Da «Neg/azione», 1976
AUTONOMIA COME AREA
La proletarizzazione non è affatto la sinistrizzazione dei ceti medi e altoborghesi. Questa sinistrizzazione, che è quanto «sostanzialmente» è apparso di nuovo negli ultimi dieci anni in occidente, più che preliminare o nella prospettiva della proletarizzazione è stata la fogna ideologica che l’ha esorcizzata. L’economista Paolo Sylos Labini – ideologo del «compromesso storico» – nel «Saggio sulle classi sociali» (non a caso abbondantemente recensito dai giornali della sinistra borghese e della borghesia sinistrista) tira come conclusione trionfalistica e positiva «…la crescita politica e quantitativa delle classi medie» mentre Umberto Fusi sul quotidiano del Partito Sedicente Comunista trova in questo il «presupposto per uscire realmente a sinistra dalla crisi che attraversiamo». Questi sicari sono soddisfatti. La proletarizzazione che è stato l’incubo sul terreno delle possibilità per i capi della sinistra storica e nuova ha trovato la soluzione nel gelatinoso ottundimento dell’ideologia, è abortita nel democraticismo autogestionario accelerato e difeso maliziosamente dalla crisi orizzontale e verticale dell’esistente capitalistico come sua ultima autodifesa. La riproduzione del capitale avviene dunque per aborti, la sinistra trionfante è la fabbrica di ristrutturazione dei modi di produzione estesisi – dominio reale del capitale – su tutto l’esistente sociale, i sicari soddisfatti preparano già la loro «notte dei lunghi coltelli»: l’indefinibile Paietta – ignorante e anticomunista ne esprime i preparativi rilasciando una intervista a «Panorama»: il possibile serbatoio di voti extraparlamentari verso cui il Piccì ha sempre mostrato un burbero interesse, un affetto manesco, nel tentativo dei gruppi di sopravvivere a se stessi trasformandosi in minipartiti si sta trasformando in serbatoio di voti per sé: di conseguenza gli Hitler e i Goering della sinistra classica stanno affilando le lame.
Per quanto li concerne gli extraparlamentari di sinistra, pomposamente catalogatisi come «sinistra rivoluzionaria», potevano – forse… – realizzare dei punti di proletarizzazione (certamente di proletarizzazione anche per i proletari stessi) da cui si sarebbero autoorganizzati – in ogni senso, non in un significato politico – gli stessi proletarizzati. Ma i gruppi si sono sempre accanitamente opposti a ciò; si può comprendere: la funzione a cui li ha determinati il processo capitalistico era appunto di esorcizzare la proletarizzazione, e la sua radicalizzazione autonoma, mentre la gestivano ideologicamente e organizzativamente. Le scorie autonomistiche che i gruppi si sono lasciati alle spalle, compresa la cosiddetta «area dell’autonomia», ripercorrono d’altronde i passaggi di un gruppuscolarismo senza gruppo: l’autonomia separata dalla radicalizzazione, dalla critica radicale e dialettica di tutto l’esistente capitalistico – e va puntualizzato: anche e soprattutto dalla politica, anche e soprattutto della Sinistra – non ha senso. L’autonomia non può essere solo un fatto di organizzazione, l’estremismo autonomistico è solo una farsa drammatica rappresentante la radicalizzazione, l’estremismo è solo lo spettacolo della radicalità. Tuttavia le contraddizioni e lo spettacolo dell’«area dell’autonomia» celano – anche a se stessa e soprattutto – l’unico fatto che si possa ritenere interessante scaturito dal recente passato: l’unico fatto politico che contenga inespresso – il proprio superamento radicale, la propria possibile radicalizzazione. Non vi è radicalizzazione se non vi è la presenza concreta della soggettività radicale, della critica radicale portata nella sua totalità contro la totalità alienata ed alienante, della negazione non separata dalla creatività, della creatività non separata dalla negazione. O in questa prospettiva. Tutto il resto è spettacolo, rappresentato o unilateralmente recepito, nella passività della rappresentazione e nella passività della recezione. Soprattutto ora che la crisi verticale dell’esistente capitalistico incontra la sua crisi radicale, e produce la propria radicalizzazione che non può non prodursi, e dialetticamente la radicalizzazione di ogni momento della vita quotidiana.
La storia non offre due volte lo stesso letto, la seconda volta è una bara.
Tanto per iniziare si tratta di non scambiarla, tuttavia, per un letto.
E poco, ed è già qualcosa.
AUTONOMIA OPERAIA E AUTONOMIA DEI PROLETARI
Sono circa due anni che i giornali del Kapitale italiano (tutte le sue tendenze, dal Tempo all’Unità) sbraitano contro un nuovo «gruppo»:
Autonomia Operaia, autore a loro dire di tutte le «provocazioni» e delle «azioni teppistiche» compiute negli ultimi tempi.
