Potere Operaio N°7
ROSSO n. 10
giornale dentro il movimento
- Editoriale
- Alfa Romeo ‑Un nuovo salto dell’autonomia operaia
- Lanerossi – Ristrutturazione e composizione di classe
- Porto Marghera – Il dopocontratto
- Pat Garret e Billy Kid, ovvero i consigli del sindacato e l’autonomia operaia
- Il rifiuto del lavoro
- No all’abrogazione del divorzio
- Parini – La politica in mano agli studenti
- Padova – Contro la crisi, contro l’inflazione, autoriduzione
- Milano – Politecnico: Autonomia sì, Autonomismo no
- Ma cos’è la famiglia
- La donna e la medicina
- Caro figlio
- Documenti – Una, due, tante Fiat per risolvere la crisi
Il processo operaio, oggi
Da «SENZA TREGUA giornale degli operai comunisti», speciale
«Organizzazione del lavoro! Ma il lavoro salariato è l’attuale organizzazione borghese del lavoro. Senza di esso non vi è capitale, né borghesia, né società borghese.
Un proprio ministero del lavoro! Ma i ministeri delle finanze, del commercio, dei lavori pubblici, non sono forse ministeri borghesi del lavoro?… », alla citazione dal Marx del ’48 possiamo oggi aggiungere: «Un Tribunale, una Pretura, una Giustizia del lavoro? Ma non si tratta della giustizia borghese sul comportamento proletario, sulla lotta dell’operaio, sui movimenti della classe operaia, già di per sé criminale, già di per sé irriducibilmente antagonista, di fatto violenta ed eversiva per la giustizia borghese?». E davanti al Tribunale del lavoro di Milano si presentano il 15 luglio, alle ore 16, gli operai che la Magneti Marelli-Fiat vuole licenziare da un anno, ma che da un anno sono ogni giorno presenti al loro posto di lotta, dentro la fabbrica.
Sia la prima scadenza processuale (il pretore Bonavitacola davanti a 400 operai emette sentenza favorevole al padrone), sia la seconda scadenza (il pretore Muntoni riammette in fabbrica gli operai che però già ci vanno), sia questo appello di oggi hanno riaperto la questione del processo operaio, cioè la questione della presenza degli operai in Palazzo dì Giustizia. La legge-Brodolini – la legge n. 300 subito battezzata «statuto dei lavoratori» – fu la sanzione della presenza nella fabbrica di un sindacato rifondato e che aveva retto l’urto del movimento; quella sanzione di una prospettiva accettata dalla borghesia in cui la lotta salariale viene assunta nella sua funzione di stimolo e di dinamismo del sistema; ma fu la traccia su cui lavorare per la stabilizzazione della lotta, per il controllo della conflittualità e lo scarico delle tensioni quotidiane di classe dentro i tempi lunghi della procedura giudiziaria, fuori della fabbrica e della trattativa diretta, dentro il Palazzo di Giustizia, dentro la regolamentazione di una legge dello Stato, dentro l’immagine di uno Stato intermediario «inter partes».
In questo senso si caratterizzò da subito come «un’arma a doppio taglio»: ratifica di un alto potere sociale, rivendicativo di classe (l’operaio come rigidità nella fabbrica e come domanda di beni nella società) nella fase alta del ciclo economico; e «l’ammortizzatore» delle tensioni nella fase di crisi e di contrattacco capitalistico. Una sorta di meccanismo «a due tempi», capace di usare la stessa apparenza di «imparzialità» e la credibilità, la legittimazione che si guadagna negli anni delle «vacche grasse», per legittimare il suo funzionamento apertamente antioperaio quando questa è la committenza che l’interesse capitalistico gli dà. Uno dei classici strumenti di interpretazione dell’«interesse generale» di parte capitalistica, legato alla realizzazione del profitto medio, è dunque a volte contraddittorio con l’interesse del singolo capitalista, «a maggior gloria» delle regole generali dell’accumulazione. Come strumento antioperaio, ha funzionato come un meccanismo a molla: ogni sentenza favorevole agli operai ha avuto anche l’effetto di caricarla, per preparare il contraccolpo antioperaio. Poco importa qui notare come per mesi e per più di una occasione la «legge 300» ha rappresentato una sanzione positiva di un movimento di lotta che si era dispiegato per due anni come generale, che aveva profondamente segnato la pratica sindacale senza poter ribaltare la natura del sindacato.
Questo movimento aveva costituito un polo di attrazione per una serie di Pretori democratici, che aveva fatto emergere una serie di volenterosi avvocati riuniti in comitati e collettivi. Queste varianti tattiche non mutano la questione di fondo, la funzione strategica della legge, e, prima di tutto, il più organico telaio e disegno politico in cui la legge si inscrive, e che alla fine ha prevalso. Poco importa anche notare qui gli infiniti errori e le numerose illusioni che sono state coltivate attorno al cosiddetto «statuto» (e sottolineare come la sua introduzione in settori a sindacalismo arretrato sia stata negata sia dallo Stato, sia dall’istituto sindacale previa futura omogeneità e controllo da raggiungersi – la scuola è l’esempio più vistoso di questa separazione).
Tutto quanto era in sospetto, oggi – in una fase di chiarificazione massima delle parti e di antagonismi espliciti – viene in chiaro. In chiaro la tenuta dei «Pretori democratici», in chiaro lo schieramento degli avvocati sotto e fuori della tutela sindacale, in chiaro anche il trionfalismo e l’illusione di numerose avanguardie. La «legge 300» è il frutto di una convenzione di comportamenti tra padronato e istituto sindacale fondata sull’ipotesi (interclassista) e la pratica (repressiva) che – stante una laboriosità crescente, una accettazione incondizionata della disciplina e gerarchia produttiva del «prestatore d’opera» – sia eliminabile la sanzione minima e massima da parte del padrone; e che comunque si tratti sempre di vertenze componibili, di un danno che si risolve con il risarcimento.
La realtà va in un altro modo, vi è rifiuto del lavoro salariato e non crescente laboriosità; vi è attacco crescente alle gerarchie di fabbrica e non accettazione del codice disciplinare; di prestatore d’opera non si tratta ma di classe operaia cosciente; di vertenza componibile non si parla ma di un conflitto radicale, crescente, che assume spesso le forme massime del conflitto di classe: niente di tutto questo può essere risarcito in nessun modo; gli operai rivoluzionari non si vendono e non vendono la lotta, il lavoro politico fatto e da fare – e non per moralismo ma per calcolo materiale (i tempi della corruzione delle avanguardie – pensiamo ad alcuni vecchi episodi dell’Alfa – appartengono a un referente operaio tradizionale, storicamente datato, improvvisato e con una sua funzione tanto momentanea quanto spontaneo era il movimento di reparto e di fabbrica da essi guidato).
Gli operai che oggi guidano queste lotte di fondo dentro la fabbrica o sono mutati radicalmente rispetto alle origini di movimento, o sono referente operaio giovane caratterizzato dalla nuova qualità della lotta, dalla nuova funzione dell’avanguardia non più legata all’immediatismo (e allo spazio immediato) della lotta sindacale ed economica, ma al progetto strategico della rivoluzione.
C’è insieme – nella stretta della crisi – una vera e propria caduta della possibile, ipotizzabile, tradizionale, funzione di parziale redistribuzione di plus-valore che il sindacato a vicende storiche alterne assume nella sua funzione di istituto interno al sistema. La lotta salariale operaia, la lotta operaia e proletaria sul reddito, non ha più dunque una rappresentatività legale stabile: o si muove in modo indiscriminato e selvaggio (e perché no, anche corporativo), o è assunta nella rappresentatività reale di organismi stabili, prima di tutto cresciuti sulla discriminante politica, risultato delle prime esigenze politiche di una classe operaia che si pone il problema di come «fuoriuscire dal sistema» prima fuoriuscendo dalle scadenze, dalle scansioni (contratti, vertenze, compatibilità, professionalità, qualificazione, disciplina, esame, proprietà, legge, Stato ecc.) con cui si regolamenta complessivamente l’accumulazione capitalistica, il dominio sociale borghese sui mezzi di produzione.
Questi contenuti della lotta fanno esplodere l’idillio delle posizioni e il gioco delle parti nel processo operaio.
La «legge 300» è sempre di più uno straccio, il carattere inesorabile – anche nel futile dettaglio di uno o due licenziamenti – della natura di classe della giustizia si afferma, con la solita apparente ottusità, che è invece lucida, feroce determinazione di fondo.
L’andirivieni pretorile viene bloccato dai giudici di Tribunale che tagliano corto bruscamente con la farsa esistenziale della Pretura e affermano la loro natura di funzionari diretti del padronato nelle sue articolazioni regionali e cittadine (qui a Milano, l’Assolombarda). Reggono bene anche all’insulto: i cordoni degli armigeri di Stato li tutelano dalle resse e dagli assembramenti processuali operai – quando ci sono -; non rimarrebbe che distruggerli. Nel cuore dello Stato, il funzionario sindacale che ha condotto in fabbrica la parte della repressione interna al movimento, che ha gestito la sottrazione della lotta al suo «habitat» tradizionale non è più che quello che Gramsci (pardon) chiamava l’intellettuale di tipo rurale: « …sono in gran parte “tradizionali”; (…) questo tipo di intellettuale mette a contatto la massa contadina con l’amministrazione statale e per questa stessa funzione ha una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica.
