Potere Operaio del lunedì n°47
Poter Operaio del lunedì n°48
Potere Operaio del lunedì n°77
ROSSO n. 13
giornale dentro il movimento
- Editoriale – Il ballo sindacale, la DC e la malattia mortale
- FIAT – Agnelli all’attacco della fortezza operaia: il sindacato gli fa da cavallo di Troia
- Fiat-Cassino – Quel provocatore di Agnelli
- Alfa Romeo – Un nuovo modo di fare le trattative
- Napoli – Ristrutturazione Italsider
- Roma – Enel gli operai rifiutano i distacchi
- Policlinico – La lotta rafforza l’autonomia operaia
- Marghera – Autoriduzione: un nuovo livello di pratica comunista ?
- Roma – Libertà per il compagno Daniele Pifano
- Movimento e carceri
- La repressione: una tigre di carta
- Bologna – Per un intervento comunista nella scuola
- Programma operaio e lotta degli studenti
- Milano – Sulla strada dell’autonomia
- Politica sessuale o mercificazione
- Bologna – Informazione e appropriazione
- Femminismo a scuola
- Italia: punto medio della rivoluzione operaia
- Appunti sulla fase politica
ROSSO n°1 ‑nuova serie-
giornale dentro il movimento
ROSSO n°3 ‑nuova serie-
giornale dentro il movimento
ROSSO n°4 ‑nuova serie-
giornale dentro il movimento
Resta in vigore il decreto operaio
Da ”Senza tregua’’
Compagne, compagni, nelle lotte della Carlo Erba e Carlo Erba Strumentazione di questi mesi c’è il segno profondo della svolta decisiva che sta prendendo lo scontro tra le classi in Italia.
Il bisogno di comunismo del proletario e la pratica del potere operaio si scontrano con la volontà feroce di parte capitalistica di schiacciare la classe operaia e proletaria, rubarle i frutti di anni di lotte, ributtarla – con l’attacco alle avanguardie rivoluzionarie, all’organizzazione autonoma, con la ristrutturazione, con i licenziamenti dirette e indiretti (giovani, donne ecc.) e con l’attacco al salario – nello sfruttamento degli anni più neri. Tutto questo è condizione per i padroni e per lo Stato per imporre un nuovo comando sulla classe operaia, sul proletariato; sono le condizioni per distruggere la nostra forza. Vi è poi un altro aspetto importante che è l’ideologia con cui si cerca continuamente di farci capire che sono giusti gli aumenti dei prezzi, la disoccupazione e che, se non sono giusti, sono giustificati, e che comunque bisogna stare buoni perché c’è la crisi e «dobbiamo salvare l’economia, la democrazia, le istituzioni democratiche». La democrazia ha voluto e vuol dire che i capitalisti comandano e si arricchiscono mentre per gli operai e i proletari significa obbedire, lavorare per loro ed essere sempre più sfruttati.
«Salvare l’economia» per noi vuol dire continuare a vendere le nostre teste, le nostre braccia, la salute, la vita per tirarci fuori da vivere, mentre la ricchezza da noi prodotta ci viene estorta. Le «istituzioni democratiche» servono a garantire il regime sociale dello sfruttamento. La polizia, i corpi separati dello Stato servono a difendere le «istituzioni democratiche» mantenendo l’ordine pubblico e cioè, l’ordine dello sfruttamento, dei privilegi, delle ingiustizie. È a partire da questo dibattito, dalla verifica concreta nei reparti e più in generale, che si sviluppa la lotta, che prosegue durante e dopo il contratto. È a partire dalle esigenze concrete che la lotta pone giorno per giorno, che nasce e si sviluppa l’organizzazione autonoma degli operai che vedono nella pratica del potere l’unica possibilità di difendere le loro condizioni, la loro forza, unica garanzia per la prospettiva, in contrapposizione al potere padronale e alla linea delle organizzazioni sindacali e dei Consigli di fabbrica che svendono continuamente interessi, lotta, forza della classe operaia e proletaria tentando di far credere alla possibilità di uno sbocco positivo, per noi, all’interno di questo sistema. È questa nuova coscienza che porta i compagni e settori sempre più consistenti di operai a far diventare il reparto il luogo privilegialo del dibattito, delle decisioni politiche, dell’iniziativa, della lotta. Così partono i primi cortei serali contro lo straordinario di capi e dirigenti; si apre lo scontro con la direzione aziendale e con i lavoratori interessati contro il lavoro a domicilio, contro il decentramento produttivo (un altro modo per distruggere la forza), contro la scelta individuale di uscire dalla crisi, contro il ricatto alla lotta.