In questi giorni poi la campagna giornalistica (soprattutto da parte della sinistra capitalistica) contro i «provocatori» si è accentuata poiché in fase di ristrutturazione il capitale italiano non può sopportare l’attività «sovversiva» dei compagni che non intendono più pagare sulla propria pelle il prezzo delle varie «crisi» capitalistiche o meglio il prezzo dell’esistenza capitalistica stessa.
Compagni che sono usciti dalla logica «politica» dei partiti o gruppetti stalino-leninisti e che superando la falsa sfera della «politica», alienante e separata, portano avanti un discorso basato sull’esigenza di negare la sopravvivenza capitalistica, la dittatura spettacolar-mercantile che il dominio reale del capitale ha imposto.
Storicamente la classe operaia nei momenti di esplosione rivoluzionaria ha sempre mandato affanculo i preti radical-borghesi socialisti, sedicenti comunisti, che erigendosi a suoi rappresentanti si erano innalzati i propri templi imponendo ai «protetti» il pellegrinaggio dopolavoristico.
Fin dalle sue origini la classe operaia ha trovato momenti di organizzazione e di collegamento al di là degli schemi delle varie organizzazioni radical-borghesi, non ha certo aspettato il messia rivoluzionario per reagire al capitalismo. Ha saputo trovare propri mezzi e modi: dagli scioperi selvaggi agli atti di sabotaggio.
Cominciando dal 1811 in Inghilterra con il movimento Luddista, prima e grossa espressione dell’autonomia operaia, passando per il giugno 1848 con le giornate del proletariato rivoluzionario parigino, continuando con La Comune e con i movimenti del Novecento con la rivoluzione sovietica (fino a quando rimane tale), fino al ’68.
In queste esperienze il proletariato ha però superato l’ambito riduttivo delle rivendicazioni economico-politiche; o meglio nel momento in cui il capitale superando la fase di dominio formale ha instaurato il suo dominio reale, il proletariato e con esso i proletarizzati ha cominciato un discorso totale contro il suo essere proletario (o proletarizzato), contro il lavoro, contro la sopravvivenza capitalistica rifiutando la sfera separata della «politica».
Concludendo si può parlare dell’autonomia degli operai che tendono a negare la loro sopravvivenza in quanto tali e ad affermare la loro vita in quanto comunisti, dell’autonomia dei proletarizzati che negano la società spettacolar-mercantile ponendosi contro di essa (al di fuori non ci crede nessuno). Cosa diversa è invece l’organizzazione «Autonomia Operaia», rimasta interna alla logica politica, all’ideologia marx-leninista, all’ipotesi del «partito rivoluzionario», negando il contrasto tra i due concetti: di partito, che implica una ideologia, una struttura verticale, dei quadri dirigenti, dei militari, dei simpatizzanti, degli iscritti, dei militarizzati e dei non…; e di rivoluzionario, che nega tutto ciò e afferma se stesso, il proprio corpo, le proprie esigenze (comuniste).
Questi compagni (Aut. Op.) partono da una realtà rivoluzionaria: l’esigenza di sviluppo autonomo di bisogni proletari, per riproporre tuttavia la «militanza rivoluzionaria» (professionale) e il partito, con l’unico risultato di incanalare queste esigenze rivoluzionarie negli schemi capitalistici della «politica» e dell’«ideologia».
Pur muovendosi da premesse antirevisioniste (il rifiuto della figura coscienziale del partito e l’innesco del movimento autonomo) l’autonomia operaia organizzata fa rientrare il partito dalla finestra, burocratizzando lo stesso concetto di «autonomia».
Da «Puzz» – La fabbrica della repressione – numero unico-settembre 1975
AUTONOMIA, RADICALIZZAZIONE, AGGREGAZIONE INFORMALE…
1) La dialettica del superamento, la lucida visione che spacca il vissuto (e il non-vissuto quotidiano), la critica violenta dell’esistente, nell’esistente, della propria esperienza, l’affermazione radicale del diverso come pratica e crescita o meglio come origine dell’uomo totale, della donna totale, della specie nella sua totalità; ciò che squarcia i tendini che legano al passato, che azzanna la lugubre continuità riproduttiva di ognuno, violentandone i nervi e scorticandone la gola, tutto questo e solo questo è inscrivibile in quel progetto originario (poiché si pone come fine l’origine dell’essere) che è il comunismo.
2) Ciò che non si esprime nella pratica del rifiuto (della negazione), rimbalza impotente, nelle latrine gerarchizzate e ruolizzate della socialdemocrazia o in qualche infame sottoprodotto di marca nazista.
