ce: la ade­ren­za ai livel­li più ele­va­ti del­lo scon­tro socia­le di que­sti anni, l’in­ca­pa­ci­tà di ela­bo­ra­re una iden­ti­tà abba­stan­za arti­co­la­ta da saper ren­de­re con­to del­l’in­sie­me del tes­su­to di comu­ni­ca­zio­ne del movi­men­to e da saper rap­por­tar­si ad esso in modo diver­so dal­la ripro­po­si­zio­ne esem­pla­re del­l’e­spe­rien­za guida.Dentro que­sto qua­dro il movi­men­to del ’77 occu­pa un posto del tut­to par­ti­co­la­re: per la for­za del suo impat­to, per la novi­tà che espri­me, per come inno­va tut­ti i ter­mi­ni del­la que­stio­ne.

L’au­to­no­mia è l’u­ni­ca area poli­ti­ca che entra in con­tat­to con il movi­men­to, lo ali­men­ta e ne è ali­men­ta­ta. È anche l’u­ni­ca, di con­se­guen­za, a por­tar­vi i pro­pri limi­ti ed erro­ri.
Il ’77 sve­la il mino­ri­ta­ri­smo ed il mini­ma­li­smo del pro­get­to poli­ti­co del­l’au­to­no­mia, il miste­ro del­l’ir­ri­sol­to pro­ble­ma del «poli­ti­co» in essa; sve­la anche come sia il solo ten­ta­ti­vo di inter­pre­ta­re e ren­de­re poten­te il pro­ces­so di muta­men­to che ci attra­ver­sa.
Soprat­tut­to, cam­bia le car­te in tavo­la, slar­ga gli oriz­zon­ti: l’am­piez­za del­la mobi­li­ta­zio­ne ha rot­to, pro­ba­bil­men­te per sem­pre, quel gusto risor­gi­men­ta­le per i pic­co­li nume­ri che ave­va cer­ca­to di soprav­vi­ve­re, uni­co «leni­ni­smo» pos­si­bi­le, al crol­lo del­l’i­dea di par­ti­to; e, insie­me, la mol­ti­pli­ca­zio­ne dei lin­guag­gi, lo spez­zar­si del ger­go «poli­ti­co» e l’e­splo­de­re del discor­so sul­le «dif­fe­ren­ze» han­no posto sul tap­pe­to, pra­ti­ca­men­te, la urgen­za e la pos­si­bi­li­tà, le risor­se, di una iden­ti­tà col­let­ti­va com­ples­sa anco­ra­ta alla ric­chez­za del­le for­ze pro­dut­ti­ve espres­se, non appiat­ti­ta sul­l’an­tii­sti­tu­zio­na­li­smo ritua­le del­la sto­ria «auto­no­ma» appe­na tra­scor­sa.
La com­pat­ta mise­ria di una «socie­tà poli­ti­ca» — chi ha det­to che era la pri­ma? — abi­tua­ta fin dal ’68 a con­si­de­ra­re la restau­ra­zio­ne l’u­ni­ca rifor­ma pos­si­bi­le ed il «riflus­so» la sola for­ma ammes­sa di movi­men­to, è insor­ta, a Bolo­gna pri­ma che a Roma, con­tro l’ag­gres­si­va novi­tà, offren­do lo sta­to d’as­se­dio come uni­co ter­re­no di con­fron­to pos­si­bi­le: quel­li che chia­ma­no l’a­bi­tu­di­ne alla pro­pria per­so­na­le impu­ni­tà «infi­ni­ta poten­za del­lo Sta­to», sono par­ti­ti all’as­sal­to del movi­men­to.
Han­no avu­to vita faci­le, per­ché la secon­da socie­tà non è capa­ce di con­cen­tra­re pote­re, nem­me­no per difen­der­si, sa solo disper­der­lo; e poi sa svuo­ta­re le vit­to­rie nemi­che. È quel­lo che è suc­ces­so.

Pen­sa­va­no di dover spie­ga­re a quat­tro emar­gi­na­ti trop­po stra­fot­ten­ti chi è che coman­da a que­sto mon­do; non era così, e sono i car­ri arma­ti di Zan­ghe­ri e Cos­si­ga quel soli­do nes­so tra auto­no­mia e ter­ro­ri­smo che Calo­ge­ro tan­to ha cer­ca­to.
Non nel sen­so che la guer­ra sia in que­sto caso «la con­ti­nua­zio­ne del­la poli­ti­ca con altri mez­zi»; piut­to­sto in quel­lo, deter­mi­na­to, che il ter­ro­ri­smo in Ita­lia misu­ra insie­me l’am­piez­za del muta­men­to che ha inve­sti­to la gerar­chla socia­le e la distri­bu­zio­ne del pote­re, e la resi­sten­za del­le isti­tu­zio­ni a pren­der­ne atto. Cioè misu­ra, in ter­mi­ni di costo socia­le, la pover­tà del­la clas­se poli­ti­ca e la sua pro­ter­via.
Non che sia una misu­ra che ser­va a qual­che cosa, ma non è la sua inu­ti­li­tà a toglier­gli for­za: per­ché ciò che con­ta nel ter­ro­ri­smo non è il pro­get­to poli­ti­co, che è fra­gi­le ed anti­co, — trop­po anti­co per pesa­re dav­ve­ro —. non la capa­ci­tà di libe­ra­zio­ne, che non c’è, ma la sem­pli­ci­tà, la faci­li­tà.

