ROSSO n°8 ‑nuova serie-
giornale dentro il movimento
Il processo operaio, oggi
Da «SENZA TREGUA giornale degli operai comunisti», speciale
«Organizzazione del lavoro! Ma il lavoro salariato è l’attuale organizzazione borghese del lavoro. Senza di esso non vi è capitale, né borghesia, né società borghese.
Un proprio ministero del lavoro! Ma i ministeri delle finanze, del commercio, dei lavori pubblici, non sono forse ministeri borghesi del lavoro?… », alla citazione dal Marx del ’48 possiamo oggi aggiungere: «Un Tribunale, una Pretura, una Giustizia del lavoro? Ma non si tratta della giustizia borghese sul comportamento proletario, sulla lotta dell’operaio, sui movimenti della classe operaia, già di per sé criminale, già di per sé irriducibilmente antagonista, di fatto violenta ed eversiva per la giustizia borghese?». E davanti al Tribunale del lavoro di Milano si presentano il 15 luglio, alle ore 16, gli operai che la Magneti Marelli-Fiat vuole licenziare da un anno, ma che da un anno sono ogni giorno presenti al loro posto di lotta, dentro la fabbrica.
Sia la prima scadenza processuale (il pretore Bonavitacola davanti a 400 operai emette sentenza favorevole al padrone), sia la seconda scadenza (il pretore Muntoni riammette in fabbrica gli operai che però già ci vanno), sia questo appello di oggi hanno riaperto la questione del processo operaio, cioè la questione della presenza degli operai in Palazzo dì Giustizia. La legge-Brodolini – la legge n. 300 subito battezzata «statuto dei lavoratori» – fu la sanzione della presenza nella fabbrica di un sindacato rifondato e che aveva retto l’urto del movimento; quella sanzione di una prospettiva accettata dalla borghesia in cui la lotta salariale viene assunta nella sua funzione di stimolo e di dinamismo del sistema; ma fu la traccia su cui lavorare per la stabilizzazione della lotta, per il controllo della conflittualità e lo scarico delle tensioni quotidiane di classe dentro i tempi lunghi della procedura giudiziaria, fuori della fabbrica e della trattativa diretta, dentro il Palazzo di Giustizia, dentro la regolamentazione di una legge dello Stato, dentro l’immagine di uno Stato intermediario «inter partes».
In questo senso si caratterizzò da subito come «un’arma a doppio taglio»: ratifica di un alto potere sociale, rivendicativo di classe (l’operaio come rigidità nella fabbrica e come domanda di beni nella società) nella fase alta del ciclo economico; e «l’ammortizzatore» delle tensioni nella fase di crisi e di contrattacco capitalistico. Una sorta di meccanismo «a due tempi», capace di usare la stessa apparenza di «imparzialità» e la credibilità, la legittimazione che si guadagna negli anni delle «vacche grasse», per legittimare il suo funzionamento apertamente antioperaio quando questa è la committenza che l’interesse capitalistico gli dà. Uno dei classici strumenti di interpretazione dell’«interesse generale» di parte capitalistica, legato alla realizzazione del profitto medio, è dunque a volte contraddittorio con l’interesse del singolo capitalista, «a maggior gloria» delle regole generali dell’accumulazione. Come strumento antioperaio, ha funzionato come un meccanismo a molla: ogni sentenza favorevole agli operai ha avuto anche l’effetto di caricarla, per preparare il contraccolpo antioperaio. Poco importa qui notare come per mesi e per più di una occasione la «legge 300» ha rappresentato una sanzione positiva di un movimento di lotta che si era dispiegato per due anni come generale, che aveva profondamente segnato la pratica sindacale senza poter ribaltare la natura del sindacato.
Questo movimento aveva costituito un polo di attrazione per una serie di Pretori democratici, che aveva fatto emergere una serie di volenterosi avvocati riuniti in comitati e collettivi. Queste varianti tattiche non mutano la questione di fondo, la funzione strategica della legge, e, prima di tutto, il più organico telaio e disegno politico in cui la legge si inscrive, e che alla fine ha prevalso. Poco importa anche notare qui gli infiniti errori e le numerose illusioni che sono state coltivate attorno al cosiddetto «statuto» (e sottolineare come la sua introduzione in settori a sindacalismo arretrato sia stata negata sia dallo Stato, sia dall’istituto sindacale previa futura omogeneità e controllo da raggiungersi – la scuola è l’esempio più vistoso di questa separazione).
