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Tu sei rock e su que­sto rock
costrui­rò la mia chiesak

«Ora sei rima­sta sola, pian­gi e non ricor­di nul­la», non è una ammor­bi­di­ta fra­se del­lo Stec­chet­ti (poe­ta male­det­to): è il capo­ver­so di una mia vec­chis­si­ma can­zo­ne anni ’60–61 che tor­na stra­na­men­te d’at­tua­li­tà, a distan­za di 15 anni, al Festi­val del­la stam­pa d’op­po­si­zio­ne al Par­co Raviz­za a Mila­no. Ver­so la fine del mio spet­ta­co­lo, ana­liz­zo in modo auto­cri­ti­co le mie ori­gi­ni musi­ca­li «roc­chet­ta­re» e il revi­val par­te per l’ap­pun­to con la sopra cita­ta Ora sei rima­sta sola. È in quel­la situa­zio­ne mol­to tesa che mi chie­do­no di can­ta­re tut­ta la can­zo­ne, lascian­do­mi a dir poco stu­pi­to; mi vie­ne spon­ta­neo repli­ca­re: «Sì d’ac­cor­do, però can­ta­te anche voi». A que­sto pun­to si met­to­no a can­ta­re in sei­mi­la (più o meno) e mi tro­vo improv­vi­sa­men­te in imba­raz­zo, a disa­gio, let­te­ral­men­te nel­la mer­da, ma ormai can­tia­mo in coro.
Da que­sto appa­ren­te super­fi­cia­li­tà nasce, secon­do me, una chia­ra spie­ga­zio­ne del cosid­det­to feno­me­no del revi­val. Non è un ripe­scag­gio dovu­to a vec­chi nostal­gi­ci, è la curio­si­tà di gio­va­ni che vaga­men­te cono­sco­no o che comun­que, per man­can­za di nuo­vo (maga­ri diver­ten­te o rilas­san­te) han­no voglia di tem­po libe­ro e non liber­ti­ci­da.
È altret­tan­to espli­ci­to che que­sto tipo di eva­sio­ne è pos­si­bi­le in un par­ti­co­la­re con­te­sto dove, dopo ave­re con­trol­la­to i docu­men­ti, la coscien­za poli­ti­ca e la sicu­rez­za del­la stes­sa, vie­ne di con­se­guen­za la pos­si­bi­li­tà di ammet­te­re: «Ma sì, lascia­mo­ci anda­re a coglio­nag­gi­ni per un momen­to, can­tia­mo un po’ facen­do­ci un paio di auto­no­me risa­te». Sta­bi­li­to quin­di il tipo di sdop­pia­men­to che da una par­te si iden­ti­fi­ca nel­l’In­ter­na­zio­na­le e dal­l’al­tra nel­la ricrea­zio­ne del rock, l’u­ni­ca cosa impor­tan­te è che cre­de­re nel rock vor­reb­be dire cor­re­re il rischio di inzup­par­si in una spe­cie di bie­ca fede ma che, per pren­de­re fia­to, va benis­si­mo. Nes­su­no, pen­so, vor­reb­be ritro­var­si nei pan­nac­ci di chi, dime­nan­do­si spie­ta­ta­men­te ad 80 anni, si spie­gas­se addu­cen­do: «Ho spe­so tut­ta la mia vita per il roc­k’­n’­roll». Tra l’al­tro cor­re­reb­be il rischio di ritro­var­si con­vo­glia­to tra le fila di un cor­teo com­po­sto di alpi­ni e mari­nai, nel ruo­lo di roc­ken­rol­la­ro.