Inoltre: nella campagna l’intellettuale ha un medio tenore di vita superiore o almeno diverso da quello del medio contadino… ». Se la forza organizzata che questo «nuovo intellettuale in veste vulgata del capitale» rappresenta è stata distrutta nella lotta in fabbrica, anche la sua ideologia sarà ridotta a carta straccia e la sua mediazione non varrà che una autoconvinzione. Questo «intellettuale» è stato distrutto nella vicenda Magneti-operai licenziati, perché già prima la sua rappresentatività era stata distrutta nel reparto e nella fabbrica. Ma nel cuore dello Stato gli operai rivoluzionari vedono tendersi al massimo la lotta, la loro capacità di organizzazione autonoma, la loro capacità di sollecitare una nuova intelligenza antagonista nella classe.
Il processo operaio rompe i veli delle precedenti mistificazioni, fuoriesce dai tentativi di governo legale dello scontro di classe immiserendoli di colpo, mette da parte il vecchio mediatore sindacale e si presenta di fronte al giudice come a un nemico giurato, dispiegando tutta la sua forza. Del Tribunale del lavoro i padroni hanno cercato di fare un istituto secondario che minimizzasse lo scontro di classe.
La classe operaia ha invece tutto l’interesse a riportarlo alla dimensione reale di vero e proprio Tribunale politico anti-operaio, dove si ricostruisce processo dopo processo una ideologia padronale e gerarchica saldata a dure sanzioni, a sentenze una dopo l’altra negative che chiudono mesi ed anni di illusione forense dell’operaio di fabbrica. Stanare questi lupi è compito degli operai rivoluzionari, scardinare l’ordine di Palazzo di Giustizia presentandosi non come a una scadenza secondaria, ma come a una scadenza politica.
Sappiamo tutti quanto di determinato, quanta volontà politica di distruzione della classe vi è nel procedere «obiettivo ed economico» della ristrutturazione, della cassa integrazione, del licenziamento; abbiamo qui, nel licenziamento politico e nelle sue istanze celebrative, il «passo più avanti» che possiamo fare non da soli contro lo Stato, ma con profonde motivazioni dentro la lotta operaia più vasta. Il Tribunale del lavoro niente altro è che il Tribunale delle sanzioni contro l’indisciplina e la ribellione operaia quotidiana al lavoro salariato; qui si chiude anche la «libertà di sciopero» costituzionale, qui si tenta la perfezione della gestione collegiale padroni-sindacato dello sfruttamento operaio; fuori delle emozioni sessantottesche e dentro la radicalizzazione crescente delle lotte, le istanze prendono le giuste dimensioni.
Alla sanzione del licenziamento padronale si aggiunge la definizione criminale della lotta, si celebra la riprovazione dello Stato, si schiaccia l’operaio alla dimensione di cittadino qualsiasi che ha violato le leggi della comune convivenza. È tutto questo che stiamo lavorando a distruggere con la presenza operaia in Palazzo di Giustizia, è compito dei rivoluzionari farlo, è questa – dopo la crisi coniugale con la «doppia amministrazione», la «pretura dei lavoratori» e lo «statuto dei lavoratori» del movimento, delle avanguardie, degli avvocati – la strada da prendere. Anche in questo senso ha agito la lotta degli operai Magneti, anche questo porta la battaglia contro il licenziamento dei 4 compagni che – lo ripetiamo – usciranno dalla fabbrica quando lo decideremo noi.
Classe operaia e ”individuo sociale”
Da ”Magazzino” n.2 di Roberta Tomassini
Il tentativo di Braverman (H. BRAVERMAN, Lavoro e capitale monopolistico, trad. it., Einaudi, Torino, 1978) di mettere a fuoco le più rilevanti trasformazioni del processo lavorativo, dagli inizi della rivoluzione industriale ai nostri giorni, si risolve in un ambiguo pasticcio di sociologia volgare e di velleità filosofico-speculative.
L’apparente articolazione analitica dell’indagine di Braverman ha perciò un andamento talmente schematico e ripetitivo che è facilmente sintetizzabile: il lavoro salariato dipendente, che si generalizza con la prima rivoluzione industriale, consente al capitale non solo di comandare il lavoro “immediato”, ma di continuare anche ad appropriarsi delle condizioni oggettive di erogazione del lavoro concreto.
La ricerca di Braverman intende appunto descrivere le funzioni che determinano l’astrattizzazione reale del lavoro operaio che perde così ogni indipendenza, ogni autonomia rispetto al dominio capitalistico. Agli inizi, l’orizzonte del potere capitalistico sconta i limiti che gli derivano dallo sviluppo della scienza come “teoria”-“rappresentazione” della realtà separata e distinta dallo sviluppo del saper-fare, dalla intelligenza tecnica e strumentale dell’operaio di mestiere.
In tutta la fase della “meccanizzazione” è ancora l’intelligenza tecnica espropriata all’operaio di mestiere il motore dell’innovazione capitalistica dell’organizzazione del processo lavorativo: tale unità fra ideazione ed esecuzione nel lavoro operaio è il limite della divisione del lavoro e della sua massima disciplina. Soltanto la formazione di un cervello sociale, adeguato alle esigenze capitalistiche di sfruttamento del lavoro, avrebbe potuto garantire uno sviluppo tecnologico e scientifico, che proprio perché relativamente “separato” dal lavoro operaio, si costituisse appunto come intelligenza delle forme di comando e di massimo sfruttamento della forza lavoro. La nascita delle scuole politecniche per la “formazione” dell’ingegnere determina la definitiva scissione all’interno del processo lavorativo fra ideazione ed esecuzione: il passaggio dalla “meccanizzazione” all“ ‘automazione” non a caso si verifica, nei diversi paesi industrializzati, sul ritmo dell’espansione e della diffusione delle scuole politecniche. Con la scissione fra ideazione ed esecuzione, l’innovazione tecnica non è più separata dalla innovazione organizzativa: lo sviluppo tecnologico e scientifico è infatti continuamente informato dalla sociologia industriale che osserva i comportamenti operai, li codifica, li classifica e li misura in quanto funzioni puramente meccaniche ed esecutive che come tali possono essere combinate ed ordinate in una serie di ipotesi organizzative sino ad individuare quella più “produttiva”. La razionalità capitalistica, secondo Braverman, ha continuato a spingere in questa direzione imponendo la separatezza fra ideazione ed esecuzione anche al lavoro impiegatizio, amministrativo e dei servizi.
Lo sviluppo dell’informatica e della computerizzazione proletarizza infatti la forza lavoro intellettuale mediamente qualificata ridotta a svolgere mansioni puramente esecutive, ripetitive e parcellizzate.
Il lavoro vivo, come capacità di innovazione che si differenzia dall’universo del lavoro astratto uguale, tende perciò a realizzarsi nella ristretta cerchia di una sorta di “mandarinato” che si identifica con gli interessi di capitale e che resta inaccessibile alla massificazione del lavoro sociale esecutivo.
La degradazione del lavoro, come base e condizione dell’accumulazione capitalistica, genera però assenteismo, disaffezione, deresponsabilizzazione rispetto ad un’attività lavorativa che perde ogni attrattiva e ogni possibilità di gratificazione.
Nella logica di Braverman comunque tale resistenza spontanea e massificata alla degradazione del lavoro è di per sé incapace di tradursi in un effettivo superamento delle attuali condizioni alienate della produzione. Se e nella misura in cui il capitale detiene il lavoro vivo – in quanto “organizza” e “forma” il cervello sociale come sua propria funzione di sviluppo – solo il processo di transizione che ricomponga ideazione ed esecuzione e ricostituisca la professionalità attraverso l’autogestione può riconquistare l’intelligenza ed il controllo dei mezzi di produzione. Braverman sembra riesumare dalle ceneri un dibattito che, nel marxismo italiano, si è rapidamente consumato fra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta; il capitale monopolistico divideva allora la cultura marxista italiana fra l’ottimismo di quanti attribuivano all’automazione il superamento dell’idiotismo del mestiere e quindi la formazione di un’individualità sociale ricca e liberata dalla fatica, ed il pessimismo di quanti coglievano nelle nuove condizioni della produzione il baratro della robotizzazione, del consumismo, della cultura di massa, dell’integrazione.
Le lotte dell’ ”operaio massa” e gli inizi di una ricerca marxista – l’operaismo – che ne assumeva il “punto di vista”, dimostrano come una problematica di questo genere non avrebbe potuto trovare soluzione sul piano della futurologia, del gusto profetico degli intellettuali, indipendentemente cioè dalle caratteristiche dello scontro di classe. Quanto più infatti la ricerca marxista si confronta con la qualità delle lotte operaie tanto più scopre che non è il valore del lavoro che fonda la possibilità storica dell’egemonia operaia: è unicamente la strategia del rifiuto del lavoro che sviluppa comunismo. Questo è il solo punto di vista che, pur “scandalizzando” la cultura marxista ufficiale, permette di afferrare il senso del pensiero marxiano al di là della sua apparente insuperabile contraddizione su cui tanto si è affaticato il marxismo filosofico: non vi è dubbio che quando Marx analizza lo sviluppo tecnologico e scientifico, e quindi le trasformazioni del processo lavorativo sotto il comando capitalistico, coglie nella sussunzione reale del lavoro operaio al capitale l’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro e la sua svalorizzazione.
Eppure, per Marx, quanto più il capitale astrattizza il lavoro, e quanto più lo assoggetta, tanto più si sviluppa la soggettività comunista.
Come è possibile che lo sviluppo delle forze produttive, come sviluppo del potere di capitale sul lavoro sociale, sia sviluppo delle condizioni che fondano la necessità storica del comunismo?