Ciò che il diverso esprime è creatività poiché scolla violentemente la sua essenza dell’esistente traendo dal proprio farsi (e non dal riprodursi) le indicazioni della vera guerra. Ciò che differenzia il diverso dal nuovo è il suo porsi come certezza in atto e non come novità di mercato. L’estremismo, con tutte le fredde accozzaglie che lo accompagnano, coi gesti romantici dei martiri sciagurati, con i consunti movimenti che riproducono, sotto la vernice fresca del rivoluzionario, i vecchi passi che il capitale meglio e altrove sa fare e controllare, resta il punto fermo dell’esistente; (…)
L’estremismo è l’ultima corda con cui si allestiscono le forche del capitale, l’accettazione del riprodursi del capitale come sviluppo interiorizzato. Inutili gli esempi a chi possiede lo sguardo disincantato e la miseria reale dell’ultrasinistra.
3) La pratica del rifiuto e lo sganciarsi violento dal programma capitalistico, la disintegrazione pratica dell’io, la tenaglia che spezza il cavo teso che congiunge il proprio progetto al progetto generale prefabbricato.
L’estremista e il deviante cadono, sotto la mannaia della storia, nel cesto di vimini cui sono riferiti.
Si muore e si nasce nella stanza di sempre, ma la vita è altrove.
Il rompicapo semantico riduce estremismo e devianza al nodo scorsoio del riferimento grammaticale e atono di un complemento di specificazione: estremisti di chi, di che cosa? Devianti di chi, di che cosa? Rivoluzionari di chi, di che cosa?
L’interrogativo si esaurisce nella scaltra determinazione del soggetto nascosto: il capitale. (…)
Il significato del dominio reale come momento storico del capitale interiorizzato svela, del resto, gli ultimi appigli psicoanalitici.
I vecchi totem e i mistici tabù cui si riferisce Reich in «Psicologia di massa del fascismo» lasciano il posto, sotto lo sguardo consenziente della normalità imperante e del suo recupero spettacolare qual è la pazzia normalizzata, agli idoli recenti aleggianti tra le pieghe delle novità del mercato rivoluzionario, su cui si contrabbandano le nuove parole d’ordine da valorizzare.
4) Si tratta alla fine di non avere più idoli, né mercati o parole d’ordine a cui ubbidire. Si tratta alla fine di insorgere nella pratica del rifiuto, spezzando la normalità rassegnata e i suoi eccessi, estremi.
Ciò che frantuma la continuità dell’esistente è l’essenza che stabilisce, insorgendo, la di/visione tra il normale e il diverso, ossia ciò che abolisce il fulcro latente cui le false insurrezioni fanno riferimento.
La vera eversione, la coscienza della diversità che pulsa, si riferisce solo a se stessa, come momento corporeo della rivoluzione in processo.
Si tratta, alla fine, di avere se stessi a portata di mano come arma individuale innescata dalla pluralità della lotta.
Possedere se stessi vuoi dire parimenti essere posseduti dai propri desideri che squarciano i veli del fittizio indicando la realtà propria e del mondo. (…)
Ogni sortita che non muova dalla vita corrente intesa come rottura in atto della quotidiana pianificazione capitalistica, si pone sempre come fase riproduttiva (seppure estrema) dell’esistente.
Le armi, in questo caso, diventano le armature con cui si valorizza la propria essenza. Al contrario, la lucida chiarezza di ciò che si sta vivendo, del come si sta vivendo, del perché non si può vivere, della vita corrente come momento di scontro, fanno dell’essere più nudo, l’unica vera potenza armata.
5) (…). Da quando il dominio reale del capitale ha trasformato il pianeta sociale (la società spettacolare-mercantile) in un unico mercato, ognuno fa della propria esistenza il mercatino della propria assenza.
Ognuno, nelle attuali condizioni è forza produttiva circolante e interscambiabile della propria miseria.
I rapporti tra gli individui non sono altro che l’immagine mistificata (epifenomeni) dei rapporti di produzione.
Il movimento di valorizzazione del capitale e dei suoi prodotti ideologici (produzione-scambio-circolazione di merci, al pari della produzione-scambio-circolazione di idee) si è fuso e depositato nell’essere, gestore autogestito di una dinamica che non gli appartiene.
Si guardi per un attimo l’interscambiabilità dei ruoli, le misere rappresentazioni della figlia-moglie-madre come momento manifesto di questa unità dialettica del capitale.
Il capitale, anche i termini di integrazione positiva, precede sempre le mosse del suo popolo.
12) (…) quando i morti seppelliscono i loro morti i vivi restano soli.
Questa è, d’impatto, l’immagine che coglie il partigiano dell’essere alle prese con la storia.
