Contro la barbarie del capitale potere operaio per il comunismo
Da un volantone pubblicato da « Rosso vivo » e « Senza Tregua», Milano, luglio 1976
Compagni, ogni anno, a migliaia di proletari viene il sangue agli occhi per un fatto apparentemente «senza senso», di certo insopportabile e provocatorio: la distruzione di tonnellate e tonnellate di frutta, di prodotti della terra in genere. Un ente di Stato, l’Aima, compra la frutta per avviarla «alle fosse biologiche», per avviarla a essere stritolata dai cingoli dei trattori.
La contraddizione è soltanto apparente.
La ragione di questo «fenomeno», come si sa, è economica: milioni di chili di pesche, di mele, di pere, di pomodori vengono distrutti per «sostenere i prezzi». Cioè per far sì che la frutta possa essere venduta nei negozi e nei supermarket a 700, 800, 1000 lire al chilo. Compagni, i padroni e i «tecnici» dell’economia parlano di «sovrapproduzione». Ma «sovrapproduzione» rispetto a che? Forse rispetto ai bisogni, alla vita, delle donne, degli uomini, dei giovani, dei bambini proletari? Certamente no: sovrapproduzione rispetto alla possibilità dei padroni di realizzare il profitto fondato sul plusvalore estorto al lavoro operaio, rispetto alla loro possibilità di negare la soddisfazione dei bisogni delle masse proletarie, di negare l’«abbondanza» perché questa sarebbe la fine della condizione su cui si fonda il regime del lavoro salariato: la schiavitù del bisogno, la costrizione a vendere la propria forza lavoro per vivere. Il capitalismo, compagni, è questo.
L’economia è scienza della scarsità. Il fine del sistema è infatti il profitto, l’accumulazione del capitale – non lo sviluppo della ricchezza generale.
Le merci sono solo occasioni di accumulazione di potenza e di comando del capitale, e solo secondariamente, solo perché possa avvenire lo scambio (solo perché, cioè possano essere vendute consentendo al padrone la realizzazione del profitto), sono anche beni utili a soddisfare alcuni «bisogni», alcune esigenze di vita. Una massa immensa di lavoro viene erogata da milioni di proletari, non per costruire la loro ricchezza, non per liberarsi dal bisogno, non per godere di una serie di beni e produrre una ricca base materiale della propria esistenza; questa massa di lavoro serve ad accrescere infinitamente la potenza impersonale del capitale: questa massa enorme di lavoro si cristallizza in un monte di prodotti, di merci (macchinari per fabbricare altre merci, oggetti di consumo, beni), che schiacciano colui che li ha prodotti e al quale non appartengono, che vive la privazione di essi (se sono beni di consumo) o il dominio di essi sulla propria vita (se sono mezzi di produzione). Queste merci servono perché hanno un «valore», perché viene fissato un loro «prezzo», perché della loro vendita viene realizzato un profitto, che viene investito a sua volta e crea altre possibilità di succhiare il sangue ad altri proletari. Nel regime capitalistico, che vige su scala mondiale, la miseria di milioni di uomini è la condizione del mantenimento di questo meccanismo di riproduzione. Il capitalismo come sistema mondiale è in definitiva una grande «fabbrica di capitale», cioè una fabbrica di altro lavoro sfruttato, di altra miseria, di altra separazione dei proletari dalla possibilità della ricchezza. Compagni, questo avviene nella quotidianità del rapporto di sfruttamento capitalistico, in ogni minuto della nostra esistenza di proletari. Ma alcuni fatti particolari vistosi sono come la punta di un iceberg, e possono servire a rendere queste cose chiare e lampanti agli occhi di milioni di uomini, ai quali svelano questa realtà che sta sotto le apparenze della nostra società, questo «inferno della fabbrica» che viviamo quotidianamente come proletari. La questione della distruzione della frutta è uno di questi fatti. Un altro esempio sono gli «omicidi bianchi»: in Italia muore sul lavoro un operaio ogni sei ore. Altrettanto rivelatore è un fatto come quello di Seveso: la «vietnamizzazione» di 150.000 proletari da parte di una delle tante «fabbriche della morte» che nel capitalismo, naturalmente, vivono e prosperano.
Lì la questione di fondo non è una sorta di «eccezionalità» criminale dell’Icmesa e della Roche né la criminale complicità delle «pubbliche autorità», Stato centrale o Enti locali che siano; né la catena schifosa di omertà che attorno all’episodio è stata costruita.
La vera questione è che tutto questo è normale, perché il capitalismo è questo, un regime che produce merci, cioè indifferentemente beni utili e arnesi di morte, frigoriferi e bombe atomiche, cioccolatini o defolianti. Il Tcdd, il veleno della «nube tossica» che stagna alla periferia di Milano, è una merce, questa è la sua caratteristica generale.