Il dibattito prosegue su inflazione-salario e si comincia a lottare contro le categorie, non più viste in termini di chi è più bravo a lavorare, ma per chi non accetta di farsi sfruttare ed è contro i privilegi e le divisioni. Non si parla più di professionalità, di anni di anzianità, ma si chiede la riduzione drastica delle categorie per aumentare i salari soprattutto per chi prende meno ed è sempre stato discriminato dagli altri. Insieme a questo, il rifiuto ai trasferimenti interni che non siano stati decisi collettivamente dagli operai. Su questo punto è importante sottolineare l’iniziativa diretta delle compagne di alcuni uffici che in modo organizzato sono state le prime a opporsi agli spostamenti, e che oggi – in testa alle lotte – stanno discutendo e organizzandosi su tutta la loro condizione, di donne e di salariate. Su queste iniziative, la direzione, con in testa alcuni capi (Guarneri, Di Pietro e altri), comincia a farsi viva in difesa dello sfruttamento e del comando politico in fabbrica. La lotta per il contratto, vuota fin dall’inizio con gli operai estranei alla lotta (permessi, ferie, durante gli scioperi si gioca a carte), comincia a prendere senso e trova i compagni pronti, insieme a 250 operai circa, a rispondere al decretone del governo Dc con un blocco stradale. All’ufficio tecnico, reparto dello stabilimento, viene espulso il capo officina Daidone che evitava sempre gli scioperi e derideva gli operai incazzati per l’aumento del prezzo della benzina.
Altre fermate autonome contro i capi vengono fatte anche in altri reparti. Viene spazzato via il tentativo da parte di alcuni capi (Salvi ed altri) di organizzare il crumiraggio. La lotta è politica, di questo è cosciente la parte più attiva della fabbrica. Non si tratta di «contratto» ma di potere. Al potere capitalista si contrappone il potere operaio; al comando capitalista si contrappone il comando, l’egemonia dell’organizzazione autonoma. Le manovre della direzione diventano sempre più chiare.
Attaccare direttamente i compagni diventa l’obiettivo centrale. Cercare di far apparire «illegali» al resto della fabbrica i comportamenti autonomi degli operai fa parte di questo piano (criminalizzare l’autonomia).
In questo senso il padrone utilizza i capi, delegati, «lavoratori» che si prestano a questo gioco. Poletti Piero denuncia più volte alla direzione lavoratori, compagni e compagne, per attività politica in fabbrica.
Viene processato in assemblea e revocato da delegato da tutta l’assemblea. Difendere l’organizzazione e la forza è per noi importante. Anche più in generale lo scontro tra le classi si alza di livello.
L’inflazione aumenta in modo vertiginoso, si chiariscono sempre di più i termini della crisi, la mancanza di prospettiva degli operai all’interno del sistema capitalista, le provocazioni padronali portano gli operai a decidere forme di lotta più dure. Il blocco delle merci: la partecipazione degli operai è attiva insieme alla volontà di scontro. Per la linea sindacale il blocco delle merci è la spallata per la firma del contratto.