Per l’operaismo non è l’autonoma capacità civilizzatrice di capitale che immediatamente innalza il valore della forza lavoro, al di là della sua apparente svalorizzazione, ma è il rifiuto del lavoro che costringe il capitale a rendersi sempre più “indipendente” dal lavoro operaio, a ridurre il lavoro socialmente necessario sino al punto in cui non può più porsi come “misura” delle potenzialità produttive che ha evocato. Sino a che l’innovazione del processo lavorativo dipende dal saper-fare dell’operaio di mestiere, la professionalità operaia valorizza il capitale ma rappresenta anche fattore di rigidità e di autonomia nella produzione, che il capitale tende a distruggere sussumendo l’intelligenza tecnica e scientifica e rendendo il lavoro operaio esecutivo.
Nella misura in cui però il capitale svalorizza la forza lavoro è la classe operaia che si valorizza come tale: la valorizzazione capitalistica dipende ora dal rifiuto del lavoro che “comanda” lo sviluppo capitalistico costringendolo a trasformare le condizioni della produzione verso una crescente automazione. La svalorizzazione della forza lavoro sviluppa un antagonismo qualitativamente nuovo che rende storicamente matura la possibilità soggettiva per la classe operaia di valorizzarsi come forza politica, nella continua negazione di sé come merce che si scambia con capitale. Marx nella generalizzazione del lavoro astratto-uguale, nella parcellizzazione delle mansioni, nella loro interscambiabilità, individua infatti la base materiale della dissoluzione della divisione della società in classi, della soppressione della legge del valore.
Astrattizzazione del lavoro socialmente combinato, automazione e quindi riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario implicano per Marx l’autonegazione della classe operaia in quanto forza lavoro, nella sua funzione cioè di mezzo di produzione.
La crisi di tale funzione strumentale non implica affatto svalorizzazione della soggettività operaia e proletaria: ne eleva al contrario l’intellettualità, le capacità che cessano di essere determinate dal tempo di lavoro.
L’indifferenza fra i vari lavori è la base materiale della “universalizzazione” dell’individuo sociale il cui potere non è più determinato dalle competenze “parziali” della forza lavoro immediata. Ma è esattamente il Marx teorico del comunismo che Braverman si rifiuta di leggere, rivelandosi chiuso ad ogni logica di superamento della divisione della società in classi. Non gli resta perciò che considerare la degradazione del lavoro per vagheggiare il lavoro “umanizzato” ancorato all’ideologia socialista.
È un modo come un altro per convincere la classe operaia della impossibilità storica del superamento della sua condizione, e della necessità perciò di lottare contro la degradazione del lavoro per poter incontrare sentimenti di gratificazione e di orgoglio nella propria condizione subordinata, nella intelligenza del proprio ruolo strumentale, di forza lavoro, nella riproduzione sociale. In tale funzione ideologica il libro di Braverman, per quanto rozzo e superato, suscita simpatie e consensi da parte di tutte quelle forze politiche impegnate a reperire nuove vie per sfuggire il comunismo.
Ma la lotta contro la degradazione del lavoro, per la nuova professionalità, per la ricomposizione fra ideazione ed esecuzione, per la nuova qualificazione, con cui Pci e sindacati hanno inteso far digerire la “ristrutturazione” all’autunno caldo, è una lotta che sa solo di sconfitta, di rinuncia al comunismo: come tale non presenta nessuna attrattiva per una classe operaia esclusivamente interessata a organizzare il rifiuto del lavoro. Al punto che la ristrutturazione, al di là di ogni programma di nuova professionalità, attraverso la robotizzazione, l’informatica, la computerizzazione, il decentramento, le ipotesi di introduzione del tempo di lavoro flessibile ha inteso colpire le forme di organizzazione del rifiuto del lavoro. E nella nuova divisione del lavoro, nella nuova organizzazione di impresa, si riscontra un’ulteriore accelerazione dei processi di astrattizzazione della stessa socializzazione dal lavoro.
È proprio l’indisponibilità a valorizzare il capitale del lavoratore complessivo che spinge il cervello organizzativo di capitale a sottrarre ogni decisione, ogni responsabilità, ogni residuo di lavoro concreto alla combinazione delle mansioni che potrebbe trasformarsi in occasione di antagonismo e di sabotaggio.
La tendenza, in questo senso, al superamento della catena di montaggio non mira certo a eliminare la disaffezione e l’assenteismo dell’operaio singolo, giustamente disinteressato a un lavoro monotono e ripetitivo: è piuttosto il lavoro socialmente combinato con un potere di decisionalità che diventa temibile per il capitale e che quindi deve essere eliminato. Da questo punto di vista, sembrerebbe giustificata la motivazione che, al limite degli anni sessanta, ha indotto alcuni esponenti dell’operaismo a rientrare nelle fila del Pei: il rifiuto del lavoro – e non certo la degradazione del lavoro -, in quanto non capitale, in quanto crisi del rapporto di capitale, valorizza il capitale.
Il rifiuto del lavoro trasforma attivamente il rapporto di produzione capitalistico, ma non è sufficiente a metterne in crisi le condizioni di riproduzione politica.
Il dinamismo di capitale capitalizza l’antagonismo operaio, attraverso la trasformazione del processo lavorativo che non si risolve nell’innovazione tecnologica in quanto avvia processi economico-politici, relativamente indipendenti, che trasformano dall’alto la composizione tecnica di classe. Oggi questi stessi ex-operaisti nell’autonomia del politico finalmente ci sono entrati.
E si sono accorti, a quanto pare, che lo Stato post-keynesiano è ben diverso dal castello kafkiano, e da ogni mito che vede aggirarsi nel palazzo “i mandarini” dell’autonomia del politico. Nelle sue più recenti riflessioni in proposito M. Cacciari (Cfr. M. CACCIARI, Trasformazioni dello Stato e progetto politico, “Critica Marxista”, 5, 1978) afferma che lo Stato attuale non si identifica più né con lo Stato Ottocentesco organico agli interessi della borghesia, né con lo Stato keynesiano come luogo della mediazione e della neutralizzazione dei conflitti sociali.
Lo Stato oggi è incapace sia di esprimere la “composizione sintetica dei conflitti”, sia di farsene assolutamente indipendente; in questo senso, malgrado l’ampio margine di manovra degli strumenti di politica monetaria, malgrado i processi di burocratizzazione, malgrado la crescente funzione di comando che il capitale sociale è in grado di esercitare rispetto ai capitali singoli, la razionalità dello Stato sembra ridursi ad un assetto funzionale incapace di “programmazione”.
La razionalità dello Stato contemporaneo si ridefinisce quindi giorno per giorno a fronte di una conflittualità diffusa, permanente: non vi è perciò “superamento” della crisi politica, in quanto lo Stato produce crisi dei rapporti politici e si presenta più come una funzione, solo relativamente indipendente, della conflittualità della società civile che come superiore sintesi politica. In altre parole, la ricomposizione politica è incessante scomposizione dei rapporti di forza che si costituiscono fra i diversi gruppi di interesse e le diverse “autonomie” sociali, e quindi non è che funzione di sviluppo di crisi politica manovrata. Quanto più perciò lo Stato, nella gestione della finanza pubblica, accentra funzioni direttamente produttive, tanto più il “politico” costituisce una funzione della conflittualità che ne sovradetermina lo sviluppo compatibile alla riproduzione dei rapporti di produzione.
Tuttavia Cacciari sottolinea come tale produzione di crisi dei rapporti politici che identifica lo Stato post-keynesiano non sia interpretabile come semplice manovra di accerchiamento e di isolamento della classe operaia; “esiste – piuttosto – una materiale diffusione di comportamenti conflittuali, di obiettivi politici e di valori… è questa storia… che moltiplica il peso quantitativo e qualitativo di nuovi strati sociali – è questa storia che opera un’autentica “rivoluzione culturale” all’interno della stessa classe operaia, e che quindi produce rapporti del tutto nuovi con il complesso della formazione sociale…” (Ivi, pp. 46–48).
La crisi del ruolo di mediazione e di neutralizzazione dei conflitti dello Stato keynesiano non è l’autonoma strategia del “politico”: è piuttosto sintomo dell’effettiva impossibilità per lo Stato post-keynesiano di pianificare lo sviluppo dei bisogni sociali in base alla socializzazione dei rapporti di produzione, in base cioè a una teoria delle classi sociali oggettivamente determinata dai rapporti di produzione. Lo Stato post-keynesiano rivela anche ai teorici dell’autonomia del politico che la strategia del rifiuto del lavoro non è semplice motore della valorizzazione capitalistica ma è soprattutto funzione dell’autovalorizzazione operaia e proletaria.
L’antagonismo operaio e proletario, nel tempo disponibile e liberato dal lavoro, ridefinisce la composizione di classe, ne trasforma la riproduzione su una complessità di bisogni e di comportamenti soggettivi di cui sembra quasi indifferente la specificità “operaia”.
Gli anni settanta sono infatti caratterizzati da comportamenti di insubordinazione, da situazioni diffuse di rigidità, da un insieme di lotte che hanno “politicizzato” il privato: non è soltanto il tempo di lavoro, la giornata lavorativa il luogo di costituzione dei bisogni di classe, ma l’esistenza quotidiana, il tempo in cui l’individuo riproduce, rigenera se stesso cessa di essere mediato dall’ideologia del valore del lavoro.
La lotta contro il lavoro capitalistico, la lotta per gli aumenti salariali sono obiettivi limitati che riconsegnano all’individuo, al “privato” o meglio all’economia della famiglia, le condizioni proletarie della vita quotidiana.
L’autonegazione della forza lavoro si estende, con gli anni settanta, dall’immediatezza dei rapporti di produzione ai modi di riproduzione: la composizione di classe attiva nuovi processi di socializzazione, non è l’individuo che rimuove le condizioni proletarie di riproduzione che limitano lo sviluppo della sua soggettività, ma l’individuo sociale che trasforma i rapporti sociali in funzione della propria valorizzazione.
