Filtra per Categoria
Autonomia Bolognese
Autonomie del Meridione
Fondo DeriveApprodi
Collettivi Politici Veneti
Autonomia Toscana
Blog

Lucio Castellano

AUTOVALORIZZAZIONE E NUOVI SOGGETTI

Le tema­ti­che dei «nuo­vi biso­gni», dell’«operaio socia­le», dell’«autovalorizzazione», che sono il pun­to di appro­do dell’«autonomia», sono lo svi­lup­po linea­re di que­sto approc­cio.
Il diva­rio tra pro­du­zio­ne di capi­ta­le e orga­niz­za­zio­ne socia­le si è appro­fon­di­ti fino a far cor­ri­spon­de­re ad un indi­vi­duo socia­le ric­co di capa­ci­tà, infor­ma­zio­ni, cono­scen­ze, biso­gni, desi­de­ri, una pro­du­zio­ne pove­ra che rie­sce ad orga­niz­za­re non solo una par­te cre­scen­te­men­te ridot­ta del suo tem­po, ma quel­la par­te di esso che è più mise­ra e vuo­ta, insie­me, del­le cose che si cono­sco­no e di quel­le che si desi­de­ra­no.
Una pro­du­zio­ne che costi­tui­sce solo una par­te del­le inter­re­la­zio­ni socia­li di chi vi par­te­ci­pa, che è un fram­men­to e non la sin­te­si di tut­ta la coo­pe­ra­zio­ne socia­le; soprat­tut­to, una pro­du­zio­ne che tale coo­pe­ra­zio­ne, nel suo insie­me, non rie­sce più a coman­da­re ed ordi­na­re.

La cir­co­la­zio­ne dei ruo­li e del­le cono­scen­ze in modo cre­scen­te e rile­van­te non si ordi­na più secon­do i cri­te­ri del lavo­ro pro­dut­ti­vo di capi­ta­le, secon­do le rego­le del­la pre­sta­zio­ne di lavo­ro.
Que­ste rego­le coman­da­no una quan­ti­tà di risor­se che non è più suf­fi­cien­te ad ordi­na­re l’insieme del­la ripro­du­zio­ne socia­le, i pun­ti di disper­sio­ne e disor­di­ne rispet­to ad essa si sono mol­ti­pli­ca­ti a dismi­su­ra e già si intra­ve­do­no i pri­mi, eva­ne­scen­ti segni di un pos­si­bi­le diver­so prin­ci­pio ordi­na­to­re: valo­re d’uso con­tro valo­re di scam­bio, con­cre­tez­za dei biso­gni dell’«individuo socia­le ric­co» che si con­trap­po­ne all’universo seria­le, capa­ce solo di deter­mi­na­zio­ne quan­ti­ta­ti­va, dal biso­gno ripro­dut­ti­vo del­la for­za-lavo­ro, al biso­gno astrat­to del­la «neces­si­tà», del­la «scar­si­tà natu­ra­le».
Non è più sol­tan­to sala­rio con­tro pro­fit­to, cioè l’autonomia di inte­res­si con­trap­po­sti nell’unità di un mec­ca­ni­smo socia­le, ma l’individuazione di una con­trap­po­si­zio­ne pos­si­bi­le tra due modi di pro­du­zio­ne, due uni­ver­si di rap­por­ti socia­li. Ciò che defi­ni­sce il pas­sag­gio dal­la pri­ma arti­co­la­zio­ne del discor­so – quel­la sala­ria­le – alla secon­da – il «movi­men­to del valo­re d’uso» –, è in defi­ni­ti­va la cri­si del con­cet­to di svi­lup­po: che è la capa­ci­tà di sin­te­si capi­ta­li­sta del­la dua­li­tà di pote­ri che vivo­no nel modo di pro­du­zio­ne.
Da que­sto pun­to di vista, la lun­ga alter­nan­za di cri­si e sta­gna­zio­ne che si apre con gli anni ’70, in Ita­lia e in tut­to l’Occidente, appa­re all’autonomia come inca­pa­ci­tà dell’interesse di par­te capi­ta­li­sta ad esse­re sin­te­si di tut­ta la orga­niz­za­zio­ne, comu­ni­ca­zio­ne, cono­scen­za socia­le; come inca­pa­ci­tà di orga­niz­za­re den­tro il tem­po di lavo­ro tut­te le risor­se socia­li e die­tro la gerar­chia che lo coman­da tut­to il tem­po socia­le.
È come dire che la sin­te­si pro­dut­ti­va e poli­ti­ca che il rap­por­to di capi­ta­le offre appa­re pove­ra a fron­te del­la ric­chez­za cre­scen­te del tes­su­to socia­le che si costrui­sce attor­no alle lot­te; attor­no a que­sto vie­ne a gra­vi­ta­re una quan­ti­tà estre­ma­men­te ele­va­ta di risor­se pro­dut­ti­ve in ter­mi­ni di capa­ci­tà di coo­pe­ra­zio­ne socia­le, scam­bio ed ela­bo­ra­zio­ne di infor­ma­zio­ni e cono­scen­ze, coman­do sul tem­po socia­le.

La comu­ni­ca­zio­ne socia­le appa­re allar­gar­si a dismi­su­ra, svin­co­lan­do­si in lar­ga par­te dal prin­ci­pio di pre­sta­zio­ne che rego­la il rap­por­to di sala­rio, e que­sto non è più capa­ce di coman­da­re in modo pie­no la gerar­chia socia­le: una quo­ta cre­scen­te del­la ric­chez­za socia­le è inchio­da­ta a finan­zia­re, attra­ver­so le più diver­se for­me di assi­sten­za, non la pre­sta­zio­ne lavo­ra­ti­va ma la rigi­di­tà rispet­to ad essa e il suo rifiu­to, con­tem­po­ra­nea­men­te ren­den­do social­men­te irri­le­van­te, non mar­gi­na­liz­zan­te, la esclu­sio­ne da essa.
D’altro can­to, la fab­bri­ca non coman­da più, attra­ver­so il mer­ca­to del lavo­ro, l’insieme dei com­por­ta­men­ti socia­li, e la coo­pe­ra­zio­ne socia­le appa­re più lar­ga e ric­ca di quel­la che ani­ma il lavo­ro pro­dut­ti­vo di capi­ta­le: grup­pi socia­li in lar­ga misu­ra espul­si dal rap­por­to di lavo­ro, i gio­va­ni e le don­ne, con­qui­sta­no for­za di espres­sio­ne e pote­re socia­le, e men­tre il tem­po di lavo­ro di ognu­no non solo vie­ne sog­get­ti­va­men­te vis­su­to come espro­pria­zio­ne di vita, come con­dan­na e mise­ria, ma ogget­ti­va­men­te si svuo­ta di cono­scen­za e for­za crea­ti­va, il tem­po libe­ro in misu­ra cre­scen­te ces­sa di esse­re il tem­po subal­ter­no del­la ripro­du­zio­ne del­la for­za-lavo­ro per dive­ni­re tem­po ric­co di scam­bi e rela­zio­ni socia­li, capa­ce di comu­ni­ca­zio­ne, ela­bo­ra­zio­ne, coor­di­na­men­to, deten­to­re di risor­se ingen­ti e cono­scen­ze; insom­ma, una for­za pro­dut­ti­va, che non è ugua­le al lavo­ro, ha un regi­me socia­le più lar­go, è atti­va­men­te abi­ta­ta dal­la lot­ta con­tro il lavo­ro.
Tut­to que­sto tes­su­to di fat­ti nuo­vi, que­sta modi­fi­ca­zio­ne pro­fon­da inter­ve­nu­ta nel modo di pro­du­zio­ne, è even­to poten­te, non emar­gi­na­bi­le.
A sua vol­ta però non è capa­ce di esse­re uni­vo­ca­men­te for­za di una sin­te­si alter­na­ti­va: trop­pe cose non sa maneg­gia­re, trop­pe risor­se gli sfug­go­no, anche se non è vero che ha quel pes­si­mo rap­por­to con la tec­no­lo­gia che si dice, ed anche se sul ter­re­no del­la pro­du­zio­ne è comin­cia­to ad entra­re non più solo come resi­sten­za e sabo­tag­gio ma anche come for­za crea­ti­va.