Il capitalismo è il regime del lavoro salariato e della produzione di merci a mezzo di comando, e può indifferentemente distruggere beni di sussistenza primaria o combinare elementi chimici capaci di scatenare spaventosi processi di distruzione della vita. Compagni, ogni giorno, i giornali di parte capitalistica, da quelli del tradizionale ceto borghese a quelli della nuova socialdemocrazia autoritaria, dal « Corriere della Sera » a «l’Unità », assumono toni da «civilizzatori». Ma, compagni, quale «civiltà»? Ancora una volta, oggi, bisogna affermare che l’alternativa è: comunismo o barbarie. Perché, compagni, la barbarie è questa. È la compressione distruttiva dello sviluppo delle forze produttive sociali per impedirne la liberazione, per impedire la possibilità della ricchezza generale. La barbarie moderna, compagni, vive nell’inferno quotidiano della fabbrica sociale, nell’inferno dello sfruttamento e in quello dell’emarginazione e della miseria. Compagni, questa è già guerra: nel massacro quotidiano degli omicidi bianchi, nei rituali massacri di Pasqua e Ferragosto sulle autostrade a gloria della Fiat, nella nocività sociale degli inquinamenti, nella medicina che uccide, nelle forme che mettono in evidenza la natura della «civilizzazione» capitalistica. Operai, proletari, compagni, gli uomini di questo regime hanno l’ardire di bollare come attentato alla «civilizzazione», alla «solidarietà democratica», l’unica pratica razionale e legittima per gli operai e i proletari: la distruzione di questo stato di cose, il programma comunista, la forza organizzata, la volontà di dittatura operaia, la violenza proletaria. Pensate a quanto è ridicolo, e criminale, chi starnazza sui giovani proletari che lanciano una «molotov» contro una vetrina, e invece fa discorsi «ragionevoli», moderati sul fatto che 150.000 proletari possano sapere da un giorno all’altro di essere stati vietnamizzati, i campi distrutti col napalm, la merce prodotta dalla fatica della loro giornata lavorativa capace di sovvertire il codice genetico che presiede alla vita delle generazioni future. Di fronte a queste occasioni di presa di coscienza e di critica teorica e pratica appare chiaro che i proletari non hanno da perdere che le loro catene; che contro questo regime sociale, contro questa «civiltà» tutto è legittimo, che «una rapina in banca è niente a confronto della fondazione di una banca, che l’omicidio è niente di fronte al lavoro». Compagni proletari, alla dittatura capitalistica si può sfuggire. Oggi il comunismo è possibile e necessario, il comunismo è maturo. Questa chiarezza vive nella profondità e irreversibilità della crisi capitalistica, vive nell’unificazione delle masse proletarie attorno a una radicalità senza precedenti di bisogno, a un livello estremamente alto, di autonomia sociale, all’emergenza di un sistema di bisogni che muove il costituirsi del movimento proletario in una formidabile macchina desiderante. Questa maturità sta nella coscienza della nuova possibilità della ricchezza che vive nell’enorme sviluppo delle forze produttive, nella scienza, nella tecnica, nella cooperazione sociale, nell’intelligenza produttiva dell’individuo sociale proletario. Compagni, non esiste alcuna «oggettività» economica: si tratta puramente e semplicemente di una questione di rapporti di forza. Compagni, compagne, le misure che la classe operaia può e deve prendere di fronte all’avvelenamento di tutto il territorio-nord di Milano e ai riflessi di questo avvelenamento su tutta la città, sono altrettanto dure, altrettanto determinate e drastiche di quanto appare cinicamente determinato il programma capitalista di distruzione cosciente, di rischio calcolato del genocidio proletario. A migliaia, ogni anno, i proletari nelle fabbriche muoiono stritolati direttamente dalla macchina di produzione; nella zona-nord con in testa fabbriche come l’Icmesa, l’Acna, la Snia di Varedo e di Cesano la nocività per operaie e operai è tanto alta da essere di continuo mortale: ma oggi, oggi i padroni rendono organico il loro attentato alla vita dei proletari e rivolgono la loro produzione bellica non solo in lontani Vietnam, così ognuno si salva con la solidarietà a parole, ma direttamente qui, contro i proletari di qui. La nube tossica era in agguato da anni, da sempre, ogni giorno e ogni notte come da sempre forze altrettanto distruttive sono in agguato e possono scatenarsi con spaventosa potenzialità distruttiva.
La possibilità dell’incidente è una regola e nessun codice penale punisce la criminalità potenziale che c’è dietro il più piccolo atto, il più piccolo meccanismo dell’ingranaggio capitalistico. La «vietnamizzazione» di 150.000 proletari è normale: il capitalismo è una «fabbrica di lavoro sfruttato», una fabbrica di profitti; la caratteristica primaria del Tcdd è prima di tutto quella di essere una merce. La nube di Seveso, due chilogrammi e mezzo di diossina, dimostra nel rovescio che oggi non è più possibile non sapere, far finta di non sapere. Gli operai dell’Icmesa, i tecnici, sapevano e sanno che, cooptati con alti salari e stipendi, con lavoro nero e straordinario, nello sfruttamento operaio più bestiale, costruivano e producevano morte per sé e per altri. Il Consiglio di fabbrica lo sapeva e lo sapevano sia le cosiddette autorità locali, sia i sindacati provinciali. Oggi lo sanno tutti gli operai: la questione non è più ristretta al piccolo nucleo di operai dell’Icmesa né tanto meno alle cosiddette autorità né ai sindacati, questo è un problema di tutta la classe operaia! Compagni, lo Stato circonda con i cavalli di frisia e le sue truppe le zone avvelenate che si allargano sempre di più, i sindacati chiedono controlli e organizzazione dei servizi sanitari, «l’Unità» chiede controlli e, ancora una volta, il riconoscimento della morte come malattia professionale.