Al di là di ogni ideologia della dequalificazione e della degradazione del lavoro, gli anni settanta attestano come l’indifferenza fra i diversi lavori, la liberazione dall’ideologia del valore del lavoro, abbia significato per la classe operaia in quanto forza politica un innalzamento intellettuale e culturale tale da costituire forme di potere a livello della generalità della riproduzione sociale.
E non si tratta unicamente della trasformazione dei valori etici, morali o genericamente culturali, ma della capacità dell’intelligenza sociale, che si forma nella insubordinazione allo sfruttamento, di saper comandare perfino il cervello sociale “organizzato” dal capitale, quello per intenderci che ossessiona Braverman; al punto che lo stesso “mandarinato” è spesso costretto a funzionare come strumento esecutivo dell’ideazione di bisogni qualitativamente nuovi Le lotte hanno dimostrato che non c’è possibilità di sviluppo della “medicina” che non dipenda dai bisogni del malato, e così pure che non c’è avvenire per qualsiasi pedagogia che non dipenda dai bisogni di conoscenza e dai comportamenti di coloro che studiano, che non c’è sviluppo di nuove fonti di energia se non facendo i conti con la resistenza sociale al piano nucleare, che non c’è sviluppo dell’urbanistica che possa prescindere dall’innalzamento del tenore di vita. A meno che fra il sapere dei mandarini e l’intelligenza sociale non si apra una conflittualità che deve essere “mediata” (se non neutralizzata) dalla politica.
Sarebbe interessante analizzare a questo proposito le ragioni per cui le istituzioni del sapere si trovano oggi a dover funzionare come istituzioni direttamente “politiche”, incessantemente attraversate dalla conflittualità del proletariato intellettuale e dai nuovi bisogni sociali. La nuova intelligenza sociale, la nuova concezione dei rapporti sociali non è certo espressione della coscienza esasperata che nasce all’ombra dell’emarginazione dal lavoro o dalla sottoccupazione nell’ideologia dell’immediatismo dei bisogni: si radica al contrario nella famiglia proletaria, anche se a volte in modo conflittuale, e si generalizza con sorprendente rapidità mettendo in crisi i codici della cultura dominante. Questa enorme potenzialità di trasformazione dei rapporti sociali scatena infatti le più svariate reazioni di rigetto da parte della cultura “ufficiale”: si denuncia la devianza collettiva, la crisi dei valori, la regressione della coscienza politica a forme di neo esistenzialismo, sino al momento in cui la nuova etica, la nuova cultura diventa “norma” sotterranea da riconoscere come tale. La “formazione dell’individuo sociale” ha suscitato però molte perplessità e problemi anche all’interno della nuova sinistra, così come del resto tutto il processo di politicizzazione del “privato”: come è possibile l’emancipazione dei rapporti sociali, la formazione di nuovi soggetti, nella specificità delle loro esigenze, in una relativa indipendenza dalla composizione tecnica di classe, dalla oggettività dei rapporti di produzione? Non è casuale però il fatto che Marx non si riferisca più all’ ”operaio complessivo” ma all’ ”uomo” o all’ ”individuo sociale” quando descrive le condizioni di sviluppo dell’antagonismo di classe: quanto più la classe operaia e proletaria tende alla propria dissoluzione come classe determinata dai rapporti capitalistici, tanto più rappresenta l’ ”individuo sociale” che prende coscienza dei propri bisogni al di là della base limitata della produzione capitalistica.
La riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario consente “il libero sviluppo delle individualità”, infatti “le forze produttive e le relazioni sociali” sono “entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale” che “figurano per il capitale solo come mezzi per produrre la sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per fare saltare in aria questa base” (K. MARX, Lineamenti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze, 1968, voi. II, p. 402). Nella misura in cui il rifiuto del lavoro sviluppa l’astrattizzazione reale del lavoro “non è più tanto il lavoro a presentarsi incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore” e ciò “vale anche per la combinazione delle attività umane e per lo sviluppo delle relazioni umane… Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale”, (Ivi, p. 401). Siamo in un orizzonte totalmente rovesciato rispetto a quello angusto e capovolto di Braverman: per l’individuo sociale il suo superamento possibile della degradazione del lavoro è la soppressione della sua determinazione capitalistica.
Questo non ha nulla a che fare con la “umanizzazione” del lavoro immediato, né con la regressione al lavoro concreto: si identifica piuttosto con la soppressione della legge del valore, della centralità della giornata lavorativa nel potere che essa ha di sostituire il valore del lavoro come “misura” dello sviluppo dei bisogni dell’individuo sociale. La soppressione della legge del valore è quindi la realizzazione storica dell’antagonismo dell’individuo sociale e delle caratteristiche radicalmente nuove che qualificano la sua “produttività generale”: cioè la capacità di “direzione” e di “sorveglianza” rispetto alle potenzialità produttive in funzione dell’autovalorizzazione dei rapporti sociali.
La strategia del rifiuto del lavoro, dell’autonegazione della forza lavoro, sviluppa la “produttività generale” come padronanza delle condizioni della riproduzione sociale, come innovazione dei rapporti sociali.
La “produttività generale” dell’individuo sociale oggi si presenta effettivamente come “il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza” nella sua capacità di innovare le modalità di formazione della ricchezza, nella socializzazione del lavoro sommerso, ma anche e soprattutto nelle nuove forme di lotta in cui l’antagonismo sociale si presenta come condizione imprescindibile della “qualità” dello sviluppo. Il motore infatti del cervello sociale organizzato dal capitale cessa di essere unicamente il rifiuto del lavoro, ma si presenta come lavoro vivo, intelligenza sociale che incessantemente valorizza le condizioni della riproduzione, innalzando i bisogni sociali: al punto che condizione dello sviluppo e della valorizzazione di capitale è “l’appropriazione della produttività generale”, la subordinazione dell’innovazione dei rapporti sociali.
Tuttavia la “produttività generale” sussunta all’innovazione politica ed organizzativa di capitale è produttrice di crisi, di disgregazione, di nuova conflittualità che non consente nuove forme di durevole composizione politica; in quanto la “produttività generale” dell’individuo sociale resta ancorata al valore d’uso, come padronanza delle strategie di fruizione collettiva della ricchezza disponibile e non è compatibile con le ragioni dello scambio e dell’accumulazione capitalistica. Ogni teoria dei giochi dello Stato post-keynesiano, ogni forma di erogazione di reddito atta a ripristinare il sistema della diseguaglianza nella soddisfazione dei bisogni dell’individuo sociale, sviluppa crisi politica e moltiplica la “produttività generale”: i centri e i momenti disseminati dell’antagonismo. Sono questi i centri e i momenti di sviluppo della strategia dell’individuo sociale nel suo progetto di autodeterminazione politica poi la nuova formazione sociale
per il MOVIMENTO COMUNISTA
dal processo ai comunisti al processo al blitz
Lucio Castellano
AUTOVALORIZZAZIONE E NUOVI SOGGETTI
Le tematiche dei «nuovi bisogni», dell’«operaio sociale», dell’«autovalorizzazione», che sono il punto di approdo dell’«autonomia», sono lo sviluppo lineare di questo approccio.
Il divario tra produzione di capitale e organizzazione sociale si è approfonditi fino a far corrispondere ad un individuo sociale ricco di capacità, informazioni, conoscenze, bisogni, desideri, una produzione povera che riesce ad organizzare non solo una parte crescentemente ridotta del suo tempo, ma quella parte di esso che è più misera e vuota, insieme, delle cose che si conoscono e di quelle che si desiderano.
Una produzione che costituisce solo una parte delle interrelazioni sociali di chi vi partecipa, che è un frammento e non la sintesi di tutta la cooperazione sociale; soprattutto, una produzione che tale cooperazione, nel suo insieme, non riesce più a comandare ed ordinare.
La circolazione dei ruoli e delle conoscenze in modo crescente e rilevante non si ordina più secondo i criteri del lavoro produttivo di capitale, secondo le regole della prestazione di lavoro.
Queste regole comandano una quantità di risorse che non è più sufficiente ad ordinare l’insieme della riproduzione sociale, i punti di dispersione e disordine rispetto ad essa si sono moltiplicati a dismisura e già si intravedono i primi, evanescenti segni di un possibile diverso principio ordinatore: valore d’uso contro valore di scambio, concretezza dei bisogni dell’«individuo sociale ricco» che si contrappone all’universo seriale, capace solo di determinazione quantitativa, dal bisogno riproduttivo della forza-lavoro, al bisogno astratto della «necessità», della «scarsità naturale».
Non è più soltanto salario contro profitto, cioè l’autonomia di interessi contrapposti nell’unità di un meccanismo sociale, ma l’individuazione di una contrapposizione possibile tra due modi di produzione, due universi di rapporti sociali. Ciò che definisce il passaggio dalla prima articolazione del discorso – quella salariale – alla seconda – il «movimento del valore d’uso» –, è in definitiva la crisi del concetto di sviluppo: che è la capacità di sintesi capitalista della dualità di poteri che vivono nel modo di produzione.
Da questo punto di vista, la lunga alternanza di crisi e stagnazione che si apre con gli anni ’70, in Italia e in tutto l’Occidente, appare all’autonomia come incapacità dell’interesse di parte capitalista ad essere sintesi di tutta la organizzazione, comunicazione, conoscenza sociale; come incapacità di organizzare dentro il tempo di lavoro tutte le risorse sociali e dietro la gerarchia che lo comanda tutto il tempo sociale.
È come dire che la sintesi produttiva e politica che il rapporto di capitale offre appare povera a fronte della ricchezza crescente del tessuto sociale che si costruisce attorno alle lotte; attorno a questo viene a gravitare una quantità estremamente elevata di risorse produttive in termini di capacità di cooperazione sociale, scambio ed elaborazione di informazioni e conoscenze, comando sul tempo sociale.