La real­tà cre­do sia che non ci han­no mai inse­gna­to nien­te, e che ci han­no sem­pre lascia­to fare l’a­mo­re in modo spa­ven­ta­to e dram­ma­ti­co, sen­za per­met­ter­ci il nor­ma­le pia­ce­re di una sin­ce­ra risa­ta, pri­ma, duran­te e dopo; così le can­zo­ni ci han­no accom­pa­gna­to e segui­to, il più del­le vol­te per­se­gui­tan­do­ci nel­la repres­sa real­tà di sem­pre. C’è, di con­se­guen­za, una rab­bia, una ribel­lio­ne, una rivo­lu­zio­ne che a slo­gan rit­mi­ci por­ta anche la can­zo­ne a una nuo­va espres­sio­ne di con­te­sta­zio­ne e di biso­gno epi­der­mi­co di par­la­re di esi­gen­ze rea­li, non di «Amo­ri stel­la­ri e fran­ce­schia­ni» (mi rife­ri­sco a Bat­ti­sti-Mogol che non han­no anco­ra capi­to che era pro­prio Fran­ce­sca e mi sem­bra più che giu­sto).
Sia­mo ora ad una fase in cui, da una par­te, esi­ste un lin­guag­gio indub­bia­men­te e deci­sa­men­te cam­bia­to, dal­l’al­tra una for­mu­la e un modu­lo musi­ca­le che non è cam­bia­to qua­si per nien­te. For­se il pro­ble­ma è «fare suo­na­re le paro­le e fare però par­la­re la musi­ca». Io ci sto pro­van­do, e dico que­sto per­ché mi ren­do con­to che è pos­si­bi­le, anche se dif­fi­ci­le e a vol­te sfra­cel­lan­te (mi rife­ri­sco a A Ner­vi nel ’92 e a Com­pa­gno sì, com­pa­gno no, com­pa­gno un caz­zo).
Ades­so vor­rei fare un pas­so indie­tro, pre­met­ten­do che non cre­do nel­la rein­car­na­zio­ne né quin­di nel­la fati­co­sa pos­si­bi­li­tà di nasce­re e mori­re due o più vol­te. Con que­sto non voglio intro­dur­re il soli­to e sem­pre­ver­de miste­rio­so inter­ro­ga­ti­vo «Che cos’è la vita? » ma dicia­mo che mi limi­te­rò all’e­si­gen­za di una più faci­le, anche se spe­ri­co­la­ta, rispo­sta: la vita è un wal­tzer, anzi – in que­sto caso – un roc­k’­n’­roll.
Que­sta spe­cie di post­pre­fa­zio­ne è dedi­ca­ta a quel­li che sicu­ra­men­te acco­ste­ran­no alla let­tu­ra cro­no­lo­gi­ca dei testi la facil­li­ma defi­ni­zio­ne «Il vec­chio Ric­ky Gian­co e il nuo­vo Ric­ky Gian­co» sen­za così toglie­re una vol­ta per tut­te a Gesù Cri­sto quel­lo che natu­ral­men­te era di Laz­za­ro. Il rock and roll nasce con un musi­ci­sta disc-jokey di nome Alan Freed che, ascol­tan­do dischi di rithm and blues nel­l’A­me­ri­ca del 1951, ini­zia un pro­gram­ma radio­fo­ni­co inti­to­la­to: «Moon­do­g’s Roc­k’­n’­Roll Par­ty». L’ac­co­sta­men­to del­le paro­le R’n’R (Roc­k’­n’­roll) si ispi­ra auto­ma­ti­ca­men­te a R’n’B’ (rithm and blues).
