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da Il mani­fe­sto 20 feb­bra­io 1983

7 apri­le. Una inter­pre­ta­zio­ne degli anni Set­tan­ta e dell’autonomia ope­ra­ia pro­po­sta da undi­ci impu­ta­ti dete­nu­ti a Rebibbia

Pro­po­sta di let­tu­ra sto­ri­co-poli­ti­ca per il movi­men­to degli anni Set­tan­ta

Que­ste pagi­ne, scrit­te da undi­ci dete­nu­ti del 7 apri­le a Rebib­bia, non sono un docu­men­to per la dife­sa. Sono un trac­cia­to di iden­ti­tà e una pro­po­sta di inter­pre­ta­zio­ne di quel che è sta­ta l’Autonomia nel­la real­tà socia­le e poli­ti­ca dell’Italia degli anni ’70. Da sot­to­por­re una discus­sio­ne, che già noi comin­ce­re­mo.
Fin d’ora vor­rem­mo dire due cose. La pri­ma è che que­sto scrit­to è un atto di leal­tà; gli impu­ta­ti del 7 apri­le non si pre­sen­ta­no come vit­ti­me e tan­to meno come pen­ti­ti, anche se si inter­ro­ga­no su una scon­fit­ta; pur sapen­do che que­sto non accat­ti­ve­rà loro la bene­vo­len­za di una opi­nio­ne che oggi riget­ta lon­ta­no da sé ogni memo­ria (e di qui il tito­lo iro­ni­co e autoi­ro­ni­co da loro scel­to). La secon­da è che di que­sto loro docu­men­to tut­to, ci sem­bra, può esse­re discus­so, e anche radi­cal­men­te ma dovreb­be esser­lo con one­stà, ricol­lo­can­do le paro­le e il loro sen­so nel con­te­sto degli anni cui si rife­ri­sco­no («vio­len­za» sarà il test del buon teo­ri­co). Dopo di che, si può anche dis­sen­ti­re da tut­to. Il mani­fe­sto è aper­to a ogni con­tri­bu­to che abbia que­sto spi­ri­to. (r. r.)

di Lucio Castel­la­no, Arri­go Caval­li­na, Giu­sti­no Cor­tia­na, Mario Dal­ma­vi­va, Lucia­no Fer­ra­ri Bra­vo. Chic­co Funa­ro, Anto­nio Negri, Pao­lo Poz­zi, Fran­co Tom­mei. Emi­lio Vesce, Pao­lo Vir­no.

Guar­dan­do indie­tro, rie­sa­mi­nan­do anco­ra una vol­ta con la memo­ria e la ragio­ne gli anni ’70, di una cosa alme­no sia­mo cer­ti: che la sto­ria del movi­men­to rivo­lu­zio­na­rio, dell’opposizione extra­par­la­men­ta­re pri­ma e dell’autonomia poi, non è sta­ta stor­ta di emar­gi­na­ti o di eccen­tri­ci, cro­na­ca di allu­ci­na­zio­ni set­ta­rie, vicen­da cata­com­ba­le o furo­re di ghet­to. Cre­dia­mo rea­li­sti­co affer­ma­re, vice­ver­sa, che que­sta sto­ria – una cui par­te è dive­nu­ta mate­ria pro­ces­sua­le – sia intrec­cia­ta ine­stri­ca­bil­men­te alla sto­ria com­ples­si­va del pae­se, ai pas­sag­gi cru­cia­li e alle cesu­re che l’hanno scan­di­ta.
Tenen­do fer­mo que­sto pun­to di vista (In sé bana­le, eppu­re, di que­sti tem­pi, teme­ra­rio e per­si­no pro­vo­ca­to­rio), avan­zia­mo un bloc­co d’ipotesi sto­ri­co-poli­ti­che sul pas­sa­to decen­nio, che esu­la­no da pre­oc­cu­pa­zio­ni d’immediata dife­sa giu­di­zia­ria. Le con­si­de­ra­zio­ni che seguo­no soven­te in for­ma di sem­pli­ce posi­zio­ne di pro­ble­mi, non sono rivol­te ai giu­di­ci, fino­ra inte­res­sa­ti solo alla mer­can­zia dei «pen­ti­ti», ma a tut­ti colo­ro che negli anni tra­scor­si han­no lot­ta­to: ai com­pa­gni del ’68, a quel­li del ’77, agli intel­let­tua­li che han­no «dis­sen­ti­to» (è così che s’usa dire, ora?) giu­di­can­do razio­na­le la rivol­ta. Per­ché inter­ven­ga­no a loro vol­ta, rom­pen­do il cir­co­lo vizio­so del­la rimo­zio­ne e del nuo­vo con­for­mi­smo.
Rite­nia­mo sia venu­to il momen­to di riaf­fron­ta­re la veri­tà sto­ri­ca degli anni ’70. Con­tro i pen­ti­ti, la veri­tà. Dopo e con­tro i pen­ti­ti, un giu­di­zio poli­ti­co. Una com­ples­si­va assun­zio­ne di respon­sa­bi­li­tà e oggi pos­si­bi­le e neces­sa­ria: e uno dei pas­si fun­zio­na­li all’affermazione pie­na del «post-ter­ro­ri­smo» come dimen­sio­ne pro­pria del con­fron­to fra nuo­vi movi­men­ti e isti­tu­zio­ni.
Che non abbia­mo nul­la da spar­ti­re col ter­ro­ri­smo è ovvio; che sia­mo sta­ti «sov­ver­si­vi» lo è altret­tan­to. Fra que­ste due «ovvie­tà» si gio­ca il nostro pro­ces­so. Nul­la è scon­ta­to, la volon­tà del giu­di­ci di omo­lo­ga­re sov­ver­sio­ne e ter­ro­ri­smo è nota, è inten­sa: con­dur­re­mo con i mez­zi ido­nei, tec­ni­co-poli­ti­ci, la bat­ta­glia difen­si­va. Ma la rico­stru­zio­ne sto­ri­ca degli anni ’70 non può svi­lup­par­si con­ve­nien­te­men­te solo nell’aula del Foro Ita­li­co: occor­re che si apra un dibat­ti­to fran­co e di ampio respi­ro, in paral­le­lo al pro­ces­so, fra i sog­get­ti rea­li che sono sta­ti pro­ta­go­ni­sti del­la «gran­de tra­sfor­ma­zio­ne». È, que­sto, fra l’altro o soprat­tut­to, un requi­si­to irri­nun­cia­bi­le per par­la­re in ter­mi­ni ade­gua­ti del­le ten­sio­ni che per­va­do­no i nostri anni ’80.