È un discor­so sul­la tran­si­zio­ne, sul­la migra­zio­ne di mas­sa dal lavo­ro pro­dut­ti­vo di capi­ta­le, e sui suoi pos­si­bi­li esi­ti.
In sostan­za, rispet­to alle rot­tu­re ope­ra­te dall’operaismo sul cor­pus teo­ri­co del mar­xi­smo-leni­ni­smo, l’esperienza «auto­no­ma» aggiun­ge una con­ce­zio­ne del­la cri­si che non è più quel­la del «col­las­so socia­le», dell’esplosione del­la inca­pa­ci­tà di fon­do del capi­ta­le di far fron­te alle esi­gen­ze socia­li, ben­sì quel­la del­la esplo­sio­ne di rela­zio­ni socia­li, trop­po ric­che per esse­re ricon­dot­te al rap­por­to di capi­ta­le, quel­la dei limi­ti del coman­do di capi­ta­le su tut­ta la socie­tà: non il cre­sce­re del­la mise­ria, ma del movi­men­to di eman­ci­pa­zio­ne, sta alla base del «biso­gno di comu­ni­smo».
Come dire, il con­tra­rio di una teo­ria del­la cata­stro­fe: alla base di tut­to ci si accor­ge che c’è la rile­va­zio­ne del­la ina­de­gua­tez­za, del­la pover­tà, dei rap­por­ti di pote­re pre­sen­ti a fron­te del­la ric­chez­za del­le rela­zio­ni socia­li che si sono svi­lup­pa­te e sono operanti.

IL RAPPORTO CON LE ISTITUZIONI NELLA STORIA DELL’AUTONOMIA

Den­tro que­sta for­ma del muta­men­to socia­le, den­tro que­sto pro­ble­ma del pas­sag­gio di pote­ri dal lavo­ro al non lavo­ro, la que­stio­ne del pote­re sta­ta­le si pone sem­pre in ter­mi­ni di con­trat­ta­zio­ne, mai di «occu­pa­zio­ne» o sosti­tu­zio­ne. Nel­la sto­ria del­l’au­to­no­mia ciò vuol dire che esso si pre­sen­ta sem­pre in ter­mi­ni di «tat­ti­ca», mai di «stra­te­gia», e che dif­fi­cil­men­te si pre­sta ad esse­re il luo­go cen­tra­le del­l’i­den­ti­tà poli­ti­ca.

È pro­ble­ma tat­ti­co, di rimo­zio­ne del­le resi­sten­ze, non stra­te­gi­co, di costru­zio­ne del mec­ca­ni­smo di gui­da del pro­ces­so.
Pro­ble­ma «tat­ti­co» in sen­so for­te nel­la pri­ma fase del movi­men­ti, fino allo scio­gli­men­to di Pote­re ope­ra­io; «tat­ti­co» in sen­so debo­le nel­la secon­da fase, quel­la dell’area dal­l’au­to­no­mia pro­pria­men­te det­ta.
«In sen­so for­te» vuoi dire capa­ce di espri­me­re una iden­ti­tà poli­ti­ca e orga­niz­za­ti­va com­ples­sa, un pro­get­to di par­ti­to: al movi­men­to la stra­te­gia, il comu­ni­smo, al par­ti­to la tat­ti­ca, la rimo­zio­ne degli osta­co­li, la capa­ci­tà di rot­tu­ra.
Come dire, Pote­re ope­ra­io, il «par­ti­to dell’insurrezione».
Dove insur­re­zio­ne non è pro­get­to di pote­re poli­ti­co — nè «tut­to il pote­re ai soviet» né «gover­no ope­ra­io» — ma ricom­po­si­zio­ne del movi­men­to, rot­tu­ra del con­trol­lo poli­ti­co-socia­le attor­no alla for­za uni­fi­can­te di alcu­ne paro­le d’or­di­ne, come «sala­rio garan­ti­to», capa­ci di coa­gu­la­re in un pun­to le ener­gie per met­te­re un cuneo, far arre­tra­re le isti­tu­zio­ni, allar­ga­re gli spa­zi del movi­men­to.

Uni­fi­ca­re il movi­men­to, scar­di­na­re il con­trol­lo, que­sto il pro­ble­ma. E il con­trol­lo non è mili­ta­re se non in ulti­ma istan­za: non è que­stio­ne di guer­ra ma di diso­mo­ge­nei­tà nel­la com­po­si­zio­ne di clas­se, di pun­ti for­ti e debo­li, di con­trad­di­zio­ni, e del­la pos­si­bi­li­tà di tro­va­re quel mini­mo comu­ne deno­mi­na­to­re che fun­zio­ni da maglio e per­met­ta che la cre­sci­ta ripren­da a un livel­lo più avan­za­to.
Non è la pre­sa del pote­re ma la rot­tu­ra degli argi­ni.
Ma c’è un’en­fa­si, un’an­sia, una for­za­tu­ra che non tro­va­no riscon­tro.
Enfa­si sul­la for­za degli argi­ni, ansia sul­la tenu­ta del movi­men­to, for­za­tu­ra sul carat­te­re neces­sa­ria­men­te fron­ta­le del­lo scon­tro: il bloc­co del­le lot­te, la disar­ti­co­la­zio­ne di clas­se, il riflus­so di fron­te alla ristrut­tu­ra­zio­ne appa­ri­va­no i pun­ti di rife­ri­men­to obbli­ga­ti del discor­so sul­la rot­tu­ra.

Nel­la real­tà gli argi­ni sono sta­ti tut­ti aggi­ra­ti, a un costo bas­so, e la cri­si eco­no­mi­ca ha sapu­to misu­ra­re non tan­to la viru­len­za del con­trat­tac­co capi­ta­li­sti­co quan­to la ampiez­za degli spa­zi con­qui­sta­ti dal movi­men­to.
Il movi­men­to del rifiu­to del lavo­ro non ha assal­ta­to la socie­tà poli­ti­ca, si è mes­so a girar­le attor­no, con­fer­man­do tut­ti gli stru­men­ti di gover­no ma ponen­do vin­co­li cre­scen­ti alla loro selet­ti­vi­tà, impe­gnan­do una lar­ga fet­ta di ric­chez­za a paga­re in modo indif­fe­ren­zia­to il con­sen­so tri­bui­to: nel­la sostan­za, ha anti­ci­pa­to e caval­ca­to la ristrut­tu­ra­zio­ne capi­ta­li­sta pie­gan­do­la al rispet­to del­la pro­pria uni­tà, ren­den­do­la con­trad­dit­to­ria, ero­den­do­ne la capa­ci­tà di coman­do socia­le ed allar­gan­do i pro­pri spa­zi di pote­re e gestio­ne.
La rigi­di­tà del­le isti­tu­zio­ni è sta­ta mas­si­ma sul pia­no for­ma­le, al pun­to da impe­di­re qual­sia­si for­ma di rap­pre­sen­ta­zio­ne poli­ti­ca del muta­men­to, da rimuo­ve­re per­fi­no il pro­ble­ma del­la sua legit­ti­mi­tà, ma que­sta ope­ra­zio­ne ha avu­to un cor­ri­spet­ti­vo pesan­te in ter­mi­ni di fra­gi­li­tà sostan­zia­le, di per­di­ta sec­ca di capa­ci­tà di governo.In que­sto slit­ta­men­to dei pia­ni del con­fron­to è nau­fra­ga­to il pro­get­to poli­ti­co di Pote­re ope­ra­io; nel ’73 esplo­de la sua cri­si.
L’u­ni­fi­ca­zio­ne «tat­ti­ca» che esso pro­po­ne appa­re ridut­ti­va di fron­te alla mol­te­pli­ci­tà dei livel­li di scon­tro che si sono aper­ti, dei lin­guag­gi che il movi­men­to pra­ti­ca, degli spa­zi di cre­sci­ta agi­bi­li da par­te di una ric­chez­za di sog­get­ti socia­li la cui iden­ti­tà col­let­ti­va è com­ples­sa, non ridu­ci­bi­le ad una « uni­tà » di bre­ve momen­to.

La rap­pre­sen­ta­zio­ne gene­ra­le del movi­men­to in una sem­pli­ce chia­ve anti­sti­tu­zio­na­le appa­re insie­me impos­si­bi­le e non neces­sa­ria, una for­za­tu­ra estre­mi­sta.
Su que­ste basi Pote­re ope­ra­io si scioglie.La pro­spet­ti­va aper­ta a que­sto pun­to, per l’au­to­no­mia, è quel­la di un’a­de­ren­za tota­le al movi­men­to den­tro l’ab­ban­do­no di ogni pro­get­to di «gran­de tat­ti­ca», di cen­tra­liz­za­zio­ne e uni­fi­ca­zio­ne, che vada oltre il ter­re­no effet­ti­va­men­te offer­to dai con­te­nu­ti e livel­li di cre­sci­ta vol­ta a vol­ta dati: non è pos­si­bi­le man­te­ne­re la diva­ri­ca­zio­ne di tat­ti­ca e stra­te­gia, di par­ti­to e movi­men­to, di poli­ti­ca e comu­ni­smo.
Il solo ter­re­no di uni­fi­ca­zio­ne del movi­men­to che appa­re pra­ti­ca­bi­le non è poli­ti­co ma pro­dut­ti­vo, è la sin­te­si pra­ti­ca degli spa­zi di pote­re vol­ta a vol­ta con­qui­sta­ti: il pote­re comu­ni­sta cre­sce gior­no per gior­no nel­lo scon­tro tra lavo­ro e rifiu­to del lavo­ro, con for­me e moda­li­tà vol­ta a vol­ta diver­se, e su que­sto mede­si­mo ter­re­no deve por­si il pro­ble­ma del­la tat­ti­ca, su que­sto esse­re risol­to quel­lo del­lo sta­to.
Non vi è posto per una iden­ti­tà di movi­men­to diver­sa da que­sta, né più sem­pli­ce del­la costru­zio­ne del comu­ni­smo che cre­sce nel­la socie­tà, e il coman­do poli­ti­co-mili­ta­re del­lo Sta­to va affron­ta­to là dove emer­ge come spe­ci­fi­ca con­trad­di­zio­ne, nei suoi luo­ghi ter­mi­na­li che van­no pia­no pia­no rosic­chia­ti.
Il pro­ble­ma del­lo Sta­to ces­sa di esse­re il luo­go di una iden­ti­tà «tat­ti­ca» faci­le, vie­ne rias­sor­bi­to nel­la dimen­sio­ne più com­ples­sa del­la costi­tu­zio­ne dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne emer­gen­ti.