Tutto quanto era in sospetto, oggi – in una fase di chiarificazione massima delle parti e di antagonismi espliciti – viene in chiaro. In chiaro la tenuta dei «Pretori democratici», in chiaro lo schieramento degli avvocati sotto e fuori della tutela sindacale, in chiaro anche il trionfalismo e l’illusione di numerose avanguardie. La «legge 300» è il frutto di una convenzione di comportamenti tra padronato e istituto sindacale fondata sull’ipotesi (interclassista) e la pratica (repressiva) che – stante una laboriosità crescente, una accettazione incondizionata della disciplina e gerarchia produttiva del «prestatore d’opera» – sia eliminabile la sanzione minima e massima da parte del padrone; e che comunque si tratti sempre di vertenze componibili, di un danno che si risolve con il risarcimento.
La realtà va in un altro modo, vi è rifiuto del lavoro salariato e non crescente laboriosità; vi è attacco crescente alle gerarchie di fabbrica e non accettazione del codice disciplinare; di prestatore d’opera non si tratta ma di classe operaia cosciente; di vertenza componibile non si parla ma di un conflitto radicale, crescente, che assume spesso le forme massime del conflitto di classe: niente di tutto questo può essere risarcito in nessun modo; gli operai rivoluzionari non si vendono e non vendono la lotta, il lavoro politico fatto e da fare – e non per moralismo ma per calcolo materiale (i tempi della corruzione delle avanguardie – pensiamo ad alcuni vecchi episodi dell’Alfa – appartengono a un referente operaio tradizionale, storicamente datato, improvvisato e con una sua funzione tanto momentanea quanto spontaneo era il movimento di reparto e di fabbrica da essi guidato).
Gli operai che oggi guidano queste lotte di fondo dentro la fabbrica o sono mutati radicalmente rispetto alle origini di movimento, o sono referente operaio giovane caratterizzato dalla nuova qualità della lotta, dalla nuova funzione dell’avanguardia non più legata all’immediatismo (e allo spazio immediato) della lotta sindacale ed economica, ma al progetto strategico della rivoluzione.
C’è insieme – nella stretta della crisi – una vera e propria caduta della possibile, ipotizzabile, tradizionale, funzione di parziale redistribuzione di plus-valore che il sindacato a vicende storiche alterne assume nella sua funzione di istituto interno al sistema. La lotta salariale operaia, la lotta operaia e proletaria sul reddito, non ha più dunque una rappresentatività legale stabile: o si muove in modo indiscriminato e selvaggio (e perché no, anche corporativo), o è assunta nella rappresentatività reale di organismi stabili, prima di tutto cresciuti sulla discriminante politica, risultato delle prime esigenze politiche di una classe operaia che si pone il problema di come «fuoriuscire dal sistema» prima fuoriuscendo dalle scadenze, dalle scansioni (contratti, vertenze, compatibilità, professionalità, qualificazione, disciplina, esame, proprietà, legge, Stato ecc.) con cui si regolamenta complessivamente l’accumulazione capitalistica, il dominio sociale borghese sui mezzi di produzione.
Questi contenuti della lotta fanno esplodere l’idillio delle posizioni e il gioco delle parti nel processo operaio.
La «legge 300» è sempre di più uno straccio, il carattere inesorabile – anche nel futile dettaglio di uno o due licenziamenti – della natura di classe della giustizia si afferma, con la solita apparente ottusità, che è invece lucida, feroce determinazione di fondo.
L’andirivieni pretorile viene bloccato dai giudici di Tribunale che tagliano corto bruscamente con la farsa esistenziale della Pretura e affermano la loro natura di funzionari diretti del padronato nelle sue articolazioni regionali e cittadine (qui a Milano, l’Assolombarda). Reggono bene anche all’insulto: i cordoni degli armigeri di Stato li tutelano dalle resse e dagli assembramenti processuali operai – quando ci sono -; non rimarrebbe che distruggerli. Nel cuore dello Stato, il funzionario sindacale che ha condotto in fabbrica la parte della repressione interna al movimento, che ha gestito la sottrazione della lotta al suo «habitat» tradizionale non è più che quello che Gramsci (pardon) chiamava l’intellettuale di tipo rurale: « …sono in gran parte “tradizionali”; (…) questo tipo di intellettuale mette a contatto la massa contadina con l’amministrazione statale e per questa stessa funzione ha una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica.