1– La carat­te­ri­sti­ca spe­ci­fi­ca del ’68 Ita­lia­no è la com­mi­stio­ne fra feno­me­ni socia­li inno­va­ti­vi e dirom­pen­ti – per mol­ti ver­si tipi­ci di una indu­stria­liz­za­zio­ne matu­ra – e il para­dig­ma clas­si­co del­la rivo­lu­zio­ne poli­ti­ca comu­ni­sta.
La cri­ti­ca radi­ca­le del lavo­ro sala­ria­to, il suo rifiu­to di mas­sa, è il con­te­nu­to emi­nen­te del movi­men­to di lot­ta, la matri­ce di un anta­go­ni­smo for­te e dure­vo­le, la «sostan­za di cose spe­ra­te». Di essa si ali­men­ta la con­te­sta­zio­ne del ruo­li e del­le gerar­chie, l’egualitarismo sala­ria­le, l’attacco all’organizzazione del sape­re socia­le, la ten­sio­ne a modi­fi­ca­re la vita quo­ti­dia­na: in una paro­la, l’aspirazione ad una liber­tà con­cre­ta.
In altri pae­si dell’occidente capi­ta­li­sti­co (Ger­ma­nia, Usa), que­ste stes­se spin­te tra­sfor­ma­ti­ve si era­no svi­lup­pa­te come muta­men­to mole­co­la­re del rap­por­ti socia­li, sen­za por­re diret­ta­men­te e imme­dia­ta­men­te il pro­ble­ma del pote­re poli­ti­co, di una gestio­ne alter­na­ti­va del­lo Sta­to. In Fran­cia e in Ita­lia, a cau­sa del­le rigi­di­tà isti­tu­zio­na­li e del­la for­ma assai sem­pli­fi­ca­ta di rego­la­men­ta­zio­ne del con­flit­to, il tema del pote­re, del­la sua «pre­sa», divie­ne subi­to pre­mi­nen­te.
In Ita­lia, in spe­cial modo, nono­stan­te che per mol­ti aspet­ti il ’68 mar­cas­se un’acuta discon­ti­nui­tà rispet­to alla tra­di­zio­ne «lavo­ri­sta» e sta­ta­li­sta del movi­men­to ope­ra­io sto­ri­co, il model­lo poli­ti­co comu­ni­sta si inne­sta in modo vita­le sul cor­po del nuo­vi movi­men­ti. L’estrema pola­riz­za­zio­ne del­lo scon­tro di clas­se e la pover­tà di un tes­su­to di media­zio­ne poli­ti­ca (da un lato le com­mis­sio­ni inter­ne, dall’altra, pri­ma del­la nasci­ta degli enti loca­li, un Wel­fa­re anco­ra iper­cen­tra­li­sti­co) favo­ri­sco­no un effet­ti­vo intrec­cio fra la richie­sta di mag­gior red­di­to e mag­gior liber­tà e l’obiettivo leni­ni­sta del­lo «spez­za­re la mac­chi­na del­lo Sta­to».

2 – Fra il ’68 e i pri­mi anni ’70, il pro­ble­ma del­lo sboc­co poli­ti­co del­le lot­te è sta­to all’ordine del gior­no di tut­ta inte­ra la sini­stra, sia «vec­chia» che «nuo­va».
Tan­to il Pci e il sin­da­ca­to quan­to i grup­pi extra­par­la­men­ta­ri pun­ta­va­no a una modi­fi­ca­zio­ne dra­sti­ca negli equi­li­bri di pote­re, che por­tas­se a fon­do e sta­bi­liz­zas­se il cam­bia­men­to nei rap­por­ti di for­za già avve­nu­to nel­le fab­bri­che e nel mer­ca­to del lavo­ro. Sul­la natu­ra e la qua­li­tà di que­sto sboc­co di pote­re – comu­ne­men­te rite­nu­to neces­sa­rio e deci­si­vo – c’è sta­ta una lun­ga e tor­men­ta­ta bat­ta­glia per l’egemonia all’interno del­la sini­stra.
I grup­pi rivo­lu­zio­na­ri, mag­gio­ri­ta­ri nel­le scuo­le e nel­le uni­ver­si­tà, ma radi­ca­ti anche nel­le fab­bri­che e nei ser­vi­zi, ave­va­no ben pre­sen­te come il recen­te moto di tra­sfor­ma­zio­ne fos­se coin­ci­so con un’eclatante rot­tu­ra del qua­dro di lega­li­tà pre­ce­den­te; su quel­la stra­da inten­de­va­no insi­ste­re, impe­den­do un recu­pe­ro isti­tu­zio­na­le del mar­gi­ni di coman­do e di pro­fit­to. L’estensione del­le lot­te all’intero ter­ri­to­rio metro­po­li­ta­no e la costru­zio­ne di for­me di con­tro­po­te­re era­no indi­ca­ti come i pas­si neces­sa­ri per con­tra­sta­re il ricat­to del­la cri­si eco­no­mi­ca. Pci e sin­da­ca­to, inve­ce, vede­va­no nel­lo sba­rac­ca­men­to del cen­tro-sini­stra e nel­le «rifor­me di strut­tu­ra» l’esito natu­ra­le del ’68. Un nuo­vo «qua­dro di com­pa­ti­bi­li­tà» e una più com­ples­sa e arti­co­la­ta rete di media­zio­ne isti­tu­zio­na­le avreb­be­ro dovu­to garan­ti­re una sor­ta di pro­ta­go­ni­smo ope­ra­lo nel rilan­cio del­lo svi­lup­po eco­no­mi­co.
Se la pole­mi­ca più aspra si è avu­ta fra orga­niz­za­zio­ni extra­par­la­men­ta­ri e sini­stra sto­ri­ca, è però vero che la lot­ta idea­le per qua­li­fi­ca­re l’esito del movi­men­to ha attra­ver­sa­to anche oriz­zon­tal­men­te que­sti due schie­ra­men­ti. Basti qui ricor­da­re, a puro tito­lo d’esempio, la cri­ti­ca amen­do­lia­na nel con­fron­ti del­la Flm tori­ne­se e, in gene­re, del «sin­da­ca­to di movi­men­to». Oppu­re le diver­se, spes­so diver­sis­si­me inter­pre­ta­zio­ni che le com­po­nen­ti del sin­da­ca­to uni­ta­rio dava­no del nascen­ti «con­si­gli di zona». Allo stes­so modo, sull’altro ver­san­te, è suf­fi­cien­te cita­re la dif­fe­ren­za fra il filo­ne ope­rai­sta e quel­lo mar­xi­sta-leni­ni­sta.
Tut­ta­via, la divi­sio­ne degli orien­ta­men­ti si pro­du­ce­va, come si è det­to, attor­no ad un uni­co, essen­zia­le pro­ble­ma: la tra­du­zio­ne in ter­mi­ni di pote­re poli­ti­co del som­mo­vi­men­to veri­fi­ca­to­si nei rap­por­ti socia­li a par­ti­re dal ’68.

