Da «Magazzino», n. 1, gennaio 1979
A cura della redazione di «Quaderni del Territorio»
Nel Luglio scorso si è tenuto a Milano, a cura della redazione dei «Quaderni del territorio» un seminario su “inchiesta operaia e composizione di classe”.
Obiettivo del seminario è stato il coordinamento delle inchieste e delle ricerche in corso (sull’organizzazione del lavoro nella fabbrica diffusa, sulla composizione sociale e lavorativa degli studenti, sulla propensione al lavoro dei giovani, sulla riorganizzazione del lavoro nei servizi e nel pubblico impiego, sui centri sociali e le forme associative metropolitane, sul mercato del lavoro femminile, ecc.), in preparazione di un convegno che discuta i primi risultati e approfondisca il dibattito teorico sulla composizione di classe. Riassumiamo qui in modo schematico le acquisizioni del dibattito e i problemi aperti a partire dalle analisi sviluppate nel numero 4/5 dei QdT.
A) Il sistema post-tayloristico di produzione, che investe la riorganizzazione capitalistica delle aree di comando del capitale, distrugge le tradizionali funzioni di controllo del “macchinario” sulla forza lavoro, esemplificate dall’ ”intelligenza” della catena di montaggio applicata al controllo di frazioni molecolari e scomposte di lavoro astratto. Il sistema post-tayloristico si fonda a partire da una profonda mutazione di ruolo, nella divisione internazionale del lavoro, delle aree metropolitane, sempre più connotate come “fabbriche del comando sulla produzione mondiale”, caratteristiche dalla produzione di servizi all’impresa, di funzioni di controllo e programmazione di cicli produttivi complessi e diffusi, di funzioni connesse alla razionalizzazione dei processi di circolazione, alla produzione di servizi-merce come strumenti di controllo sui fattori riproduttivi della forza lavoro; nel contesto di un gigantesco trasferimento di investimenti per la produzione di merci (e conseguente creazione di classe operaia) nella periferia. I “figli” dell’operaio-massa sono dunque, da una parte gli operai in formazione delle fabbriche dei paesi emergenti e di alcune aree del sottosviluppo, dall’altra l’enorme massa di proletariato urbano scolarizzato (e, comunque, di provenienza “urbana”) presente come residuo vivo, agente, del rifiuto del lavoro astratto della grande fabbrica tayloristica. Nelle aree metropolitane è questo “mercato del lavoro” la quota di proletariato “centrale” nella ridefinizione della composizione di classe; sia per il capitale, in quanto è sui comportamenti sociali di questa sezione di forza lavoro che tende a modellarsi la forma del ciclo produttivo post-tayloristico attraverso la riappropriazione di nuove qualità cooperative e dell’intelligenza tecnica in rapporto alle nuove funzioni “produttive”; sia per lo scontro di classe in quanto è questa “sezione di proletariato” a guidare i movimenti antagonistici alla riorganizzazione del sistema di produzione e riproduzione sociale del capitale. In questo quadro l’analisi della “fabbrica diffusa” non può essere ricondotta all’analisi del decentramento produttivo (semmai assumibile per studiare i processi di divisione del lavoro su scala internazionale), ma è analisi di un diverso modo di organizzazione del comando sul lavoro vivo, in rapporto sia alla mutazione di funzioni delle “aree centrali”, sia in rapporto alla mutazione della composizione di classe nelle stesse aree.
B) Dunque, mutazione della forma, del processo di valorizzazione del capitale e mutazione delle merci prodotte, costituiscono due momenti inscindibili dell’analisi del processo di ristrutturazione; solo a partire da questa inscindibilità è possibile affrontare un dibattito non astratto sul problema della “centralità operaia”.
L’ipostatizzazione, nell’analisi sulla composizione di classe, della centralità politica degli operai delle grandi fabbriche si presenta come forzatura ideologica e “normativa”, non tanto perché questa sezione di classe non ha rappresentato in questa fase l’elemento trainante, egemonico dei comportamenti antagonistici, ma soprattutto in quanto è stata minata dal capitale la funzione di “cuore della produzione mondiale di merci” che la grande fabbrica metropolitana aveva nel ciclo di accumulazione che si è chiuso negli anni ’60, riducendone drasticamente il peso relativo rispetto alla “grande fabbrica di produzione di comando” che, come abbiamo detto, produce “altre” merci in “forma” diversa. Oggi semmai, l’interesse dell’inchiesta sulla grande fabbrica, “residuata” nelle aree metropolitane dal processo di ristrutturazione sovranazionale, consiste nel verificare in che misura, sul piano produttivo e politico, la “generazione operaia” degli anni ’60 è partecipe, è contagiata dai modi di produzione e riproduzione, dai bisogni emergenti, dai comportamenti collettivi che investono la “generazione operaia” degli anni ’70 nella fabbrica diffusa.
