AUTOVALORIZZAZIONE E NUOVI SOGGETTI
Le tematiche dei «nuovi bisogni», dell’«operaio sociale», dell’«autovalorizzazione», che sono il punto di approdo dell’«autonomia», sono lo sviluppo lineare di questo approccio.
Il divario tra produzione di capitale e organizzazione sociale si è approfonditi fino a far corrispondere ad un individuo sociale ricco di capacità, informazioni, conoscenze, bisogni, desideri, una produzione povera che riesce ad organizzare non solo una parte crescentemente ridotta del suo tempo, ma quella parte di esso che è più misera e vuota, insieme, delle cose che si conoscono e di quelle che si desiderano.
Una produzione che costituisce solo una parte delle interrelazioni sociali di chi vi partecipa, che è un frammento e non la sintesi di tutta la cooperazione sociale; soprattutto, una produzione che tale cooperazione, nel suo insieme, non riesce più a comandare ed ordinare.
La circolazione dei ruoli e delle conoscenze in modo crescente e rilevante non si ordina più secondo i criteri del lavoro produttivo di capitale, secondo le regole della prestazione di lavoro.
Queste regole comandano una quantità di risorse che non è più sufficiente ad ordinare l’insieme della riproduzione sociale, i punti di dispersione e disordine rispetto ad essa si sono moltiplicati a dismisura e già si intravedono i primi, evanescenti segni di un possibile diverso principio ordinatore: valore d’uso contro valore di scambio, concretezza dei bisogni dell’«individuo sociale ricco» che si contrappone all’universo seriale, capace solo di determinazione quantitativa, dal bisogno riproduttivo della forza-lavoro, al bisogno astratto della «necessità», della «scarsità naturale».
Non è più soltanto salario contro profitto, cioè l’autonomia di interessi contrapposti nell’unità di un meccanismo sociale, ma l’individuazione di una contrapposizione possibile tra due modi di produzione, due universi di rapporti sociali. Ciò che definisce il passaggio dalla prima articolazione del discorso – quella salariale – alla seconda – il «movimento del valore d’uso» –, è in definitiva la crisi del concetto di sviluppo: che è la capacità di sintesi capitalista della dualità di poteri che vivono nel modo di produzione.
Da questo punto di vista, la lunga alternanza di crisi e stagnazione che si apre con gli anni ’70, in Italia e in tutto l’Occidente, appare all’autonomia come incapacità dell’interesse di parte capitalista ad essere sintesi di tutta la organizzazione, comunicazione, conoscenza sociale; come incapacità di organizzare dentro il tempo di lavoro tutte le risorse sociali e dietro la gerarchia che lo comanda tutto il tempo sociale.
È come dire che la sintesi produttiva e politica che il rapporto di capitale offre appare povera a fronte della ricchezza crescente del tessuto sociale che si costruisce attorno alle lotte; attorno a questo viene a gravitare una quantità estremamente elevata di risorse produttive in termini di capacità di cooperazione sociale, scambio ed elaborazione di informazioni e conoscenze, comando sul tempo sociale.
La comunicazione sociale appare allargarsi a dismisura, svincolandosi in larga parte dal principio di prestazione che regola il rapporto di salario, e questo non è più capace di comandare in modo pieno la gerarchia sociale: una quota crescente della ricchezza sociale è inchiodata a finanziare, attraverso le più diverse forme di assistenza, non la prestazione lavorativa ma la rigidità rispetto ad essa e il suo rifiuto, contemporaneamente rendendo socialmente irrilevante, non marginalizzante, la esclusione da essa.
D’altro canto, la fabbrica non comanda più, attraverso il mercato del lavoro, l’insieme dei comportamenti sociali, e la cooperazione sociale appare più larga e ricca di quella che anima il lavoro produttivo di capitale: gruppi sociali in larga misura espulsi dal rapporto di lavoro, i giovani e le donne, conquistano forza di espressione e potere sociale, e mentre il tempo di lavoro di ognuno non solo viene soggettivamente vissuto come espropriazione di vita, come condanna e miseria, ma oggettivamente si svuota di conoscenza e forza creativa, il tempo libero in misura crescente cessa di essere il tempo subalterno della riproduzione della forza-lavoro per divenire tempo ricco di scambi e relazioni sociali, capace di comunicazione, elaborazione, coordinamento, detentore di risorse ingenti e conoscenze; insomma, una forza produttiva, che non è uguale al lavoro, ha un regime sociale più largo, è attivamente abitata dalla lotta contro il lavoro.
Tutto questo tessuto di fatti nuovi, questa modificazione profonda intervenuta nel modo di produzione, è evento potente, non emarginabile.
A sua volta però non è capace di essere univocamente forza di una sintesi alternativa: troppe cose non sa maneggiare, troppe risorse gli sfuggono, anche se non è vero che ha quel pessimo rapporto con la tecnologia che si dice, ed anche se sul terreno della produzione è cominciato ad entrare non più solo come resistenza e sabotaggio ma anche come forza creativa.
È un discorso sulla transizione, sulla migrazione di massa dal lavoro produttivo di capitale, e sui suoi possibili esiti.