3 – Nei pri­mi anni ’70, i grup­pi extra­par­la­men­ta­ri impo­sta­ro­no il pro­ble­ma del­l’u­so del­la for­za, del­la vio­len­za, in asso­lu­ta coe­ren­za con la tra­di­zio­ne comu­ni­sta rivo­lu­zio­na­ria: ossia giu­di­can­do, que­sto, uno degli stru­men­ti neces­sa­ri ad intac­ca­re il ter­re­no del pote­re.
Nes­sun feti­ci­smo del mez­zo vio­len­to, anzi sua stret­tis­si­ma subor­di­na­zio­ne all’avanzamento del­lo scon­tro di mas­sa; tut­ta­via, al tem­po stes­so, accet­ta­zio­ne pie­na del­la sua per­ti­nen­za. Rispet­to allo spes­so tes­su­to del­la con­flit­tua­li­tà socia­le, la que­stio­ne del pote­re poli­ti­co pre­sen­ta­va un’indubbia discon­ti­nui­tà, un carat­te­re non linea­re, spe­ci­fi­co. Dopo Avo­la, dopo Cor­so Tra­ia­no, dopo Bat­ti­pa­glia, il «mono­po­lio sta­ta­le del­la for­za» appa­ri­va osta­co­lo ine­lu­di­bi­le, con cui con­fron­tar­si siste­ma­ti­ca­men­te.
Da un pun­to di vista pro­gram­ma­ti­co, dun­que, la rot­tu­ra vio­len­ta del­la lega­li­tà vie­ne con­ce­pi­ta in ter­mi­ni offen­si­vi, come mani­fe­sta­zio­ne di un diver­so pote­re: paro­le d’ordine come «pren­der­si la cit­tà» o «insur­re­zio­ne» sin­te­tiz­za­va­no que­sta pro­spet­ti­va, con­si­de­ra­ta ine­vi­ta­bi­le sep­pur non imme­dia­ta.
Da un pun­to di vista con­cre­to, inve­ce, l’organizzazione sul pia­no dell’illegalità è cosa assai mode­sta, con una fina­liz­za­zio­ne esclu­si­va­men­te difen­si­va e con­tin­gen­te: dife­sa dei pic­chet­ti, dell’occupazione del­le case, dei cor­tei, misu­re pre­ven­ti­ve di sicu­rez­za rispet­to a un’eventuale rea­zio­ne di destra (non più esclu­di­bi­le dopo Piaz­za Fon­ta­na).
In defi­ni­ti­va: una teo­ria d’attacco, di rot­tu­ra, con­se­guen­te all’intreccio fra nuo­vo sog­get­to poli­ti­co del ’68 e cul­tu­ra comu­ni­sta, e, d’altra par­te, rea­liz­za­zio­ni pra­ti­che mini­ma­li. È tut­ta­via chia­ro come, dopo il «bien­nio ros­so» ’68-’69, per miglia­ia e miglia­ia di mili­tan­ti, com­pre­si i qua­dri di base del sin­da­ca­to, fos­se asso­lu­ta­men­te un fat­to di sen­so comu­ne l’attrezzarsi sul ter­re­no «ille­ga­le», come pure dibat­te­re pub­bli­ca­men­te tem­pi e modi dell’impatto con le strut­tu­re repres­si­ve del­lo Sta­to.

4 – In que­gli anni, il ruo­lo del­le pri­me orga­niz­za­zio­ni clan­de­sti­ne (GAP, BR) è del tut­to mar­gi­na­le, estra­neo alle tema­ti­che del movi­men­to.
La clan­de­sti­ni­tà, il richia­mo osses­si­vo alla tra­di­zio­ne par­ti­gia­na, il rife­ri­men­to all’operaio pro­fes­sio­na­le non han­no nul­la a che spar­ti­re con l’organizzazione del­la vio­len­za da par­te del­le avan­guar­die di clas­se e del grup­pi rivo­lu­zio­na­ri.
I Gap, ricol­le­gan­do­si all’antifascismo resi­sten­zia­le e alla tra­di­zio­ne comu­ni­sta del «dop­pio bina­rio» degli anni ’50, pro­pu­gna­va­no l’adozione di misu­re pre­ven­ti­ve in vista di un gol­pe dato per immi­nen­te. Le Br – for­ma­te­si dal­la con­fluen­za del mar­xi­sti-leni­ni­sti di Tren­to, degli ex-Pci del­la bas­sa mila­ne­se e degli ex-Fgci emi­lia­ni – cer­ca­ro­no, duran­te tut­ta la pri­ma fase, sim­pa­tie e con­tat­ti nel­la base comu­ni­sta, non nel movi­men­to rivo­lu­zio­na­rio. Anti­fa­sci­smo e «lot­ta arma­ta per le rifor­me» carat­te­riz­za­va­no il loro ope­ra­to.
Para­dos­sal­men­te, pro­prio l’accettazione di una pro­spet­ti­va di lot­ta anche ille­ga­le e vio­len­ta da par­te del­le avan­guar­die comu­ni­ste di movi­men­to ren­de­va asso­lu­ta e incol­ma­bi­le la distan­za rispet­to alla clan­de­sti­ni­tà e alla «lot­ta arma­ta» come opzio­ne stra­te­gi­ca. Gli spo­ra­di­ci con­tat­ti, che pure vi furo­no, tra «grup­pi» e pri­me orga­niz­za­zio­ni arma­te non atte­nua­ro­no, ma anzi sot­to­li­nea­ro­no nel modo più net­to l’inconciliabilità di cul­tu­re e linee poli­ti­che.

5 – Nel ’73-’74, lo sfon­do poli­ti­co com­ples­si­vo su cui era cre­sciu­to per anni il movi­men­to va in pez­zi. In un bre­ve arco di tem­po si pro­du­co­no mol­te­pli­ci rot­tu­re di con­ti­nui­tà, muta­no pro­spet­ti­ve e com­por­ta­men­ti, si alte­ra­no le stes­se con­di­zio­ni entro cui ha luo­go il con­flit­to socia­le. Que­sta bru­sca svol­ta si spie­ga in base a nume­ro­se cau­se con­co­mi­tan­ti ed inte­ra­gen­ti. La pri­ma è costi­tui­ta dal giu­di­zio del Pci sul­la chiu­su­ra di spa­zi a livel­lo inter­na­zio­na­le, con la con­se­guen­te urgen­za di pra­ti­ca­re uno «sboc­co poli­ti­co» imme­dia­to, alle con­di­zio­ni date.
Ciò ha com­por­ta­to una frat­tu­ra, desti­na­ta ad appro­fon­dir­si, all’interno di quel­lo schie­ra­men­to poli­ti­co-socia­le, com­po­si­to ma fino ad allo­ra sostan­zial­men­te uni­ta­rio, che ave­va ricer­ca­to, dopo il ’68, un appro­do sul ter­re­no del pote­re che riflet­tes­se la radi­ca­li­tà del­le lot­te e del loro con­te­nu­ti tra­sfor­ma­ti­vi. Una par­te del­la sini­stra (Pci e sin­da­ca­to con­fe­de­ra­le) comin­cia ad appros­si­ma­re il ter­re­no gover­na­ti­vo con­tro lar­ghi set­to­ri del movi­men­to.
L’opposizione extra­par­la­men­ta­re è costret­ta a ride­fi­nir­si rispet­to al «com­pro­mes­so» per­se­gui­to dal Pci. E que­sta ride­fi­ni­zio­ne signi­fi­ca cri­si e pro­gres­si­va per­di­ta d’identità. Infat­ti la lot­ta per l’egemonia nel­la sini­stra, che in cer­ta misu­ra ave­va giu­sti­fi­ca­to l’esistenza dei «grup­pi», sem­bra ora risol­ta da una deci­sio­ne uni­la­te­ra­le, che spac­ca, sepa­ra le pro­spet­ti­ve, met­te fine alla dia­let­ti­ca.
D’ora in avan­ti il tema del­lo «sboc­co poli­ti­co», del­la gestio­ne alter­na­ti­va del­lo Sta­to, s’identifica col mode­ra­ti­smo del­la poli­ti­ca del Pci. Alle orga­niz­za­zio­ni extra­par­la­men­ta­ri inten­zio­na­te a muo­ver­si anco­ra su quel ter­re­no non resta che cer­ca­re d’inseguire e con­di­zio­na­re la tra­iet­to­ria del «com­pro­mes­so», costi­tuen­do­ne la ver­sio­ne estre­mi­sta (si ricor­di la pre­sen­ta­zio­ne di liste «rivo­lu­zio­na­rie» alle ammi­ni­stra­ti­ve del ’75 e alle poli­ti­che del ’76). Altri grup­pi, inve­ce, toc­ca­no con mano tut­ti i limi­ti del­la pro­pria espe­rien­za, e in tem­pi più o meno lun­ghi van­no incon­tro allo scio­gli­men­to.