Nel superamento qualitativo, nella crescita che accompagna la .corporeità in rivolta, le file si assottigliano, le presenze fisiche si sfoltiscono. Ne potrebbe essere diversamente in un movimento storico in cui la lotta e la creazione stessa esigono la negazione degli altri, il rigetto dell’opportunismo.
Il vomito che accompagna l’espulsione del capitale interiorizzato gioca puzzolente nella gola del partigiano, prima di essere sputato. È in questo senso che la gola si sente soffocare, che la parola sembra impossibile, che lo sguardo si fa allucinante.
Ma siamo nell’esistente e resistente rimane anche per noi il riferimento della lotta seppur in termini distruttivi e non riproduttivi.
Non basta sognare la liberazione o parlarne, bisogna praticarla, ed è in questa pratica che la screpolatura e gli incendi innescano la gioia, mentre le delusioni attizzano il peso enorme della schiavitù.
Più il corpo procede disincantato verso la propria conquista, più il peso delle catene si fa intollerabile, più la specie procede verso la propria unione, verso la propria origine, più la separazione e la solitudine piombano come corvi sui corpi in rivolta. È lo scotto che da sempre l’oppresso paga all’oppressore, ma per l’ultima volta!
La falsa socialità, del resto, nutre gli uomini della falsa illusione di essere insieme, di vivere insieme mentre altro non sono che elementi transistorizzati di un computer sociale la cui scheda perforata porta il marchio del capitale.
Dividersi dagli assenti non significa propriamente solitudine ma autonomia. Chi non coglie la radicalità del tempo che stiamo per abbattere, è soggetto agli abbagli dell’isolamento, mentre una minima inversione di pensiero lo renderebbe conscio della propria dirompente autonomia.
13) Tutto ciò che non possiede e non tende alla totalità, trasmuta impeccabilmente nelle fonderie dell’ideologia, mentre tutto ciò che si sfuoca nell’ideologia si erge contro l’essere, assumendo il compito (la cinghia di trasmissione) con cui il capitale recupera ogni movimento.
Ciò che esiste sotto il nome di autonomia non troverà certo il suo significato nei collettivi organizzati (…).
L’autonomia non è un movimento ma l’essere in movimento, il diverso che diventa padrone della propria dinamica e della dinamica sociale. L’autonomia è il riscoprirsi come totalità agente, come unità integrata del corpo con il mondo, come coscienza reale dei bisogni e desideri che sottendono il corpo nella sua individualità e la specie nella sua pluralità.
Si tratta, alla fine di essere autonomi dalla, e nella, autonomia stessa.
Da «Puzz» n. 17–18, gennaio-marzo 1975.
AUTONOMIA, RADICALIZZAZIONE…
La strategia è il processo organico, la simbiosi possibile e necessaria, fra teoria e critica radicale, fra critica radicale e pratica, e, dialetticamente, viceversa.
Mentre la politica è la mediazione – la separazione perpetuata, il cane da guardia delle separazioni, e la garanzia della loro ineliminabilità – gestita da altri o autogestita da se stessi, di momenti sociali separati l’un l’altro, la strategia è la negazione della politica ed è la strategia della negazione, della dialettica negazione-creatività, della creatività della negazione.
Teoria, critica, pratica, vengono stravolte nella politica in ideologia, nel «pensiero» fissato, reificato, delle idee morte – proprio mentre tutta la società è già bloccata nel suo riprodursi in quanto ideologia e solo in quanto tale – cioè la società è la politica generalizzata – la critica politica della società capitalizzata non ha senso, non è una critica, è la «critica» costruttiva della società così come è, immutata e immutabile; la politica anche nelle sue estremizzazioni massime e terroristiche è la parte del puzzle sociale che va a comporre la finitezza e reificazione dell’ideologia generale, del puzzle sociale della politica generalizzata; anche se questa parte del puzzle si scompone violentemente, scende nella clandestinità, si dà a un terrorismo ragionato e politicamente gestito, non produce il proprio superamento e radicalizzazione – che è il superamento dell’ideologia – esso ha già lo spazio capitalistico in cui incastrarsi e farsi incastrare.
Questi imbecilli in armi, che definiscono ambiguità la critica radicale della politica, mentre offrono un fiore a Lenin, preparano i crisantemi per il proletariato, in suo nome; che essi siano in buona fede non cambia molto, mentre è contro il cambiamento, fedeli alle unilateralità del capitale che tutto produce tranne il cambiamento; il rifiuto del puzz è l’accettazione interiorizzata del puzzle: non perché sia una nostra idea, ma perché così è la storia.