Allar­ga­men­to degli spa­zi sul ter­re­no su cui si apro­no, in nes­sun caso con­cen­tra­zio­ne del­le for­ze attor­no ad un’u­ni­tà mini­ma­le e «rap­pre­sen­ta­ti­va», ma sca­vo in pro­fon­do den­tro le diso­mo­ge­nei­tà, le discon­ti­nui­tà del tes­su­to di clas­se per­ché è attor­no ad esse che si arti­co­la il pote­re nuo­vo. Che è dif­fu­so, disper­so, non sin­te­ti­co.
È un discor­so attor­no al qua­le ruo­ta un gene­ra­le spo­sta­men­to di atten­zio­ne sul pia­no del­le tema­ti­che e degli obiet­ti­vi, non solo del­la for­ma orga­niz­za­ti­va: dall’«insurrezione» alla «lot­ta di lun­ga dura­ta», dal­le «sca­den­ze» attor­no ad obiet­ti­vi uni­fi­can­ti alla appro­pria­zio­ne.
«La pra­ti­ca del­l’ap­pro­pria­zio­ne» divie­ne il pun­to d’i­den­ti­tà for­se più rile­van­te del­l’a­rea poli­ti­ca che si costi­tui­sce.
Appro­pria­zio­ne di beni, cioè espro­prio, ille­ga­li­tà di mas­sa, «vio­len­za dif­fu­sa»; ma anche auto­ri­du­zio­ne del­le tarif­fe socia­li, cioè allar­ga­men­to del­la lega­li­tà sul­la base del con­sen­so; e «appro­pria­zio­ne» in fab­bri­ca del­la ridu­zio­ne del­l’o­ra­rio di lavo­ro, sua ridu­zio­ne uni­la­te­ra­le, non con­trat­ta­ta ma attua­zio­ne ope­ra­ti­va di una deci­sio­ne di par­te, di un «decre­to».
Insom­ma, appro­pria­zio­ne come supe­ra­men­to del­la trat­ta­ti­va, come gestio­ne di un pote­re di fat­to sul­la distri­bu­zio­ne del­la ric­chez­za come sul­l’o­ra­rio di lavo­ro là ove que­sto sia pra­ti­ca­bi­le: una tema­ti­ca che ben si adat­ta ad un discor­so «mole­co­la­re» sul pote­re, ma i cui limi­ti arti­gia­na­li sono evi­den­ti.

Sono il loca­li­smo, la ridu­zio­ne del pro­ble­ma del­la misu­ra gene­ra­le dei rap­por­ti di for­za alla pra­ti­ca loca­le del con­tro-pote­re.
In effet­ti, ogni vol­ta che una lot­ta cre­sce­rà fino a por­re pro­ble­mi di carat­te­re gene­ra­le per il movi­men­to, ogni vol­ta che il ter­re­no di scon­tro si alze­rà fino ad assu­me­re una valen­za esem­pla­re, que­sto discor­so mostre­rà la cor­da, divi­so com’è tra la volon­tà di una iden­ti­tà pie­na­men­te socia­le e il biso­gno del­la poli­ti­ca, del­la «rap­pre­sen­ta­zio­ne gene­ra­le» del­le for­ze in cam­po, del­la con­cen­tra­zio­ne del­le risor­se.

Una con­trad­di­zio­ne mai supe­ra­ta, che si espri­me­rà da un lato come vita­li­tà e dif­fu­sio­ne, capa­ci­tà di inter­pre­ta­re il nuo­vo ed ade­rir­vi, del­l’a­rea del­l’au­to­no­mia, dal­l’al­tro come pover­tà e fram­men­ta­rie­tà dei suoi livel­li orga­niz­za­ti­vi e, insie­me, come costan­te dispo­ni­bi­li­tà alla enfa­tiz­za­zio­ne mino­ri­ta­ria ed esem­pla­re del­la pro­pria azio­ne nel ten­ta­ti­vo di far fron­te ai pro­ble­mi inso­lu­ti del­l’i­den­ti­tà e del­lo scon­tro poli­ti­co.
È den­tro que­sta situa­zio­ne che la tema­ti­ca del con­tro-pote­re vie­ne for­za­ta ad esse­re, da base poten­te ma loca­le di con­so­li­da­men­to di ben defi­ni­te espe­rien­ze orga­niz­za­ti­ve, ideo­lo­gia col­let­ti­va, iden­ti­tà gene­ra­le di movi­men­to. Una iden­ti­tà impos­si­bi­le, per­ché solo in casi estre­mi e per stra­ti socia­li mol­to par­ti­co­la­ri, rigi­da­men­te defi­ni­ti nel sen­so del­l’e­sclu­sio­ne da rap­por­ti par­te­ci­pa­ti­vi, un muta­men­to nel­la distri­bu­zio­ne socia­le del pote­re si espri­me come «con­tro-pote­re»: in gene­ra­le i mec­ca­ni­smi del­la con­trat­ta­zio­ne infor­ma­le e quel­la par­ti­co­la­re for­ma di appro­pria­zio­ne di risor­se — mone­ta­rie e di tem­po — che si mani­fe­sta nel­la cadu­ta di effi­cien­za nel rap­por­to di pre­sta­zio­ne, costi­tui­sco­no solu­zio­ni meno dispen­dio­se social­men­te e poli­ti­ca­men­te.
Una iden­ti­tà impos­si­bi­le, ma che con natu­ra­lez­za ten­de a pre­sen­tar­si come pra­ti­ca «nor­ma­le» del rap­por­to col pote­re quan­do lo scon­tro è con un tes­su­to isti­tu­zio­na­le con­no­ta­to da una rigi­di­tà, da una inca­pa­ci­tà di modi­fi­ca­zio­ne e rifor­ma, tale da por­re il pro­ble­ma del pote­re quo­ti­dia­na­men­te in ter­mi­ni tota­li­ta­ri.
Per­ché è un tes­su­to isti­tu­zio­na­le pro­te­so ad acqui­si­re alla clas­se poli­ti­ca ogni ter­re­no di espres­sio­ne socia­le, a gio­ca­re le sue car­te non sul ter­re­no del mono­po­lio del­la rap­pre­sen­tan­za legit­ti­ma ma su quel­lo socia­li­sta del mono­po­lio del­la comu­ni­ca­zio­ne socia­le.