La comunicazione sociale appare allargarsi a dismisura, svincolandosi in larga parte dal principio di prestazione che regola il rapporto di salario, e questo non è più capace di comandare in modo pieno la gerarchia sociale: una quota crescente della ricchezza sociale è inchiodata a finanziare, attraverso le più diverse forme di assistenza, non la prestazione lavorativa ma la rigidità rispetto ad essa e il suo rifiuto, contemporaneamente rendendo socialmente irrilevante, non marginalizzante, la esclusione da essa.
D’altro canto, la fabbrica non comanda più, attraverso il mercato del lavoro, l’insieme dei comportamenti sociali, e la cooperazione sociale appare più larga e ricca di quella che anima il lavoro produttivo di capitale: gruppi sociali in larga misura espulsi dal rapporto di lavoro, i giovani e le donne, conquistano forza di espressione e potere sociale, e mentre il tempo di lavoro di ognuno non solo viene soggettivamente vissuto come espropriazione di vita, come condanna e miseria, ma oggettivamente si svuota di conoscenza e forza creativa, il tempo libero in misura crescente cessa di essere il tempo subalterno della riproduzione della forza-lavoro per divenire tempo ricco di scambi e relazioni sociali, capace di comunicazione, elaborazione, coordinamento, detentore di risorse ingenti e conoscenze; insomma, una forza produttiva, che non è uguale al lavoro, ha un regime sociale più largo, è attivamente abitata dalla lotta contro il lavoro.
Tutto questo tessuto di fatti nuovi, questa modificazione profonda intervenuta nel modo di produzione, è evento potente, non emarginabile.
A sua volta però non è capace di essere univocamente forza di una sintesi alternativa: troppe cose non sa maneggiare, troppe risorse gli sfuggono, anche se non è vero che ha quel pessimo rapporto con la tecnologia che si dice, ed anche se sul terreno della produzione è cominciato ad entrare non più solo come resistenza e sabotaggio ma anche come forza creativa.
È un discorso sulla transizione, sulla migrazione di massa dal lavoro produttivo di capitale, e sui suoi possibili esiti.
In sostanza, rispetto alle rotture operate dall’operaismo sul corpus teorico del marxismo-leninismo, l’esperienza «autonoma» aggiunge una concezione della crisi che non è più quella del «collasso sociale», dell’esplosione della incapacità di fondo del capitale di far fronte alle esigenze sociali, bensì quella della esplosione di relazioni sociali, troppo ricche per essere ricondotte al rapporto di capitale, quella dei limiti del comando di capitale su tutta la società: non il crescere della miseria, ma del movimento di emancipazione, sta alla base del «bisogno di comunismo».
Come dire, il contrario di una teoria della catastrofe: alla base di tutto ci si accorge che c’è la rilevazione della inadeguatezza, della povertà, dei rapporti di potere presenti a fronte della ricchezza delle relazioni sociali che si sono sviluppate e sono operanti.
IL RAPPORTO CON LE ISTITUZIONI NELLA STORIA DELL’AUTONOMIA
Dentro questa forma del mutamento sociale, dentro questo problema del passaggio di poteri dal lavoro al non lavoro, la questione del potere statale si pone sempre in termini di contrattazione, mai di «occupazione» o sostituzione. Nella storia dell’autonomia ciò vuol dire che esso si presenta sempre in termini di «tattica», mai di «strategia», e che difficilmente si presta ad essere il luogo centrale dell’identità politica.
È problema tattico, di rimozione delle resistenze, non strategico, di costruzione del meccanismo di guida del processo.
Problema «tattico» in senso forte nella prima fase del movimenti, fino allo scioglimento di Potere operaio; «tattico» in senso debole nella seconda fase, quella dell’area dall’autonomia propriamente detta.
«In senso forte» vuoi dire capace di esprimere una identità politica e organizzativa complessa, un progetto di partito: al movimento la strategia, il comunismo, al partito la tattica, la rimozione degli ostacoli, la capacità di rottura.
Come dire, Potere operaio, il «partito dell’insurrezione».
Dove insurrezione non è progetto di potere politico — nè «tutto il potere ai soviet» né «governo operaio» — ma ricomposizione del movimento, rottura del controllo politico-sociale attorno alla forza unificante di alcune parole d’ordine, come «salario garantito», capaci di coagulare in un punto le energie per mettere un cuneo, far arretrare le istituzioni, allargare gli spazi del movimento.
Unificare il movimento, scardinare il controllo, questo il problema. E il controllo non è militare se non in ultima istanza: non è questione di guerra ma di disomogeneità nella composizione di classe, di punti forti e deboli, di contraddizioni, e della possibilità di trovare quel minimo comune denominatore che funzioni da maglio e permetta che la crescita riprenda a un livello più avanzato.
Non è la presa del potere ma la rottura degli argini.
Ma c’è un’enfasi, un’ansia, una forzatura che non trovano riscontro.
Enfasi sulla forza degli argini, ansia sulla tenuta del movimento, forzatura sul carattere necessariamente frontale dello scontro: il blocco delle lotte, la disarticolazione di classe, il riflusso di fronte alla ristrutturazione apparivano i punti di riferimento obbligati del discorso sulla rottura.
Nella realtà gli argini sono stati tutti aggirati, a un costo basso, e la crisi economica ha saputo misurare non tanto la virulenza del contrattacco capitalistico quanto la ampiezza degli spazi conquistati dal movimento.
Il movimento del rifiuto del lavoro non ha assaltato la società politica, si è messo a girarle attorno, confermando tutti gli strumenti di governo ma ponendo vincoli crescenti alla loro selettività, impegnando una larga fetta di ricchezza a pagare in modo indifferenziato il consenso tribuito: nella sostanza, ha anticipato e cavalcato la ristrutturazione capitalista piegandola al rispetto della propria unità, rendendola contraddittoria, erodendone la capacità di comando sociale ed allargando i propri spazi di potere e gestione.
La rigidità delle istituzioni è stata massima sul piano formale, al punto da impedire qualsiasi forma di rappresentazione politica del mutamento, da rimuovere perfino il problema della sua legittimità, ma questa operazione ha avuto un corrispettivo pesante in termini di fragilità sostanziale, di perdita secca di capacità di governo.In questo slittamento dei piani del confronto è naufragato il progetto politico di Potere operaio; nel ’73 esplode la sua crisi.
L’unificazione «tattica» che esso propone appare riduttiva di fronte alla molteplicità dei livelli di scontro che si sono aperti, dei linguaggi che il movimento pratica, degli spazi di crescita agibili da parte di una ricchezza di soggetti sociali la cui identità collettiva è complessa, non riducibile ad una « unità » di breve momento.
La rappresentazione generale del movimento in una semplice chiave antistituzionale appare insieme impossibile e non necessaria, una forzatura estremista.
Su queste basi Potere operaio si scioglie.La prospettiva aperta a questo punto, per l’autonomia, è quella di un’aderenza totale al movimento dentro l’abbandono di ogni progetto di «grande tattica», di centralizzazione e unificazione, che vada oltre il terreno effettivamente offerto dai contenuti e livelli di crescita volta a volta dati: non è possibile mantenere la divaricazione di tattica e strategia, di partito e movimento, di politica e comunismo.
Il solo terreno di unificazione del movimento che appare praticabile non è politico ma produttivo, è la sintesi pratica degli spazi di potere volta a volta conquistati: il potere comunista cresce giorno per giorno nello scontro tra lavoro e rifiuto del lavoro, con forme e modalità volta a volta diverse, e su questo medesimo terreno deve porsi il problema della tattica, su questo essere risolto quello dello stato.
Non vi è posto per una identità di movimento diversa da questa, né più semplice della costruzione del comunismo che cresce nella società, e il comando politico-militare dello Stato va affrontato là dove emerge come specifica contraddizione, nei suoi luoghi terminali che vanno piano piano rosicchiati.
Il problema dello Stato cessa di essere il luogo di una identità «tattica» facile, viene riassorbito nella dimensione più complessa della costituzione dei rapporti di produzione emergenti.
Allargamento degli spazi sul terreno su cui si aprono, in nessun caso concentrazione delle forze attorno ad un’unità minimale e «rappresentativa», ma scavo in profondo dentro le disomogeneità, le discontinuità del tessuto di classe perché è attorno ad esse che si articola il potere nuovo. Che è diffuso, disperso, non sintetico.
È un discorso attorno al quale ruota un generale spostamento di attenzione sul piano delle tematiche e degli obiettivi, non solo della forma organizzativa: dall’«insurrezione» alla «lotta di lunga durata», dalle «scadenze» attorno ad obiettivi unificanti alla appropriazione.
«La pratica dell’appropriazione» diviene il punto d’identità forse più rilevante dell’area politica che si costituisce.
Appropriazione di beni, cioè esproprio, illegalità di massa, «violenza diffusa»; ma anche autoriduzione delle tariffe sociali, cioè allargamento della legalità sulla base del consenso; e «appropriazione» in fabbrica della riduzione dell’orario di lavoro, sua riduzione unilaterale, non contrattata ma attuazione operativa di una decisione di parte, di un «decreto».
Insomma, appropriazione come superamento della trattativa, come gestione di un potere di fatto sulla distribuzione della ricchezza come sull’orario di lavoro là ove questo sia praticabile: una tematica che ben si adatta ad un discorso «molecolare» sul potere, ma i cui limiti artigianali sono evidenti.
Sono il localismo, la riduzione del problema della misura generale dei rapporti di forza alla pratica locale del contro-potere.