Il dire «qui si fa politica», il dire «qui non si fa politica» sono entrambi due atteggiamenti politici: la negazione della politica non è il suo rifiuto (che è ancora un rifiuto politico, la politica e la non-politica essendo entrambi la politica dell’esistente capitalista) ma il suo superamento nella soggettività radicale e realmente sociale nella sua critica radicale all’esistente sociale reificato, soggettività che ha nella strategia il modo di portarsi e di rapportarsi, che è armata della critica radicale all’esistente sociale nella sua totalità per la totalità del suo stravolgimento; la teoria e la pratica non vengono prima o dopo la critica radicale, ma sono dialetticamente inseparabili e l’un l’altra producentisi. O così dovrebbe essere: la separazione di una dall’altra, la loro reciproca autonomizzazione crea il vuoto che nei fatti è riempito dalla ideologia e dalla politica, come una trappola per orsi riempita alla superficie.
Il voler fare politica, la politicizzazione di se stessi e della propria vita quotidiana, dei propri rapporti interpersonali, del proprio corpo, è la rappresentazione – lo spettacolo vissuto come alienazione in prima persona – della propria necessità vitale di negazione dell’esistente capitalista stravolta (recuperata) come momento di riproduzione di questo esistente; ciò che spinge alla vita – la vita stessa repressa ma non soppressa – trova come espressione solo quello che il capitale vuoi fargli esprimere: su questo punto milioni di giovani e non giovani sono scoppiati ovunque negli anni precedenti; dove e in chi è mancata la radicalizzazione – la critica radicale dell’ideologia (molti scambiano la radicalizzazione per estremizzazione di una specifica ideologia…) e immediatamente la critica radicale della totalità dell’esistente sociale capitalizzato che è questa ideologia autoriproducentesi – è subentrata la politica e la non politica – momenti strategici dell’ideologia autoriproducentesi – come palliativo, come impotenza narcisisticamente ripiegata su se stessa e soddisfatta della propria rappresentazione. Una soddisfazione prodotta da nessun piacere!
Che ponendosi prima di ogni piacere lo esorcizza!
Se la politica è questo, gli «apolitici», gli «impolitici», i feticisti del fare, non sono diversamente: costoro credono che il riflusso sia stato prodotto da un eccesso di teoria e di critica e privilegiano immediatisticamente la pratica: ma questo spontaneismo del cazzo e tracotante ignora che a guardar bene negli anni passati poco o nulla vi è stato di teoria e di critica, solo la loro rappresentazione ideologica, il loro modello capitalista ridotto a consumo unilaterale, lo spettacolo della teoria e della critica smerciato a compensare l’assenza di teoria e di critica (questo per la «sinistra rivoluzionaria» e l’ultrasinistra; mentre il capitale è andato giù più tranquillo: egli – esso – sa che l’ideologia produce merce e null’altro). La dialettica non è un’idea ma è la storia svelata nel suo procedere, chi non vive questo, chi solo lo pensa, chi lo ignora, non coglie di essere prodotto dalla storia né coglie dialetticamente la possibilità di fare la storia, cade nell’illusione di un «fare» che è in realtà un essere fatto: egli – esso – è un semplice e semplicistico oggetto.
Ciò che sfugge alla dialettica non sfugge al capitale, mentre la dialettica è proprio un non sfuggire alla determinazione del capitale rovesciandola come negazione del capitale stesso, e lo sa.
Che la storia di tutti coincida infine – ma a partire da ora, nella nostra miseria! – con la storia di ognuno è la sola utopia che ci interessa, l’utopia non intesa come una fantascienza del futuro ma una prospettiva che parte qui e ora fra noi, e fra noi e noi stessi.
All’autonomizzarsi – il separarsi da tutti e da tutto colmando questa separazione con il vuoto dell’ideologia, operazione in cui il capitale è maestro – si tratta di contrapporre radicalmente l’autonomia: la soggettività dialettica, fra se stessa e la storia, fra se stessa e gli altri soggetti, fra se stessa e se stessa; autoorganizzata oltre la politica e oltre il rifiuto politico della politica nella comunità in atto di un gruppo, di un nucleo, di una comune, di un luogo stabile o provvisorio e autoorganizzata come prefigurazione in atto, come inizio immediato della realizzazione della comunità futura, della comunità reale, comunista, non certo di quel «comunismo» gestito politicamente dai fascisti rossi da cui ci separa sempre più lo spazio di una pallottola proprio perché i partigiani della vita non si lasceranno pacificamente uccidere, ma non consentiranno alla morte di impadronirsi della loro «passione»; armata dialetticamente, delle armi che dialetticamente la passione la porterà ad armarsi, da fuoco o erotiche, per sconfiggere la noia e l’alienazione, la sopravvivenza bruta e la morte dei desideri; armata strategicamente e dialetticamente della critica radicale, senza separazioni; conscia di essere, e non di rappresentare, la negazione dialettica dell’esistente capitalista creativamente negato nella sua totalità e in ogni suo specifico momento, non privilegiando un momento sull’altro, scatenando la negazione della critica radicale su tutti i momenti con la stessa efficienza qualitativa con un’efficacia vissuta pienamente, non lasciandosi in nessun specifico (nelle fabbriche, nelle scuole, nel proprio corpo, nel proprio genere, maschile o femminile, nella famiglia, nel gruppo politico, o nell’antigruppo politico ecc.), in nessun ruolo né controruolo.