Una faci­li­tà che toc­ca il cuo­re dei pro­ble­mi che vivia­mo, che va alla radi­ce del­le cose.
Al fat­to che lo Sta­to moder­no, in un pae­se svi­lup­pa­to, è «debo­le» strut­tu­ral­men­te, detie­ne una quo­ta di pote­re rela­ti­va­men­te bas­sa nei con­fron­ti del resto del­la socie­tà e deve costan­te­men­te ren­de­re con­to del­l’u­so che ne fa.
E que­sto è il solo, gran­de, even­to pro­gres­si­vo e demo­cra­ti­co del nostro tem­po: le risor­se eco­no­mi­che, come quel­le mili­ta­ri, sono rela­ti­va­men­te poco con­cen­tra­te, e, para­dos­sal­men­te, è cre­sciu­to di più il pote­re di con­trol­lo del cit­ta­di­no sul­lo Sta­to che non l’in­ver­so.
Il che vuoi dire che i cana­li isti­tu­zio­na­li di que­sto con­trol­lo devo­no esse­re effi­cien­ti, altri­men­ti se ne apro­no altri.
Per­ché l’an­ti­co sovra­no dove­va rispon­de­re del­le sue azio­ni a un nume­ro ristret­to di per­so­ne, agli altri sovra­ni e ai suoi paren­ti, a «quel­li come lui», che soli ave­va­no pote­re di con­trol­lo, che è sem­pre pote­re di ucci­de­re, in ulti­ma istan­za, e la sto­ria del pote­re era la sha­ke­spea­ria­na tra­ge­dia del­la lot­ta tra con­san­gui­nei; men­tre oggi il «prin­ci­pe» vive tra la fol­la e a tut­ti deve spie­ga­re, per­ché non c’è poli­zia al mon­do che a lun­go lo pos­sa difen­de­re nel­la gran­de cit­tà.
Il fat­to real­men­te ever­si­vo del rapi­men­to Moro non era il «com­plot­to» — il sogno mala­to di quel­li che pen­sa­no che il pote­re si divi­da sem­pre, anco­ra, tra i mem­bri del­la «clas­se diri­gen­te», la spe­ran­za clas­si­sta e ras­si­cu­ran­te di chi vuo­le che sia­no i «pro­fes­so­ri» o gli emis­sa­ri del­le «poten­ze impe­ria­li» a tira­re le fila «die­tro le quin­te», a «coman­da­re» —, ma la sua assen­za, il fat­to che era­no poche deci­ne di lavo­ra­to­ri dipen­den­ti o disoc­cu­pa­ti che si era­no orga­niz­za­ti per far­lo, con un pro­gram­ma poli­ti­co non chia­ro ed uno scar­so inte­res­se al con­sen­so: que­sto e il fat­to che la cul­tu­ra «domi­nan­te» ha volu­to rimuo­ve­re nel pro­fon­do, la cosa a cui, dav­ve­ro, non rie­sce a cre­de­re.
Que­sta è la for­za del ter­ro­ri­smo, la chia­ve del­la sua ripro­du­ci­bi­li­tà, del suo carat­te­re «moder­no» al di là del­la sta­gio­na­tu­ra del­le ideo­lo­gie che agi­ta; ciò non toglie che sia inu­ti­le, pri­vo del­la pos­si­bi­li­tà di risol­ve­re i pro­ble­mi che espri­me.

Inu­ti­le esat­ta­men­te come la repres­sio­ne, costi sec­chi di una situa­zio­ne bloc­ca­ta.
C’è una ideo­lo­gia, cile­na direi, che domi­na la nostra «clas­se diri­gen­te», a destra come a sini­stra, e che è fat­ta del­l’in­ti­ma con­vin­zio­ne del­l’on­ni­po­ten­za del­l’ap­pa­ra­to mili­ta­re del­lo Sta­to, del carat­te­re in ulti­ma istan­za riso­lu­ti­vo, per quan­to sgra­de­vo­le, di una repres­sio­ne desi­de­ra­ta o temu­ta; è, come dire, una riser­va men­ta­le sul­la rever­si­bi­li­tà del­la «demo­cra­zia», dono del­la pace ma sem­pre pron­ta a cede­re il pas­so alle cru­de­li neces­si­tà del­la guer­ra.
A que­sta con­vin­zio­ne, che ren­de così infiam­ma­bi­li e stuz­zi­ca­rel­li i nostri poli­ti­ci, c’è un argo­men­to da obiet­ta­re, ed è che nei pae­si svi­lup­pa­ti, come il nostro che è più vici­no all’A­me­ri­ca che al Cile, dove la socie­tà è ric­ca e i mez­zi di comu­ni­ca­zio­ne dif­fu­si, l’in­fi­ni­ta ripro­du­ci­bi­li­tà del ter­ro­ri­smo, esat­ta­men­te come l’in­fi­ni­ta poten­za distrut­ti­va del­la bom­ba ato­mi­ca, impe­di­sce che ci pos­sa più esse­re solu­zio­ne mili­ta­re ad un pro­ble­ma poli­ti­co che non sia pro­prio mol­to pic­co­lo: la guer­ra pos­sie­de una auto­no­mia tec­no­lo­gi­ca tale e veste for­me così radi­ca­li che non è più stru­men­to doci­le da usa­re, non è appli­ca­bi­le a fini limi­ta­ti, se non in fun­zio­ne dimo­stra­ti­va, in for­ma simu­la­ta, per inne­sca­re la trat­ta­ti­va.
E lo Sta­to moder­no trat­ta, a tut­ti i livel­li: poi­ché sa di non esse­re l’u­ni­co pote­re, lo Sta­to ricer­ca la fles­si­bi­li­tà, cer­ca di caval­ca­re la nuo­va vici­nan­za con la socie­tà facen­do­si per­mea­bi­le ed atten­to, allar­gan­do i cana­li di comu­ni­ca­zio­ne, coop­tan­do e sele­zio­nan­do, fil­tran­do il muta­men­to per impe­di­re l’ac­cu­mu­lo di risor­se nemi­che: è uno Sta­to rifor­mi­sta per natu­ra e voca­zio­ne.
Quel­lo ita­lia­no no: è immo­bi­le e ris­so­so, col­ti­va il cul­to del­la for­za ed ha l’or­di­ne pub­bli­co come ter­re­no di incon­tro pri­vi­le­gia­to con il muta­men­to socia­le.
Ne paghia­mo le spe­se, tutti.