I sindacati democristiani che hanno da sempre dato carta bianca alle fabbriche della morte, e Comunione e liberazione, l’organizzazione integralista e corporativa che ancora ritiene di aver diritto di parola in zona proletaria, tentano in ogni modo (con la disinformazione, la demagogia e la manipolazione dei dati) di non essere travolti dalla reazione proletaria.
Comunione e liberazione propone, oggi, di difendere il «proprio focolare» ai proletari: un focolare di miseria, di sfruttamento, di sottomissione, di morte.
La Democrazia cristiana e le sue articolazioni cercano di portare a termine, come sempre, l’opera di distruzione del capitale, per ottenere assieme genocidio proletario e consenso proletario alla propria distruzione! Operai, proletari, la classe operaia deve rompere questo ghetto di paura, di ricatto, di impotenza. Il capitale, tanto più evidentemente criminale quando si applica alle produzioni di guerra, va colpito con ogni mezzo: la distruzione e il sabotaggio di queste produzioni è all’ordine del giorno!
La chiusura e il blocco di queste produzioni è all’ordine del giorno! Il problema dell’occupazione è altra cosa, su altra scala di fronte alla dimensione di tutto ciò! All’Icmesa, oggi, i dirigenti, i funzionari del capitale che in questo caso non solo hanno collaborato alla macchina dello sfruttamento e del dominio sui proletari, ma anche al funzionamento della macchina specifica di distruzione a fini di profitto, devono avere nella fabbrica un puro ruolo di ostaggi fintantoché il loro ordigno mostruoso non sarà stato disinnescato. La Roche va colpita in ogni sua dimensione produttiva, ispettori, medici e autorità locali conniventi vanno segnalati e interdetti con la stessa determinazione con cui scientemente ogni giorno attentano alla nostra vita. Per quanto riguarda il territorio nessuno può pensare di ricostruire le condizioni di vita e di lavoro preesistenti alla «nube».
Perché la vita degli operai dell’Icmesa e del nord-Milano era già ipotecata da un regime di distruzione.
Perché i lavoratori dell’Icmesa producevano ogni giorno la loro morte e la possibilità di morte per migliaia di proletari, perché a questo li costringeva la regola spietata del regime capitalista, la costrizione a vendere la forza-lavoro per vivere! Compagni, gli operai che lavorano all’Icmesa, coscienti o meno di ciò che producevano, hanno oggi la possibilità di riscattarsi da lunghi anni di bestiale sfruttamento e isolamento dal resto della classe operaia. Debbono guidare la battaglia senza quartiere all’apparato decisionale della Roche, debbono guidare la battaglia alla distruzione delle produzioni nocive nella zona, debbono guidare la battaglia per unire le piccole fabbriche produttrici di morte che in questa e in altre zone continuano a lavorare. Operai dell’Icmesa! Proletari! In questi anni la schiavitù del bisogno vi ha costretti a essere oggettivamente agenti di una delle più mostruose sezioni del capitale.
Oggi la vostra possibilità di riscatto passa per la scelta di aprire contro padroni, Roche, Stato delle multinazionali, una lotta senza quartiere. Non potete certo affidare la garanzia del vostro salario a una ripresa di queste produzioni di morte.
Non sono legittime soluzioni individuali o settoriali: è alla classe operaia, alla autorità sociale che deriva alle sue avanguardie comuniste dal ruolo che hanno svolto nelle lotte autonome operaie e proletarie che dovete riferirvi. Operai dell’Icmesa! Proletari. La classe operaia si assume tutto il problema: quello immediato delle case, del salario, delle donne e dei bambini colpiti, da subito.
La sezione italiana della classe operaia internazionale ha la forza e la maturità sufficiente per decretare – sul cammino dell’abbattimento del regime capitalistico e della costruzione di una nuova società – la fine delle produzioni che servono a organizzare la morte, il genocidio, la distruzione dei proletari.
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Studenti e composizione di classe

Roberta Tomassini (a cura di), Studenti e composizione di classe. Materiali e contributi, Edizioni aut-aut, Milano 1977
Qual è il ruolo dell’università e della formazione della forza lavoro nel processo di terziarizzazione e ristrutturazione dell’impresa?
In che misura la scuola è fonte di produttività occulta?
Cosa si intende per nuovi bisogni conoscitivi?
I materiali qui raccolti tentano una prima risposta, necessaria per interpretare in una logica marxista la composizione di classe degli studenti e le forme attuali di insubordinazione.
I contributi si riferiscono in particolare all’inchiesta condotta a Torino dal gruppo di Romano Alquati e alla ricerca effettuata a Ferrara sul lavoro nero.
Nulla da perdere n°1
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PER IL POTERE OPERAIO
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