Per i compagni è un momento di organizzazione del potere decisionale degli operai, della loro forza, della loro capacità di imporsi sul comando gerarchico della fabbrica, sulle forze produttive per andare avanti. Questo non piace alla Ces che lascia spazio alle provocazioni e gli dà una copertura politica. È di nuovo Poletti che, insieme a Casetta Roberto (tecnico assunto da due mesi), decide premeditatamente di investire i compagni sul cancello della fabbrica con una Volvo targata MI E74423. La risposta è immediata. Cinquecento operai circa, capita la gravità della provocazione, decretano l’espulsione dalla fabbrica dei due provocatori (Poletti viene allontanato immediatamente da un corteo) e con essa cresce la coscienza della propria forza che si manifesta alcuni giorni dopo quando è Casetta a ripresentarsi in fabbrica chiamato dalla direzione. Lo sciopero è di nuovo autonomo e immediato. Impossessandosi dell’interfono viene esteso a tutta la fabbrica, e Casetta viene ricacciato fuori. Alcuni giorni prima era stata di nuovo la direzione a chiamare i carabinieri – zelanti e armati per difendere i padroni – per far portar fuori un pacchetto dalla fabbrica. La cellula del Pci esce con un cartello che sui fatti accaduti dice testualmente: «[…] ma se dura è la condanna contro questi due provocatori, ancor più dura deve essere la condanna contro chi all’interno della Ces opera una politica di divisione».
In sostanza, se questi due devono essere allontanati, i compagni devono essere licenziati, perché essere in testa alle lotte per la cellula del Pci vuol dire dividere il movimento. Questi comportamenti del Pci e del Psi non sono nuovi e sono il frutto di una linea di cedimento e di organica collaborazione con la riorganizzazione padronale espressa nelle lotte di questi anni. L’iniziativa del sindacato provinciale e di zona – insieme al Pci e Psi di fabbrica – di far cambiare idea agli operai circa l’espulsione di questi due viene battuta di nuovo (il sindacato è costretto ad allinearsi), ed è di nuovo l’organizzazione autonoma a muoversi direttamente dal reparto per smascherare questo piano. Viene così riconfermata la decisione presa. Non c’è posto per provocatori e fascisti in fabbrica e nel territorio proletario. Lo scontro fra le due linee anche alcuni giorni prima – quando i compagni del magazzino generale e del Ces avevano portato in fabbrica e in mensa a mangiare (prezzo politico) i lavoratori della «Simind» che erano stati licenziati con manovre losche e che stavano presidiando il cantiere interno alla fabbrica – e poi ancora durante l’assemblea per l’approvazione del contratto. L’assemblea dicendo no all’accordo del contratto ha ribadito che in questa fase non vi sono possibilità di accordo con i padroni. Non esiste una soluzione di compromesso, ma solo potere contro potere, forza contro forza. Per noi quindi si tratta di smascherare e colpire dentro le fabbriche, nel territorio, nel paese, le forze del capitale e chi è contro la prospettiva di potere della classe operaia e proletaria, contro la sua emancipazione, contro il suo bisogno di comunismo. Su questa strada, lunga e difficile, andiamo avanti oggi con la consapevolezza che la forza che abbiamo, quella che costruiremo sono l’elemento centrale da difendere per garantirci la prospettiva di liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato. Sulla questione del «decreto operaio» di espulsione di Poletti e Casetta, l’azienda ha giocato una pesante manovra intimidatoria, annunciando licenziamenti di avanguardie riconosciute, in gran parte del Comitato operaio comunista. Nonostante il pronunciamento contrario dei compagni interessati, il voto contrario di una cinquantina di operai e la volontà – riaffermata dalla stragrande maggioranza dell’assemblea – di non rimangiarsi il decreto (anche se parecchi operai hanno assunto una posizione elastica dichiarando esplicitamente che la ragione di questo è la volontà di tutelare a ogni costo e prima di tutto i sei compagni) – il sindacato ha raggiunto un accordo col padrone garantendo la «normalizzazione» delle tensione in fabbrica e il conseguente rientro (dopo il 15 luglio) dei due figuri antioperai. Vedremo come la prova di forza si svilupperà: il problema non è la giornata del 15, il «decreto o premio» resta valido e gli operai sapranno comunque imporre il rispetto.