6 – In secon­do luo­go, con i con­trat­ti del ’72-’73, la figu­ra cen­tra­le del­le lot­te di fab­bri­ca, l’operaio del­la linea di mon­tag­gio, l’operaio mas­sa, esau­ri­sce il suo ruo­lo ricom­po­si­ti­vo e offen­si­vo. Ha ini­zio la ristrut­tu­ra­zio­ne del­la gran­de impre­sa.
Il ricor­so alla cas­sa inte­gra­zio­ne e il pri­mo par­zia­le rin­no­va­men­to del­le tec­no­lo­gie modi­fi­ca­no in radi­ce l’as­set­to pro­dut­ti­vo, smus­san­do l’incisività del­le pre­ce­den­ti for­me di lot­ta, scio­pe­ro com­pre­so. I «grup­pi omo­ge­nei» e il loro pote­re sull’organizzazione del lavo­ro ven­go­no scon­vol­ti dal­la ristrut­tu­ra­zio­ne del mac­chi­na­rio e del­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va. La rap­pre­sen­ta­ti­vi­tà dei con­si­gli di fab­bri­ca, e quin­di la dia­let­ti­ca tra «destra» e «sini­stra» al loro inter­no, rat­trap­pi­sce in fret­ta.
Il pote­re dell’operaio di linea non è inde­bo­li­to dal­la pres­sio­ne di un tra­di­zio­na­le quan­to fan­to­ma­ti­co «eser­ci­to indu­stria­le di riser­va», insom­ma dal­la con­cor­ren­za di disoc­cu­pa­ti. Il pun­to è che la ricon­ver­sio­ne indu­stria­le pri­vi­le­gia inve­sti­men­ti in set­to­ri diver­si dal­la pro­du­zio­ne di mas­sa, ren­den­do così cen­tra­li, da rela­ti­va­men­te mar­gi­nai che era­no, altri seg­men­ti di for­za-lavo­ro (fem­mi­ni­le, gio­va­ni­le, ad alta sco­la­riz­za­zio­ne) con mino­re sto­ria orga­niz­za­ti­va alle spal­le. Ora il ter­re­no di scon­tro sem­pre più riguar­da gli equi­li­bri com­ples­si­vi del mer­ca­to del lavo­ro, la spe­sa pub­bli­ca, la ripro­du­zio­ne pro­le­ta­ria e gio­va­ni­le, la distri­bu­zio­ne di quo­te di red­di­to indi­pen­den­ti dal­la pre­sta­zio­ne lavo­ra­ti­va.

7 – In ter­zo luo­go, si ha un muta­men­to per linee inter­ne del­la sog­get­ti­vi­tà del movi­men­to, del­la sua «cul­tu­ra», del suo oriz­zon­te pro­get­tua­le. Per dir­la in bre­ve: si con­su­ma una rot­tu­ra con l’intera tra­di­zio­ne del movi­men­to ope­ra­io, con l’idea stes­sa di «pre­sa del pote­re», con l’obiettivo cano­ni­co del­la «dit­ta­tu­ra pro­le­ta­ria», con i resi­dui baglio­ri del «socia­li­smo rea­le», con qual­si­vo­glia voca­zio­ne gestio­na­le.
Quan­to gli stri­de­va nel con­nu­bio ses­san­tot­te­sco tra con­te­nu­ti inno­va­ti­vi del movi­men­to e model­lo del­la rivo­lu­zio­ne poli­ti­ca comu­ni­sta, ora si diva­ri­ca nel modo più com­ple­to. Il pote­re è visto come una real­tà estra­nea e nemi­ca, dal­la qua­le ci si deve difen­de­re, che però non ser­ve né con­qui­sta­re né abbat­te­re, ma solo ridur­re, tene­re lon­ta­no. Il pun­to deci­si­vo è l’affermazione di sé come socie­tà alter­na­ti­va, come ric­chez­za di comu­ni­ca­zio­ne, di libe­re capa­ci­tà pro­dut­ti­ve, di for­me di vita. Con­qui­sta­re e gesti­re pro­pri «spa­zi» – que­sta divie­ne la pra­ti­ca domi­nan­te dei sog­get­ti socia­li per i qua­li il lavo­ro sala­ria­to non è più il luo­go for­te del­la socia­liz­za­zio­ne – ma puro e sem­pli­ce «epi­so­dio», con­tin­gen­za, disva­lo­re.
Il movi­men­to fem­mi­ni­sta, con la sua pra­ti­ca di comu­ni­tà e di sepa­ra­tez­za, con la sua cri­ti­ca del­la poli­ti­ca e del pote­ri, con la sua aspra dif­fi­den­za per ogni rap­pre­sen­ta­zio­ne isti­tu­zio­na­le e «gene­ra­le» di biso­gni e desi­de­ri, col suo amo­re per le dif­fe­ren­ze, è emble­ma­ti­co del­la nuo­va fase. Ad esso, espli­ci­ta­men­te o meno, s’ispireranno i per­cor­si del pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le a metà degli anni ’70. Lo stes­so refe­ren­dum sul divor­zio è una spia di gran­de signi­fi­ca­to sul­la ten­den­za all’«autonomia del socia­le».
Impos­si­bi­le par­la­re anco­ra di «album di fami­glia», sia pure di una fami­glia ris­so­sa. La nuo­va sog­get­ti­vi­tà di mas­sa è un alie­no per il movi­men­to ope­ra­io: lin­guag­gi e obiet­ti­vi non comu­ni­ca­no più. La stes­sa cate­go­ria dell’«estremismo» ormai non spie­ga nul­la, e anzi con­fon­de e intor­bi­da. Si può esse­re «estre­mi­sti» solo rispet­to a qual­co­sa di simi­le: ma è pro­prio tale «somi­glian­za» che vie­ne rapi­da­men­te meno. Chi cer­ca con­ti­nui­tà, chi ha a cuo­re l’«album», può rivol­ger­si solo all’universo sepa­ra­to del­le «orga­niz­za­zio­ni com­bat­ten­ti» mar­xi­ste-leni­ni­ste.
(1 – segue)

Il mani­fe­sto 22 feb­bra­io 1983

Pro­po­sta di let­tu­ra sto­ri­co-poli­ti­ca per il movi­men­to degli anni Set­tan­ta /​2

Undi­ci impu­ta­ti del pro­ces­so 7 apri­le dete­nu­ti a Rebib­bia pro­pon­go­no alla discus­sio­ne un trac­cia­to d’identità e una inter­pre­ta­zio­ne dell’Autonomia nel­la real­tà socia­le e poli­ti­ca degli anni Set­tan­ta. Ne abbia­mo pub­bli­ca­to dome­ni­ca la pri­ma par­te, che riguar­da gli anni dal ’68 al ’73. Oggi pub­bli­chia­mo l’analisi degli anni suc­ces­si­vi fino all’esplosione del movi­men­to del ’77.

di Lucio Castel­la­no, Arri­go Caval­li­na, Giu­sti­no Cor­tia­na, Mario Dal­ma­vi­va, Lucia­no Fer­ra­ri Bra­vo, Chic­co Funa­ro, Anto­nio Negri, Pao­lo Poz­zi, Fran­co Tom­mei. Emi­lio Vesce, Pao­lo Vir­no.