In sostanza, rispetto alle rotture operate dall’operaismo sul corpus teorico del marxismo-leninismo, l’esperienza «autonoma» aggiunge una concezione della crisi che non è più quella del «collasso sociale», dell’esplosione della incapacità di fondo del capitale di far fronte alle esigenze sociali, bensì quella della esplosione di relazioni sociali, troppo ricche per essere ricondotte al rapporto di capitale, quella dei limiti del comando di capitale su tutta la società: non il crescere della miseria, ma del movimento di emancipazione, sta alla base del «bisogno di comunismo».
Come dire, il contrario di una teoria della catastrofe: alla base di tutto ci si accorge che c’è la rilevazione della inadeguatezza, della povertà, dei rapporti di potere presenti a fronte della ricchezza delle relazioni sociali che si sono sviluppate e sono operanti.
IL RAPPORTO CON LE ISTITUZIONI NELLA STORIA DELL’AUTONOMIA
Dentro questa forma del mutamento sociale, dentro questo problema del passaggio di poteri dal lavoro al non lavoro, la questione del potere statale si pone sempre in termini di contrattazione, mai di «occupazione» o sostituzione. Nella storia dell’autonomia ciò vuol dire che esso si presenta sempre in termini di «tattica», mai di «strategia», e che difficilmente si presta ad essere il luogo centrale dell’identità politica.
È problema tattico, di rimozione delle resistenze, non strategico, di costruzione del meccanismo di guida del processo.
Problema «tattico» in senso forte nella prima fase del movimenti, fino allo scioglimento di Potere operaio; «tattico» in senso debole nella seconda fase, quella dell’area dall’autonomia propriamente detta.
«In senso forte» vuoi dire capace di esprimere una identità politica e organizzativa complessa, un progetto di partito: al movimento la strategia, il comunismo, al partito la tattica, la rimozione degli ostacoli, la capacità di rottura.
Come dire, Potere operaio, il «partito dell’insurrezione».
Dove insurrezione non è progetto di potere politico — nè «tutto il potere ai soviet» né «governo operaio» — ma ricomposizione del movimento, rottura del controllo politico-sociale attorno alla forza unificante di alcune parole d’ordine, come «salario garantito», capaci di coagulare in un punto le energie per mettere un cuneo, far arretrare le istituzioni, allargare gli spazi del movimento.
Unificare il movimento, scardinare il controllo, questo il problema. E il controllo non è militare se non in ultima istanza: non è questione di guerra ma di disomogeneità nella composizione di classe, di punti forti e deboli, di contraddizioni, e della possibilità di trovare quel minimo comune denominatore che funzioni da maglio e permetta che la crescita riprenda a un livello più avanzato.
Non è la presa del potere ma la rottura degli argini.
Ma c’è un’enfasi, un’ansia, una forzatura che non trovano riscontro.
Enfasi sulla forza degli argini, ansia sulla tenuta del movimento, forzatura sul carattere necessariamente frontale dello scontro: il blocco delle lotte, la disarticolazione di classe, il riflusso di fronte alla ristrutturazione apparivano i punti di riferimento obbligati del discorso sulla rottura.
Nella realtà gli argini sono stati tutti aggirati, a un costo basso, e la crisi economica ha saputo misurare non tanto la virulenza del contrattacco capitalistico quanto la ampiezza degli spazi conquistati dal movimento.
Il movimento del rifiuto del lavoro non ha assaltato la società politica, si è messo a girarle attorno, confermando tutti gli strumenti di governo ma ponendo vincoli crescenti alla loro selettività, impegnando una larga fetta di ricchezza a pagare in modo indifferenziato il consenso tribuito: nella sostanza, ha anticipato e cavalcato la ristrutturazione capitalista piegandola al rispetto della propria unità, rendendola contraddittoria, erodendone la capacità di comando sociale ed allargando i propri spazi di potere e gestione.
La rigidità delle istituzioni è stata massima sul piano formale, al punto da impedire qualsiasi forma di rappresentazione politica del mutamento, da rimuovere perfino il problema della sua legittimità, ma questa operazione ha avuto un corrispettivo pesante in termini di fragilità sostanziale, di perdita secca di capacità di governo.In questo slittamento dei piani del confronto è naufragato il progetto politico di Potere operaio; nel ’73 esplode la sua crisi.
L’unificazione «tattica» che esso propone appare riduttiva di fronte alla molteplicità dei livelli di scontro che si sono aperti, dei linguaggi che il movimento pratica, degli spazi di crescita agibili da parte di una ricchezza di soggetti sociali la cui identità collettiva è complessa, non riducibile ad una « unità » di breve momento.
La rappresentazione generale del movimento in una semplice chiave antistituzionale appare insieme impossibile e non necessaria, una forzatura estremista.
Su queste basi Potere operaio si scioglie.La prospettiva aperta a questo punto, per l’autonomia, è quella di un’aderenza totale al movimento dentro l’abbandono di ogni progetto di «grande tattica», di centralizzazione e unificazione, che vada oltre il terreno effettivamente offerto dai contenuti e livelli di crescita volta a volta dati: non è possibile mantenere la divaricazione di tattica e strategia, di partito e movimento, di politica e comunismo.
Il solo terreno di unificazione del movimento che appare praticabile non è politico ma produttivo, è la sintesi pratica degli spazi di potere volta a volta conquistati: il potere comunista cresce giorno per giorno nello scontro tra lavoro e rifiuto del lavoro, con forme e modalità volta a volta diverse, e su questo medesimo terreno deve porsi il problema della tattica, su questo essere risolto quello dello stato.