Il processo operaio, oggi
Da «SENZA TREGUA giornale degli operai comunisti», speciale
«Organizzazione del lavoro! Ma il lavoro salariato è l’attuale organizzazione borghese del lavoro. Senza di esso non vi è capitale, né borghesia, né società borghese.
Un proprio ministero del lavoro! Ma i ministeri delle finanze, del commercio, dei lavori pubblici, non sono forse ministeri borghesi del lavoro?… », alla citazione dal Marx del ’48 possiamo oggi aggiungere: «Un Tribunale, una Pretura, una Giustizia del lavoro? Ma non si tratta della giustizia borghese sul comportamento proletario, sulla lotta dell’operaio, sui movimenti della classe operaia, già di per sé criminale, già di per sé irriducibilmente antagonista, di fatto violenta ed eversiva per la giustizia borghese?». E davanti al Tribunale del lavoro di Milano si presentano il 15 luglio, alle ore 16, gli operai che la Magneti Marelli-Fiat vuole licenziare da un anno, ma che da un anno sono ogni giorno presenti al loro posto di lotta, dentro la fabbrica.
Sia la prima scadenza processuale (il pretore Bonavitacola davanti a 400 operai emette sentenza favorevole al padrone), sia la seconda scadenza (il pretore Muntoni riammette in fabbrica gli operai che però già ci vanno), sia questo appello di oggi hanno riaperto la questione del processo operaio, cioè la questione della presenza degli operai in Palazzo dì Giustizia. La legge-Brodolini – la legge n. 300 subito battezzata «statuto dei lavoratori» – fu la sanzione della presenza nella fabbrica di un sindacato rifondato e che aveva retto l’urto del movimento; quella sanzione di una prospettiva accettata dalla borghesia in cui la lotta salariale viene assunta nella sua funzione di stimolo e di dinamismo del sistema; ma fu la traccia su cui lavorare per la stabilizzazione della lotta, per il controllo della conflittualità e lo scarico delle tensioni quotidiane di classe dentro i tempi lunghi della procedura giudiziaria, fuori della fabbrica e della trattativa diretta, dentro il Palazzo di Giustizia, dentro la regolamentazione di una legge dello Stato, dentro l’immagine di uno Stato intermediario «inter partes».
In questo senso si caratterizzò da subito come «un’arma a doppio taglio»: ratifica di un alto potere sociale, rivendicativo di classe (l’operaio come rigidità nella fabbrica e come domanda di beni nella società) nella fase alta del ciclo economico; e «l’ammortizzatore» delle tensioni nella fase di crisi e di contrattacco capitalistico. Una sorta di meccanismo «a due tempi», capace di usare la stessa apparenza di «imparzialità» e la credibilità, la legittimazione che si guadagna negli anni delle «vacche grasse», per legittimare il suo funzionamento apertamente antioperaio quando questa è la committenza che l’interesse capitalistico gli dà. Uno dei classici strumenti di interpretazione dell’«interesse generale» di parte capitalistica, legato alla realizzazione del profitto medio, è dunque a volte contraddittorio con l’interesse del singolo capitalista, «a maggior gloria» delle regole generali dell’accumulazione. Come strumento antioperaio, ha funzionato come un meccanismo a molla: ogni sentenza favorevole agli operai ha avuto anche l’effetto di caricarla, per preparare il contraccolpo antioperaio. Poco importa qui notare come per mesi e per più di una occasione la «legge 300» ha rappresentato una sanzione positiva di un movimento di lotta che si era dispiegato per due anni come generale, che aveva profondamente segnato la pratica sindacale senza poter ribaltare la natura del sindacato.
Questo movimento aveva costituito un polo di attrazione per una serie di Pretori democratici, che aveva fatto emergere una serie di volenterosi avvocati riuniti in comitati e collettivi. Queste varianti tattiche non mutano la questione di fondo, la funzione strategica della legge, e, prima di tutto, il più organico telaio e disegno politico in cui la legge si inscrive, e che alla fine ha prevalso. Poco importa anche notare qui gli infiniti errori e le numerose illusioni che sono state coltivate attorno al cosiddetto «statuto» (e sottolineare come la sua introduzione in settori a sindacalismo arretrato sia stata negata sia dallo Stato, sia dall’istituto sindacale previa futura omogeneità e controllo da raggiungersi – la scuola è l’esempio più vistoso di questa separazione).