IL RIFIUTO DEL LAVORO

Par­la­re dell’«autonomia ope­ra­ia» dopo il 7 Apri­le è insie­me cosa dif­fi­ci­le e impel­len­te.
Dif­fi­ci­le per­ché l’«equazione Calo­ge­ro» e il raf­for­zar­si del­le spin­te isti­tu­zio­na­li a una solu­zio­ne mili­ta­re del pro­ble­ma han­no accre­di­ta­to di essa una imma­gi­ne pove­ra­men­te guer­re­sca, appiat­ti­ta su quel­la del ter­ro­ri­smo, impel­len­te per­ché die­tro il fra­go­re dell’operazione è comin­cia­ta a emer­ge­re, for­se per la pri­ma vol­ta agli occhi di un pub­bli­co così vasto, la pro­fon­di­tà, tena­cia e ampiez­za di un feno­me­no poli­ti­co e socia­le che si è volu­to con­si­de­ra­re mar­gi­na­le, tra­scu­ra­bi­le, pove­ro. Fat­to­ne un pro­ble­ma di sta­to ad usum bel­li, die­tro l’immagine odio­sa che la cul­tu­ra uffi­cia­le ha sco­per­to e fat­to cir­co­la­re di esso, tra­pe­la­no i segni di una sto­ria ric­ca che attra­ver­sa tut­to il tes­su­to di lot­ta di que­sti anni e sui cui nodi trop­po age­vol­men­te, da par­te di trop­pi, si è sor­vo­la­to come su cosa irri­le­van­te.
Il risul­ta­to para­dos­sa­le di un anno di guer­ra fero­ce all’«autonomia» può esse­re la ria­per­tu­ra poten­te del discor­so sul muta­men­to socia­le che ha attra­ver­sa­to que­sto pae­se, sul­la ric­chez­za del­le sue espres­sio­ni poli­ti­che e sui loro limi­ti, sul­la radi­ca­li­tà del­la sua pra­ti­ca e la pover­tà del­la teo­ria; insom­ma, su quel bloc­co di pro­ble­mi la cui rimo­zio­ne col­let­ti­va per oppor­tu­ni­smo, pau­ra, mise­ria poli­ti­ca ed uma­na ci ha con­dot­to allo stal­lo san­gui­no­so che stia­mo viven­do.

Que­sto libro vuo­le offri­re una pri­ma docu­men­ta­zio­ne essen­zia­le a un discor­so di que­sto tipo.
È un taglio di pro­spet­ti­va che ren­de con­to di una impo­sta­zio­ne per altri ver­si «inge­nua», cioè idea­li­sta.
Vale a dire, del­la scel­ta di non limi­ta­re l’attenzione a quel­la pur varie­ga­ta area poli­ti­ca che all’inizio del ’74 si costi­tui­sce attor­no alla comu­ne deno­mi­na­zio­ne di «auto­no­mia ope­ra­ia»: si trat­ta di un’area di espe­rien­ze orga­niz­za­ti­ve trop­po ristret­ta per poter esse­re esclu­si­vo pun­to di rife­ri­men­to.
L’identità poli­ti­ca che espri­me è infat­ti trop­po incer­ta e appros­si­ma­ti­va per riu­sci­re a defi­ni­re dei con­fi­ni suf­fi­cien­te­men­te rigi­di al discor­so, e insie­me le espe­rien­ze che essa non com­pren­de sono trop­po signi­fi­ca­ti­ve, in quel mede­si­mo spa­zio di anni, per poter esse­re sot­ta­ciu­te.
Una impo­sta­zio­ne così ristret­ta peral­tro defi­ni­reb­be una dipen­den­za trop­po net­ta, che non è in alcun modo riscon­tra­bi­le tra il movi­men­to del ’77 e l’«autonomia»: un movi­men­to che, nel­la real­tà, ha sovra­sta­to da ogni par­te l’esperienza orga­niz­za­ti­va di cui par­lia­mo, spez­zan­do­ne la con­ti­nui­tà, per­ché face­va par­te di una sto­ria più vasta.
Per un altro ver­so, nean­che la sem­pli­ce iden­ti­fi­ca­zio­ne dell’«autonomia» con un’area di com­por­ta­men­ti socia­li appa­re sod­di­sfa­cen­te, per­ché gene­ri­ca, trop­po lar­ga e ridut­ti­va insie­me: l’«autonomia ope­ra­ia» è attra­ver­sa­ta cer­to dall’estremismo socia­le, ma non e defi­ni­ta da que­sto, e se for­me di lot­ta ille­ga­li costel­la­no la sua sto­ria non ne costi­tui­sco­no però il pun­to d’identità.