Si tratta in sostanza di un percorso inverso a quello che ha caratterizzato la costruzione dell’egemonia operaia, alla fine degli anni ’60, dai grandi poli di classe verso l’intero sistema del lavoro salariato; in quanto procede dalle emergenze politiche che si sviluppano nel cuore della produzione sociale e investe specifici “segmenti” della produzione a partire dai connotati nuovi della composizione di classe e di capitale.
C) La “fabbrica diffusa” distrugge la figura dell’operaio “professionista” (unico lavoro, riproduzione e consumi regolati dalla disciplina del sistema di fabbrica), nel tentativo di modellare la produzione di merci servizio e di funzioni-comando sulla nuova composizione tecnica e politica del mercato del lavoro metropolitano.
Gli aspetti fenomenici di questa modificazione strutturale dei rapporti di produzione sono noti: riutilizzo massiccio del lavoro autonomo, di nuove forme di cooperazione, del part-time, del doppio e triplo lavoro, del lavoro a termine, del lavoro nero e clandestino; mobilità orizzontale della forza lavoro, alternanza, nell’uso delle stesse figure sociali di produttori, di lavoro manuale e intellettuale; profondo salto tecnologico in atto nell’organizzazione del comando sul lavoro e nel controllo della produzione (rivoluzione informatica) a partire dall’esigenza di governare cicli di produzione diffusi (circolazione delle merci, stoccaggio, distribuzione, ecc.) e le forme più svariate di rapporto lavorativo, rispetto a cui il lavoro salariato e contrattualizzato non costituisce più l’esclusivo momento definitorio dei rapporti sociali di produzione (né è più misura della distribuzione del reddito fra le classi). Le inchieste, le ricerche, le stesse analisi politiche condotte all’interno del movimento hanno evidenziato, rispetto a questa evoluzione della forma dei rapporti di produzione, nuove e più profonde contraddizioni, in una fase di non dispiegata ricomposizione di classe: – da una parte sulla “esplosione” del tessuto produttivo e sulla modificazione dei rapporti di produzione si sono innestati processi di autoregolazione della giornata lavorativa e del tempo di lavoro, di formazione del reddito in forme complesse ed autoregolate, di riappropriazione del tempo di non lavoro come emergenza di valori associativi, di rapporti sociali non mercificati, e di nuovi bisogni; vale a dire di processi di autovalorizzazione che hanno reso inefficiente la regolazione della giornata lavorativa e dei processi riproduttivi a partire dalla disciplina di fabbrica e dalle sue proiezioni statuali; – dall’altra si è verificata, almeno nella fase di attacco alla composizione di classe precedente e di trasformazione del tessuto produttivo, la perdita del terreno della contrattazione collettiva delle condizioni di erogazione del lavoro (salario e orario), la perdita di cono-scienza (coscienza) dei modi e delle forme di appropriazione del plusvalore e di organizzazione del controllo tramite macchinario informatico; l’aumento della giornata lavorativa sociale, la dispersione e il “decentramento” delle diverse sezioni di movimento e delle loro controparti.
D) A fronte di questi processi e di queste contraddizioni l’inchiesta (la cui utilità è data proprio dal fatto di trovarci in una fase in cui non si danno in forma esplicita processi di ricomposizione di classe) dovrebbe sostanzialmente misurarsi su tre ordini di problemi: 1) come si organizzano i rapporti di produzione nel sistema postayloristico? Le analisi fino ad ora condotte sulla “fabbrica diffusa” ne hanno sostanzialmente evidenziato la fenomenologia; si tratta di condurre analisi più sistematiche sull’organizzazione del lavoro, sul sistema del macchinario, sui processi di valorizzazione e di circolazione del capitale, riconducendo all’unità reale dei processi di decisione e di comando una struttura di produzione e di riproduzione altamente complessa, apparentemente disgregata, dispersa e in parte occulta. 2) come si ridefinisce oggi il concetto di centralità operaia? C’è un modo sbrigativo quanto mistificante di riferirsi alla categorie di “operai, impiegati, tecnici; occupati, disoccupati, marginali,” ecc. e rispetto a queste categorie “certe” interpretare i movimenti dell’intero sistema della forza lavoro.
È un modo che configura oggi, a fronte delle trasformazioni profonde che hanno investito l’organizzazione sociale della produzione una lettura interamente ideologica della “centralità operaia” (vedasi ad esempio l’uso, da parte del PCI del concetto di centralità operaia per motivare un’investitura dell’organizzazione operaia come agente di normalizzazione e controllo sulla “seconda società”).