Da «Gatti Selvaggi» – n. 1 – dicembre ’74 – gennaio ’75 – editoriale – Milano
AUTONOMIA
Proprio in un momento difficile, come questo, è nata dentro di noi una consapevolezza irresistibile: la necessità di muoverci politicamente in modo diverso. Al di fuori di ogni «schema ideologico tradizionale».
Noi non abbiamo «miti» di fronte ai quali inchinarci!!!
Non siamo marxisti, tanto meno leninisti o stalinisti.
Siamo delle coscienze rivoluzionarie.
Ci sta bene tutto ciò che è realmente radicale.
Seppelliamo i cadaveri delle vecchie ideologie!!!
I rivoluzionari si stanno preparando, con ogni mezzo e nelle loro specifiche situazioni, in forma spontanea, autonoma, clandestina, allo scontro aperto contro il capitale e il suo stato-fascista.
Noi non ci poniamo come «avanguardia», ma come una parte di questo movimento reale.
La nostra lotta non ha come fine, semplicemente, «migliori condizioni di vita», ma ha, come obiettivo ultimo, l’abolizione della proprietà privata e del capitale di stato.
La nostra lotta vuole raggiungere la libertà reale e il diritto a una nuova vita nella sua totalità.
Ci opponiamo a tutte le forme di organizzazione che abbiano in sé il principio della «delega».
Secondo il nostro parere è bene costruire organismi di pochi elementi nei quali o si decide tutti insieme o non si decide nulla.
Questi organismi dovrebbero prendere ispirazione, per le loro azioni, dalla loro specifica realtà. Ci sarà, naturalmente, un collegamento tra questi gruppi, ma non sarà a livello di comitati con poteri decisionali, sarà solo per informazioni.
Queste forme di organizzazioni devono portare a uno svolgimento della vita sociale per quartiere e, quindi, a un controllo politico e diretto della realtà.
Siamo contrari ai «Comitati di Liberazione Nazionali» e alle vie «Nazionali al Socialismo». All’interno della logica capitalista non possono esserci delle «oasi di paradiso» per l’umanità ricattata dalla fame e dai cannoni. La nostra totale liberazione dipende direttamente dalla totale distruzione del capitalismo mondiale.
Dobbiamo però saper riconoscere il capitale nelle sue forme più nascoste e riconoscere gli strumenti e i mezzi che esso usa per condizionare la nostra vita quotidiana. Non basta individuare i padroni, i militari, la polizia e la chiesa; bisogna smascherare i falsi partiti di «sinistra», i sindacati, le strutture staliniste di tutti i gruppi extraparlamentari, la scuola, il mito dello stato «democratico». Dobbiamo rovesciare nel loro posto naturale, cioè il cimitero, le immagini «sacre» di questa società dove tutto è merce, la nostra vita compresa. Basta col credere «religiosamente» nella famiglia, nella sicurezza del domani, nella macchina, lo stadio, le ferie ecc. ecc…
Questa è la spazzatura ideologia-merce attraverso la quale il capitale ci domina!!!
Ci sono ancora molti operai che si identificano negli obiettivi, nei desideri, nelle aspirazioni, negli ideali «dell’ordine costituito». Essi sono degli sfruttati che si pongono come «aspiranti borghesi».
Questa è una realtà lontana dalla coscienza rivoluzionaria. Dobbiamo sradicarla perché il dovere di cambiare è maturo per tutti coloro che si pongono individualmente o come classe, di fronte alla necessità di lottare contro questa società infame.
Noi siamo contro il «mito» della classe operaia perché è dannoso, soprattutto alla classe operaia.
«L’operaismo» o il «populismo» è dettato solo dal disegno millenario di usare le «masse» come pedine per sporchi giochi di «potere».
Diamo alla classe operaia un ruolo rivoluzionario determinante per la crescita della sovversione generale contro il capitalismo e il suo stato-fascista.
Comunque non siamo per la «dittatura del proletariato», che poi si riduce sempre ad essere una dittatura sul proletariato.
Dalla classe operaia, dai quartieri e dalle scuole arriva, proprio in questo momento, l’esigenza e la volontà di organizzarsi in modo autonomo, sganciati dai sindacati, dal P.C.I. e dai gruppi extraparlamentari, i quali rappresentano sempre più «l’ala sinistra del capitale».