Il discor­so da fare è diver­so: la sto­ria dell’«autonomia» è costi­tui­ta da un arco di espe­rien­ze poli­ti­che arti­co­la­te e dif­for­mi che si sno­da­no per tut­to l’arco degli anni ’70 e la cui iden­ti­tà ruo­ta attor­no all’idea-forza del «rifiu­to del lavo­ro».
Non è sol­tan­to una ideo­lo­gia dell’emancipazione, ma un modo di let­tu­ra del­la socie­tà capi­ta­li­sta, dei suoi pro­ta­go­ni­sti, del modo di distri­bu­zio­ne del pote­re in essa, del­la dina­mi­ca del suo svi­lup­po e del­la sua fine, che costi­tui­sce lo sche­ma di orien­ta­men­to ed il tes­su­to con­net­ti­vo ege­mo­ne che attra­ver­sa­no die­ci anni di con­fron­to poli­ti­co con il movi­men­to ope­ra­io, orga­niz­za­to.
Su que­sta base è defi­ni­bi­le la con­ti­nui­tà che cor­re tra la «con­flit­tua­li­tà sel­vag­gia» del ’68 e i comi­ta­ti ope­rai di base (che sono lar­ga par­te dell’ascendenza comu­ne di Pote­re ope­ra­io e Lot­ta con­ti­nua), le lot­te «socia­li» e la «resi­sten­za alla ristrut­tu­ra­zio­ne», che di tali orga­niz­za­zio­ni segna­no il cul­mi­ne e la fine, e le tema­ti­che dei nuo­vi biso­gni e del‑l’«operaio socia­le» che esplo­de­ran­no tra il ’76 e il ’77.
Non è una con­nes­sio­ne estem­po­ra­nea che sal­ta sul­le dif­fe­ren­ze, pure pro­fon­de, e disco­no­sce la plu­ra­li­tà degli appor­ti e la discon­ti­nui­tà degli orien­ta­men­ti.
È la rile­va­zio­ne di un per­cor­so uni­ta­rio di pro­ble­mi e modi di solu­zio­ne den­tro una pra­ti­ca dell’organizzazione che cer­ca di iden­ti­fi­ca­re poli­ti­ca ed eco­no­mia e rico­no­sce nell’emergenza di biso­gni con­flit­tua­li il costi­tuir­si dell’autonomia socia­le e poli­ti­ca del sog­get­to rivo­lu­zio­na­rio.

LA “MIGRAZIONE” DAL LAVORO SALARIATO E LA QUESTIONE DELLO STATO

Den­tro que­sto tes­su­to di discor­so il pro­ble­ma del «pote­re» assu­me del­le dimen­sio­ni del tut­to par­ti­co­la­ri e divie­ne il luo­go del­la «iden­ti­tà dif­fi­ci­le» del­la auto­no­mia, il luo­go attor­no a cui si arti­co­la la sua con­trad­dit­to­ria espe­rien­za orga­niz­za­ti­va.
In tut­ta la sto­ria del movi­men­to ope­ra­io, sia nel­la sua ver­sio­ne rifor­mi­sta, social­de­mo­cra­ti­ca, che rivo­lu­zio­na­ria, la que­stio­ne del pote­re è il prin­ci­pio for­te di iden­ti­tà, la base del pro­get­to di rifor­ma socia­le. Nel sen­so che la rivo­lu­zio­ne poli­ti­ca si vuo­le pre­ce­de­re quel­la socia­le, e l’occupazione del­lo sta­to esse­re la base del­la modi­fi­ca­zio­ne dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne: lo sta­to è, hege­lia­na­men­te, il livel­lo più avan­za­to del­la coo­pe­ra­zio­ne socia­le e gui­da tut­ti gli altri.
A par­ti­re dal­la rivo­lu­zio­ne bor­ghe­se; è que­sto – e con ciò Sta­lin con­clu­de­rà un discor­so ini­zia­to da Marx – che dif­fe­ren­zia la rivo­lu­zio­ne pro­le­ta­ria da quel­la bor­ghe­se, che quest’ultima si è impa­dro­ni­ta pri­ma del­la socie­tà e poi del­lo sta­to, men­tre la pri­ma è desti­na­ta a segui­re il cam­mi­no inver­so, a gover­na­re dall’alto, dal pun­to di mas­si­ma con­cen­tra­zio­ne del pote­re, il rivo­lu­zio­na­men­to dei rap­por­ti socia­li.