C’è dunque un modo più complesso, che tiene conto della trasformazione del ruolo delle diverse sezioni di forza lavoro nel processo complessivo di valorizzazione del capitale. 3) quali elementi di programma sono leggibili nei comportamenti autonomi di classe? È indubbio che l’interpretazione dei comportamenti collettivi riferiti ai caratteri nuovi della composizione di classe nelle aree metropolitane, se non vuole essere pura ripetizione di ciò che già i singoli movimenti conoscono di sé, deve assumere come obiettivo generale la verifica di quanto e come i processi di autovalorizzazione proletaria si pongono come embrioni fondativi di un sistema sociale antagonistico (in alternativa al “farsi Stato”); discorso che in alcune sezioni di movimento rischia il soggettivismo più sfrenato se non si “àncora” l’inchiesta ai rapporti contradditori fra comportamenti autonomi, espressioni latenti o organizzate di valori d’uso, emergenti dalla rottura della “giornata lavorativa di fabbrica”, e modi e forme di sussunzione della potenzialità produttiva di tali comportamenti nei rapporti sociali di produzione.
Risulterebbe infatti errato parlare di “movimento del valore d’uso”, di autonomizzazione proletaria nell’uso selvaggio del reddito, se tutto ciò fosse “capitalisticamente” riconducibile al tempo di non lavoro anche se dilatato ed autogestito, al tempo di consumo anche se organizzato collettivamente.
La “rivolta dei consumatori” non ha mai portato lontano, se i bisogni espressi nel tempo di non lavoro non alludono, non costituiscono in embrione una potenzialità positiva, progettuale di rottura dei rapporti di produzione, non indicano “come” produrre, insieme a “cosa” produrre.
E) Su questo terreno il discorso è ancora molto indietro. La varietà e la contraddittorietà di esperienze di movimenti rende complessa (e anche scorretta) la “reductio ad unum” della analisi sulla composizione di classe.
Non si dà, nella fase attuale, una “scheda d’inchiesta” unificante, ma la necessità di procedere ancora per specificità, cominciando a tessere gli intrecci e le relazioni possibili, nella fabbrica sociale, delle diverse sezioni di movimento. Così, non si può non procedere ancora in modo analitico a partire da una rozza articolazione di problemi d’inchiesta connessi a diverse “sezioni” di comportamento politico di classe. Per esempio: – forme di resistenza alla ristrutturazione, alla riduzione del costo del lavoro; lotte sulla riduzione dell’orario; forme che investono soprattutto il dibattito sulle grandi fabbriche a partire dai fermenti organizzativi autonomi in atto e rispetto a cui l’inchiesta dovrebbe soprattutto incentrarsi sull’analisi dei comportamenti operai in quanto “sezione della fabbrica diffusa” evidenziando sia gli intrecci oggettivi (formazione complessa del reddito, doppio lavoro, part-time, mobilità e polivalenza nel lavoro sommerso, ecc) che soggettivi (modi di circolazione delle informazioni e dei comportamenti dalla fabbrica diffusa al “lavoro operaio”).
In questo senso ad esempio, un’inchiesta sulla Fiat non può essere soltanto inchiesta su Mirafiori e Rivalta, ma sul tessuto produttivo riproduttivo e sociale in cui l’operaio FIAT è materialmente coinvolto. – forme di autogestione, di cooperazione, di “controeconomia”, di sviluppo del lavoro autonomo, che investono in forma diffusa e attraverso sezioni consistenti di proletariato giovanile (cooperative in agricoltura, nei servizi, nella distribuzione; radio alternative, centri sociali autogestiti, librerie; editoria, ecc.), che, al di là della loro scontata marginalità economica, presentano un interesse politico nel rapporto che determinano fra produzione di valori d’uso, modo di produzione e organizzazione del lavoro.
L’espansione del lavoro autonomo e artigiano in tutti i settori richiede poi un’analisi più generale sulle propensioni al lavoro dei giovani rispetto a cui i primi contributi sono venuti dall’analisi delle iscrizioni alle liste speciali della legge Anselmi (vedasi QdT N4/5). – forme di economia illegale, di appropriazione violenta di reddito (delinquenza diffusa) che al di là della loro ambiguità di collocazione rispetto alle istituzioni, e pur essendo in gran parte prodotto endemico della crisi urbana e della marginalizzazione del “ghetto”, investano in quanto comportamento massificato sezioni consistenti di proletariato giovanile, non più relegabile nella marginalità in quanto profondamente intrecciato con il modo di produzione e di riproduzione nella fabbrica diffusa, in particolare per quanto riguarda il lavoro precario.