In effetti, ogni volta che una lotta crescerà fino a porre problemi di carattere generale per il movimento, ogni volta che il terreno di scontro si alzerà fino ad assumere una valenza esemplare, questo discorso mostrerà la corda, diviso com’è tra la volontà di una identità pienamente sociale e il bisogno della politica, della «rappresentazione generale» delle forze in campo, della concentrazione delle risorse.
Una contraddizione mai superata, che si esprimerà da un lato come vitalità e diffusione, capacità di interpretare il nuovo ed aderirvi, dell’area dell’autonomia, dall’altro come povertà e frammentarietà dei suoi livelli organizzativi e, insieme, come costante disponibilità alla enfatizzazione minoritaria ed esemplare della propria azione nel tentativo di far fronte ai problemi insoluti dell’identità e dello scontro politico.
È dentro questa situazione che la tematica del contro-potere viene forzata ad essere, da base potente ma locale di consolidamento di ben definite esperienze organizzative, ideologia collettiva, identità generale di movimento. Una identità impossibile, perché solo in casi estremi e per strati sociali molto particolari, rigidamente definiti nel senso dell’esclusione da rapporti partecipativi, un mutamento nella distribuzione sociale del potere si esprime come «contro-potere»: in generale i meccanismi della contrattazione informale e quella particolare forma di appropriazione di risorse — monetarie e di tempo — che si manifesta nella caduta di efficienza nel rapporto di prestazione, costituiscono soluzioni meno dispendiose socialmente e politicamente.
Una identità impossibile, ma che con naturalezza tende a presentarsi come pratica «normale» del rapporto col potere quando lo scontro è con un tessuto istituzionale connotato da una rigidità, da una incapacità di modificazione e riforma, tale da porre il problema del potere quotidianamente in termini totalitari.
Perché è un tessuto istituzionale proteso ad acquisire alla classe politica ogni terreno di espressione sociale, a giocare le sue carte non sul terreno del monopolio della rappresentanza legittima ma su quello socialista del monopolio della comunicazione sociale.
In questa accezione del «contro-potere», il problema dello Stato sole marginalmente costituisce luogo di identità sociale e politica del movimento: ciò avviene per alcune, importanti ma limitate, esperienze organizzative ma non riesce ad essere il tessuto connettivo effettivo delle più consistenti esperienze di lotta.
E allora la storia dell’autonomia di questi anni appare priva di un vero centro focale: due esperienze saldamente radicate in fasce larghe di proletariato giovanile e operaio a Roma e Padova; una grande ricchezza di esperienze, dalla Assemblea autonoma dell’Alfa ai circoli del proletariato giovanile, a Milano, dentro una fluidità organizzativa praticamente inestricabile; un percorso di grandissime esperienze di lotta, dall’occupazione del ’73 alle lotte del ’74 fino ai picchetti cittadini del ’79 alla Fiat, senza una trama organizzativa in qualche modo stabilizzata e riconoscibile; una quantità enorme e non censibile di collettivi locali sparsi ovunque; le esplosioni del ’77 a Roma e Bologna, in nessun modo riconducibili ad esperienze organizzative antecedenti ma che tutte le inglobano.
In questo modo complesso, fatto di discontinuità e divario fra lotte ed organizzazione, il movimento del rifiuto del lavoro si incrocia con una storia politica che, pur volendo aderirvi ed essendone continuamente alimentata, non riesce ad essere risposta ai problemi che vengono posti.
È una storia che ha una chiave semplice: la aderenza ai livelli più elevati dello scontro sociale di questi anni, l’incapacità di elaborare una identità abbastanza articolata da saper rendere conto dell’insieme del tessuto di comunicazione del movimento e da saper rapportarsi ad esso in modo diverso dalla riproposizione esemplare dell’esperienza guida.Dentro questo quadro il movimento del ’77 occupa un posto del tutto particolare: per la forza del suo impatto, per la novità che esprime, per come innova tutti i termini della questione.
L’autonomia è l’unica area politica che entra in contatto con il movimento, lo alimenta e ne è alimentata. È anche l’unica, di conseguenza, a portarvi i propri limiti ed errori.
Il ’77 svela il minoritarismo ed il minimalismo del progetto politico dell’autonomia, il mistero dell’irrisolto problema del «politico» in essa; svela anche come sia il solo tentativo di interpretare e rendere potente il processo di mutamento che ci attraversa.
Soprattutto, cambia le carte in tavola, slarga gli orizzonti: l’ampiezza della mobilitazione ha rotto, probabilmente per sempre, quel gusto risorgimentale per i piccoli numeri che aveva cercato di sopravvivere, unico «leninismo» possibile, al crollo dell’idea di partito; e, insieme, la moltiplicazione dei linguaggi, lo spezzarsi del gergo «politico» e l’esplodere del discorso sulle «differenze» hanno posto sul tappeto, praticamente, la urgenza e la possibilità, le risorse, di una identità collettiva complessa ancorata alla ricchezza delle forze produttive espresse, non appiattita sull’antiistituzionalismo rituale della storia «autonoma» appena trascorsa.
La compatta miseria di una «società politica» — chi ha detto che era la prima? — abituata fin dal ’68 a considerare la restaurazione l’unica riforma possibile ed il «riflusso» la sola forma ammessa di movimento, è insorta, a Bologna prima che a Roma, contro l’aggressiva novità, offrendo lo stato d’assedio come unico terreno di confronto possibile: quelli che chiamano l’abitudine alla propria personale impunità «infinita potenza dello Stato», sono partiti all’assalto del movimento.
Hanno avuto vita facile, perché la seconda società non è capace di concentrare potere, nemmeno per difendersi, sa solo disperderlo; e poi sa svuotare le vittorie nemiche. È quello che è successo.
Pensavano di dover spiegare a quattro emarginati troppo strafottenti chi è che comanda a questo mondo; non era così, e sono i carri armati di Zangheri e Cossiga quel solido nesso tra autonomia e terrorismo che Calogero tanto ha cercato.
Non nel senso che la guerra sia in questo caso «la continuazione della politica con altri mezzi»; piuttosto in quello, determinato, che il terrorismo in Italia misura insieme l’ampiezza del mutamento che ha investito la gerarchla sociale e la distribuzione del potere, e la resistenza delle istituzioni a prenderne atto. Cioè misura, in termini di costo sociale, la povertà della classe politica e la sua protervia.
Non che sia una misura che serva a qualche cosa, ma non è la sua inutilità a togliergli forza: perché ciò che conta nel terrorismo non è il progetto politico, che è fragile ed antico, — troppo antico per pesare davvero —. non la capacità di liberazione, che non c’è, ma la semplicità, la facilità.
Una facilità che tocca il cuore dei problemi che viviamo, che va alla radice delle cose.
Al fatto che lo Stato moderno, in un paese sviluppato, è «debole» strutturalmente, detiene una quota di potere relativamente bassa nei confronti del resto della società e deve costantemente rendere conto dell’uso che ne fa.
E questo è il solo, grande, evento progressivo e democratico del nostro tempo: le risorse economiche, come quelle militari, sono relativamente poco concentrate, e, paradossalmente, è cresciuto di più il potere di controllo del cittadino sullo Stato che non l’inverso.
Il che vuoi dire che i canali istituzionali di questo controllo devono essere efficienti, altrimenti se ne aprono altri.
Perché l’antico sovrano doveva rispondere delle sue azioni a un numero ristretto di persone, agli altri sovrani e ai suoi parenti, a «quelli come lui», che soli avevano potere di controllo, che è sempre potere di uccidere, in ultima istanza, e la storia del potere era la shakespeariana tragedia della lotta tra consanguinei; mentre oggi il «principe» vive tra la folla e a tutti deve spiegare, perché non c’è polizia al mondo che a lungo lo possa difendere nella grande città.
Il fatto realmente eversivo del rapimento Moro non era il «complotto» — il sogno malato di quelli che pensano che il potere si divida sempre, ancora, tra i membri della «classe dirigente», la speranza classista e rassicurante di chi vuole che siano i «professori» o gli emissari delle «potenze imperiali» a tirare le fila «dietro le quinte», a «comandare» —, ma la sua assenza, il fatto che erano poche decine di lavoratori dipendenti o disoccupati che si erano organizzati per farlo, con un programma politico non chiaro ed uno scarso interesse al consenso: questo e il fatto che la cultura «dominante» ha voluto rimuovere nel profondo, la cosa a cui, davvero, non riesce a credere.
Questa è la forza del terrorismo, la chiave della sua riproducibilità, del suo carattere «moderno» al di là della stagionatura delle ideologie che agita; ciò non toglie che sia inutile, privo della possibilità di risolvere i problemi che esprime.
Inutile esattamente come la repressione, costi secchi di una situazione bloccata.
C’è una ideologia, cilena direi, che domina la nostra «classe dirigente», a destra come a sinistra, e che è fatta dell’intima convinzione dell’onnipotenza dell’apparato militare dello Stato, del carattere in ultima istanza risolutivo, per quanto sgradevole, di una repressione desiderata o temuta; è, come dire, una riserva mentale sulla reversibilità della «democrazia», dono della pace ma sempre pronta a cedere il passo alle crudeli necessità della guerra.
A questa convinzione, che rende così infiammabili e stuzzicarelli i nostri politici, c’è un argomento da obiettare, ed è che nei paesi sviluppati, come il nostro che è più vicino all’America che al Cile, dove la società è ricca e i mezzi di comunicazione diffusi, l’infinita riproducibilità del terrorismo, esattamente come l’infinita potenza distruttiva della bomba atomica, impedisce che ci possa più essere soluzione militare ad un problema politico che non sia proprio molto piccolo: la guerra possiede una autonomia tecnologica tale e veste forme così radicali che non è più strumento docile da usare, non è applicabile a fini limitati, se non in funzione dimostrativa, in forma simulata, per innescare la trattativa.