Tut­to ciò non può esser­ci nel discor­so che abbia­mo fat­to, per­ché il suo cuo­re è il muta­men­to «in atto» dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne, la dislo­ca­zio­ne nuo­va del pote­re nel­la socie­tà ben pri­ma che nel­le isti­tu­zio­ni; il pro­ble­ma del pote­re poli­ti­co segue, non pre­ce­de, e si ridu­ce al pro­ble­ma di come lo sta­to si ade­gua al muta­men­to.
La que­stio­ne «socia­li­sta» del­la occu­pa­zio­ne del­lo Sta­to, del­la «pre­sa del pote­re» pro­le­ta­rio in real­tà non si pone nep­pu­re: per­ché il nuo­vo pote­re che emer­ge non si dà una rap­pre­sen­ta­zio­ne sta­tua­le, non è dele­ga­bi­le, non è sepa­ra­bi­le da quel­li che lo eser­ci­ta­no, non è poli­ti­co ma «pro­dut­ti­vo», «estin­gue» lo sta­to.
Il sen­so infat­ti di un discor­so sull’impoverimento del­la sin­te­si di capi­ta­le e sul­la ric­chez­za del­le risor­se che vi resta­no estra­nee è che vi è una disper­sio­ne del pote­re socia­le, uno slit­ta­men­to dei pote­ri di gestio­ne sul­le risor­se dal­la «poten­za astrat­ta alla coo­pe­ra­zio­ne socia­le» ordi­na­ta den­tro il lavo­ro sala­ria­to alle comu­ni­tà con­cre­te che infor­mal­men­te si strut­tu­ra­no attor­no a que­sta con­qui­sta­ta dispo­ni­bi­li­tà di tem­po socia­le, e che indif­fe­ren­te­men­te si pon­go­no all’esterno del rap­por­to lavo­ra­ti­vo o lo attra­ver­sa­no.

Que­sta opa­ci­tà nel­la distri­bu­zio­ne socia­le del pote­re, que­sta disper­sio­ne che inve­ste la sua ordi­na­ta arti­co­la­zio­ne gerar­chi­ca e che depo­ten­zia il siste­ma gran­de, astrat­to e com­ples­so in favo­re del pic­co­lo con­cre­to e sem­pli­ce, aggre­di­sce alle fon­da­men­ta l’analisi mar­xi­sta del pote­re.
Nel sen­so che base di que­sta è l’assunzione del­la con­cen­tra­zio­ne del pote­re nel­la socie­tà del capi­ta­le e la pos­si­bi­li­tà di dare ad essa una for­ma posi­ti­va modi­fi­can­do la for­ma del­lo sta­to in modo da svi­lup­pa­re al mas­si­mo la «par­te­ci­pa­zio­ne demo­cra­ti­ca» ad esso, di accre­scer­ne la legit­ti­mi­tà e con­trol­la­bi­li­tà.
A que­sto pun­to nasce però un pro­ble­ma: il discor­so sul­lo sta­to è in Marx, come in tut­to il pen­sie­ro poli­ti­co demo­cra­ti­co, discor­so sull’«eguaglianza»; il discor­so sul comu­ni­smo è discor­so sul libe­ro svi­lup­po del­le «dif­fe­ren­ze», sul­la fine del dirit­to e del­la sua astra­zio­ne inu­ma­na.
Il nes­so tra i due discor­si non è dia­let­ti­co in Marx; sem­pli­ce­men­te non c’è.
C’è insie­me l’esaltazione del­la poli­ti­ca, dell’eguaglianza, e la sua cri­ti­ca.
Rivo­lu­zio­ne socia­li­sta nel nome dell’eguaglianza, per «por­ta­re a ter­mi­ne la rivo­lu­zio­ne fran­ce­se», ma comu­ni­smo come sua cri­ti­ca. Per­ché l’eguaglianza tra gli uomi­ni è una astra­zio­ne, che pas­sa sopra le dif­fe­ren­ze con­cre­te di gusti, tem­pe­ra­men­ti, neces­si­tà e desi­de­ri, e può fare que­sto per­ché con­si­de­ra gli uomi­ni mer­ci, inter­cam­bia­bi­li nel­la pre­sta­zio­ne di lavo­ro: per que­sto è egua­glian­za «solo» poli­ti­ca, per­ché quel­la vera, mate­ria­le, è rico­no­sci­men­to del­le dif­fe­ren­ze, abo­li­zio­ne del dirit­to.
L’«eguaglianza» è la sola base pos­si­bi­le di ogni dele­ga e par­te­ci­pa­zio­ne, il fon­da­men­to del­la poli­ti­ca, insie­me la sua pos­si­bi­li­tà e il suo desti­no; ma la sua base è il mer­ca­to, il lavo­ro sala­ria­to, dove «un uomo di un’ora» vale un altro uomo di un’ora.