Non vi è posto per una identità di movimento diversa da questa, né più semplice della costruzione del comunismo che cresce nella società, e il comando politico-militare dello Stato va affrontato là dove emerge come specifica contraddizione, nei suoi luoghi terminali che vanno piano piano rosicchiati.
Il problema dello Stato cessa di essere il luogo di una identità «tattica» facile, viene riassorbito nella dimensione più complessa della costituzione dei rapporti di produzione emergenti.
Allargamento degli spazi sul terreno su cui si aprono, in nessun caso concentrazione delle forze attorno ad un’unità minimale e «rappresentativa», ma scavo in profondo dentro le disomogeneità, le discontinuità del tessuto di classe perché è attorno ad esse che si articola il potere nuovo. Che è diffuso, disperso, non sintetico.
È un discorso attorno al quale ruota un generale spostamento di attenzione sul piano delle tematiche e degli obiettivi, non solo della forma organizzativa: dall’«insurrezione» alla «lotta di lunga durata», dalle «scadenze» attorno ad obiettivi unificanti alla appropriazione.
«La pratica dell’appropriazione» diviene il punto d’identità forse più rilevante dell’area politica che si costituisce.
Appropriazione di beni, cioè esproprio, illegalità di massa, «violenza diffusa»; ma anche autoriduzione delle tariffe sociali, cioè allargamento della legalità sulla base del consenso; e «appropriazione» in fabbrica della riduzione dell’orario di lavoro, sua riduzione unilaterale, non contrattata ma attuazione operativa di una decisione di parte, di un «decreto».
Insomma, appropriazione come superamento della trattativa, come gestione di un potere di fatto sulla distribuzione della ricchezza come sull’orario di lavoro là ove questo sia praticabile: una tematica che ben si adatta ad un discorso «molecolare» sul potere, ma i cui limiti artigianali sono evidenti.
Sono il localismo, la riduzione del problema della misura generale dei rapporti di forza alla pratica locale del contro-potere.
In effetti, ogni volta che una lotta crescerà fino a porre problemi di carattere generale per il movimento, ogni volta che il terreno di scontro si alzerà fino ad assumere una valenza esemplare, questo discorso mostrerà la corda, diviso com’è tra la volontà di una identità pienamente sociale e il bisogno della politica, della «rappresentazione generale» delle forze in campo, della concentrazione delle risorse.
Una contraddizione mai superata, che si esprimerà da un lato come vitalità e diffusione, capacità di interpretare il nuovo ed aderirvi, dell’area dell’autonomia, dall’altro come povertà e frammentarietà dei suoi livelli organizzativi e, insieme, come costante disponibilità alla enfatizzazione minoritaria ed esemplare della propria azione nel tentativo di far fronte ai problemi insoluti dell’identità e dello scontro politico.
È dentro questa situazione che la tematica del contro-potere viene forzata ad essere, da base potente ma locale di consolidamento di ben definite esperienze organizzative, ideologia collettiva, identità generale di movimento. Una identità impossibile, perché solo in casi estremi e per strati sociali molto particolari, rigidamente definiti nel senso dell’esclusione da rapporti partecipativi, un mutamento nella distribuzione sociale del potere si esprime come «contro-potere»: in generale i meccanismi della contrattazione informale e quella particolare forma di appropriazione di risorse — monetarie e di tempo — che si manifesta nella caduta di efficienza nel rapporto di prestazione, costituiscono soluzioni meno dispendiose socialmente e politicamente.
Una identità impossibile, ma che con naturalezza tende a presentarsi come pratica «normale» del rapporto col potere quando lo scontro è con un tessuto istituzionale connotato da una rigidità, da una incapacità di modificazione e riforma, tale da porre il problema del potere quotidianamente in termini totalitari.
Perché è un tessuto istituzionale proteso ad acquisire alla classe politica ogni terreno di espressione sociale, a giocare le sue carte non sul terreno del monopolio della rappresentanza legittima ma su quello socialista del monopolio della comunicazione sociale.
In questa accezione del «contro-potere», il problema dello Stato sole marginalmente costituisce luogo di identità sociale e politica del movimento: ciò avviene per alcune, importanti ma limitate, esperienze organizzative ma non riesce ad essere il tessuto connettivo effettivo delle più consistenti esperienze di lotta.
E allora la storia dell’autonomia di questi anni appare priva di un vero centro focale: due esperienze saldamente radicate in fasce larghe di proletariato giovanile e operaio a Roma e Padova; una grande ricchezza di esperienze, dalla Assemblea autonoma dell’Alfa ai circoli del proletariato giovanile, a Milano, dentro una fluidità organizzativa praticamente inestricabile; un percorso di grandissime esperienze di lotta, dall’occupazione del ’73 alle lotte del ’74 fino ai picchetti cittadini del ’79 alla Fiat, senza una trama organizzativa in qualche modo stabilizzata e riconoscibile; una quantità enorme e non censibile di collettivi locali sparsi ovunque; le esplosioni del ’77 a Roma e Bologna, in nessun modo riconducibili ad esperienze organizzative antecedenti ma che tutte le inglobano.