8 – Tut­ti e tre gli aspet­ti del giro di boa avve­nu­to fra il ’73 e il ’75, ma in par­ti­co­la­re l’ultimo, con­cor­ro­no alta nasci­ta dell’ «auto­no­mia ope­ra­ia».
L’autonomia si for­ma con­tro il pro­get­to di «com­pro­mes­so», in rispo­sta al fal­li­men­to del grup­pi, oltre il fab­bri­chi­smo, inte­ra­gen­do con­flit­tual­men­te con la ristrut­tu­ra­zio­ne pro­dut­ti­va. Ma soprat­tut­to espri­me la nuo­va sog­get­ti­vi­tà, la ric­chez­za del­le sue dif­fe­ren­ze, la sua estra­nei­tà alla poli­ti­ca for­ma­le e ai mec­ca­ni­smi del­la rap­pre­sen­tan­za. Non «sboc­co poli­ti­co», ma con­cre­ta e arti­co­la­ta poten­za del socia­le.
In que­sto sen­so, il loca­li­smo è un carat­te­re defi­ni­to­rio dell’esperienza auto­no­ma: la pro­fon­da distan­za dal­la pro­spet­ti­va di una pos­si­bi­le gestio­ne alter­na­ti­va del­lo Sta­to esclu­de una cen­tra­liz­za­zio­ne del movi­men­to. Ogni filo­ne regio­na­le dell’autonomia rical­ca le par­ti­co­la­ri­tà con­cre­te del­la com­po­si­zio­ne di clas­se, sen­za sen­ti­re que­sto come un limi­te, ma anzi come una ragio­ne d’essere. È let­te­ral­men­te impos­si­bi­le, quin­di, trac­cia­re una sto­ria uni­ta­ria dell’autonomia roma­na e di quel­la mila­ne­se, o di quel­la vene­ta e di quel­la meri­dio­na­le.

9 – Dal ’74 al ’76 s’intensifica e si dif­fon­de la pra­ti­ca dell’illegalità e del­la vio­len­za. Ma que­sta dimen­sio­ne dell’antagonismo, sco­no­sciu­ta nel perio­do pre­ce­den­te, non ha alcu­na fina­liz­za­zio­ne com­ples­si­va anti­sta­tua­le, non pre­fi­gu­ra alcu­na «rot­tu­ra rivo­lu­zio­na­ria». Que­sto è l’aspetto essen­zia­le. Nel­le metro­po­li la vio­len­za cre­sce in fun­zio­ne di una sod­di­sfa­zio­ne imme­dia­ta di biso­gni, del­la con­qui­sta di «spa­zi» da gesti­re in pie­na indi­pen­den­za, come rea­zio­ne ai tagli del­la spe­sa pub­bli­ca.
Nel ’74 l’autoriduzione dei tra­spor­ti, orga­niz­za­ta a Tori­no dal sin­da­ca­to, rilan­cia con cla­mo­re l’illegalità di mas­sa, già spe­ri­men­ta­ta in pre­ce­den­za soprat­tut­to a pro­po­si­to degli affit­ti. Pres­so­ché dovun­que, e in rife­ri­men­to a tut­to il ven­ta­glio del­le spe­se socia­li, vie­ne attua­ta que­sta par­ti­co­la­re for­ma di garan­zia del red­di­to. Se il sin­da­ca­to ave­va inte­so l’autoriduzione come gesto sim­bo­li­co, il movi­men­to ne fa un per­cor­so mate­ria­le gene­ra­liz­za­to.
Ma più anco­ra che l’autoriduzione è l’occupazione del­le case a S. Basi­lio nell’ottobre ’74 a segna­re un pun­to di svol­ta, giac­ché pre­sen­ta­va un alto gra­do di «mili­ta­riz­za­zio­ne» spon­ta­nea, di dife­sa di mas­sa in rispo­sta alla san­gui­na­ria aggres­sio­ne poli­zie­sca. L’altra tap­pa deci­si­va per il movi­men­to con­si­ste nel­le gran­di mani­fe­sta­zio­ni mila­ne­si del­la pri­ma­ve­ra ’75 in segui­to all’uccisione di Varal­li e Zibec­chi ad ope­ra di fasci­sti e cara­bi­nie­ri. Gli scon­tri duris­si­mi di piaz­za sono il pun­to di par­ten­za per una sequen­za di lot­te che inve­sto­no le misu­re eco­no­mi­che dell’«austerità», anzi quel­li che sono già i pri­mi pas­si del­la «poli­ti­ca del sacri­fi­ci». Lun­go tut­to il ’75 e il ’76 si ha il pas­sag­gio – per mol­ti ver­si «clas­si­co» nel­la sto­ria del Wel­fa­re – dall’autoriduzione all’appropriazione: da un com­por­ta­men­to difen­si­vo nel con­fron­ti del con­ti­nui aumen­ti del­le tarif­fe ad una pra­ti­ca offen­si­va di sod­di­sfa­zio­ne col­let­ti­va del biso­gni, che pun­ta a ribal­ta­re i mec­ca­ni­smi del­la cri­si.
L’appropriazione – la cui mas­si­ma esem­pli­fi­ca­zio­ne sul pia­no inter­na­zio­na­le è la not­te del black-out new­yor­ke­se – riguar­da tut­ti gli aspet­ti dell’esistenza metro­po­li­ta­na: è «spe­sa poli­ti­ca», occu­pa­zio­ne di loca­li per atti­vi­tà asso­cia­ti­ve libe­re, è la «sere­na abi­tu­di­ne» del pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le di non paga­re il bigliet­to al cine­ma e ai con­cer­ti, è bloc­co degli straor­di­na­ri e dila­ta­zio­ne del­le pau­se in fab­bri­ca. Ma soprat­tut­to è appro­pria­zio­ne del «tem­po di vita», libe­ra­zio­ne dal coman­do di fab­bri­ca, ricer­ca di comu­ni­tà.

10 – A metà degli anni ’70, si pro­fi­la­no due ten­den­ze distin­te alla ripro­du­zio­ne allar­ga­ta del­ta vio­len­za. Se si vuo­le, sche­ma­tiz­zan­do con buo­na appros­si­ma­zio­ne, due diver­se gene­si del­la spin­ta alla «mili­ta­riz­za­zio­ne del movi­men­to». La pri­ma è la resi­sten­za ad oltran­za alla ristrut­tu­ra­zio­ne pro­dut­ti­va nel­le gran­di e medie fab­bri­che.
Ne sono pro­ta­go­ni­sti mol­ti qua­dri ope­rai for­ma­ti­si poli­ti­ca­men­te tra il ’68 e il ’73, deci­si a difen­de­re a tut­ti i costi l’as­set­to mate­ria­le su cui era matu­ra­ta la loro for­za con­trat­tua­le. La ristrut­tu­ra­zio­ne è vis­su­ta come cata­stro­fe poli­ti­ca. Soprat­tut­to i mili­tan­ti di fab­bri­ca che si era­no impe­gna­ti più a fon­do nell’esperienza dei con­si­gli sono por­ta­ti a iden­ti­fi­ca­re ristrut­tu­ra­zio­ne e scon­fit­ta, con­fer­ma­ti in ciò dai ripe­tu­ti cedi­men­ti sin­da­ca­li sul­le con­di­zio­ni mate­ria­li di lavo­ro. Lasciar la fab­bri­ca com’era per pre­ser­va­re un rap­por­to di for­za favo­re­vo­le: que­sto il noc­cio­lo di tale posi­zio­ne.
Ed e su que­sto gru­mo di pro­ble­mi e fra le fila di que­sto per­so­na­le poli­ti­co-sin­da­ca­le che le BR, dal ’74- ’75 in poi, riscuo­to­no sim­pa­tie e rie­sco­no a con­se­gui­re un cer­to livel­lo di radi­ca­men­to.