E lo Stato moderno tratta, a tutti i livelli: poiché sa di non essere l’unico potere, lo Stato ricerca la flessibilità, cerca di cavalcare la nuova vicinanza con la società facendosi permeabile ed attento, allargando i canali di comunicazione, cooptando e selezionando, filtrando il mutamento per impedire l’accumulo di risorse nemiche: è uno Stato riformista per natura e vocazione.
Quello italiano no: è immobile e rissoso, coltiva il culto della forza ed ha l’ordine pubblico come terreno di incontro privilegiato con il mutamento sociale.
Ne paghiamo le spese, tutti.
IL RIFIUTO DEL LAVORO
Parlare dell’«autonomia operaia» dopo il 7 Aprile è insieme cosa difficile e impellente.
Difficile perché l’«equazione Calogero» e il rafforzarsi delle spinte istituzionali a una soluzione militare del problema hanno accreditato di essa una immagine poveramente guerresca, appiattita su quella del terrorismo, impellente perché dietro il fragore dell’operazione è cominciata a emergere, forse per la prima volta agli occhi di un pubblico così vasto, la profondità, tenacia e ampiezza di un fenomeno politico e sociale che si è voluto considerare marginale, trascurabile, povero. Fattone un problema di stato ad usum belli, dietro l’immagine odiosa che la cultura ufficiale ha scoperto e fatto circolare di esso, trapelano i segni di una storia ricca che attraversa tutto il tessuto di lotta di questi anni e sui cui nodi troppo agevolmente, da parte di troppi, si è sorvolato come su cosa irrilevante.
Il risultato paradossale di un anno di guerra feroce all’«autonomia» può essere la riapertura potente del discorso sul mutamento sociale che ha attraversato questo paese, sulla ricchezza delle sue espressioni politiche e sui loro limiti, sulla radicalità della sua pratica e la povertà della teoria; insomma, su quel blocco di problemi la cui rimozione collettiva per opportunismo, paura, miseria politica ed umana ci ha condotto allo stallo sanguinoso che stiamo vivendo.
Questo libro vuole offrire una prima documentazione essenziale a un discorso di questo tipo.
È un taglio di prospettiva che rende conto di una impostazione per altri versi «ingenua», cioè idealista.
Vale a dire, della scelta di non limitare l’attenzione a quella pur variegata area politica che all’inizio del ’74 si costituisce attorno alla comune denominazione di «autonomia operaia»: si tratta di un’area di esperienze organizzative troppo ristretta per poter essere esclusivo punto di riferimento.
L’identità politica che esprime è infatti troppo incerta e approssimativa per riuscire a definire dei confini sufficientemente rigidi al discorso, e insieme le esperienze che essa non comprende sono troppo significative, in quel medesimo spazio di anni, per poter essere sottaciute.
Una impostazione così ristretta peraltro definirebbe una dipendenza troppo netta, che non è in alcun modo riscontrabile tra il movimento del ’77 e l’«autonomia»: un movimento che, nella realtà, ha sovrastato da ogni parte l’esperienza organizzativa di cui parliamo, spezzandone la continuità, perché faceva parte di una storia più vasta.
Per un altro verso, neanche la semplice identificazione dell’«autonomia» con un’area di comportamenti sociali appare soddisfacente, perché generica, troppo larga e riduttiva insieme: l’«autonomia operaia» è attraversata certo dall’estremismo sociale, ma non e definita da questo, e se forme di lotta illegali costellano la sua storia non ne costituiscono però il punto d’identità.
Il discorso da fare è diverso: la storia dell’«autonomia» è costituita da un arco di esperienze politiche articolate e difformi che si snodano per tutto l’arco degli anni ’70 e la cui identità ruota attorno all’idea-forza del «rifiuto del lavoro».
Non è soltanto una ideologia dell’emancipazione, ma un modo di lettura della società capitalista, dei suoi protagonisti, del modo di distribuzione del potere in essa, della dinamica del suo sviluppo e della sua fine, che costituisce lo schema di orientamento ed il tessuto connettivo egemone che attraversano dieci anni di confronto politico con il movimento operaio, organizzato.
Su questa base è definibile la continuità che corre tra la «conflittualità selvaggia» del ’68 e i comitati operai di base (che sono larga parte dell’ascendenza comune di Potere operaio e Lotta continua), le lotte «sociali» e la «resistenza alla ristrutturazione», che di tali organizzazioni segnano il culmine e la fine, e le tematiche dei nuovi bisogni e del‑l’«operaio sociale» che esploderanno tra il ’76 e il ’77.
Non è una connessione estemporanea che salta sulle differenze, pure profonde, e disconosce la pluralità degli apporti e la discontinuità degli orientamenti.
È la rilevazione di un percorso unitario di problemi e modi di soluzione dentro una pratica dell’organizzazione che cerca di identificare politica ed economia e riconosce nell’emergenza di bisogni conflittuali il costituirsi dell’autonomia sociale e politica del soggetto rivoluzionario.
LA “MIGRAZIONE” DAL LAVORO SALARIATO E LA QUESTIONE DELLO STATO
Dentro questo tessuto di discorso il problema del «potere» assume delle dimensioni del tutto particolari e diviene il luogo della «identità difficile» della autonomia, il luogo attorno a cui si articola la sua contraddittoria esperienza organizzativa.
In tutta la storia del movimento operaio, sia nella sua versione riformista, socialdemocratica, che rivoluzionaria, la questione del potere è il principio forte di identità, la base del progetto di riforma sociale. Nel senso che la rivoluzione politica si vuole precedere quella sociale, e l’occupazione dello stato essere la base della modificazione dei rapporti di produzione: lo stato è, hegelianamente, il livello più avanzato della cooperazione sociale e guida tutti gli altri.
A partire dalla rivoluzione borghese; è questo – e con ciò Stalin concluderà un discorso iniziato da Marx – che differenzia la rivoluzione proletaria da quella borghese, che quest’ultima si è impadronita prima della società e poi dello stato, mentre la prima è destinata a seguire il cammino inverso, a governare dall’alto, dal punto di massima concentrazione del potere, il rivoluzionamento dei rapporti sociali.
Tutto ciò non può esserci nel discorso che abbiamo fatto, perché il suo cuore è il mutamento «in atto» dei rapporti di produzione, la dislocazione nuova del potere nella società ben prima che nelle istituzioni; il problema del potere politico segue, non precede, e si riduce al problema di come lo stato si adegua al mutamento.
La questione «socialista» della occupazione dello Stato, della «presa del potere» proletario in realtà non si pone neppure: perché il nuovo potere che emerge non si dà una rappresentazione statuale, non è delegabile, non è separabile da quelli che lo esercitano, non è politico ma «produttivo», «estingue» lo stato.
Il senso infatti di un discorso sull’impoverimento della sintesi di capitale e sulla ricchezza delle risorse che vi restano estranee è che vi è una dispersione del potere sociale, uno slittamento dei poteri di gestione sulle risorse dalla «potenza astratta alla cooperazione sociale» ordinata dentro il lavoro salariato alle comunità concrete che informalmente si strutturano attorno a questa conquistata disponibilità di tempo sociale, e che indifferentemente si pongono all’esterno del rapporto lavorativo o lo attraversano.
Questa opacità nella distribuzione sociale del potere, questa dispersione che investe la sua ordinata articolazione gerarchica e che depotenzia il sistema grande, astratto e complesso in favore del piccolo concreto e semplice, aggredisce alle fondamenta l’analisi marxista del potere.
Nel senso che base di questa è l’assunzione della concentrazione del potere nella società del capitale e la possibilità di dare ad essa una forma positiva modificando la forma dello stato in modo da sviluppare al massimo la «partecipazione democratica» ad esso, di accrescerne la legittimità e controllabilità.
A questo punto nasce però un problema: il discorso sullo stato è in Marx, come in tutto il pensiero politico democratico, discorso sull’«eguaglianza»; il discorso sul comunismo è discorso sul libero sviluppo delle «differenze», sulla fine del diritto e della sua astrazione inumana.
Il nesso tra i due discorsi non è dialettico in Marx; semplicemente non c’è.
C’è insieme l’esaltazione della politica, dell’eguaglianza, e la sua critica.
Rivoluzione socialista nel nome dell’eguaglianza, per «portare a termine la rivoluzione francese», ma comunismo come sua critica. Perché l’eguaglianza tra gli uomini è una astrazione, che passa sopra le differenze concrete di gusti, temperamenti, necessità e desideri, e può fare questo perché considera gli uomini merci, intercambiabili nella prestazione di lavoro: per questo è eguaglianza «solo» politica, perché quella vera, materiale, è riconoscimento delle differenze, abolizione del diritto.
L’«eguaglianza» è la sola base possibile di ogni delega e partecipazione, il fondamento della politica, insieme la sua possibilità e il suo destino; ma la sua base è il mercato, il lavoro salariato, dove «un uomo di un’ora» vale un altro uomo di un’ora.
L’«interesse generale» del mondo della politica si fonda su questa equivalenza generale del mondo delle merci, sull’astrazione del lavoro salariato, ma la «critica della politica», la critica dei rapporti di delega ha anch’essa una base potente.
Che cosa succede infatti quando il tempo di lavoro, in cui tutti sono uguali, perde potere e forza produttiva, diviene una frazione di tutto il tempo sociale, ed il tempo del non-lavoro cessa di essere funzione subordinata della riproduzione sociale e comincia ad essere partecipe della ricchezza delle forze produttive?
Quando i rapporti tra gli uomini cominciano ad essere così ricchi da non farsi più misurare sulla base dell’equivalenza e la comunicazione sociale comincia a strutturarsi attorno al tempo qualitativo, ricco di differenze, che si sottrae al comando del salario?