In questo modo complesso, fatto di discontinuità e divario fra lotte ed organizzazione, il movimento del rifiuto del lavoro si incrocia con una storia politica che, pur volendo aderirvi ed essendone continuamente alimentata, non riesce ad essere risposta ai problemi che vengono posti.
È una storia che ha una chiave semplice: la aderenza ai livelli più elevati dello scontro sociale di questi anni, l’incapacità di elaborare una identità abbastanza articolata da saper rendere conto dell’insieme del tessuto di comunicazione del movimento e da saper rapportarsi ad esso in modo diverso dalla riproposizione esemplare dell’esperienza guida.Dentro questo quadro il movimento del ’77 occupa un posto del tutto particolare: per la forza del suo impatto, per la novità che esprime, per come innova tutti i termini della questione.
L’autonomia è l’unica area politica che entra in contatto con il movimento, lo alimenta e ne è alimentata. È anche l’unica, di conseguenza, a portarvi i propri limiti ed errori.
Il ’77 svela il minoritarismo ed il minimalismo del progetto politico dell’autonomia, il mistero dell’irrisolto problema del «politico» in essa; svela anche come sia il solo tentativo di interpretare e rendere potente il processo di mutamento che ci attraversa.
Soprattutto, cambia le carte in tavola, slarga gli orizzonti: l’ampiezza della mobilitazione ha rotto, probabilmente per sempre, quel gusto risorgimentale per i piccoli numeri che aveva cercato di sopravvivere, unico «leninismo» possibile, al crollo dell’idea di partito; e, insieme, la moltiplicazione dei linguaggi, lo spezzarsi del gergo «politico» e l’esplodere del discorso sulle «differenze» hanno posto sul tappeto, praticamente, la urgenza e la possibilità, le risorse, di una identità collettiva complessa ancorata alla ricchezza delle forze produttive espresse, non appiattita sull’antiistituzionalismo rituale della storia «autonoma» appena trascorsa.
La compatta miseria di una «società politica» — chi ha detto che era la prima? — abituata fin dal ’68 a considerare la restaurazione l’unica riforma possibile ed il «riflusso» la sola forma ammessa di movimento, è insorta, a Bologna prima che a Roma, contro l’aggressiva novità, offrendo lo stato d’assedio come unico terreno di confronto possibile: quelli che chiamano l’abitudine alla propria personale impunità «infinita potenza dello Stato», sono partiti all’assalto del movimento.
Hanno avuto vita facile, perché la seconda società non è capace di concentrare potere, nemmeno per difendersi, sa solo disperderlo; e poi sa svuotare le vittorie nemiche. È quello che è successo.
Pensavano di dover spiegare a quattro emarginati troppo strafottenti chi è che comanda a questo mondo; non era così, e sono i carri armati di Zangheri e Cossiga quel solido nesso tra autonomia e terrorismo che Calogero tanto ha cercato.
Non nel senso che la guerra sia in questo caso «la continuazione della politica con altri mezzi»; piuttosto in quello, determinato, che il terrorismo in Italia misura insieme l’ampiezza del mutamento che ha investito la gerarchla sociale e la distribuzione del potere, e la resistenza delle istituzioni a prenderne atto. Cioè misura, in termini di costo sociale, la povertà della classe politica e la sua protervia.
Non che sia una misura che serva a qualche cosa, ma non è la sua inutilità a togliergli forza: perché ciò che conta nel terrorismo non è il progetto politico, che è fragile ed antico, — troppo antico per pesare davvero —. non la capacità di liberazione, che non c’è, ma la semplicità, la facilità.
Una facilità che tocca il cuore dei problemi che viviamo, che va alla radice delle cose.
Al fatto che lo Stato moderno, in un paese sviluppato, è «debole» strutturalmente, detiene una quota di potere relativamente bassa nei confronti del resto della società e deve costantemente rendere conto dell’uso che ne fa.
E questo è il solo, grande, evento progressivo e democratico del nostro tempo: le risorse economiche, come quelle militari, sono relativamente poco concentrate, e, paradossalmente, è cresciuto di più il potere di controllo del cittadino sullo Stato che non l’inverso.
Il che vuoi dire che i canali istituzionali di questo controllo devono essere efficienti, altrimenti se ne aprono altri.
Perché l’antico sovrano doveva rispondere delle sue azioni a un numero ristretto di persone, agli altri sovrani e ai suoi parenti, a «quelli come lui», che soli avevano potere di controllo, che è sempre potere di uccidere, in ultima istanza, e la storia del potere era la shakespeariana tragedia della lotta tra consanguinei; mentre oggi il «principe» vive tra la folla e a tutti deve spiegare, perché non c’è polizia al mondo che a lungo lo possa difendere nella grande città.
Il fatto realmente eversivo del rapimento Moro non era il «complotto» — il sogno malato di quelli che pensano che il potere si divida sempre, ancora, tra i membri della «classe dirigente», la speranza classista e rassicurante di chi vuole che siano i «professori» o gli emissari delle «potenze imperiali» a tirare le fila «dietro le quinte», a «comandare» —, ma la sua assenza, il fatto che erano poche decine di lavoratori dipendenti o disoccupati che si erano organizzati per farlo, con un programma politico non chiaro ed uno scarso interesse al consenso: questo e il fatto che la cultura «dominante» ha voluto rimuovere nel profondo, la cosa a cui, davvero, non riesce a credere.