11 – L’altro filo­ne d’illegalità – per mol­ti ver­si dia­me­tral­men­te oppo­sto al pri­mo – è costi­tui­to dai sog­get­ti socia­li che sono il risul­ta­to del­ta ristrut­tu­ra­zio­ne, del decen­tra­men­to pro­dut­ti­vo, del­la mobi­li­tà. La vio­len­za è qui gene­ra­ta dall’assenza di garan­zia, dal­le for­me fran­tu­ma­te e pre­ca­rie di con­se­gui­men­to del red­di­to, dall’impatto imme­dia­to con la dimen­sio­ne socia­le, ter­ri­to­ria­le, com­ples­si­va del coman­do capi­ta­li­sti­co.
La figu­ra pro­le­ta­ria emer­gen­te dal­la ristrut­tu­ra­zio­ne si scon­tra vio­len­te­men­te con l’organizzazione del­la metro­po­li, con l’amministrazione dei flus­si di red­di­to, per l’autogoverno del­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va. Que­sto secon­do gene­re d’illegalità, che gros­so­mo­do può esse­re col­le­ga­to all’esperienza auto­no­ma, non ha mai il carat­te­re di un pro­get­to orga­ni­co, ma è con­trad­di­stin­to dal­la tota­le coin­ci­den­za fra la for­ma del­la lot­ta e l’ottenimento dell’obiettivo. Ciò com­por­ta l’assenza di «strut­tu­re» o «fun­zio­ni» sepa­ra­te, spe­ci­fi­che, pre­di­spo­ste all’uso del­la for­za.
A meno che non si voglia accet­ta­re il «paso­li­ni­smo» come supre­ma cate­go­ria di com­pren­sio­ne socio­lo­gi­ca, non si può non rile­va­re come la vio­len­za dif­fu­sa del movi­men­to di que­gli anni fos­se un neces­sa­rio stru­men­to di autoi­den­ti­fi­ca­zio­ne e di affer­ma­zio­ne di un nuo­vo, poten­te sog­get­to pro­dut­ti­vo nato dal decli­no del­la cen­tra­li­tà del­la fab­bri­ca e sot­to­po­sto alla pres­sio­ne mas­sic­cia del­la cri­si eco­no­mi­ca.

12 – Il movi­men­to del ’77, nei suoi con­no­ta­ti essen­zia­li, espri­me la nuo­va com­po­si­zio­ne di clas­se, non feno­me­ni d’emarginazione.
La «secon­da socie­tà» è, o si avvia ad esse­re, la «pri­ma» quan­to a capa­ci­tà pro­dut­ti­ve, intel­li­gen­za tec­ni­co-scien­ti­fi­ca, ric­chez­za di coo­pe­ra­zio­ne. I nuo­vi sog­get­ti del­le lot­te riflet­to­no, o anti­ci­pa­no, l’identificazione cre­scen­te fra pro­ces­so lavo­ra­ti­vo mate­ria­le e atti­vi­tà comu­ni­ca­ti­va, in bre­ve la real­tà del­la fab­bri­ca infor­ma­tiz­za­ta e del ter­zia­rio avan­za­to.
Il movi­men­to è for­za pro­dut­ti­va ric­ca, indi­pen­den­te, con­flit­tua­le. La cri­ti­ca del lavo­ro sala­ria­to mostra ora un ver­san­te affer­ma­ti­vo, crea­ti­vo, sot­to for­ma di «autoim­pren­di­to­ria­li­tà» e di par­zia­le gestio­ne dal bas­so del mec­ca­ni­smi del Wel­fa­re.
La «secon­da socie­tà» che occu­pa la sce­na nel ’77 è «asim­me­tri­ca» rispet­to al pote­re sta­ta­le: non con­trap­po­si­zio­ne fron­ta­le, ma elu­sio­ne, ossia, con­cre­ta­men­te, ricer­ca di spa­zi di liber­tà e di red­di­to ove con­so­li­dar­si e cre­sce­re.
Que­sta «asim­me­tri­ci­tà» era un dato pre­zio­so, che testi­mo­nia­va del­la con­si­sten­za del pro­ces­si socia­li in cor­so. Ma richie­de­va tem­po. Tem­po e media­zio­ne. Tem­po e trat­ta­ti­va.

13 – Inve­ce l’operazione restau­ra­ti­va del com­pro­mes­so sto­ri­co nega tem­po e spa­zi al movi­men­to, ripro­po­ne una sim­me­tri­ci­tà con­trap­po­si­ti­va fra Sta­to e lot­te.
Il movi­men­to si tro­va sot­to­po­sto a uno spa­ven­to­so pro­ces­so di acce­le­ra­zio­ne, bloc­ca­to nel­la sua poten­zia­le arti­co­la­zio­ne. In tota­le assen­za di mar­gi­ni di media­zio­ne. Diver­sa­men­te da quan­to avvie­ne in altri pae­si euro­pei, e segna­ta­men­te in Ger­ma­nia, dove l’operazione repres­si­va si accom­pa­gna a for­me di con­trat­ta­zio­ne con i movi­men­ti e per­tan­to non intac­ca la loro ripro­du­zio­ne, il com­pro­mes­so sto­ri­co pro­ce­de con un lar­go maglio negan­do legit­ti­mi­tà a tut­to ciò che sfug­ge e si oppo­ne alla nuo­va rego­la­men­ta­zio­ne cor­po­ra­ti­va del con­flit­to. In Ita­lia l’intenzione repres­si­va ha una tale gene­ra­li­tà da vol­ger­si diret­ta­men­te con­tro le spin­te socia­li spon­ta­nee.
Acca­de così che l’adozione siste­ma­ti­ca di prov­ve­di­men­ti poli­ti­co-mili­ta­ri da par­te gover­na­ti­va rein­tro­du­ce in modo «eso­ge­no» la neces­si­tà del­la lot­ta poli­ti­ca gene­ra­le, spes­so come pura e sem­pli­ce «lot­ta per la soprav­vi­ven­za», men­tre mar­gi­na­liz­za e costrin­ge al ghet­to le pra­ti­che eman­ci­pa­ti­ve del movi­men­to, la sua den­sa posi­ti­vi­tà sul ter­re­no del­la qua­li­tà del­la vita e del­la sod­di­sfa­zio­ne diret­ta del biso­gni.