Nel 1954 par­te defi­ni­ti­va­men­te il rivo­lu­zio­na­rio perio­do con in testa il defun­to Elvis, che, fra l’al­tro, mol­ti ascol­ta­to­ri sta­tu­ni­ten­si cre­do­no can­tan­te di colo­re; così si sca­te­na un nuo­vo modo di esi­ste­re e il diver­so lin­guag­gio comin­cia a entra­re in tut­te le case ame­ri­ca­ne stra­col­me di tee­na­gers cre­sciu­ti nel mac­car­ti­smo, ma comun­que desi­de­ro­si di nuo­vo, oltre che di vec­chi e soli­ti ham­bur­gers.
Ogni casa disco­gra­fi­ca cer­ca imme­dia­ta­men­te l’i­do­lo da con­trap­por­re a Elvis ed è così che si svi­lup­pa­no vari tipi di rock e di ese­cu­to­ri, che io divi­de­rei appros­si­ma­ti­va­men­te in que­sti grup­pi: 1) rock bian­co, sel­vag­gio, cari­co di ses­so e vio­len­za (Pre­sley – E. Cochran – J.L. Lewis – G. Vin­cent – B. Hol­ly); 2) rock nero, chia­ve base di blues e rit­mo e stru­men­to non di lot­ta per la fine del ghet­to ma per l’u­sci­ta o la fuga da esso (L. Richard – F. Domi­no – C. Ber­ry – B. Didd­ley); 3) rock bian­co per­be­ni­sta e puri­ta­no con rit­mi edu­ca­ti e abban­do­no a tra­di­zio­ni coun­try ed hill­bil­ly, roba da vec­chio Sud, meglio se ric­co (R. Nel­son – Ever­ly Bro­thers – R. Orbin­son – C. Twit­ty – P. Boo­ne); 4) rock del pian­to, fal­so rit­mi­ca­men­te e melen­so melo­di­ca­men­te, con pun­te di sof­fe­ren­za mas­si­ma anche in caso di pia­ce­vo­li e feli­ci situa­zio­ni tipo: You are my desti­nyPut your head on my shoul­derThe dia­ryHap­py bir­th­day sweet six­teen (P. Anka – N. Seda­ka – F. Ava­lon – R. Luke).
Natu­ral­men­te, que­sta non è la sto­ria del rock, ma un modo per spie­ga­re abba­stan­za chia­ra­men­te come io, un po’ per sfi­ga, un po’ per mia insi­pien­za, sia cre­sciu­to nel filo­ne del rock del pian­to. Pro­ba­bil­men­te, anche se in manie­ra vit­ti­mi­sta, per usci­re dal mio metro e ses­san­ta e dai miei per­se­gui­tan­ti bru­fo­li (1957–58, I bru­fo­li non li ho più). Sono pas­sa­to, in 21 anni di lavo­ro, attra­ver­so: feste sco­la­sti­che – festi­val del dilet­tan­te (tipo «Cap­pio d’o­ro», dove i fischi del pub­bli­co pote­va­no met­ter­ti nel­la con­di­zio­ne di esse­re tra­sci­na­to fuo­ri dal pal­co, men­tre can­ta­vi, gra­zie appun­to al famo­so «Cap­pio»); feste di piaz­za – avan­spet­ta­co­lo – festi­val di San­re­mo – bale­re – tea­tri-caba­ret – sta­di – festi­val del­l’U­ni­tà – del­l’A­van­ti ecc. cre­scen­do sem­pre a con­tat­to con pub­bli­ci diver­si.
Anche se i com­por­ta­men­ti sono cam­bia­ti, le rea­zio­ni del pub­bli­co sono spes­so, a parer mio, qua­si iden­ti­che. Il diver­so sta in tut­to lo spet­ta­co­lo come fat­to cul­tu­ra­le, che si è in bloc­co con­ti­nua­men­te evo­lu­to nel tem­po e nel­le sostan­ze.