Generalizziamo la lotta autonoma contro il capitale e il suo stato-fascista!!!
Nucleo Autonomo di Quarto Oggiaro
Da «Vogliamo Tutto!», n. 10, estate 1976 Milano.
CONTROCULTURA E AUTONOMIA PROLETARIA
Parlare di controcultura e di autonomia proletaria è una cosa che non si può fare in modo dogmatico e cattedrattico da buoni spacciatori di teoria. Sono fenomeni troppo complessi perché si possa avere una coscienza e una opinione in proposito senza avere vissuto i momenti di organizzazione e di lotta e soprattutto senza far parte del progetto politico che maggiormente ne esprime i contenuti: il giovane proletario, cosciente dello sfruttamento, dell’emarginazione, del rimbambimento ideologico che quotidianamente subisce, e soprattutto deciso a liberarsene respingendo ogni tentativo di recupero o di strumentalizzazione della propria soggettività rivoluzionaria.
La cultura e la politica imperanti ufficialmente dal 15 giugno, disorientate e spaventate dall’ampiezza del fenomeno «giovanile», si affrettano a mistificarlo ricorrendo alle più disparate analisi sociologiche, interpretando come «crisi generazionale» momenti propriamente politici, o meglio che esprimono una nascente critica della politica e una precisa volontà di riappropriazione.
Più a sinistra il panorama è ugualmente desolante: i professorini dei gruppi, in mancanza di testi storici sul giovane proletariato, oltre a ripetere continuamente che l’estremismo è malattia infantile del comunismo, si affrettano ad elaborare una linea politica, fondano commissioni e indicono seminari, reagendo al loro disorientamento e ai loro ritardi con il solito opportunismo e la solita politica strumentale, ovvero sempre pronti a intervenire imponendo la loro direzione politica quando possono, e sempre pronti a «respingere le provocazioni» quando non ci riescono.
Rifiutiamo quindi a priori qualsiasi intervento estraneo, qualsiasi Montanelli o Bocca di turno, qualunque tentativo di insabbiamento o di recupero del nostro bisogno di potere e ribadiamo la nostra autonomia di proletari che vivono la rivoluzione come una realtà all’ordine del giorno, senza schemi imposti dal «partito» o dal momento storico, e soprattutto senza delegare nessuno alla soddisfazione dei nostri bisogni.
Cerchiamo, invece, di sviluppare il dibattito all’interno e proporre e confrontare diverse esperienze e diverse valutazioni, ma sempre prodotti da una lotta in prima persona.
Innanzitutto dichiariamo che per noi non deve esistere separazione tra cultura e politica o tra liberazione personale e liberazione collettiva. Pur considerando le diverse specificità di ogni terreno di lotta, li vediamo e li viviamo come inscindibili tra loro in un unico progetto politico: il bisogno di comunismo che contraddistingue sia la richiesta di una nuova cultura-modo di vivere-rapporti personali, sia una diversa organizzazione delle lotte in fabbrica e nel territorio. Ai nuovi modi di vivere corrispondono nuovi modi di lottare.
Separare l’autonomia proletaria dall’autonomia culturale significa oltre che far arretrare il Movimento, non aver compreso il significato di liberazione totale del pensiero marxista, è importante ribadire continuamente questa inscindibilità che già caratterizza l’esplosione prepotente delle istanze giovanili, sconvolgendo le abituali forme di lotta e di organizzazione.
Il dato che ci sembra più importante rilevare, è la trasformazione dell’arma della critica in critica armata, un salto qualitativo oggettivamente reale e giustificato, che poniamo come discriminante rispetto al «riformismo controculturale» dei gruppi e a chi si illude ancora che basti un festival all’anno o una rivista ben fatta al mese per cambiare il modo di pensare e di vivere dei compagni e per sconvolgere l’ordine borghese.
Critica armata sono le occupazioni di case, sono i centri per i giovani proletari, sono le donne che invadono il Duomo, sono le ronde contro gli spacciatori di eroina, sono le feste selvagge per le strade del centro, è la «madonnina che piange», sono i prezzi politici e quando non bastano la riappropriazione di tutto ciò che serve.
Oggi il Movimento non si accontenta più di proporre nuove istanze e di batterle cercando una teoria che giustifichi il tutto, la teoria nasce dalla prassi cosciente, dal vivere quotidianamente sulla propria pelle le forme di combattimento adeguate al processo di costruzione di momenti di contropotere proletario.