14 – L’autonomia orga­niz­za­ta si tro­va stret­ta nel­la for­bi­ce fra «ghet­to» e scon­tro imme­dia­to con lo Sta­to. La sua «schi­zo­fre­nia» e poi la sua scon­fit­ta han­no ori­gi­ne dal ten­ta­ti­vo di richiu­de­re que­sta for­bi­ce, man­te­nen­do un rap­por­to fra ric­chez­za e arti­co­la­zio­ne socia­le del movi­men­to, da un lato, e neces­si­tà pro­prie del­lo scon­tro anti­sta­tua­le, dall’altro.
Que­sto ten­ta­ti­vo risul­ta, nel giro di pochi mesi, del tut­to impos­si­bi­le, fal­li­sce su entram­bi i fron­ti. L’«accelerazione» sen­za pre­ce­den­ti del ’77 fa sì che l’autonomia orga­niz­za­ta per­da len­ta­men­te i con­tat­ti con quei sog­get­ti, che, sot­traen­do­si alla lot­ta poli­ti­ca tra­di­zio­na­le, per­cor­ro­no sen­tie­ri diver­si­fi­ca­ti – tal­vol­ta «indi­vi­dua­li», talal­tra per­si­no «coge­stio­na­li» – per lavo­ra­re di meno, vive­re meglio, pro­dur­re libe­ra­men­te. E, d’altronde, la stes­sa «acce­le­ra­zio­ne» por­ta l’autonomia a reci­de­re ogni con­tat­to con quel­le pul­sio­ni mili­ta­ri­ste, che, pre­sen­ti all’interno del movi­men­to e del­la stes­sa auto­no­mia, diven­ta­no in bre­ve tem­po ten­den­za sepa­ra­ta alla for­ma­zio­ne di ban­de arma­te.
La for­bi­ce, anzi­ché richiu­der­si, non fa che appro­fon­dir­si. La for­ma orga­niz­za­ti­va dell’autonomia, il suo discor­so sul pote­re, la sua con­ce­zio­ne del­la poli­ti­ca sono pesan­te­men­te mes­si in discus­sio­ne sia dal «ghet­to» sia dal­le posi­zio­ni «mili­ta­ri­ste».
Biso­gna aggiun­ge­re, tut­ta­via, che l’autonomia scon­ta allo­ra anche tut­te le debo­lez­ze del pro­prio model­lo poli­ti­co-cul­tu­ra­le, incen­tra­to sul­la cre­sci­ta linea­re del movi­men­to, sul­la sua con­ti­nua espan­sio­ne e radi­ca­liz­za­zio­ne. È un model­lo in cui s’intrecciano vec­chio e nuo­vo: «vec­chio» estre­mi­smo anti-isti­tu­zio­na­le e nuo­vi biso­gni eman­ci­pa­ti­vi. La sepa­ra­tez­za e l’«alterità» che con­trad­di­stin­guo­no i nuo­vi sog­get­ti e le loro lot­te ven­go­no spes­so let­te da auto­no­mia come nega­zio­ne di qual­sia­si media­zio­ne poli­ti­ca, anzi­ché come sup­por­to di essa. L’antagonismo imme­dia­to si con­trap­po­ne ad ogni inter­lo­cu­zio­ne, ad ogni «trat­ta­ti­va», ad ogni «uso» del­le isti­tu­zio­ni.

15 – Sul fini­re del ’77 e lun­go tut­to il ’78 si mol­ti­pli­ca­no le for­ma­zio­ni orga­niz­za­te ope­ran­ti su un ter­re­no spe­ci­fi­ca­men­te mili­ta­re, men­tre si accen­tua la cri­si dell’autonomia orga­niz­za­ta.
Agli occhi di mol­ti l’equazione «lot­ta politica=lotta arma­ta» appa­re l’unica rispo­sta rea­li­sti­ca alla mor­sa che il com­pro­mes­so sto­ri­co ha stret­to attor­no al movi­men­to. In una pri­ma fase – secon­do uno sche­ma ripe­tu­to­si innu­me­re­vo­li vol­te – grup­pi di mili­tan­ti, inter­ni al movi­men­to, com­pio­no il cosid­det­to «sal­to» dal­la vio­len­za ende­mi­ca alla lot­ta arma­ta, con­ce­pen­do però que­sta scel­ta e le sue pesan­ti obbli­ga­zio­ni come «arti­co­la­zio­ne» del­le lot­te, come crea­zio­ne di una spe­cie di «strut­tu­ra di ser­vi­zio». Ma una for­ma d’organizzazione spe­ci­fi­ca­men­te fina­liz­za­ta all’azione arma­ta si rive­la strut­tu­ral­men­te diso­mo­ge­nea con le pra­ti­che del movi­men­to, non può che sepa­rar­se­ne in tem­pi più o meno bre­vi. Avvie­ne per­tan­to che le nume­ro­se sigle di «orga­niz­za­zio­ni com­bat­ten­ti» nate tra il ’77 e il ’78 fini­sco­no per rical­ca­re il model­lo, ini­zial­men­te avver­sa­to, del­le Br, o addi­rit­tu­ra per con­flui­re in esse. I guer­ri­glie­ri sto­ri­ci, le Br, pro­prio in quan­to deten­to­ri di una «guer­ra con­tro lo sta­to» com­ple­ta­men­te sgan­cia­ta dal­le dina­mi­che di movi­men­to, fini­sco­no per ampliar­si «paras­si­ta­ria­men­te» sul­le scon­fit­te del­la lot­ta di mas­sa.
In par­ti­co­la­re a Roma, alla fine del ’77, si rea­liz­za un reclu­ta­men­to di gran­di pro­por­zio­ni del­le Br fra le fila di un movi­men­to in cri­si. L’autonomia, nel cor­so di quell’anno, ave­va toc­ca­to con mano tut­ti i pro­pri gra­vi limi­ti, oppo­nen­do al mili­ta­ri­smo di sta­to un’iterativa radi­ca­liz­za­zio­ne del­lo scon­tro di piaz­za, che non per­met­te­va di con­so­li­da­re, ma anzi disper­de­va le poten­zia­li­tà del movi­men­to. La stret­ta repres­si­va e gli erro­ri dell’autonomia a Roma e in qual­che altra cit­tà han­no spia­na­to la stra­da alle Br. Quest’ultima orga­niz­za­zio­ne, che ave­va cri­ti­ca­to con asprez­za le lot­te del ’77, si è ritro­va­ta, para­dos­sal­men­te, a rac­co­glier­ne frut­ti cospi­cui in ter­mi­ni di raf­for­za­men­to orga­niz­za­ti­vo.

16 – La scon­fit­ta del movi­men­to del 1977 ini­zia col rapi­men­to e l’uccisione di Aldo Moro.
Le Br, in modo ana­lo­go sep­pur tra­gi­ca­men­te paro­di­sti­co a quan­to ave­va fat­to la sini­stra sto­ri­ca a metà degli anni ’70, per­se­guo­no un loro «sboc­co poli­ti­co» sepa­ra­to sul­la pel­le dell’antagonismo socia­le.
La «cul­tu­ra» del­le Br – coi suoi tri­bu­na­li, car­ce­ri, pri­gio­nie­ri, pro­ces­si – e la loro pra­ti­ca di «fra­zio­ne arma­ta» tut­ta inter­na all’autonomia del poli­ti­co, sono gio­ca­te tan­to con­tro i nuo­vi sog­get­ti del con­flit­to quan­to con­tro l’assetto isti­tu­zio­na­le.
Con l’«operazione Moro» si rom­pe defi­ni­ti­va­men­te l’unità del movi­men­to, comin­cia una fase di cre­pu­sco­lo e di deri­va, carat­te­riz­za­ta dal­la lot­ta fron­ta­le dell’autonomia con­tro il bri­ga­ti­smo, ma anche dal rece­de­re dal­la lot­ta poli­ti­ca di lar­ghi set­to­ri pro­le­ta­ri e gio­va­ni­li. L’«emergenza», di cui sta­to e Pci bat­to­no la gran­cas­sa, mena col­pi al buio, e anzi sce­glie ciò che è emer­so e pub­bli­co e «sov­ver­si­vo» come testa di tur­co su cui eser­ci­ta­re in pri­ma istan­za la pro­pria distrut­ti­vi­tà. Auto­no­mia si tro­va cosi sot­to­po­sta a un vio­len­tis­si­mo attac­co che pun­ta anzi­tut­to a fare ter­ra bru­cia­ta nel­le gran­di fab­bri­che del nord. Così i «col­let­ti­vi auto­no­mi» di fab­bri­ca sono senz’altro accu­sa­ti di pro­ba­bi­le filo-ter­ro­ri­smo da par­te del sin­da­ca­to e del Pci, sospet­ta­ti, denun­cia­ti, sche­da­ti. E quan­do, pro­prio nel gior­ni del seque­stro Moro, auto­no­mia lan­cia la lot­ta con­tro i saba­ti lavo­ra­ti­vi all’Alfa Romeo, la rispo­sta del­la sini­stra sto­ri­ca è una rispo­sta «anti­ter­ro­ri­sti­ca», mili­ta­re­sca, demo­niz­zan­te. Comin­cia così il pro­ces­so d’espulsione dal­le fab­bri­che del­la nuo­va gene­ra­zio­ne di avan­guar­die di lot­ta – pro­ces­so che cul­mi­ne­rà col licen­zia­men­to dei 61 Fiat nell’autunno ’79.