Quel­lo che voglio dire è che un Vil­la anco­ra oggi è applau­di­to, ma dal­lo stes­so vec­chio pub­bli­co di allo­ra, men­tre un Gaber ha un pub­bli­co nuo­vo che non accet­te­reb­be sicu­ra­men­te Vil­la.
L’in­te­res­san­te sta nel fat­to che for­se un Gaber potreb­be recu­pe­ra­re il vec­chio pub­bli­co di Vil­la, non cer­ta­men­te il con­tra­rio. Quan­do gl’in­tel­let­tual-bor­ghe­si degl’an­ni ’60 ascol­ta­va­no Pao­li, Bin­di, e poi Ten­co e De Andrè, sor­ri­den­do per­ché a cono­scen­za dei vari Vian, Bras­sens, Brel ecc., con­si­de­ra­va­no il feno­me­no tut­to loro e fra i libri di Bau­de­lai­re, Bre­cht e Marx infi­la­va­no i dischi di que­ste diver­ten­ti e intel­li­gen­ti can­zo­ni. I bale­ra-peo­ple, inve­ce, meno como­da­men­te sedu­ti, non segui­va­no i con­te­nu­ti (con­si­de­ra­to anche che la loro mer­ce ne era pri­va) ma si tuf­fa­va­no nel­la dan­za lascian­do solo ai vec­chi il pia­ce­re di una can­ta­ta in oste­ria.
Così, in un secon­do tem­po, men­tre i bor­ghe­si si but­ta­va­no sul mon­di­nag­gio salot­tie­ro, i pro­le­ta­ri e sot­to­pro­le­ta­ri più o meno incaz­za­ti, comin­cia­va­no a chie­de­re e poi a pre­ten­de­re ciò che gli appar­te­ne­va e che era la loro cul­tu­ra popo­la­re fat­ta di lot­te con­ti­nue col sem­pre più fati­co­so, quo­ti­dia­no. Con la lot­ta comu­ni­sta d’op­po­si­zio­ne pri­ma e defi­ni­ti­va­men­te col ’68–69 dopo, si ripren­de un duro lavo­ro poli­ti­co (non per la miste­rio­sa «rico­stru­zio­ne») per una costru­zio­ne col­let­ti­va che coin­vol­ge tut­ti, mili­tan­ti e non, che sve­glia anche chi vive chiu­so in casa coi pro­pri pro­ble­mi per­so­na­li.
La can­zo­ne poli­ti­ca per anto­no­ma­sia diven­ta così non solo una denun­cia fat­ta di «Ban­die­re ros­se» o «A mor­te il padro­ne», ma anche di per­so­na­le che, in que­sta manie­ra, diven­ta poli­ti­co. Can­tau­to­ri e can­tau­to­ri poli­ti­ciz­za­ti fan­no del­la musi­ca ita­lia­na un fat­to di infor­ma­zio­ne e attua­li­tà, come for­se era cono­sciu­ta seco­li pri­ma da can­ta­sto­rie pun­gen­ti e iro­ni­ci. Per quel­lo che mi riguar­da cre­do mol­to in que­sta dire­zio­ne, sen­za con ciò rin­ne­ga­re la mia ori­gi­ne fat­ta di rock, ma piut­to­sto medi­tan­do sul fat­to che se Elvis Pre­sley aves­se potu­to sce­glie­re tra mafia e movi­men­to, pro­ba­bil­men­te avrem­mo avu­to un gros­so lea­der. (La let­te­ra di Lenin su Mus­so­li­ni mi è venu­ta in men­te solo dopo, lo giu­ro: anche se non so su «cosa»).