In que­sta acce­zio­ne del «con­tro-pote­re», il pro­ble­ma del­lo Sta­to sole mar­gi­nal­men­te costi­tui­sce luo­go di iden­ti­tà socia­le e poli­ti­ca del movi­men­to: ciò avvie­ne per alcu­ne, impor­tan­ti ma limi­ta­te, espe­rien­ze orga­niz­za­ti­ve ma non rie­sce ad esse­re il tes­su­to con­net­ti­vo effet­ti­vo del­le più con­si­sten­ti espe­rien­ze di lot­ta.
E allo­ra la sto­ria del­l’au­to­no­mia di que­sti anni appa­re pri­va di un vero cen­tro foca­le: due espe­rien­ze sal­da­men­te radi­ca­te in fasce lar­ghe di pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le e ope­ra­io a Roma e Pado­va; una gran­de ric­chez­za di espe­rien­ze, dal­la Assem­blea auto­no­ma del­l’Al­fa ai cir­co­li del pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le, a Mila­no, den­tro una flui­di­tà orga­niz­za­ti­va pra­ti­ca­men­te ine­stri­ca­bi­le; un per­cor­so di gran­dis­si­me espe­rien­ze di lot­ta, dal­l’oc­cu­pa­zio­ne del ’73 alle lot­te del ’74 fino ai pic­chet­ti cit­ta­di­ni del ’79 alla Fiat, sen­za una tra­ma orga­niz­za­ti­va in qual­che modo sta­bi­liz­za­ta e rico­no­sci­bi­le; una quan­ti­tà enor­me e non cen­si­bi­le di col­let­ti­vi loca­li spar­si ovun­que; le esplo­sio­ni del ’77 a Roma e Bolo­gna, in nes­sun modo ricon­du­ci­bi­li ad espe­rien­ze orga­niz­za­ti­ve ante­ce­den­ti ma che tut­te le inglo­ba­no.
In que­sto modo com­ples­so, fat­to di discon­ti­nui­tà e diva­rio fra lot­te ed orga­niz­za­zio­ne, il movi­men­to del rifiu­to del lavo­ro si incro­cia con una sto­ria poli­ti­ca che, pur volen­do ade­rir­vi ed essen­do­ne con­ti­nua­men­te ali­men­ta­ta, non rie­sce ad esse­re rispo­sta ai pro­ble­mi che ven­go­no posti.
È una sto­ria che ha una chia­ve sem­pli­ce: la ade­ren­za ai livel­li più ele­va­ti del­lo scon­tro socia­le di que­sti anni, l’in­ca­pa­ci­tà di ela­bo­ra­re una iden­ti­tà abba­stan­za arti­co­la­ta da saper ren­de­re con­to del­l’in­sie­me del tes­su­to di comu­ni­ca­zio­ne del movi­men­to e da saper rap­por­tar­si ad esso in modo diver­so dal­la ripro­po­si­zio­ne esem­pla­re del­l’e­spe­rien­za guida.Dentro que­sto qua­dro il movi­men­to del ’77 occu­pa un posto del tut­to par­ti­co­la­re: per la for­za del suo impat­to, per la novi­tà che espri­me, per come inno­va tut­ti i ter­mi­ni del­la que­stio­ne.

L’au­to­no­mia è l’u­ni­ca area poli­ti­ca che entra in con­tat­to con il movi­men­to, lo ali­men­ta e ne è ali­men­ta­ta. È anche l’u­ni­ca, di con­se­guen­za, a por­tar­vi i pro­pri limi­ti ed erro­ri.
Il ’77 sve­la il mino­ri­ta­ri­smo ed il mini­ma­li­smo del pro­get­to poli­ti­co del­l’au­to­no­mia, il miste­ro del­l’ir­ri­sol­to pro­ble­ma del «poli­ti­co» in essa; sve­la anche come sia il solo ten­ta­ti­vo di inter­pre­ta­re e ren­de­re poten­te il pro­ces­so di muta­men­to che ci attra­ver­sa.
Soprat­tut­to, cam­bia le car­te in tavo­la, slar­ga gli oriz­zon­ti: l’am­piez­za del­la mobi­li­ta­zio­ne ha rot­to, pro­ba­bil­men­te per sem­pre, quel gusto risor­gi­men­ta­le per i pic­co­li nume­ri che ave­va cer­ca­to di soprav­vi­ve­re, uni­co «leni­ni­smo» pos­si­bi­le, al crol­lo del­l’i­dea di par­ti­to; e, insie­me, la mol­ti­pli­ca­zio­ne dei lin­guag­gi, lo spez­zar­si del ger­go «poli­ti­co» e l’e­splo­de­re del discor­so sul­le «dif­fe­ren­ze» han­no posto sul tap­pe­to, pra­ti­ca­men­te, la urgen­za e la pos­si­bi­li­tà, le risor­se, di una iden­ti­tà col­let­ti­va com­ples­sa anco­ra­ta alla ric­chez­za del­le for­ze pro­dut­ti­ve espres­se, non appiat­ti­ta sul­l’an­tii­sti­tu­zio­na­li­smo ritua­le del­la sto­ria «auto­no­ma» appe­na tra­scor­sa.
La com­pat­ta mise­ria di una «socie­tà poli­ti­ca» — chi ha det­to che era la pri­ma? — abi­tua­ta fin dal ’68 a con­si­de­ra­re la restau­ra­zio­ne l’u­ni­ca rifor­ma pos­si­bi­le ed il «riflus­so» la sola for­ma ammes­sa di movi­men­to, è insor­ta, a Bolo­gna pri­ma che a Roma, con­tro l’ag­gres­si­va novi­tà, offren­do lo sta­to d’as­se­dio come uni­co ter­re­no di con­fron­to pos­si­bi­le: quel­li che chia­ma­no l’a­bi­tu­di­ne alla pro­pria per­so­na­le impu­ni­tà «infi­ni­ta poten­za del­lo Sta­to», sono par­ti­ti all’as­sal­to del movi­men­to.
Han­no avu­to vita faci­le, per­ché la secon­da socie­tà non è capa­ce di con­cen­tra­re pote­re, nem­me­no per difen­der­si, sa solo disper­der­lo; e poi sa svuo­ta­re le vit­to­rie nemi­che. È quel­lo che è suc­ces­so.

Pen­sa­va­no di dover spie­ga­re a quat­tro emar­gi­na­ti trop­po stra­fot­ten­ti chi è che coman­da a que­sto mon­do; non era così, e sono i car­ri arma­ti di Zan­ghe­ri e Cos­si­ga quel soli­do nes­so tra auto­no­mia e ter­ro­ri­smo che Calo­ge­ro tan­to ha cer­ca­to.
Non nel sen­so che la guer­ra sia in que­sto caso «la con­ti­nua­zio­ne del­la poli­ti­ca con altri mez­zi»; piut­to­sto in quel­lo, deter­mi­na­to, che il ter­ro­ri­smo in Ita­lia misu­ra insie­me l’am­piez­za del muta­men­to che ha inve­sti­to la gerar­chla socia­le e la distri­bu­zio­ne del pote­re, e la resi­sten­za del­le isti­tu­zio­ni a pren­der­ne atto. Cioè misu­ra, in ter­mi­ni di costo socia­le, la pover­tà del­la clas­se poli­ti­ca e la sua pro­ter­via.
Non che sia una misu­ra che ser­va a qual­che cosa, ma non è la sua inu­ti­li­tà a toglier­gli for­za: per­ché ciò che con­ta nel ter­ro­ri­smo non è il pro­get­to poli­ti­co, che è fra­gi­le ed anti­co, — trop­po anti­co per pesa­re dav­ve­ro —. non la capa­ci­tà di libe­ra­zio­ne, che non c’è, ma la sem­pli­ci­tà, la faci­li­tà.

Una faci­li­tà che toc­ca il cuo­re dei pro­ble­mi che vivia­mo, che va alla radi­ce del­le cose.
Al fat­to che lo Sta­to moder­no, in un pae­se svi­lup­pa­to, è «debo­le» strut­tu­ral­men­te, detie­ne una quo­ta di pote­re rela­ti­va­men­te bas­sa nei con­fron­ti del resto del­la socie­tà e deve costan­te­men­te ren­de­re con­to del­l’u­so che ne fa.
E que­sto è il solo, gran­de, even­to pro­gres­si­vo e demo­cra­ti­co del nostro tem­po: le risor­se eco­no­mi­che, come quel­le mili­ta­ri, sono rela­ti­va­men­te poco con­cen­tra­te, e, para­dos­sal­men­te, è cre­sciu­to di più il pote­re di con­trol­lo del cit­ta­di­no sul­lo Sta­to che non l’in­ver­so.
Il che vuoi dire che i cana­li isti­tu­zio­na­li di que­sto con­trol­lo devo­no esse­re effi­cien­ti, altri­men­ti se ne apro­no altri.
Per­ché l’an­ti­co sovra­no dove­va rispon­de­re del­le sue azio­ni a un nume­ro ristret­to di per­so­ne, agli altri sovra­ni e ai suoi paren­ti, a «quel­li come lui», che soli ave­va­no pote­re di con­trol­lo, che è sem­pre pote­re di ucci­de­re, in ulti­ma istan­za, e la sto­ria del pote­re era la sha­ke­spea­ria­na tra­ge­dia del­la lot­ta tra con­san­gui­nei; men­tre oggi il «prin­ci­pe» vive tra la fol­la e a tut­ti deve spie­ga­re, per­ché non c’è poli­zia al mon­do che a lun­go lo pos­sa difen­de­re nel­la gran­de cit­tà.
Il fat­to real­men­te ever­si­vo del rapi­men­to Moro non era il «com­plot­to» — il sogno mala­to di quel­li che pen­sa­no che il pote­re si divi­da sem­pre, anco­ra, tra i mem­bri del­la «clas­se diri­gen­te», la spe­ran­za clas­si­sta e ras­si­cu­ran­te di chi vuo­le che sia­no i «pro­fes­so­ri» o gli emis­sa­ri del­le «poten­ze impe­ria­li» a tira­re le fila «die­tro le quin­te», a «coman­da­re» —, ma la sua assen­za, il fat­to che era­no poche deci­ne di lavo­ra­to­ri dipen­den­ti o disoc­cu­pa­ti che si era­no orga­niz­za­ti per far­lo, con un pro­gram­ma poli­ti­co non chia­ro ed uno scar­so inte­res­se al con­sen­so: que­sto e il fat­to che la cul­tu­ra «domi­nan­te» ha volu­to rimuo­ve­re nel pro­fon­do, la cosa a cui, dav­ve­ro, non rie­sce a cre­de­re.
Que­sta è la for­za del ter­ro­ri­smo, la chia­ve del­la sua ripro­du­ci­bi­li­tà, del suo carat­te­re «moder­no» al di là del­la sta­gio­na­tu­ra del­le ideo­lo­gie che agi­ta; ciò non toglie che sia inu­ti­le, pri­vo del­la pos­si­bi­li­tà di risol­ve­re i pro­ble­mi che espri­me.