Tutto quanto era in sospetto, oggi – in una fase di chiarificazione massima delle parti e di antagonismi espliciti – viene in chiaro. In chiaro la tenuta dei «Pretori democratici», in chiaro lo schieramento degli avvocati sotto e fuori della tutela sindacale, in chiaro anche il trionfalismo e l’illusione di numerose avanguardie. La «legge 300» è il frutto di una convenzione di comportamenti tra padronato e istituto sindacale fondata sull’ipotesi (interclassista) e la pratica (repressiva) che – stante una laboriosità crescente, una accettazione incondizionata della disciplina e gerarchia produttiva del «prestatore d’opera» – sia eliminabile la sanzione minima e massima da parte del padrone; e che comunque si tratti sempre di vertenze componibili, di un danno che si risolve con il risarcimento.
La realtà va in un altro modo, vi è rifiuto del lavoro salariato e non crescente laboriosità; vi è attacco crescente alle gerarchie di fabbrica e non accettazione del codice disciplinare; di prestatore d’opera non si tratta ma di classe operaia cosciente; di vertenza componibile non si parla ma di un conflitto radicale, crescente, che assume spesso le forme massime del conflitto di classe: niente di tutto questo può essere risarcito in nessun modo; gli operai rivoluzionari non si vendono e non vendono la lotta, il lavoro politico fatto e da fare – e non per moralismo ma per calcolo materiale (i tempi della corruzione delle avanguardie – pensiamo ad alcuni vecchi episodi dell’Alfa – appartengono a un referente operaio tradizionale, storicamente datato, improvvisato e con una sua funzione tanto momentanea quanto spontaneo era il movimento di reparto e di fabbrica da essi guidato).
Gli operai che oggi guidano queste lotte di fondo dentro la fabbrica o sono mutati radicalmente rispetto alle origini di movimento, o sono referente operaio giovane caratterizzato dalla nuova qualità della lotta, dalla nuova funzione dell’avanguardia non più legata all’immediatismo (e allo spazio immediato) della lotta sindacale ed economica, ma al progetto strategico della rivoluzione.
C’è insieme – nella stretta della crisi – una vera e propria caduta della possibile, ipotizzabile, tradizionale, funzione di parziale redistribuzione di plus-valore che il sindacato a vicende storiche alterne assume nella sua funzione di istituto interno al sistema. La lotta salariale operaia, la lotta operaia e proletaria sul reddito, non ha più dunque una rappresentatività legale stabile: o si muove in modo indiscriminato e selvaggio (e perché no, anche corporativo), o è assunta nella rappresentatività reale di organismi stabili, prima di tutto cresciuti sulla discriminante politica, risultato delle prime esigenze politiche di una classe operaia che si pone il problema di come «fuoriuscire dal sistema» prima fuoriuscendo dalle scadenze, dalle scansioni (contratti, vertenze, compatibilità, professionalità, qualificazione, disciplina, esame, proprietà, legge, Stato ecc.) con cui si regolamenta complessivamente l’accumulazione capitalistica, il dominio sociale borghese sui mezzi di produzione.
Questi contenuti della lotta fanno esplodere l’idillio delle posizioni e il gioco delle parti nel processo operaio.
La «legge 300» è sempre di più uno straccio, il carattere inesorabile – anche nel futile dettaglio di uno o due licenziamenti – della natura di classe della giustizia si afferma, con la solita apparente ottusità, che è invece lucida, feroce determinazione di fondo.