L’«interesse gene­ra­le» del mon­do del­la poli­ti­ca si fon­da su que­sta equi­va­len­za gene­ra­le del mon­do del­le mer­ci, sull’astrazione del lavo­ro sala­ria­to, ma la «cri­ti­ca del­la poli­ti­ca», la cri­ti­ca dei rap­por­ti di dele­ga ha anch’essa una base poten­te.
Che cosa suc­ce­de infat­ti quan­do il tem­po di lavo­ro, in cui tut­ti sono ugua­li, per­de pote­re e for­za pro­dut­ti­va, divie­ne una fra­zio­ne di tut­to il tem­po socia­le, ed il tem­po del non-lavo­ro ces­sa di esse­re fun­zio­ne subor­di­na­ta del­la ripro­du­zio­ne socia­le e comin­cia ad esse­re par­te­ci­pe del­la ric­chez­za del­le for­ze pro­dut­ti­ve?
Quan­do i rap­por­ti tra gli uomi­ni comin­cia­no ad esse­re così ric­chi da non far­si più misu­ra­re sul­la base dell’equivalenza e la comu­ni­ca­zio­ne socia­le comin­cia a strut­tu­rar­si attor­no al tem­po qua­li­ta­ti­vo, ric­co di dif­fe­ren­ze, che si sot­trae al coman­do del sala­rio?
Il discor­so dell’eguaglianza ces­sa di gover­na­re il pro­ces­so di libe­ra­zio­ne, che va a sno­dar­si attor­no ad un pro­ble­ma nuo­vo: come si fa ad arti­co­la­re il pote­re non attor­no all’eguaglianza astrat­ta che impo­ne il mer­ca­to, ma attor­no alle dif­fe­ren­te con­cre­te che ani­ma­no il tem­po nuo­vo del­la coo­pe­ra­zio­ne socia­le ric­ca?
Marx par­la­va di gene­ral intel­lect, di pro­du­zio­ne sgan­cia­ta dal­la neces­si­tà come fun­zio­na la dele­ga di pote­ri quan­do la pro­du­zio­ne socia­le di ric­chez­za comin­cia a svin­co­lar­si dal­le maglie del lavo­ro astrat­to, quan­do la par­te­ci­pa­zio­ne di ognu­no alla pro­du­zio­ne non è più ridu­ci­bi­le al suo tem­po di lavo­ro ma inve­ste la qua­li­tà del suo esse­re «indi­vi­duo socia­le ric­co», e come sono rap­pre­sen­ta­bi­li per­so­ne che par­te­ci­pa­no del­la socie­tà sul­la base non del­la loro pre­sta­zio­ne, ma com­ples­si­va­men­te di ciò che fan­no, san­no, voglio­no e desi­de­ra­no per­ché tut­to ciò entra oggi nel­la poten­za del­la coo­pe­ra­zio­ne socia­le?

Non è vero in sen­so for­te tut­to ciò: il tem­po di lavo­ro è sostan­za rea­le anco­ra del­la pro­du­zio­ne, e da esso pren­do­no for­za mate­ria­le la dele­ga, l’eguaglianza, il «poli­ti­co», ma c’è que­sta libe­ra­zio­ne di tem­po socia­le, in modo non mar­gi­na­le, ed è capa­ce di pro­dur­re effet­ti poten­ti, ed attra­ver­sa con for­za dele­git­ti­man­te tut­te le isti­tu­zio­ni.
Quel­la che esplo­de, a tut­ti i livel­li, non è richie­sta di «par­te­ci­pa­zio­ne» sul­la base dell’eguaglianza, ma doman­da di più lar­ga dislo­ca­zio­ne del pote­re, di sua dif­fu­sio­ne, di auto­no­mia di spa­zi di gestio­ne sul­la base del­la «diver­si­tà», del­la irri­du­ci­bi­li­tà a «inte­res­se gene­ra­le», al rap­por­to di mag­gio­ran­za.
I movi­men­ti di lot­ta di que­sti anni, ovun­que, han­no que­sto segno: non richie­sta di dif­fe­ren­te gestio­ne del pote­re né riven­di­ca­zio­ne di «egua­glian­za», cioè di legit­ti­mi­tà mag­gio­ri­ta­ria, ma affer­ma­zio­ne di una qual­che diver­si­tà irri­du­ci­bi­le che si fa in quan­to tale doman­da di pote­re, aper­tu­ra di con­trat­ta­zio­ne, richie­sta di auto­no­mia.
Richie­sta di ave­re voce in quan­to «diver­si», non in quan­to ugua­li, richie­sta di rico­no­sci­men­to del pote­re che in que­sta diver­si­tà è insi­to.

Il movi­men­to del ’77 era social­men­te arti­co­la­to e com­ples­so, per ben poca sua par­te com­po­sto da «emar­gi­na­ti», ave­va le car­te in rego­la per por­re doman­de «poli­ti­che», ma la sua iden­ti­tà era quel­la del «diver­so», i lin­guag­gi che par­la­va spe­cia­liz­za­ti e intra­du­ci­bi­li, come il dia­let­to di una etnia che vuo­le difen­der­si dal­la lin­gua uffi­cia­le.
La «mar­gi­na­li­tà» non è sta­ta con­no­ta­zio­ne socia­le ma scel­ta poli­ti­ca, cri­ti­ca del­la poli­ti­ca.
Ma non è che un esem­pio: i neri, le don­ne, i gio­va­ni, gli anzia­ni, i fro­ci, le mino­ran­ze nazio­na­li, tec­ni­che, lin­gui­sti­che, reli­gio­se; la ricer­ca di una iden­ti­tà non «poli­ti­ca» che ruo­ta attor­no ad una dif­fe­ren­za da far rico­no­sce­re e rispet­ta­re, sul­la base del­la qua­le con­trat­ta­re spa­zi di gestio­ne del­le risor­se, appa­re il con­no­ta­to domi­nan­te dei «movi­men­ti» di que­sti anni.