Inu­ti­le esat­ta­men­te come la repres­sio­ne, costi sec­chi di una situa­zio­ne bloc­ca­ta.
C’è una ideo­lo­gia, cile­na direi, che domi­na la nostra «clas­se diri­gen­te», a destra come a sini­stra, e che è fat­ta del­l’in­ti­ma con­vin­zio­ne del­l’on­ni­po­ten­za del­l’ap­pa­ra­to mili­ta­re del­lo Sta­to, del carat­te­re in ulti­ma istan­za riso­lu­ti­vo, per quan­to sgra­de­vo­le, di una repres­sio­ne desi­de­ra­ta o temu­ta; è, come dire, una riser­va men­ta­le sul­la rever­si­bi­li­tà del­la «demo­cra­zia», dono del­la pace ma sem­pre pron­ta a cede­re il pas­so alle cru­de­li neces­si­tà del­la guer­ra.
A que­sta con­vin­zio­ne, che ren­de così infiam­ma­bi­li e stuz­zi­ca­rel­li i nostri poli­ti­ci, c’è un argo­men­to da obiet­ta­re, ed è che nei pae­si svi­lup­pa­ti, come il nostro che è più vici­no all’A­me­ri­ca che al Cile, dove la socie­tà è ric­ca e i mez­zi di comu­ni­ca­zio­ne dif­fu­si, l’in­fi­ni­ta ripro­du­ci­bi­li­tà del ter­ro­ri­smo, esat­ta­men­te come l’in­fi­ni­ta poten­za distrut­ti­va del­la bom­ba ato­mi­ca, impe­di­sce che ci pos­sa più esse­re solu­zio­ne mili­ta­re ad un pro­ble­ma poli­ti­co che non sia pro­prio mol­to pic­co­lo: la guer­ra pos­sie­de una auto­no­mia tec­no­lo­gi­ca tale e veste for­me così radi­ca­li che non è più stru­men­to doci­le da usa­re, non è appli­ca­bi­le a fini limi­ta­ti, se non in fun­zio­ne dimo­stra­ti­va, in for­ma simu­la­ta, per inne­sca­re la trat­ta­ti­va.
E lo Sta­to moder­no trat­ta, a tut­ti i livel­li: poi­ché sa di non esse­re l’u­ni­co pote­re, lo Sta­to ricer­ca la fles­si­bi­li­tà, cer­ca di caval­ca­re la nuo­va vici­nan­za con la socie­tà facen­do­si per­mea­bi­le ed atten­to, allar­gan­do i cana­li di comu­ni­ca­zio­ne, coop­tan­do e sele­zio­nan­do, fil­tran­do il muta­men­to per impe­di­re l’ac­cu­mu­lo di risor­se nemi­che: è uno Sta­to rifor­mi­sta per natu­ra e voca­zio­ne.
Quel­lo ita­lia­no no: è immo­bi­le e ris­so­so, col­ti­va il cul­to del­la for­za ed ha l’or­di­ne pub­bli­co come ter­re­no di incon­tro pri­vi­le­gia­to con il muta­men­to socia­le.
Ne paghia­mo le spe­se, tutti.

IL RIFIUTO DEL LAVORO

Par­la­re dell’«autonomia ope­ra­ia» dopo il 7 Apri­le è insie­me cosa dif­fi­ci­le e impel­len­te.
Dif­fi­ci­le per­ché l’«equazione Calo­ge­ro» e il raf­for­zar­si del­le spin­te isti­tu­zio­na­li a una solu­zio­ne mili­ta­re del pro­ble­ma han­no accre­di­ta­to di essa una imma­gi­ne pove­ra­men­te guer­re­sca, appiat­ti­ta su quel­la del ter­ro­ri­smo, impel­len­te per­ché die­tro il fra­go­re dell’operazione è comin­cia­ta a emer­ge­re, for­se per la pri­ma vol­ta agli occhi di un pub­bli­co così vasto, la pro­fon­di­tà, tena­cia e ampiez­za di un feno­me­no poli­ti­co e socia­le che si è volu­to con­si­de­ra­re mar­gi­na­le, tra­scu­ra­bi­le, pove­ro. Fat­to­ne un pro­ble­ma di sta­to ad usum bel­li, die­tro l’immagine odio­sa che la cul­tu­ra uffi­cia­le ha sco­per­to e fat­to cir­co­la­re di esso, tra­pe­la­no i segni di una sto­ria ric­ca che attra­ver­sa tut­to il tes­su­to di lot­ta di que­sti anni e sui cui nodi trop­po age­vol­men­te, da par­te di trop­pi, si è sor­vo­la­to come su cosa irri­le­van­te.
Il risul­ta­to para­dos­sa­le di un anno di guer­ra fero­ce all’«autonomia» può esse­re la ria­per­tu­ra poten­te del discor­so sul muta­men­to socia­le che ha attra­ver­sa­to que­sto pae­se, sul­la ric­chez­za del­le sue espres­sio­ni poli­ti­che e sui loro limi­ti, sul­la radi­ca­li­tà del­la sua pra­ti­ca e la pover­tà del­la teo­ria; insom­ma, su quel bloc­co di pro­ble­mi la cui rimo­zio­ne col­let­ti­va per oppor­tu­ni­smo, pau­ra, mise­ria poli­ti­ca ed uma­na ci ha con­dot­to allo stal­lo san­gui­no­so che stia­mo viven­do.

Que­sto libro vuo­le offri­re una pri­ma docu­men­ta­zio­ne essen­zia­le a un discor­so di que­sto tipo.
È un taglio di pro­spet­ti­va che ren­de con­to di una impo­sta­zio­ne per altri ver­si «inge­nua», cioè idea­li­sta.
Vale a dire, del­la scel­ta di non limi­ta­re l’attenzione a quel­la pur varie­ga­ta area poli­ti­ca che all’inizio del ’74 si costi­tui­sce attor­no alla comu­ne deno­mi­na­zio­ne di «auto­no­mia ope­ra­ia»: si trat­ta di un’area di espe­rien­ze orga­niz­za­ti­ve trop­po ristret­ta per poter esse­re esclu­si­vo pun­to di rife­ri­men­to.
L’identità poli­ti­ca che espri­me è infat­ti trop­po incer­ta e appros­si­ma­ti­va per riu­sci­re a defi­ni­re dei con­fi­ni suf­fi­cien­te­men­te rigi­di al discor­so, e insie­me le espe­rien­ze che essa non com­pren­de sono trop­po signi­fi­ca­ti­ve, in quel mede­si­mo spa­zio di anni, per poter esse­re sot­ta­ciu­te.
Una impo­sta­zio­ne così ristret­ta peral­tro defi­ni­reb­be una dipen­den­za trop­po net­ta, che non è in alcun modo riscon­tra­bi­le tra il movi­men­to del ’77 e l’«autonomia»: un movi­men­to che, nel­la real­tà, ha sovra­sta­to da ogni par­te l’esperienza orga­niz­za­ti­va di cui par­lia­mo, spez­zan­do­ne la con­ti­nui­tà, per­ché face­va par­te di una sto­ria più vasta.
Per un altro ver­so, nean­che la sem­pli­ce iden­ti­fi­ca­zio­ne dell’«autonomia» con un’area di com­por­ta­men­ti socia­li appa­re sod­di­sfa­cen­te, per­ché gene­ri­ca, trop­po lar­ga e ridut­ti­va insie­me: l’«autonomia ope­ra­ia» è attra­ver­sa­ta cer­to dall’estremismo socia­le, ma non e defi­ni­ta da que­sto, e se for­me di lot­ta ille­ga­li costel­la­no la sua sto­ria non ne costi­tui­sco­no però il pun­to d’identità.