Questa è la forza del terrorismo, la chiave della sua riproducibilità, del suo carattere «moderno» al di là della stagionatura delle ideologie che agita; ciò non toglie che sia inutile, privo della possibilità di risolvere i problemi che esprime.
Inutile esattamente come la repressione, costi secchi di una situazione bloccata.
C’è una ideologia, cilena direi, che domina la nostra «classe dirigente», a destra come a sinistra, e che è fatta dell’intima convinzione dell’onnipotenza dell’apparato militare dello Stato, del carattere in ultima istanza risolutivo, per quanto sgradevole, di una repressione desiderata o temuta; è, come dire, una riserva mentale sulla reversibilità della «democrazia», dono della pace ma sempre pronta a cedere il passo alle crudeli necessità della guerra.
A questa convinzione, che rende così infiammabili e stuzzicarelli i nostri politici, c’è un argomento da obiettare, ed è che nei paesi sviluppati, come il nostro che è più vicino all’America che al Cile, dove la società è ricca e i mezzi di comunicazione diffusi, l’infinita riproducibilità del terrorismo, esattamente come l’infinita potenza distruttiva della bomba atomica, impedisce che ci possa più essere soluzione militare ad un problema politico che non sia proprio molto piccolo: la guerra possiede una autonomia tecnologica tale e veste forme così radicali che non è più strumento docile da usare, non è applicabile a fini limitati, se non in funzione dimostrativa, in forma simulata, per innescare la trattativa.
E lo Stato moderno tratta, a tutti i livelli: poiché sa di non essere l’unico potere, lo Stato ricerca la flessibilità, cerca di cavalcare la nuova vicinanza con la società facendosi permeabile ed attento, allargando i canali di comunicazione, cooptando e selezionando, filtrando il mutamento per impedire l’accumulo di risorse nemiche: è uno Stato riformista per natura e vocazione.
Quello italiano no: è immobile e rissoso, coltiva il culto della forza ed ha l’ordine pubblico come terreno di incontro privilegiato con il mutamento sociale.
Ne paghiamo le spese, tutti.
IL RIFIUTO DEL LAVORO
Parlare dell’«autonomia operaia» dopo il 7 Aprile è insieme cosa difficile e impellente.
Difficile perché l’«equazione Calogero» e il rafforzarsi delle spinte istituzionali a una soluzione militare del problema hanno accreditato di essa una immagine poveramente guerresca, appiattita su quella del terrorismo, impellente perché dietro il fragore dell’operazione è cominciata a emergere, forse per la prima volta agli occhi di un pubblico così vasto, la profondità, tenacia e ampiezza di un fenomeno politico e sociale che si è voluto considerare marginale, trascurabile, povero. Fattone un problema di stato ad usum belli, dietro l’immagine odiosa che la cultura ufficiale ha scoperto e fatto circolare di esso, trapelano i segni di una storia ricca che attraversa tutto il tessuto di lotta di questi anni e sui cui nodi troppo agevolmente, da parte di troppi, si è sorvolato come su cosa irrilevante.
Il risultato paradossale di un anno di guerra feroce all’«autonomia» può essere la riapertura potente del discorso sul mutamento sociale che ha attraversato questo paese, sulla ricchezza delle sue espressioni politiche e sui loro limiti, sulla radicalità della sua pratica e la povertà della teoria; insomma, su quel blocco di problemi la cui rimozione collettiva per opportunismo, paura, miseria politica ed umana ci ha condotto allo stallo sanguinoso che stiamo vivendo.
Questo libro vuole offrire una prima documentazione essenziale a un discorso di questo tipo.
È un taglio di prospettiva che rende conto di una impostazione per altri versi «ingenua», cioè idealista.
Vale a dire, della scelta di non limitare l’attenzione a quella pur variegata area politica che all’inizio del ’74 si costituisce attorno alla comune denominazione di «autonomia operaia»: si tratta di un’area di esperienze organizzative troppo ristretta per poter essere esclusivo punto di riferimento.
L’identità politica che esprime è infatti troppo incerta e approssimativa per riuscire a definire dei confini sufficientemente rigidi al discorso, e insieme le esperienze che essa non comprende sono troppo significative, in quel medesimo spazio di anni, per poter essere sottaciute.
Una impostazione così ristretta peraltro definirebbe una dipendenza troppo netta, che non è in alcun modo riscontrabile tra il movimento del ’77 e l’«autonomia»: un movimento che, nella realtà, ha sovrastato da ogni parte l’esperienza organizzativa di cui parliamo, spezzandone la continuità, perché faceva parte di una storia più vasta.
Per un altro verso, neanche la semplice identificazione dell’«autonomia» con un’area di comportamenti sociali appare soddisfacente, perché generica, troppo larga e riduttiva insieme: l’«autonomia operaia» è attraversata certo dall’estremismo sociale, ma non e definita da questo, e se forme di lotta illegali costellano la sua storia non ne costituiscono però il punto d’identità.
Il discorso da fare è diverso: la storia dell’«autonomia» è costituita da un arco di esperienze politiche articolate e difformi che si snodano per tutto l’arco degli anni ’70 e la cui identità ruota attorno all’idea-forza del «rifiuto del lavoro».