Il discorso dell’eguaglianza cessa di governare il processo di liberazione, che va a snodarsi attorno ad un problema nuovo: come si fa ad articolare il potere non attorno all’eguaglianza astratta che impone il mercato, ma attorno alle differente concrete che animano il tempo nuovo della cooperazione sociale ricca?
Marx parlava di general intellect, di produzione sganciata dalla necessità come funziona la delega di poteri quando la produzione sociale di ricchezza comincia a svincolarsi dalle maglie del lavoro astratto, quando la partecipazione di ognuno alla produzione non è più riducibile al suo tempo di lavoro ma investe la qualità del suo essere «individuo sociale ricco», e come sono rappresentabili persone che partecipano della società sulla base non della loro prestazione, ma complessivamente di ciò che fanno, sanno, vogliono e desiderano perché tutto ciò entra oggi nella potenza della cooperazione sociale?
Non è vero in senso forte tutto ciò: il tempo di lavoro è sostanza reale ancora della produzione, e da esso prendono forza materiale la delega, l’eguaglianza, il «politico», ma c’è questa liberazione di tempo sociale, in modo non marginale, ed è capace di produrre effetti potenti, ed attraversa con forza delegittimante tutte le istituzioni.
Quella che esplode, a tutti i livelli, non è richiesta di «partecipazione» sulla base dell’eguaglianza, ma domanda di più larga dislocazione del potere, di sua diffusione, di autonomia di spazi di gestione sulla base della «diversità», della irriducibilità a «interesse generale», al rapporto di maggioranza.
I movimenti di lotta di questi anni, ovunque, hanno questo segno: non richiesta di differente gestione del potere né rivendicazione di «eguaglianza», cioè di legittimità maggioritaria, ma affermazione di una qualche diversità irriducibile che si fa in quanto tale domanda di potere, apertura di contrattazione, richiesta di autonomia.
Richiesta di avere voce in quanto «diversi», non in quanto uguali, richiesta di riconoscimento del potere che in questa diversità è insito.
Il movimento del ’77 era socialmente articolato e complesso, per ben poca sua parte composto da «emarginati», aveva le carte in regola per porre domande «politiche», ma la sua identità era quella del «diverso», i linguaggi che parlava specializzati e intraducibili, come il dialetto di una etnia che vuole difendersi dalla lingua ufficiale.
La «marginalità» non è stata connotazione sociale ma scelta politica, critica della politica.
Ma non è che un esempio: i neri, le donne, i giovani, gli anziani, i froci, le minoranze nazionali, tecniche, linguistiche, religiose; la ricerca di una identità non «politica» che ruota attorno ad una differenza da far riconoscere e rispettare, sulla base della quale contrattare spazi di gestione delle risorse, appare il connotato dominante dei «movimenti» di questi anni.
IL RIFIUTO DEL LAVORO E LOTTA OPERAIA
«Rifiuto del lavoro»: vuol dire che dentro la struttura e la gerarchia dei rapporti sociali comandati dal lavoro salariato vive, sempre, un tessuto di comunicazione e organizzazione, che detiene informazioni, conoscenza, «saperi», che ad esse si contrappone ed a cui è alternativo.
È una struttura sociale che nasce nella lotta, per la lotta – per più soldi, meno lavoro, per un lavoro meno nocivo, o pesante, per «stare meglio», o comunque per non morire di fabbrica –, ma che è già potere, «sulla» produzione e «di» produzione, perché è fatta esattamente degli stessi elementi che compongono la prestazione lavorativa, solo che ha il segno rovesciato, quello della non collaborazione, della sottrazione di risorse e disponibilità.
È la conoscenza del ciclo produttivo di parte operaia, la capacità di fermarsi, sottrarsi, sabotare; è la scienza della resistenza, con la sua capacità di impatto, sempre, sulla distribuzione della ricchezza e l’organizzazione del lavoro.
Come dire che il potere sociale, la conoscenza sociale, sono divisi tra comando e resistenza, e i rapporti sociali sono spezzati, organizzati insieme dal lavoro e dalla lotta contro di esso, e la produzione non è dinamica neutrale, «economia», ma luogo di scontro e mediazione tra questi due poteri nemici.
Non c’è soltanto sfruttamento in questa società, ma anche autonomia da esso e lotta.
Quante risorse sociali siano comandate dentro la gerarchia costruita dal rapporto di lavoro salariato e quante si ordinino viceversa attorno all’emergenza dei bisogni autonomi di classe, non è mai cosa definitiva una volta per tutte, ma costituisce l’oggetto di quella lotta politica che va sotto il nome di sviluppo e crisi.
In questa accezione il discorso è già tutto dentro i «Quaderni Rossi» di Panzieri e Tronti.
E qui sono già contenute le grandi rotture teoriche con la tradizione socialista del movimento operaio.
Perché non c’è più autonomia nell’«economico» né oggettività nella crisi, ma ovunque scontro di interessi e organizzazioni.
Perché il potere non sta da una parte sola, e non c’è una classe di «produzioni» contrapposta agli «sfruttatori», ma un rapporto che è produttivo perché scontro di interessi in lotta; quindi non c’è possibilità di liberazione che passi per la semplice «eliminazione degli sfruttatori», cioè per la «socializzazione del rapporto», il socialismo: non c’è superiorità della pianificazione sul mercato, ma solo possibilità di comando sul rapporto di sviluppo, costrizione a produrre più classe operaia e meno capitale.
Sono rotture importanti, attraverso cui passa un complessivo diverso orientamento delle tematiche emancipative.
Innanzitutto il ridimensionamento del ruolo della conquista del potere politico dentro il processo di liberazione, e, all’interno di questo, la rivalutazione della storia delle classi operaie occidentali. Poi l’ancoramento saldo di ogni discorso sull’organizzazione al sistema di bisogni materialmente espresso, che è il livello dato di autonomia di classe.
È un discorso nato nei termini dell’autonomia politica di classe, cioè autonomia del sistema di bisogni, autonomia del potere operaio: partecipazione conflittuale allo sviluppo e minaccia del blocco, cioè contrattazione consapevole in vista del conseguimento degli interessi di parte.
È un discorso che cresce in fretta però, perché le basi sono ricche.
Una volta, infatti, che si legga la società capitalista non più come il luogo del comando incontrastato dell’interesse di parte del capitale, della gerarchia che si esprime nel rapporto di lavoro salariato, ma come il luogo dello scontro tra lavoro e rifiuto del lavoro; una volta che si riconosca che come lotta si organizzano quelle medesime risorse che sono sostanza dello sviluppo del capitale, e che i bisogni sociali possiedono una autonomia dal comando sul lavoro; che alla gerarchia costruita attorno al tempo di lavoro se ne contrappone un’altra costruita attorno al tempo della lotta, al tempo liberato dal lavoro, e che anch’essa detiene conoscenza, è tessuto di comunicazione e organizzazione sociale, è forza produttiva; riconosciuto tutto ciò, il problema diventa quello della crescita e dell’arricchimento delle risorse che si presentano come «non capitale», quello del blocco della sintesi sociale di parte capitalistica, della possibilità di una sintesi diversa sul terreno non tanto della organizzazione del potere politico quanto su quello della struttura delle forze produttive.
Cioè diventa la destrutturazione del rapporto di capitale.
Se la società non è più vista come il teatro di un solo attore, l’interesse di parte capitalista, bensì il rapporto di capitale, appare la sintesi faticosa degli interessi di due parti nemiche; se, accanto al principio regolatore del valore di scambio, motore potente della produzione sociale è l’interesse operaio al valore d’uso; se il potere sociale è diviso; allora la dinamica del potere operaio – non quello «politico», che vorrebbe governare lo stato, che non c’è e di cui non si sente la mancanza, ma quello «sociale» che c’è, e partecipa potentemente al governo di questo mondo –, la dinamica della crescita del potere operaio e della sua subordinazione, i termini della sua lotta e trattativa incessanti, vanno investigati e ripercorsi con gli occhi di chi ne cerca le leggi e il principio di strutturazione, cioè la capacità di essere organizzazione sociale postcapitalista, comunismo.
«Più salario, meno lavoro», «salario sganciato dalla produttività»: queste potenti parole d’ordine di massa che esploderanno nell’autunno operaio del ’69 appaiono la base politica su cui si costituiscono le prima esperienze autonome di organizzazione non solo e non tanto per la loro capacità di disturbo nei confronti degli apparati organizzativi tradizionali né per la loro «valenza estremista» di indurre «crisi» economica e politica, ma perché in esse viene letto un possibile, emergente, programma di potere. Nel senso che con esse appare rompersi il rapporto tra comando capitalista sulla produzione della ricchezza e la produzione dei bisogni sociali.
La gerarchia che si esprime dentro il processo produttivo, le divisioni funzionali attorno a cui questo ordina il corpo operaio, appaiono impotenti a comandare le richieste sociali, i canali attorno a cui queste si strutturano.
Tra composizione di classe – e cioè tra la struttura dei ruoli, la forma della circolazione delle capacità produttive, delle informazioni, dei bisogni operai – ed organizzazione produttiva compare uno iato profondo che è già duplicità delle gerarchie, scontro aperto di poteri e dei criteri attorno cui si ordinano.
Perché il contrasto tra bisogni e produzione non è come quello tra «sogno» e «realtà»: esprime lo scontro tra canali di comunicazione sociale, tra organizzazioni di uomini; esprime l’incapacità da parte della gerarchia sociale che ordina la produzione di comandare tutta la società, esprime cioè il fatto di essere parte troppo piccola di essa, che in essa non confluisce una quantità sufficiente di risorse sociali, e che comincia a formarsi un differente punto di aggregazione.