Il discor­so da fare è diver­so: la sto­ria dell’«autonomia» è costi­tui­ta da un arco di espe­rien­ze poli­ti­che arti­co­la­te e dif­for­mi che si sno­da­no per tut­to l’arco degli anni ’70 e la cui iden­ti­tà ruo­ta attor­no all’idea-forza del «rifiu­to del lavo­ro».
Non è sol­tan­to una ideo­lo­gia dell’emancipazione, ma un modo di let­tu­ra del­la socie­tà capi­ta­li­sta, dei suoi pro­ta­go­ni­sti, del modo di distri­bu­zio­ne del pote­re in essa, del­la dina­mi­ca del suo svi­lup­po e del­la sua fine, che costi­tui­sce lo sche­ma di orien­ta­men­to ed il tes­su­to con­net­ti­vo ege­mo­ne che attra­ver­sa­no die­ci anni di con­fron­to poli­ti­co con il movi­men­to ope­ra­io, orga­niz­za­to.
Su que­sta base è defi­ni­bi­le la con­ti­nui­tà che cor­re tra la «con­flit­tua­li­tà sel­vag­gia» del ’68 e i comi­ta­ti ope­rai di base (che sono lar­ga par­te dell’ascendenza comu­ne di Pote­re ope­ra­io e Lot­ta con­ti­nua), le lot­te «socia­li» e la «resi­sten­za alla ristrut­tu­ra­zio­ne», che di tali orga­niz­za­zio­ni segna­no il cul­mi­ne e la fine, e le tema­ti­che dei nuo­vi biso­gni e del‑l’«operaio socia­le» che esplo­de­ran­no tra il ’76 e il ’77.
Non è una con­nes­sio­ne estem­po­ra­nea che sal­ta sul­le dif­fe­ren­ze, pure pro­fon­de, e disco­no­sce la plu­ra­li­tà degli appor­ti e la discon­ti­nui­tà degli orien­ta­men­ti.
È la rile­va­zio­ne di un per­cor­so uni­ta­rio di pro­ble­mi e modi di solu­zio­ne den­tro una pra­ti­ca dell’organizzazione che cer­ca di iden­ti­fi­ca­re poli­ti­ca ed eco­no­mia e rico­no­sce nell’emergenza di biso­gni con­flit­tua­li il costi­tuir­si dell’autonomia socia­le e poli­ti­ca del sog­get­to rivo­lu­zio­na­rio.

LA “MIGRAZIONE” DAL LAVORO SALARIATO E LA QUESTIONE DELLO STATO

Den­tro que­sto tes­su­to di discor­so il pro­ble­ma del «pote­re» assu­me del­le dimen­sio­ni del tut­to par­ti­co­la­ri e divie­ne il luo­go del­la «iden­ti­tà dif­fi­ci­le» del­la auto­no­mia, il luo­go attor­no a cui si arti­co­la la sua con­trad­dit­to­ria espe­rien­za orga­niz­za­ti­va.
In tut­ta la sto­ria del movi­men­to ope­ra­io, sia nel­la sua ver­sio­ne rifor­mi­sta, social­de­mo­cra­ti­ca, che rivo­lu­zio­na­ria, la que­stio­ne del pote­re è il prin­ci­pio for­te di iden­ti­tà, la base del pro­get­to di rifor­ma socia­le. Nel sen­so che la rivo­lu­zio­ne poli­ti­ca si vuo­le pre­ce­de­re quel­la socia­le, e l’occupazione del­lo sta­to esse­re la base del­la modi­fi­ca­zio­ne dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne: lo sta­to è, hege­lia­na­men­te, il livel­lo più avan­za­to del­la coo­pe­ra­zio­ne socia­le e gui­da tut­ti gli altri.
A par­ti­re dal­la rivo­lu­zio­ne bor­ghe­se; è que­sto – e con ciò Sta­lin con­clu­de­rà un discor­so ini­zia­to da Marx – che dif­fe­ren­zia la rivo­lu­zio­ne pro­le­ta­ria da quel­la bor­ghe­se, che quest’ultima si è impa­dro­ni­ta pri­ma del­la socie­tà e poi del­lo sta­to, men­tre la pri­ma è desti­na­ta a segui­re il cam­mi­no inver­so, a gover­na­re dall’alto, dal pun­to di mas­si­ma con­cen­tra­zio­ne del pote­re, il rivo­lu­zio­na­men­to dei rap­por­ti socia­li.

Tut­to ciò non può esser­ci nel discor­so che abbia­mo fat­to, per­ché il suo cuo­re è il muta­men­to «in atto» dei rap­por­ti di pro­du­zio­ne, la dislo­ca­zio­ne nuo­va del pote­re nel­la socie­tà ben pri­ma che nel­le isti­tu­zio­ni; il pro­ble­ma del pote­re poli­ti­co segue, non pre­ce­de, e si ridu­ce al pro­ble­ma di come lo sta­to si ade­gua al muta­men­to.
La que­stio­ne «socia­li­sta» del­la occu­pa­zio­ne del­lo Sta­to, del­la «pre­sa del pote­re» pro­le­ta­rio in real­tà non si pone nep­pu­re: per­ché il nuo­vo pote­re che emer­ge non si dà una rap­pre­sen­ta­zio­ne sta­tua­le, non è dele­ga­bi­le, non è sepa­ra­bi­le da quel­li che lo eser­ci­ta­no, non è poli­ti­co ma «pro­dut­ti­vo», «estin­gue» lo sta­to.
Il sen­so infat­ti di un discor­so sull’impoverimento del­la sin­te­si di capi­ta­le e sul­la ric­chez­za del­le risor­se che vi resta­no estra­nee è che vi è una disper­sio­ne del pote­re socia­le, uno slit­ta­men­to dei pote­ri di gestio­ne sul­le risor­se dal­la «poten­za astrat­ta alla coo­pe­ra­zio­ne socia­le» ordi­na­ta den­tro il lavo­ro sala­ria­to alle comu­ni­tà con­cre­te che infor­mal­men­te si strut­tu­ra­no attor­no a que­sta con­qui­sta­ta dispo­ni­bi­li­tà di tem­po socia­le, e che indif­fe­ren­te­men­te si pon­go­no all’esterno del rap­por­to lavo­ra­ti­vo o lo attra­ver­sa­no.

Que­sta opa­ci­tà nel­la distri­bu­zio­ne socia­le del pote­re, que­sta disper­sio­ne che inve­ste la sua ordi­na­ta arti­co­la­zio­ne gerar­chi­ca e che depo­ten­zia il siste­ma gran­de, astrat­to e com­ples­so in favo­re del pic­co­lo con­cre­to e sem­pli­ce, aggre­di­sce alle fon­da­men­ta l’analisi mar­xi­sta del pote­re.
Nel sen­so che base di que­sta è l’assunzione del­la con­cen­tra­zio­ne del pote­re nel­la socie­tà del capi­ta­le e la pos­si­bi­li­tà di dare ad essa una for­ma posi­ti­va modi­fi­can­do la for­ma del­lo sta­to in modo da svi­lup­pa­re al mas­si­mo la «par­te­ci­pa­zio­ne demo­cra­ti­ca» ad esso, di accre­scer­ne la legit­ti­mi­tà e con­trol­la­bi­li­tà.
A que­sto pun­to nasce però un pro­ble­ma: il discor­so sul­lo sta­to è in Marx, come in tut­to il pen­sie­ro poli­ti­co demo­cra­ti­co, discor­so sull’«eguaglianza»; il discor­so sul comu­ni­smo è discor­so sul libe­ro svi­lup­po del­le «dif­fe­ren­ze», sul­la fine del dirit­to e del­la sua astra­zio­ne inu­ma­na.
Il nes­so tra i due discor­si non è dia­let­ti­co in Marx; sem­pli­ce­men­te non c’è.
C’è insie­me l’esaltazione del­la poli­ti­ca, dell’eguaglianza, e la sua cri­ti­ca.
Rivo­lu­zio­ne socia­li­sta nel nome dell’eguaglianza, per «por­ta­re a ter­mi­ne la rivo­lu­zio­ne fran­ce­se», ma comu­ni­smo come sua cri­ti­ca. Per­ché l’eguaglianza tra gli uomi­ni è una astra­zio­ne, che pas­sa sopra le dif­fe­ren­ze con­cre­te di gusti, tem­pe­ra­men­ti, neces­si­tà e desi­de­ri, e può fare que­sto per­ché con­si­de­ra gli uomi­ni mer­ci, inter­cam­bia­bi­li nel­la pre­sta­zio­ne di lavo­ro: per que­sto è egua­glian­za «solo» poli­ti­ca, per­ché quel­la vera, mate­ria­le, è rico­no­sci­men­to del­le dif­fe­ren­ze, abo­li­zio­ne del dirit­to.
L’«eguaglianza» è la sola base pos­si­bi­le di ogni dele­ga e par­te­ci­pa­zio­ne, il fon­da­men­to del­la poli­ti­ca, insie­me la sua pos­si­bi­li­tà e il suo desti­no; ma la sua base è il mer­ca­to, il lavo­ro sala­ria­to, dove «un uomo di un’ora» vale un altro uomo di un’ora.