Il potere risponde a tutto questo con la criminalizzazione di ogni comportamento di estraneità e di rifiuto del capitale in ogni sua forma. Chi non accetta la regola del gioco borghese o il comportamento storico o l’alternativa socialista viene dichiarato ufficialmente «fuorilegge» e diventa oggetto di linciaggio sia attraverso gli organi repressivi dello stato, sia attraverso una nascente pubblicistica sulla «questione giovanile» che vede lacchè e pennivendoli di ieri e di oggi diffamare il Movimento distorcendone il significato e negandone il carattere rivoluzionario.
Da «Puzz», giugno 1976 Milano
PROVOCAZIONE
L’aggravarsi della situazione economica planetaria, disoccupazione, caro vita, svalutazione della moneta, incertezza negli investimenti, (difficoltà di un pieno controllo politico, che pure rimane tendenziale) come esaurirsi dell’età dell’Economia Pura all’interno della preistoria è oggi il rinfocolarsi visibile dell’estremismo covante sotto braci non ancora incenerite.
L’estremismo torna ad essere di massa in Italia dopo aver serrato suicidamente le fila in avanguardia distaccata.
Oggi, al centro del suo occhio i Commandos dell’autonomia; in periferia i resti delle BR e NAP; nel tessuto lo spontaneismo ma anche la spontaneità che lo eccede.
È il rinascere del ’68–69 di cui già da tempo cianciano gli psicosociólogi più attivi del modernismo capitalista, i Galli, gli Alberoni e i mass-media che li sostengono: Repubblica, Panorama, La Stampa, il Corriere, ecc…
La contestazione anticipata, computerizzata e rinchiusa in provetta, agitata al momento giusto, deposita il nuovo assetto societario capitalistico, mentre il capitale è alle corde per impossibilità planetaria di espansione dell’Economia Pura.
Capitale del ristagno, della polluzione, della crisi, necessariamente alla ricerca di nuovi valori economici con la mercificazione di ciò che eccede la materia prima (Transeconomia, fase di economicizzazione di ogni attività ed espressione umana ridotta a valore consumabile).
A questo proposito sorge opportunatamente quell’Area composita di raduno che si definisce Autonomia Operaia, area di parcheggio nel politico per gli scontenti dei gruppi:
1) ex militanti di P.O., L.C., Gruppo Gramsci;
2) frange giovanili, ex freaks passati ad una mistica più materialistica, gente che non ha fatto il 68–69.
L’uso dello spontaneismo è chiaro, il tentativo di gestione politica attecchito sulla materia degli iniziali espropri, sabotaggi, assalti ai grandi magazzini. Si noti l’uso di Autonomia Operaia da parte del radicalismo borghese (es. l’apologetica di «Tempi Moderni» – settembre ’75 «Autocensimento dei gruppi di base»).
Dilatazione della politicizzazione di questi momenti. Soltanto l’illusione dell’ottica alternativa tardo-proletaria, Autonomia Operaia si pone come momento di gestione complessiva della rabbia sociale con una linea populista-terrorista la cui operazione si dispiega a livello storico nei due poli della rivoluzione alienata e della controrivoluzione che la incapsula.
Tale organizzazione è semplicemente il modo incanalatesi dell’autonomizzazione dello spontaneismo, che contiene oggi molto più che nel passato, i meccanismi della logica del dominio e dell’autoregolamentazione capitalistica.
La caratteristica principale dell’organizzazione dell’Autonomia rispetto alle organizzazioni della destra stalino-leninista è l’abbinamento dell’ideologia collettivistica e di quella individualistica, la sua decentralizzazione.
L’ammodernamento del capitale è nell’area dell’Autonomia il ritmo di scambio-ricambio ideologico, più rapido, mobile; la liberizzazione di ogni consumo di merce.
Tale metodologia di controllo viene ad esplicarsi negli ambiti più inquieti, come reintroduzione del politico del bisogno di soggettività incapace di esprimersi nella critica radicale. La produzione in proprio di ideologia e la partecipatività al gruppo della possibilità qualitativa.
Area dell’Autonomia:
a) Struttura neoleninista di fondo.
b) Ampio spazio per l’ideologia personale in cui il singolo recupera da ambiti disparati, forme privatizzate e parcellari di alternativa, di ultramodernismo.
Il recupero non è gestito in un’unica direzione (la linea) dall’apparato gerarchico, ma dai singoli che rovesciano nel recipiente comune l’apporto dell’ideologia particolare, contenuta d’altra parte (e qui sta l’impossibilità della critica) nell’ideologia neoleninista di base che la sostiene.
La specialità dell’Organizzazione dell’Autonomia Operaia sta nello sceneggiare i momenti che sfuggono alle organizzazioni ritardatarie della destra stalino-leni-nista italiana, raffinando il gioco abbozzato rozzamente da LC nel 69–70: la politicizzazione di questi momenti e la loro addomesticazione.