Inoltre: nella campagna l’intellettuale ha un medio tenore di vita superiore o almeno diverso da quello del medio contadino… ». Se la forza organizzata che questo «nuovo intellettuale in veste vulgata del capitale» rappresenta è stata distrutta nella lotta in fabbrica, anche la sua ideologia sarà ridotta a carta straccia e la sua mediazione non varrà che una autoconvinzione. Questo «intellettuale» è stato distrutto nella vicenda Magneti-operai licenziati, perché già prima la sua rappresentatività era stata distrutta nel reparto e nella fabbrica. Ma nel cuore dello Stato gli operai rivoluzionari vedono tendersi al massimo la lotta, la loro capacità di organizzazione autonoma, la loro capacità di sollecitare una nuova intelligenza antagonista nella classe.
Il processo operaio rompe i veli delle precedenti mistificazioni, fuoriesce dai tentativi di governo legale dello scontro di classe immiserendoli di colpo, mette da parte il vecchio mediatore sindacale e si presenta di fronte al giudice come a un nemico giurato, dispiegando tutta la sua forza. Del Tribunale del lavoro i padroni hanno cercato di fare un istituto secondario che minimizzasse lo scontro di classe.
La classe operaia ha invece tutto l’interesse a riportarlo alla dimensione reale di vero e proprio Tribunale politico anti-operaio, dove si ricostruisce processo dopo processo una ideologia padronale e gerarchica saldata a dure sanzioni, a sentenze una dopo l’altra negative che chiudono mesi ed anni di illusione forense dell’operaio di fabbrica. Stanare questi lupi è compito degli operai rivoluzionari, scardinare l’ordine di Palazzo di Giustizia presentandosi non come a una scadenza secondaria, ma come a una scadenza politica.
Sappiamo tutti quanto di determinato, quanta volontà politica di distruzione della classe vi è nel procedere «obiettivo ed economico» della ristrutturazione, della cassa integrazione, del licenziamento; abbiamo qui, nel licenziamento politico e nelle sue istanze celebrative, il «passo più avanti» che possiamo fare non da soli contro lo Stato, ma con profonde motivazioni dentro la lotta operaia più vasta. Il Tribunale del lavoro niente altro è che il Tribunale delle sanzioni contro l’indisciplina e la ribellione operaia quotidiana al lavoro salariato; qui si chiude anche la «libertà di sciopero» costituzionale, qui si tenta la perfezione della gestione collegiale padroni-sindacato dello sfruttamento operaio; fuori delle emozioni sessantottesche e dentro la radicalizzazione crescente delle lotte, le istanze prendono le giuste dimensioni.
Alla sanzione del licenziamento padronale si aggiunge la definizione criminale della lotta, si celebra la riprovazione dello Stato, si schiaccia l’operaio alla dimensione di cittadino qualsiasi che ha violato le leggi della comune convivenza. È tutto questo che stiamo lavorando a distruggere con la presenza operaia in Palazzo di Giustizia, è compito dei rivoluzionari farlo, è questa – dopo la crisi coniugale con la «doppia amministrazione», la «pretura dei lavoratori» e lo «statuto dei lavoratori» del movimento, delle avanguardie, degli avvocati – la strada da prendere. Anche in questo senso ha agito la lotta degli operai Magneti, anche questo porta la battaglia contro il licenziamento dei 4 compagni che – lo ripetiamo – usciranno dalla fabbrica quando lo decideremo noi.
ROSSO n°13–14 ‑nuova serie- NUMERO SPECIALE
giornale dentro il movimento
ROSSO n°19–20 ‑nuova serie-
giornale dentro il movimento
PRIMO MAGGIO n° 23/24
- 3 Il caso Magneti Marelli. Storia, analisi, interviste di Pierre della Vigna/Giorgio Pauletta/Domenico Potenzoni/Riccarda Rebecchi
- 20 Il controllo del lavoro attraverso i piccoli gruppi in Giappone di Eichi Itoh
- 26 Reaganomics: i sogni avverati del capitale di Philip Mattera
- 33 Osservazioni sulla polarizzazione sociale negli USA di Bruno Cartosio
- 37 Il controllo sociale nell’America “sregolata” di Reagan di Paolo Bertella Farnetti
- 41 Inghilterra: fuori dalle miniere di Corrado Borsa/Susanna Conti/Massimo Corrias
- 47 Nuove povertà in Germania di Sergio Bologna
- 54 Censis: soggettività e seduzioni di un discorso economico di Pierre Dalla Vigna
- 59 Il crimine presunte e il delinquente lavoratore di Ermanno Gallo/Vincenzo Ruggiero
- 69 La fabbrica dell’anomalia di Detenuti 1° raggio – San Vittore
- 72 La sessualizzazione dei rapporti sociali di Alisa Del Re
- 75 Contro la memoria di Gioacchino Lavanco