L’«interesse gene­ra­le» del mon­do del­la poli­ti­ca si fon­da su que­sta equi­va­len­za gene­ra­le del mon­do del­le mer­ci, sull’astrazione del lavo­ro sala­ria­to, ma la «cri­ti­ca del­la poli­ti­ca», la cri­ti­ca dei rap­por­ti di dele­ga ha anch’essa una base poten­te.
Che cosa suc­ce­de infat­ti quan­do il tem­po di lavo­ro, in cui tut­ti sono ugua­li, per­de pote­re e for­za pro­dut­ti­va, divie­ne una fra­zio­ne di tut­to il tem­po socia­le, ed il tem­po del non-lavo­ro ces­sa di esse­re fun­zio­ne subor­di­na­ta del­la ripro­du­zio­ne socia­le e comin­cia ad esse­re par­te­ci­pe del­la ric­chez­za del­le for­ze pro­dut­ti­ve?
Quan­do i rap­por­ti tra gli uomi­ni comin­cia­no ad esse­re così ric­chi da non far­si più misu­ra­re sul­la base dell’equivalenza e la comu­ni­ca­zio­ne socia­le comin­cia a strut­tu­rar­si attor­no al tem­po qua­li­ta­ti­vo, ric­co di dif­fe­ren­ze, che si sot­trae al coman­do del sala­rio?
Il discor­so dell’eguaglianza ces­sa di gover­na­re il pro­ces­so di libe­ra­zio­ne, che va a sno­dar­si attor­no ad un pro­ble­ma nuo­vo: come si fa ad arti­co­la­re il pote­re non attor­no all’eguaglianza astrat­ta che impo­ne il mer­ca­to, ma attor­no alle dif­fe­ren­te con­cre­te che ani­ma­no il tem­po nuo­vo del­la coo­pe­ra­zio­ne socia­le ric­ca?
Marx par­la­va di gene­ral intel­lect, di pro­du­zio­ne sgan­cia­ta dal­la neces­si­tà come fun­zio­na la dele­ga di pote­ri quan­do la pro­du­zio­ne socia­le di ric­chez­za comin­cia a svin­co­lar­si dal­le maglie del lavo­ro astrat­to, quan­do la par­te­ci­pa­zio­ne di ognu­no alla pro­du­zio­ne non è più ridu­ci­bi­le al suo tem­po di lavo­ro ma inve­ste la qua­li­tà del suo esse­re «indi­vi­duo socia­le ric­co», e come sono rap­pre­sen­ta­bi­li per­so­ne che par­te­ci­pa­no del­la socie­tà sul­la base non del­la loro pre­sta­zio­ne, ma com­ples­si­va­men­te di ciò che fan­no, san­no, voglio­no e desi­de­ra­no per­ché tut­to ciò entra oggi nel­la poten­za del­la coo­pe­ra­zio­ne socia­le?

Non è vero in sen­so for­te tut­to ciò: il tem­po di lavo­ro è sostan­za rea­le anco­ra del­la pro­du­zio­ne, e da esso pren­do­no for­za mate­ria­le la dele­ga, l’eguaglianza, il «poli­ti­co», ma c’è que­sta libe­ra­zio­ne di tem­po socia­le, in modo non mar­gi­na­le, ed è capa­ce di pro­dur­re effet­ti poten­ti, ed attra­ver­sa con for­za dele­git­ti­man­te tut­te le isti­tu­zio­ni.
Quel­la che esplo­de, a tut­ti i livel­li, non è richie­sta di «par­te­ci­pa­zio­ne» sul­la base dell’eguaglianza, ma doman­da di più lar­ga dislo­ca­zio­ne del pote­re, di sua dif­fu­sio­ne, di auto­no­mia di spa­zi di gestio­ne sul­la base del­la «diver­si­tà», del­la irri­du­ci­bi­li­tà a «inte­res­se gene­ra­le», al rap­por­to di mag­gio­ran­za.
I movi­men­ti di lot­ta di que­sti anni, ovun­que, han­no que­sto segno: non richie­sta di dif­fe­ren­te gestio­ne del pote­re né riven­di­ca­zio­ne di «egua­glian­za», cioè di legit­ti­mi­tà mag­gio­ri­ta­ria, ma affer­ma­zio­ne di una qual­che diver­si­tà irri­du­ci­bi­le che si fa in quan­to tale doman­da di pote­re, aper­tu­ra di con­trat­ta­zio­ne, richie­sta di auto­no­mia.
Richie­sta di ave­re voce in quan­to «diver­si», non in quan­to ugua­li, richie­sta di rico­no­sci­men­to del pote­re che in que­sta diver­si­tà è insi­to.

Il movi­men­to del ’77 era social­men­te arti­co­la­to e com­ples­so, per ben poca sua par­te com­po­sto da «emar­gi­na­ti», ave­va le car­te in rego­la per por­re doman­de «poli­ti­che», ma la sua iden­ti­tà era quel­la del «diver­so», i lin­guag­gi che par­la­va spe­cia­liz­za­ti e intra­du­ci­bi­li, come il dia­let­to di una etnia che vuo­le difen­der­si dal­la lin­gua uffi­cia­le.
La «mar­gi­na­li­tà» non è sta­ta con­no­ta­zio­ne socia­le ma scel­ta poli­ti­ca, cri­ti­ca del­la poli­ti­ca.
Ma non è che un esem­pio: i neri, le don­ne, i gio­va­ni, gli anzia­ni, i fro­ci, le mino­ran­ze nazio­na­li, tec­ni­che, lin­gui­sti­che, reli­gio­se; la ricer­ca di una iden­ti­tà non «poli­ti­ca» che ruo­ta attor­no ad una dif­fe­ren­za da far rico­no­sce­re e rispet­ta­re, sul­la base del­la qua­le con­trat­ta­re spa­zi di gestio­ne del­le risor­se, appa­re il con­no­ta­to domi­nan­te dei «movi­men­ti» di que­sti anni.

IL RIFIUTO DEL LAVORO E LOTTA OPERAIA

«Rifiu­to del lavo­ro»: vuol dire che den­tro la strut­tu­ra e la gerar­chia dei rap­por­ti socia­li coman­da­ti dal lavo­ro sala­ria­to vive, sem­pre, un tes­su­to di comu­ni­ca­zio­ne e orga­niz­za­zio­ne, che detie­ne infor­ma­zio­ni, cono­scen­za, «sape­ri», che ad esse si con­trap­po­ne ed a cui è alter­na­ti­vo.
È una strut­tu­ra socia­le che nasce nel­la lot­ta, per la lot­ta – per più sol­di, meno lavo­ro, per un lavo­ro meno noci­vo, o pesan­te, per «sta­re meglio», o comun­que per non mori­re di fab­bri­ca –, ma che è già pote­re, «sul­la» pro­du­zio­ne e «di» pro­du­zio­ne, per­ché è fat­ta esat­ta­men­te degli stes­si ele­men­ti che com­pon­go­no la pre­sta­zio­ne lavo­ra­ti­va, solo che ha il segno rove­scia­to, quel­lo del­la non col­la­bo­ra­zio­ne, del­la sot­tra­zio­ne di risor­se e dispo­ni­bi­li­tà.
È la cono­scen­za del ciclo pro­dut­ti­vo di par­te ope­ra­ia, la capa­ci­tà di fer­mar­si, sot­trar­si, sabo­ta­re; è la scien­za del­la resi­sten­za, con la sua capa­ci­tà di impat­to, sem­pre, sul­la distri­bu­zio­ne del­la ric­chez­za e l’organizzazione del lavo­ro.
Come dire che il pote­re socia­le, la cono­scen­za socia­le, sono divi­si tra coman­do e resi­sten­za, e i rap­por­ti socia­li sono spez­za­ti, orga­niz­za­ti insie­me dal lavo­ro e dal­la lot­ta con­tro di esso, e la pro­du­zio­ne non è dina­mi­ca neu­tra­le, «eco­no­mia», ma luo­go di scon­tro e media­zio­ne tra que­sti due pote­ri nemi­ci.
Non c’è sol­tan­to sfrut­ta­men­to in que­sta socie­tà, ma anche auto­no­mia da esso e lot­ta.
Quan­te risor­se socia­li sia­no coman­da­te den­tro la gerar­chia costrui­ta dal rap­por­to di lavo­ro sala­ria­to e quan­te si ordi­ni­no vice­ver­sa attor­no all’emergenza dei biso­gni auto­no­mi di clas­se, non è mai cosa defi­ni­ti­va una vol­ta per tut­te, ma costi­tui­sce l’oggetto di quel­la lot­ta poli­ti­ca che va sot­to il nome di svi­lup­po e cri­si.