IL RIFIUTO DEL LAVORO E LOTTA OPERAIA

«Rifiu­to del lavo­ro»: vuol dire che den­tro la strut­tu­ra e la gerar­chia dei rap­por­ti socia­li coman­da­ti dal lavo­ro sala­ria­to vive, sem­pre, un tes­su­to di comu­ni­ca­zio­ne e orga­niz­za­zio­ne, che detie­ne infor­ma­zio­ni, cono­scen­za, «sape­ri», che ad esse si con­trap­po­ne ed a cui è alter­na­ti­vo.
È una strut­tu­ra socia­le che nasce nel­la lot­ta, per la lot­ta – per più sol­di, meno lavo­ro, per un lavo­ro meno noci­vo, o pesan­te, per «sta­re meglio», o comun­que per non mori­re di fab­bri­ca –, ma che è già pote­re, «sul­la» pro­du­zio­ne e «di» pro­du­zio­ne, per­ché è fat­ta esat­ta­men­te degli stes­si ele­men­ti che com­pon­go­no la pre­sta­zio­ne lavo­ra­ti­va, solo che ha il segno rove­scia­to, quel­lo del­la non col­la­bo­ra­zio­ne, del­la sot­tra­zio­ne di risor­se e dispo­ni­bi­li­tà.
È la cono­scen­za del ciclo pro­dut­ti­vo di par­te ope­ra­ia, la capa­ci­tà di fer­mar­si, sot­trar­si, sabo­ta­re; è la scien­za del­la resi­sten­za, con la sua capa­ci­tà di impat­to, sem­pre, sul­la distri­bu­zio­ne del­la ric­chez­za e l’organizzazione del lavo­ro.
Come dire che il pote­re socia­le, la cono­scen­za socia­le, sono divi­si tra coman­do e resi­sten­za, e i rap­por­ti socia­li sono spez­za­ti, orga­niz­za­ti insie­me dal lavo­ro e dal­la lot­ta con­tro di esso, e la pro­du­zio­ne non è dina­mi­ca neu­tra­le, «eco­no­mia», ma luo­go di scon­tro e media­zio­ne tra que­sti due pote­ri nemi­ci.
Non c’è sol­tan­to sfrut­ta­men­to in que­sta socie­tà, ma anche auto­no­mia da esso e lot­ta.
Quan­te risor­se socia­li sia­no coman­da­te den­tro la gerar­chia costrui­ta dal rap­por­to di lavo­ro sala­ria­to e quan­te si ordi­ni­no vice­ver­sa attor­no all’emergenza dei biso­gni auto­no­mi di clas­se, non è mai cosa defi­ni­ti­va una vol­ta per tut­te, ma costi­tui­sce l’oggetto di quel­la lot­ta poli­ti­ca che va sot­to il nome di svi­lup­po e cri­si.

In que­sta acce­zio­ne il discor­so è già tut­to den­tro i «Qua­der­ni Ros­si» di Pan­zie­ri e Tron­ti.
E qui sono già con­te­nu­te le gran­di rot­tu­re teo­ri­che con la tra­di­zio­ne socia­li­sta del movi­men­to ope­ra­io.
Per­ché non c’è più auto­no­mia nell’«economico» né ogget­ti­vi­tà nel­la cri­si, ma ovun­que scon­tro di inte­res­si e orga­niz­za­zio­ni.
Per­ché il pote­re non sta da una par­te sola, e non c’è una clas­se di «pro­du­zio­ni» con­trap­po­sta agli «sfrut­ta­to­ri», ma un rap­por­to che è pro­dut­ti­vo per­ché scon­tro di inte­res­si in lot­ta; quin­di non c’è pos­si­bi­li­tà di libe­ra­zio­ne che pas­si per la sem­pli­ce «eli­mi­na­zio­ne degli sfrut­ta­to­ri», cioè per la «socia­liz­za­zio­ne del rap­por­to», il socia­li­smo: non c’è supe­rio­ri­tà del­la pia­ni­fi­ca­zio­ne sul mer­ca­to, ma solo pos­si­bi­li­tà di coman­do sul rap­por­to di svi­lup­po, costri­zio­ne a pro­dur­re più clas­se ope­ra­ia e meno capi­ta­le.
Sono rot­tu­re impor­tan­ti, attra­ver­so cui pas­sa un com­ples­si­vo diver­so orien­ta­men­to del­le tema­ti­che eman­ci­pa­ti­ve.
Innan­zi­tut­to il ridi­men­sio­na­men­to del ruo­lo del­la con­qui­sta del pote­re poli­ti­co den­tro il pro­ces­so di libe­ra­zio­ne, e, all’interno di que­sto, la riva­lu­ta­zio­ne del­la sto­ria del­le clas­si ope­ra­ie occi­den­ta­li. Poi l’ancoramento sal­do di ogni discor­so sull’organizzazione al siste­ma di biso­gni mate­rial­men­te espres­so, che è il livel­lo dato di auto­no­mia di clas­se.
È un discor­so nato nei ter­mi­ni dell’autonomia poli­ti­ca di clas­se, cioè auto­no­mia del siste­ma di biso­gni, auto­no­mia del pote­re ope­ra­io: par­te­ci­pa­zio­ne con­flit­tua­le allo svi­lup­po e minac­cia del bloc­co, cioè con­trat­ta­zio­ne con­sa­pe­vo­le in vista del con­se­gui­men­to degli inte­res­si di par­te.
È un discor­so che cre­sce in fret­ta però, per­ché le basi sono ric­che.