Disco­gra­fia: Una gior­na­ta con Ric­ky Gian­co (Jaguar); Ai miei ami­ci di Ciao Ami­ci (Jaguar); Ric­ky Gian­co Spe­cial (Ricor­di); Disco del­l’an­go­scia (Ulti­ma spiag­gia); Alla mia mam… (Ulti­ma spiaggia).

Alla com­po­si­zio­ne del­le can­zo­ni di Ric­ky Gian­co han­no col­la­bo­ra­to Miki Del Pre­te (Sei rima­sta sola), Det­to-Don Bac­ky-Del Pre­te (Tu vedrai), G. Pie­ret­ti (II ven­to del­l’e­st), E. Green‑C. Mont­go­me­ry (Que­sta casa non la mol­le­rò) e Gian­fran­co Manfredi.

COMPAGNO UN CAZZO!

Sto facen­do un noti­zia­rio cam­bo­gia­no
da una radio libe­ra, per chi?
Il micro­fo­no è un po’ fal­li­co però
il pote­re non ce l’ho no, no!]
Cir­con­da­to dai mass media sul­la sedia
io lavo­ro sem­pre gra­tis ma
c’è Anto­niet­ta che mi ama e che mi aspet­ta
tut­ta not­te lei mi ascolterà

Com­pa­gno sì, Com­pa­gno no, Com­pa­gno un caz­zo!
Com­pa­gno sì, Com­pa­gno no, Com­pa­gno un cazzo!

Io c’ho il pro­fu­go cile­no a casa mia
è arri­va­to nel ‘73
e da allo­ra lui non è più anda­to via
Anto­niet­ta fam­mi star da te
pas­sa un gior­no, pas­sa un mese, pas­sa un anno
L’u­ni­tà scon­fig­ge­rà il padro­ne
ma Anto­niet­ta mi ha but­ta­to per la stra­da
vuoi veder che sono io il coglione

Com­pa­gno sì…

Vado a pren­de­re un po’ d’er­ba da un ami­co
ad Anto­niet­ta la rega­le­rò
io la lascio chiu­sa in mac­chi­na un secon­do
per anda­re a bere un buon caf­fè
quan­do esco m’han spac­ca­to il fine­stri­no
e un ragaz­zo sta sal­tan­do il muro
come fai a man­da­re uno a San Vit­to­re
poi fini­sce che gli fan­no il culo
Si avvi­ci­na un tizio con cra­vat­ta e giac­ca
tira fuo­ri in fret­ta un tes­se­ri­no
e mi dice: «Tu sei uno di sini­stra
sta’ tran­quil­lo sono un cele­ri­no
son pulot­to sì, ma son del Sin­da­ca­to-
for­za dim­mi cosa ti ha ruba­to»
Io gli dico: «Lascia per­de­re com­pa­gno
è un pro­ble­ma trop­po delicato »

Com­pa­gno sì, Com­pa­gno no, Com­pa­gno un cazzo!

[1977]

Que­sta casa non la mollerò

Son qui per but­tar­ci fuo­ri di cit­tà
son tut­ti in fila lì per sei però non sono mica ami­ci miei
sono venu­ti tut­ti qui per noi, ma guar­da che adu­na­ta di cow­boys
di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

In ter­za fila vedo uno che somi­glia pro­prio a mio cugi­no
por­co cane è pro­prio Bru­no, ma per­ché s’è fat­to cele­ri­no
ma se ci pro­va a veni­re su, io dal­le sca­le lo ribut­to giù
di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

E c’è una don­na qui con me che non ave­va visto mai un bidè
quan­do lo schiz­zo vie­ne su, si met­te a ric­fe­re, non ne può più
tri­pli ser­vi­zi, ma tu guar­da un po’, pas­sa­no il gior­no a fare la popò
di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

Sul pavi­men­to le pia­strel­le son dipin­te tut­te quan­te a stel­le
sul­la pare­te abbia­mo scrit­to «que­sta casa è nel nostro dirit­to»
se le tene­te vuo­te cari miei, le con­ser­via­mo intan­to noi per voi
di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

Uh can­de­lot­to vie­ne su, non si respi­ra, non se ne può più
mia moglie strin­ge fra le brac­cia un bei bam­bi­no luci­do da cac­cia
di que­sti tem­pi non ci sono san­ti, con tan­ti ladri è meglio sta­re pron­ti
ma di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

Pre­sto la por­ta si apri­rà, un poli­ziot­to ci sor­ri­de­rà
d chie­de­rà se per favo­re voglia­mo scen­de­re in un paio d’o­re
sarà gen­ti­le ci darà del Lei, ne ammaz­ze­rà sol­tan­to cin­que o sei
ma di qui non usci­rò, que­sta casa non la mollerò

[1974]