In que­sta acce­zio­ne il discor­so è già tut­to den­tro i «Qua­der­ni Ros­si» di Pan­zie­ri e Tron­ti.
E qui sono già con­te­nu­te le gran­di rot­tu­re teo­ri­che con la tra­di­zio­ne socia­li­sta del movi­men­to ope­ra­io.
Per­ché non c’è più auto­no­mia nell’«economico» né ogget­ti­vi­tà nel­la cri­si, ma ovun­que scon­tro di inte­res­si e orga­niz­za­zio­ni.
Per­ché il pote­re non sta da una par­te sola, e non c’è una clas­se di «pro­du­zio­ni» con­trap­po­sta agli «sfrut­ta­to­ri», ma un rap­por­to che è pro­dut­ti­vo per­ché scon­tro di inte­res­si in lot­ta; quin­di non c’è pos­si­bi­li­tà di libe­ra­zio­ne che pas­si per la sem­pli­ce «eli­mi­na­zio­ne degli sfrut­ta­to­ri», cioè per la «socia­liz­za­zio­ne del rap­por­to», il socia­li­smo: non c’è supe­rio­ri­tà del­la pia­ni­fi­ca­zio­ne sul mer­ca­to, ma solo pos­si­bi­li­tà di coman­do sul rap­por­to di svi­lup­po, costri­zio­ne a pro­dur­re più clas­se ope­ra­ia e meno capi­ta­le.
Sono rot­tu­re impor­tan­ti, attra­ver­so cui pas­sa un com­ples­si­vo diver­so orien­ta­men­to del­le tema­ti­che eman­ci­pa­ti­ve.
Innan­zi­tut­to il ridi­men­sio­na­men­to del ruo­lo del­la con­qui­sta del pote­re poli­ti­co den­tro il pro­ces­so di libe­ra­zio­ne, e, all’interno di que­sto, la riva­lu­ta­zio­ne del­la sto­ria del­le clas­si ope­ra­ie occi­den­ta­li. Poi l’ancoramento sal­do di ogni discor­so sull’organizzazione al siste­ma di biso­gni mate­rial­men­te espres­so, che è il livel­lo dato di auto­no­mia di clas­se.
È un discor­so nato nei ter­mi­ni dell’autonomia poli­ti­ca di clas­se, cioè auto­no­mia del siste­ma di biso­gni, auto­no­mia del pote­re ope­ra­io: par­te­ci­pa­zio­ne con­flit­tua­le allo svi­lup­po e minac­cia del bloc­co, cioè con­trat­ta­zio­ne con­sa­pe­vo­le in vista del con­se­gui­men­to degli inte­res­si di par­te.
È un discor­so che cre­sce in fret­ta però, per­ché le basi sono ric­che.

Una vol­ta, infat­ti, che si leg­ga la socie­tà capi­ta­li­sta non più come il luo­go del coman­do incon­tra­sta­to dell’interesse di par­te del capi­ta­le, del­la gerar­chia che si espri­me nel rap­por­to di lavo­ro sala­ria­to, ma come il luo­go del­lo scon­tro tra lavo­ro e rifiu­to del lavo­ro; una vol­ta che si rico­no­sca che come lot­ta si orga­niz­za­no quel­le mede­si­me risor­se che sono sostan­za del­lo svi­lup­po del capi­ta­le, e che i biso­gni socia­li pos­sie­do­no una auto­no­mia dal coman­do sul lavo­ro; che alla gerar­chia costrui­ta attor­no al tem­po di lavo­ro se ne con­trap­po­ne un’altra costrui­ta attor­no al tem­po del­la lot­ta, al tem­po libe­ra­to dal lavo­ro, e che anch’essa detie­ne cono­scen­za, è tes­su­to di comu­ni­ca­zio­ne e orga­niz­za­zio­ne socia­le, è for­za pro­dut­ti­va; rico­no­sciu­to tut­to ciò, il pro­ble­ma diven­ta quel­lo del­la cre­sci­ta e dell’arricchimento del­le risor­se che si pre­sen­ta­no come «non capi­ta­le», quel­lo del bloc­co del­la sin­te­si socia­le di par­te capi­ta­li­sti­ca, del­la pos­si­bi­li­tà di una sin­te­si diver­sa sul ter­re­no non tan­to del­la orga­niz­za­zio­ne del pote­re poli­ti­co quan­to su quel­lo del­la strut­tu­ra del­le for­ze pro­dut­ti­ve.
Cioè diven­ta la destrut­tu­ra­zio­ne del rap­por­to di capi­ta­le.
Se la socie­tà non è più vista come il tea­tro di un solo atto­re, l’interesse di par­te capi­ta­li­sta, ben­sì il rap­por­to di capi­ta­le, appa­re la sin­te­si fati­co­sa degli inte­res­si di due par­ti nemi­che; se, accan­to al prin­ci­pio rego­la­to­re del valo­re di scam­bio, moto­re poten­te del­la pro­du­zio­ne socia­le è l’interesse ope­ra­io al valo­re d’uso; se il pote­re socia­le è divi­so; allo­ra la dina­mi­ca del pote­re ope­ra­io – non quel­lo «poli­ti­co», che vor­reb­be gover­na­re lo sta­to, che non c’è e di cui non si sen­te la man­can­za, ma quel­lo «socia­le» che c’è, e par­te­ci­pa poten­te­men­te al gover­no di que­sto mon­do –, la dina­mi­ca del­la cre­sci­ta del pote­re ope­ra­io e del­la sua subor­di­na­zio­ne, i ter­mi­ni del­la sua lot­ta e trat­ta­ti­va inces­san­ti, van­no inve­sti­ga­ti e riper­cor­si con gli occhi di chi ne cer­ca le leg­gi e il prin­ci­pio di strut­tu­ra­zio­ne, cioè la capa­ci­tà di esse­re orga­niz­za­zio­ne socia­le post­ca­pi­ta­li­sta, comu­ni­smo.

«Più sala­rio, meno lavo­ro», «sala­rio sgan­cia­to dal­la pro­dut­ti­vi­tà»: que­ste poten­ti paro­le d’ordine di mas­sa che esplo­de­ran­no nell’autunno ope­ra­io del ’69 appa­io­no la base poli­ti­ca su cui si costi­tui­sco­no le pri­ma espe­rien­ze auto­no­me di orga­niz­za­zio­ne non solo e non tan­to per la loro capa­ci­tà di distur­bo nei con­fron­ti degli appa­ra­ti orga­niz­za­ti­vi tra­di­zio­na­li né per la loro «valen­za estre­mi­sta» di indur­re «cri­si» eco­no­mi­ca e poli­ti­ca, ma per­ché in esse vie­ne let­to un pos­si­bi­le, emer­gen­te, pro­gram­ma di pote­re. Nel sen­so che con esse appa­re rom­per­si il rap­por­to tra coman­do capi­ta­li­sta sul­la pro­du­zio­ne del­la ric­chez­za e la pro­du­zio­ne dei biso­gni socia­li.
La gerar­chia che si espri­me den­tro il pro­ces­so pro­dut­ti­vo, le divi­sio­ni fun­zio­na­li attor­no a cui que­sto ordi­na il cor­po ope­ra­io, appa­io­no impo­ten­ti a coman­da­re le richie­ste socia­li, i cana­li attor­no a cui que­ste si strut­tu­ra­no.
Tra com­po­si­zio­ne di clas­se – e cioè tra la strut­tu­ra dei ruo­li, la for­ma del­la cir­co­la­zio­ne del­le capa­ci­tà pro­dut­ti­ve, del­le infor­ma­zio­ni, dei biso­gni ope­rai – ed orga­niz­za­zio­ne pro­dut­ti­va com­pa­re uno iato pro­fon­do che è già dupli­ci­tà del­le gerar­chie, scon­tro aper­to di pote­ri e dei cri­te­ri attor­no cui si ordi­na­no.
Per­ché il con­tra­sto tra biso­gni e pro­du­zio­ne non è come quel­lo tra «sogno» e «real­tà»: espri­me lo scon­tro tra cana­li di comu­ni­ca­zio­ne socia­le, tra orga­niz­za­zio­ni di uomi­ni; espri­me l’incapacità da par­te del­la gerar­chia socia­le che ordi­na la pro­du­zio­ne di coman­da­re tut­ta la socie­tà, espri­me cioè il fat­to di esse­re par­te trop­po pic­co­la di essa, che in essa non con­flui­sce una quan­ti­tà suf­fi­cien­te di risor­se socia­li, e che comin­cia a for­mar­si un dif­fe­ren­te pun­to di aggregazione.