17 – Dopo Moro, sul­lo sce­na­rio deso­la­to di una socie­tà civi­le mili­ta­riz­za­ta, sta­to e Br si scon­tra­no con logi­ca spe­cu­la­re.
Le Br per­cor­ro­no rapi­da­men­te quel­la para­bo­la irre­ver­si­bi­le che por­ta la lot­ta arma­ta a dive­ni­re «ter­ro­ri­smo» in sen­so pro­prio: ini­zia­no le cam­pa­gne di annien­ta­men­to. Cara­bi­nie­ri, giu­di­ci, magi­stra­ti, diri­gen­ti d’azienda, sin­da­ca­li­sti ven­go­no ucci­si ormai solo per la loro «fun­zio­ne» – come in segui­to spie­ghe­ran­no i «pen­ti­ti». I rastrel­la­men­ti con­tro auto­no­mia, nel ’79, han­no peral­tro eli­mi­na­to l’unico tes­su­to con­net­ti­vo poli­ti­co del movi­men­to in gra­do di con­tra­sta­re effi­ca­ce­men­te la logi­ca ter­ro­ri­sti­ca. Così, fra il ’79 e l’81, le Br pos­so­no per la pri­ma vol­ta reclu­ta­re mili­tan­ti non solo nel­le «orga­niz­za­zio­ni com­bat­ten­ti» mino­ri, ma diret­ta­men­te tra gio­va­ni e gio­va­nis­si­mi appe­na poli­ti­ciz­za­ti, il cui scon­ten­to e rab­bia sono ormai pri­vi di qual­sia­si media­zio­ne poli­ti­ca e pro­gram­ma­ti­ca.

18 – I pen­ti­ti, come feno­me­no di mas­sa, sono l’altra fac­cia del ter­ro­ri­smo, ugual­men­te mili­ta­re­sca, ugual­men­te orri­da.
Il pen­ti­ti­smo è la varian­te estre­ma del ter­ro­ri­smo, il suo pavlo­via­no «rifles­so con­di­zio­na­to», la testi­mo­nian­za ulti­ma del­la sua tota­le estra­nei­tà e astrat­tez­za rispet­to al tes­su­to di movi­men­to. L’incompatibilità tra nuo­vo sog­get­to socia­le e lot­ta arma­ta si mani­fe­sta in modo distor­to e ter­ri­bi­le nel ver­ba­li mer­can­teg­gia­ti.
Il pen­ti­ti­smo è «logi­ca d’annientamento» giu­di­zia­ria, ven­det­ta indi­scri­mi­na­ta, cele­bra­zio­ne dell’assenza di memo­ria sto­ri­ca pro­prio men­tre si fa fun­zio­na­re in modo per­ver­so e mano­vra­to una «memo­ria» indi­vi­dua­le. I pen­ti­ti dico­no il fal­so anche quan­do dico­no la «veri­tà», giac­ché uni­fi­ca­no ciò che è divi­so, abo­li­sco­no le moti­va­zio­ni e il con­te­sto, rie­vo­ca­no gli effet­ti sen­za le cau­se, sta­bi­li­sco­no nes­si pre­sun­ti, inter­pre­ta­no con gli occhi dei vari «teo­re­mi».
Il pen­ti­ti­smo è ter­ro­ri­smo intro­iet­ta­to nel­le isti­tu­zio­ni. Non si dà post-ter­ro­ri­smo sen­za un paral­le­lo supe­ra­men­to del­la cul­tu­ra del pen­ti­men­to.

19 – La scon­fit­ta sec­ca e defi­ni­ti­va del­le orga­niz­za­zio­ni poli­ti­che di movi­men­to, alla fine degli anni ’70, non ha coin­ci­so nem­me­no in par­te con una scon­fit­ta del nuo­vo sog­get­to poli­ti­co e pro­dut­ti­vo, che nel ’77 ha fat­to la sua “pro­va gene­ra­te”.
Que­sto sog­get­to ha com­piu­to una lun­ga mar­cia nei luo­ghi di lavo­ro, nell’organizzazione del sape­re socia­le, nell’«economia alter­na­ti­va», negli enti loca­li, negli appa­ra­ti ammi­ni­stra­ti­vi. Si è dif­fu­so pro­ce­den­do raso­ter­ra, rifug­gen­do lo scon­tro poli­ti­co diret­to, destreg­gian­do­si tra ghet­to e trat­ta­ti­va, fra sepa­ra­tez­za e coge­stio­ne. Sep­pur com­pres­so e soven­te costret­to alla pas­si­vi­tà, costi­tui­sce oggi più di ieri il nodo irri­sol­to del­la cri­si ita­lia­na.
La riar­ti­co­la­zio­ne del­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va e la pres­sio­ne sul­la spe­sa pub­bli­ca, le que­stio­ni del­la tute­la dell’ambiente e del­la scel­ta fra le tec­no­lo­gie, la cri­si del siste­ma dei par­ti­ti e il pro­ble­ma di una nuo­va pat­tui­zio­ne costi­tu­zio­na­le: die­tro tut­to ciò, e non solo nel­le pie­ghe del Rap­por­to Cen­sis, vive intat­ta la den­si­tà di un sog­get­to di mas­sa con le sue esi­gen­ze di sala­rio, di liber­tà, di pace.

20 – Dopo il com­pro­mes­so sto­ri­co e dopo il ter­ro­ri­smo, si trat­ta di nuo­vo, esat­ta­men­te come nel ’77, di apri­re spa­zi di media­zio­ne, che con­sen­ta­no ai movi­men­ti di espri­mer­si e cre­sce­re.
Lot­ta e media­zio­ne poli­ti­ca. Lot­ta e trat­ta­ti­va con le isti­tu­zio­ni. Que­sta pro­spet­ti­va – da noi come in Ger­ma­nia – è resa pos­si­bi­le e neces­sa­ria non dal­la timi­dez­za e dall’arretratezza del con­flit­to socia­le, ma, al con­tra­rio, dall’estrema matu­ri­tà del suoi con­te­nu­ti.
Con­tro il mili­ta­ri­smo sta­ta­le e con­tro ogni ripro­po­si­zio­ne del­la «lot­ta arma­ta», (di cui non c’è una ver­sio­ne «buo­na», alter­na­ti­va al ter­zin­ter­na­zio­na­li­smo bri­ga­ti­sta, ma nel suo insie­me, come tale, risul­ta incon­grua e nemi­ca ai nuo­vi movi­men­ti) biso­gna ripren­de­re e svi­lup­pa­re il filo del ’77. Una poten­za pro­dut­ti­va, col­let­ti­va e indi­vi­dua­le, che si col­lo­ca con­tro e oltre il lavo­ro sala­ria­to, e con cui lo sta­to deve fare i con­ti anche in ter­mi­ni ammi­ni­stra­ti­vi ed eco­no­me­tri­ci, può esse­re, al tem­po stes­so, sepa­ra­ta, anta­go­ni­sta e capa­ce di media­zio­ne.
(2 – fine)