Non è soltanto una ideologia dell’emancipazione, ma un modo di lettura della società capitalista, dei suoi protagonisti, del modo di distribuzione del potere in essa, della dinamica del suo sviluppo e della sua fine, che costituisce lo schema di orientamento ed il tessuto connettivo egemone che attraversano dieci anni di confronto politico con il movimento operaio, organizzato.
Su questa base è definibile la continuità che corre tra la «conflittualità selvaggia» del ’68 e i comitati operai di base (che sono larga parte dell’ascendenza comune di Potere operaio e Lotta continua), le lotte «sociali» e la «resistenza alla ristrutturazione», che di tali organizzazioni segnano il culmine e la fine, e le tematiche dei nuovi bisogni e del‑l’«operaio sociale» che esploderanno tra il ’76 e il ’77.
Non è una connessione estemporanea che salta sulle differenze, pure profonde, e disconosce la pluralità degli apporti e la discontinuità degli orientamenti.
È la rilevazione di un percorso unitario di problemi e modi di soluzione dentro una pratica dell’organizzazione che cerca di identificare politica ed economia e riconosce nell’emergenza di bisogni conflittuali il costituirsi dell’autonomia sociale e politica del soggetto rivoluzionario.
LA “MIGRAZIONE” DAL LAVORO SALARIATO E LA QUESTIONE DELLO STATO
Dentro questo tessuto di discorso il problema del «potere» assume delle dimensioni del tutto particolari e diviene il luogo della «identità difficile» della autonomia, il luogo attorno a cui si articola la sua contraddittoria esperienza organizzativa.
In tutta la storia del movimento operaio, sia nella sua versione riformista, socialdemocratica, che rivoluzionaria, la questione del potere è il principio forte di identità, la base del progetto di riforma sociale. Nel senso che la rivoluzione politica si vuole precedere quella sociale, e l’occupazione dello stato essere la base della modificazione dei rapporti di produzione: lo stato è, hegelianamente, il livello più avanzato della cooperazione sociale e guida tutti gli altri.
A partire dalla rivoluzione borghese; è questo – e con ciò Stalin concluderà un discorso iniziato da Marx – che differenzia la rivoluzione proletaria da quella borghese, che quest’ultima si è impadronita prima della società e poi dello stato, mentre la prima è destinata a seguire il cammino inverso, a governare dall’alto, dal punto di massima concentrazione del potere, il rivoluzionamento dei rapporti sociali.
Tutto ciò non può esserci nel discorso che abbiamo fatto, perché il suo cuore è il mutamento «in atto» dei rapporti di produzione, la dislocazione nuova del potere nella società ben prima che nelle istituzioni; il problema del potere politico segue, non precede, e si riduce al problema di come lo stato si adegua al mutamento.
La questione «socialista» della occupazione dello Stato, della «presa del potere» proletario in realtà non si pone neppure: perché il nuovo potere che emerge non si dà una rappresentazione statuale, non è delegabile, non è separabile da quelli che lo esercitano, non è politico ma «produttivo», «estingue» lo stato.
Il senso infatti di un discorso sull’impoverimento della sintesi di capitale e sulla ricchezza delle risorse che vi restano estranee è che vi è una dispersione del potere sociale, uno slittamento dei poteri di gestione sulle risorse dalla «potenza astratta alla cooperazione sociale» ordinata dentro il lavoro salariato alle comunità concrete che informalmente si strutturano attorno a questa conquistata disponibilità di tempo sociale, e che indifferentemente si pongono all’esterno del rapporto lavorativo o lo attraversano.
Questa opacità nella distribuzione sociale del potere, questa dispersione che investe la sua ordinata articolazione gerarchica e che depotenzia il sistema grande, astratto e complesso in favore del piccolo concreto e semplice, aggredisce alle fondamenta l’analisi marxista del potere.
Nel senso che base di questa è l’assunzione della concentrazione del potere nella società del capitale e la possibilità di dare ad essa una forma positiva modificando la forma dello stato in modo da sviluppare al massimo la «partecipazione democratica» ad esso, di accrescerne la legittimità e controllabilità.
A questo punto nasce però un problema: il discorso sullo stato è in Marx, come in tutto il pensiero politico democratico, discorso sull’«eguaglianza»; il discorso sul comunismo è discorso sul libero sviluppo delle «differenze», sulla fine del diritto e della sua astrazione inumana.
Il nesso tra i due discorsi non è dialettico in Marx; semplicemente non c’è.
C’è insieme l’esaltazione della politica, dell’eguaglianza, e la sua critica.
Rivoluzione socialista nel nome dell’eguaglianza, per «portare a termine la rivoluzione francese», ma comunismo come sua critica. Perché l’eguaglianza tra gli uomini è una astrazione, che passa sopra le differenze concrete di gusti, temperamenti, necessità e desideri, e può fare questo perché considera gli uomini merci, intercambiabili nella prestazione di lavoro: per questo è eguaglianza «solo» politica, perché quella vera, materiale, è riconoscimento delle differenze, abolizione del diritto.
L’«eguaglianza» è la sola base possibile di ogni delega e partecipazione, il fondamento della politica, insieme la sua possibilità e il suo destino; ma la sua base è il mercato, il lavoro salariato, dove «un uomo di un’ora» vale un altro uomo di un’ora.