L’andirivieni pretorile viene bloccato dai giudici di Tribunale che tagliano corto bruscamente con la farsa esistenziale della Pretura e affermano la loro natura di funzionari diretti del padronato nelle sue articolazioni regionali e cittadine (qui a Milano, l’Assolombarda). Reggono bene anche all’insulto: i cordoni degli armigeri di Stato li tutelano dalle resse e dagli assembramenti processuali operai – quando ci sono -; non rimarrebbe che distruggerli. Nel cuore dello Stato, il funzionario sindacale che ha condotto in fabbrica la parte della repressione interna al movimento, che ha gestito la sottrazione della lotta al suo «habitat» tradizionale non è più che quello che Gramsci (pardon) chiamava l’intellettuale di tipo rurale: « …sono in gran parte “tradizionali”; (…) questo tipo di intellettuale mette a contatto la massa contadina con l’amministrazione statale e per questa stessa funzione ha una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica.
Inoltre: nella campagna l’intellettuale ha un medio tenore di vita superiore o almeno diverso da quello del medio contadino… ». Se la forza organizzata che questo «nuovo intellettuale in veste vulgata del capitale» rappresenta è stata distrutta nella lotta in fabbrica, anche la sua ideologia sarà ridotta a carta straccia e la sua mediazione non varrà che una autoconvinzione. Questo «intellettuale» è stato distrutto nella vicenda Magneti-operai licenziati, perché già prima la sua rappresentatività era stata distrutta nel reparto e nella fabbrica. Ma nel cuore dello Stato gli operai rivoluzionari vedono tendersi al massimo la lotta, la loro capacità di organizzazione autonoma, la loro capacità di sollecitare una nuova intelligenza antagonista nella classe.
Il processo operaio rompe i veli delle precedenti mistificazioni, fuoriesce dai tentativi di governo legale dello scontro di classe immiserendoli di colpo, mette da parte il vecchio mediatore sindacale e si presenta di fronte al giudice come a un nemico giurato, dispiegando tutta la sua forza. Del Tribunale del lavoro i padroni hanno cercato di fare un istituto secondario che minimizzasse lo scontro di classe.
La classe operaia ha invece tutto l’interesse a riportarlo alla dimensione reale di vero e proprio Tribunale politico anti-operaio, dove si ricostruisce processo dopo processo una ideologia padronale e gerarchica saldata a dure sanzioni, a sentenze una dopo l’altra negative che chiudono mesi ed anni di illusione forense dell’operaio di fabbrica. Stanare questi lupi è compito degli operai rivoluzionari, scardinare l’ordine di Palazzo di Giustizia presentandosi non come a una scadenza secondaria, ma come a una scadenza politica.
Sappiamo tutti quanto di determinato, quanta volontà politica di distruzione della classe vi è nel procedere «obiettivo ed economico» della ristrutturazione, della cassa integrazione, del licenziamento; abbiamo qui, nel licenziamento politico e nelle sue istanze celebrative, il «passo più avanti» che possiamo fare non da soli contro lo Stato, ma con profonde motivazioni dentro la lotta operaia più vasta. Il Tribunale del lavoro niente altro è che il Tribunale delle sanzioni contro l’indisciplina e la ribellione operaia quotidiana al lavoro salariato; qui si chiude anche la «libertà di sciopero» costituzionale, qui si tenta la perfezione della gestione collegiale padroni-sindacato dello sfruttamento operaio; fuori delle emozioni sessantottesche e dentro la radicalizzazione crescente delle lotte, le istanze prendono le giuste dimensioni.
Alla sanzione del licenziamento padronale si aggiunge la definizione criminale della lotta, si celebra la riprovazione dello Stato, si schiaccia l’operaio alla dimensione di cittadino qualsiasi che ha violato le leggi della comune convivenza. È tutto questo che stiamo lavorando a distruggere con la presenza operaia in Palazzo di Giustizia, è compito dei rivoluzionari farlo, è questa – dopo la crisi coniugale con la «doppia amministrazione», la «pretura dei lavoratori» e lo «statuto dei lavoratori» del movimento, delle avanguardie, degli avvocati – la strada da prendere. Anche in questo senso ha agito la lotta degli operai Magneti, anche questo porta la battaglia contro il licenziamento dei 4 compagni che – lo ripetiamo – usciranno dalla fabbrica quando lo decideremo noi.