Una vol­ta, infat­ti, che si leg­ga la socie­tà capi­ta­li­sta non più come il luo­go del coman­do incon­tra­sta­to dell’interesse di par­te del capi­ta­le, del­la gerar­chia che si espri­me nel rap­por­to di lavo­ro sala­ria­to, ma come il luo­go del­lo scon­tro tra lavo­ro e rifiu­to del lavo­ro; una vol­ta che si rico­no­sca che come lot­ta si orga­niz­za­no quel­le mede­si­me risor­se che sono sostan­za del­lo svi­lup­po del capi­ta­le, e che i biso­gni socia­li pos­sie­do­no una auto­no­mia dal coman­do sul lavo­ro; che alla gerar­chia costrui­ta attor­no al tem­po di lavo­ro se ne con­trap­po­ne un’altra costrui­ta attor­no al tem­po del­la lot­ta, al tem­po libe­ra­to dal lavo­ro, e che anch’essa detie­ne cono­scen­za, è tes­su­to di comu­ni­ca­zio­ne e orga­niz­za­zio­ne socia­le, è for­za pro­dut­ti­va; rico­no­sciu­to tut­to ciò, il pro­ble­ma diven­ta quel­lo del­la cre­sci­ta e dell’arricchimento del­le risor­se che si pre­sen­ta­no come «non capi­ta­le», quel­lo del bloc­co del­la sin­te­si socia­le di par­te capi­ta­li­sti­ca, del­la pos­si­bi­li­tà di una sin­te­si diver­sa sul ter­re­no non tan­to del­la orga­niz­za­zio­ne del pote­re poli­ti­co quan­to su quel­lo del­la strut­tu­ra del­le for­ze pro­dut­ti­ve.
Cioè diven­ta la destrut­tu­ra­zio­ne del rap­por­to di capi­ta­le.
Se la socie­tà non è più vista come il tea­tro di un solo atto­re, l’interesse di par­te capi­ta­li­sta, ben­sì il rap­por­to di capi­ta­le, appa­re la sin­te­si fati­co­sa degli inte­res­si di due par­ti nemi­che; se, accan­to al prin­ci­pio rego­la­to­re del valo­re di scam­bio, moto­re poten­te del­la pro­du­zio­ne socia­le è l’interesse ope­ra­io al valo­re d’uso; se il pote­re socia­le è divi­so; allo­ra la dina­mi­ca del pote­re ope­ra­io – non quel­lo «poli­ti­co», che vor­reb­be gover­na­re lo sta­to, che non c’è e di cui non si sen­te la man­can­za, ma quel­lo «socia­le» che c’è, e par­te­ci­pa poten­te­men­te al gover­no di que­sto mon­do –, la dina­mi­ca del­la cre­sci­ta del pote­re ope­ra­io e del­la sua subor­di­na­zio­ne, i ter­mi­ni del­la sua lot­ta e trat­ta­ti­va inces­san­ti, van­no inve­sti­ga­ti e riper­cor­si con gli occhi di chi ne cer­ca le leg­gi e il prin­ci­pio di strut­tu­ra­zio­ne, cioè la capa­ci­tà di esse­re orga­niz­za­zio­ne socia­le post­ca­pi­ta­li­sta, comu­ni­smo.

«Più sala­rio, meno lavo­ro», «sala­rio sgan­cia­to dal­la pro­dut­ti­vi­tà»: que­ste poten­ti paro­le d’ordine di mas­sa che esplo­de­ran­no nell’autunno ope­ra­io del ’69 appa­io­no la base poli­ti­ca su cui si costi­tui­sco­no le pri­ma espe­rien­ze auto­no­me di orga­niz­za­zio­ne non solo e non tan­to per la loro capa­ci­tà di distur­bo nei con­fron­ti degli appa­ra­ti orga­niz­za­ti­vi tra­di­zio­na­li né per la loro «valen­za estre­mi­sta» di indur­re «cri­si» eco­no­mi­ca e poli­ti­ca, ma per­ché in esse vie­ne let­to un pos­si­bi­le, emer­gen­te, pro­gram­ma di pote­re. Nel sen­so che con esse appa­re rom­per­si il rap­por­to tra coman­do capi­ta­li­sta sul­la pro­du­zio­ne del­la ric­chez­za e la pro­du­zio­ne dei biso­gni socia­li.
La gerar­chia che si espri­me den­tro il pro­ces­so pro­dut­ti­vo, le divi­sio­ni fun­zio­na­li attor­no a cui que­sto ordi­na il cor­po ope­ra­io, appa­io­no impo­ten­ti a coman­da­re le richie­ste socia­li, i cana­li attor­no a cui que­ste si strut­tu­ra­no.
Tra com­po­si­zio­ne di clas­se – e cioè tra la strut­tu­ra dei ruo­li, la for­ma del­la cir­co­la­zio­ne del­le capa­ci­tà pro­dut­ti­ve, del­le infor­ma­zio­ni, dei biso­gni ope­rai – ed orga­niz­za­zio­ne pro­dut­ti­va com­pa­re uno iato pro­fon­do che è già dupli­ci­tà del­le gerar­chie, scon­tro aper­to di pote­ri e dei cri­te­ri attor­no cui si ordi­na­no.
Per­ché il con­tra­sto tra biso­gni e pro­du­zio­ne non è come quel­lo tra «sogno» e «real­tà»: espri­me lo scon­tro tra cana­li di comu­ni­ca­zio­ne socia­le, tra orga­niz­za­zio­ni di uomi­ni; espri­me l’incapacità da par­te del­la gerar­chia socia­le che ordi­na la pro­du­zio­ne di coman­da­re tut­ta la socie­tà, espri­me cioè il fat­to di esse­re par­te trop­po pic­co­la di essa, che in essa non con­flui­sce una quan­ti­tà suf­fi­cien­te di risor­se socia­li, e che comin­cia a for­mar­si un dif­fe­ren­te pun­to di aggregazione.