L’«interesse generale» del mondo della politica si fonda su questa equivalenza generale del mondo delle merci, sull’astrazione del lavoro salariato, ma la «critica della politica», la critica dei rapporti di delega ha anch’essa una base potente.
Che cosa succede infatti quando il tempo di lavoro, in cui tutti sono uguali, perde potere e forza produttiva, diviene una frazione di tutto il tempo sociale, ed il tempo del non-lavoro cessa di essere funzione subordinata della riproduzione sociale e comincia ad essere partecipe della ricchezza delle forze produttive?
Quando i rapporti tra gli uomini cominciano ad essere così ricchi da non farsi più misurare sulla base dell’equivalenza e la comunicazione sociale comincia a strutturarsi attorno al tempo qualitativo, ricco di differenze, che si sottrae al comando del salario?
Il discorso dell’eguaglianza cessa di governare il processo di liberazione, che va a snodarsi attorno ad un problema nuovo: come si fa ad articolare il potere non attorno all’eguaglianza astratta che impone il mercato, ma attorno alle differente concrete che animano il tempo nuovo della cooperazione sociale ricca?
Marx parlava di general intellect, di produzione sganciata dalla necessità come funziona la delega di poteri quando la produzione sociale di ricchezza comincia a svincolarsi dalle maglie del lavoro astratto, quando la partecipazione di ognuno alla produzione non è più riducibile al suo tempo di lavoro ma investe la qualità del suo essere «individuo sociale ricco», e come sono rappresentabili persone che partecipano della società sulla base non della loro prestazione, ma complessivamente di ciò che fanno, sanno, vogliono e desiderano perché tutto ciò entra oggi nella potenza della cooperazione sociale?
Non è vero in senso forte tutto ciò: il tempo di lavoro è sostanza reale ancora della produzione, e da esso prendono forza materiale la delega, l’eguaglianza, il «politico», ma c’è questa liberazione di tempo sociale, in modo non marginale, ed è capace di produrre effetti potenti, ed attraversa con forza delegittimante tutte le istituzioni.
Quella che esplode, a tutti i livelli, non è richiesta di «partecipazione» sulla base dell’eguaglianza, ma domanda di più larga dislocazione del potere, di sua diffusione, di autonomia di spazi di gestione sulla base della «diversità», della irriducibilità a «interesse generale», al rapporto di maggioranza.
I movimenti di lotta di questi anni, ovunque, hanno questo segno: non richiesta di differente gestione del potere né rivendicazione di «eguaglianza», cioè di legittimità maggioritaria, ma affermazione di una qualche diversità irriducibile che si fa in quanto tale domanda di potere, apertura di contrattazione, richiesta di autonomia.
Richiesta di avere voce in quanto «diversi», non in quanto uguali, richiesta di riconoscimento del potere che in questa diversità è insito.
Il movimento del ’77 era socialmente articolato e complesso, per ben poca sua parte composto da «emarginati», aveva le carte in regola per porre domande «politiche», ma la sua identità era quella del «diverso», i linguaggi che parlava specializzati e intraducibili, come il dialetto di una etnia che vuole difendersi dalla lingua ufficiale.
La «marginalità» non è stata connotazione sociale ma scelta politica, critica della politica.
Ma non è che un esempio: i neri, le donne, i giovani, gli anziani, i froci, le minoranze nazionali, tecniche, linguistiche, religiose; la ricerca di una identità non «politica» che ruota attorno ad una differenza da far riconoscere e rispettare, sulla base della quale contrattare spazi di gestione delle risorse, appare il connotato dominante dei «movimenti» di questi anni.
IL RIFIUTO DEL LAVORO E LOTTA OPERAIA
«Rifiuto del lavoro»: vuol dire che dentro la struttura e la gerarchia dei rapporti sociali comandati dal lavoro salariato vive, sempre, un tessuto di comunicazione e organizzazione, che detiene informazioni, conoscenza, «saperi», che ad esse si contrappone ed a cui è alternativo.
È una struttura sociale che nasce nella lotta, per la lotta – per più soldi, meno lavoro, per un lavoro meno nocivo, o pesante, per «stare meglio», o comunque per non morire di fabbrica –, ma che è già potere, «sulla» produzione e «di» produzione, perché è fatta esattamente degli stessi elementi che compongono la prestazione lavorativa, solo che ha il segno rovesciato, quello della non collaborazione, della sottrazione di risorse e disponibilità.
È la conoscenza del ciclo produttivo di parte operaia, la capacità di fermarsi, sottrarsi, sabotare; è la scienza della resistenza, con la sua capacità di impatto, sempre, sulla distribuzione della ricchezza e l’organizzazione del lavoro.
Come dire che il potere sociale, la conoscenza sociale, sono divisi tra comando e resistenza, e i rapporti sociali sono spezzati, organizzati insieme dal lavoro e dalla lotta contro di esso, e la produzione non è dinamica neutrale, «economia», ma luogo di scontro e mediazione tra questi due poteri nemici.
Non c’è soltanto sfruttamento in questa società, ma anche autonomia da esso e lotta.
Quante risorse sociali siano comandate dentro la gerarchia costruita dal rapporto di lavoro salariato e quante si ordinino viceversa attorno all’emergenza dei bisogni autonomi di classe, non è mai cosa definitiva una volta per tutte, ma costituisce l’oggetto di quella lotta politica che va sotto il nome di sviluppo e crisi.
In questa accezione il discorso è già tutto dentro i «Quaderni Rossi» di Panzieri e Tronti.
E qui sono già contenute le grandi rotture teoriche con la tradizione socialista del movimento operaio.
Perché non c’è più autonomia nell’«economico» né oggettività nella crisi, ma ovunque scontro di interessi e organizzazioni.
Perché il potere non sta da una parte sola, e non c’è una classe di «produzioni» contrapposta agli «sfruttatori», ma un rapporto che è produttivo perché scontro di interessi in lotta; quindi non c’è possibilità di liberazione che passi per la semplice «eliminazione degli sfruttatori», cioè per la «socializzazione del rapporto», il socialismo: non c’è superiorità della pianificazione sul mercato, ma solo possibilità di comando sul rapporto di sviluppo, costrizione a produrre più classe operaia e meno capitale.
Sono rotture importanti, attraverso cui passa un complessivo diverso orientamento delle tematiche emancipative.
Innanzitutto il ridimensionamento del ruolo della conquista del potere politico dentro il processo di liberazione, e, all’interno di questo, la rivalutazione della storia delle classi operaie occidentali. Poi l’ancoramento saldo di ogni discorso sull’organizzazione al sistema di bisogni materialmente espresso, che è il livello dato di autonomia di classe.
È un discorso nato nei termini dell’autonomia politica di classe, cioè autonomia del sistema di bisogni, autonomia del potere operaio: partecipazione conflittuale allo sviluppo e minaccia del blocco, cioè contrattazione consapevole in vista del conseguimento degli interessi di parte.
È un discorso che cresce in fretta però, perché le basi sono ricche.
Una volta, infatti, che si legga la società capitalista non più come il luogo del comando incontrastato dell’interesse di parte del capitale, della gerarchia che si esprime nel rapporto di lavoro salariato, ma come il luogo dello scontro tra lavoro e rifiuto del lavoro; una volta che si riconosca che come lotta si organizzano quelle medesime risorse che sono sostanza dello sviluppo del capitale, e che i bisogni sociali possiedono una autonomia dal comando sul lavoro; che alla gerarchia costruita attorno al tempo di lavoro se ne contrappone un’altra costruita attorno al tempo della lotta, al tempo liberato dal lavoro, e che anch’essa detiene conoscenza, è tessuto di comunicazione e organizzazione sociale, è forza produttiva; riconosciuto tutto ciò, il problema diventa quello della crescita e dell’arricchimento delle risorse che si presentano come «non capitale», quello del blocco della sintesi sociale di parte capitalistica, della possibilità di una sintesi diversa sul terreno non tanto della organizzazione del potere politico quanto su quello della struttura delle forze produttive.
Cioè diventa la destrutturazione del rapporto di capitale.
Se la società non è più vista come il teatro di un solo attore, l’interesse di parte capitalista, bensì il rapporto di capitale, appare la sintesi faticosa degli interessi di due parti nemiche; se, accanto al principio regolatore del valore di scambio, motore potente della produzione sociale è l’interesse operaio al valore d’uso; se il potere sociale è diviso; allora la dinamica del potere operaio – non quello «politico», che vorrebbe governare lo stato, che non c’è e di cui non si sente la mancanza, ma quello «sociale» che c’è, e partecipa potentemente al governo di questo mondo –, la dinamica della crescita del potere operaio e della sua subordinazione, i termini della sua lotta e trattativa incessanti, vanno investigati e ripercorsi con gli occhi di chi ne cerca le leggi e il principio di strutturazione, cioè la capacità di essere organizzazione sociale postcapitalista, comunismo.
«Più salario, meno lavoro», «salario sganciato dalla produttività»: queste potenti parole d’ordine di massa che esploderanno nell’autunno operaio del ’69 appaiono la base politica su cui si costituiscono le prima esperienze autonome di organizzazione non solo e non tanto per la loro capacità di disturbo nei confronti degli apparati organizzativi tradizionali né per la loro «valenza estremista» di indurre «crisi» economica e politica, ma perché in esse viene letto un possibile, emergente, programma di potere. Nel senso che con esse appare rompersi il rapporto tra comando capitalista sulla produzione della ricchezza e la produzione dei bisogni sociali.
La gerarchia che si esprime dentro il processo produttivo, le divisioni funzionali attorno a cui questo ordina il corpo operaio, appaiono impotenti a comandare le richieste sociali, i canali attorno a cui queste si strutturano.
Tra composizione di classe – e cioè tra la struttura dei ruoli, la forma della circolazione delle capacità produttive, delle informazioni, dei bisogni operai – ed organizzazione produttiva compare uno iato profondo che è già duplicità delle gerarchie, scontro aperto di poteri e dei criteri attorno cui si ordinano.
Perché il contrasto tra bisogni e produzione non è come quello tra «sogno» e «realtà»: esprime lo scontro tra canali di comunicazione sociale, tra organizzazioni di uomini; esprime l’incapacità da parte della gerarchia sociale che ordina la produzione di comandare tutta la società, esprime cioè il fatto di essere parte troppo piccola di essa, che in essa non confluisce una quantità sufficiente di risorse sociali, e che comincia a formarsi un differente punto di aggregazione.