Il modo di formazione del reddito nella fabbrica diffusa non può essere indagato se non a partire da un’area territoriale di produzione e riproduzione intesa come “fabbrica totale”. – forme di lotta e di organizzazione dei “senza salario” e del lavoro precario che, dopo il movimento del ’77, hanno trovato un punto di massificazione nelle lotte dei servizi e del pubblico impiego contro il piano Pandolfi, alludendo a significativi momenti di ricomposizione (coordinamenti di lotta fra precari della scuola, ospedalieri, precari della 285, degli enti locali, ecc.). Le lotte nei servizi rivestono, rispetto all’analisi della composizione di classe un interesse centrale in quanto: – al di là di una valutazione attenta del fenomeno di rottura del sindacalismo confederale e dei processi di autorganizzazione, che poco hanno a che vedere col sindacalismo autonomo, rappresentano un primo momento di massificazione politica dì quote rilevanti dei “non garantiti” nella fabbrica diffusa; – riguardano la sezione di classe (proletariato urbano scolarizzato polivalente e mobile) che riteniamo rivesta importanza centrale nei processi di riorganizzazione del ruolo “produttivo” delle aree metropolitane; – presentano significativi intrecci fra elementi rivendicativi (salario, contrattualizzazione, mansionari, ecc.) e elementi politici (contestazione dell’organizzazione del lavoro in rapporto alla produzione di merci-servizi, evidenziazione del rapporto fra bisogni sociali e attività lavorativa) che alludono in modo concreto al rapporto fra emergenza di valori d’uso collettivi e strutture produttive organizzate per la loro mercificazione. Tutte queste forme ed altre in cui si esprime la conflittualità “spontanea” del proletariato metropolitano, lungi dal costituire un quadro dispiegato di ricomposizione di classe, tendono, dopo la rottura dell’egemonia dell’operaio massa, a configurarsi come movimenti separati, con possibili esiti settoriali o corporativi, e in ciò sta il carattere transitorio della fase che stiamo attraversando.
Il problema dell’inchiesta è dunque anticipare, interpretare i luoghi e i modi possibili di formazione della nuova centralità operaia nella metropoli del capitale; interpretare, nei mille rivoli della contrattazione, dei processi di formazione del reddito e di autovalorizzazione, contenuti di programma in grado rompere la disgregazione in atto del tessuto proletario.
MOVIMENTO FEMMINISTA: UN GIUDIZIO DI FASE
di Alisa del Re
Non si può parlare oggi di movimento femminista senza accennare al libro di Annie Le Brun (nella edizione del sole nero – 1978 – ha per titolo: Mollate tutto, e come sottotitolo: Facciamola finita con il femminismo), che tanta fortuna sta avendo in questo momento.
Non so bene in Francia, ma in Italia sicuramente è il libro più inutile che ci sia in commercio, è una vera frode politico-letteraria: e, guarda caso, proprio perché parte da problemi veri e reali del movimento femminista, del movimento delle donne: direi addirittura che va a toccare il punto più dolente della fase attuale, e cioè che cos’è il femminismo oggi, se essere femministe significa ancora essere dentro un progetto di liberazione.
Il tema è dunque attuale. Dove sta allora la mistificazione, che rende questo libro così ipocrita e così «gioco letterario» con malafede politica? La cosa più evidente è che Annie Le Brun parla di femminismo in rapporto alle «donne», entità, da un punto di vista politico, metafisica, astratta, senza nessun referente storicamente determinato.
In rapporto alle donne, dicevo, e non in rapporto alle lotte delle donne, che sono un dato storico certo e politicamente rilevante.
Non parla di ciò che è stato il femminismo, né di ciò che potrà essere nella sua evoluzione (e non certo in una sua fissazione strutturale).
Non entra in un gioco dialettico in cui farsi eventualmente controparte, ma resta stupidamente allo stesso balcone delle «papesse» femministe che critica, impantanandosi nel loro stesso terreno, la letteratura. E allora libro inutile, ma allora tema di cui parlare: Il movimento femminista oggi. Ma perché parlarne?
Proprio per la violenza e la vastità delle lotte delle donne in contrapposizione al silenzio totale e bruciante dei gruppi femministi; gruppi che avevano caratterizzato il movimento fino a qualche anno fa. Si avverte la mancanza di una linea politica egemone, la mancanza di un dibattito politico all’interno dei gruppi e in generale; si ha come l’impressione di una sclerosi delle idee, di un inaridimento, di un ripiegarsi su se stesse in isole che si autocontemplano. Il merito in passato dei gruppi femministi è stato proprio quello di dispiegare pubblicamente, brutalmente l’intera tematica dell’oppressione femminile, il forzare una consapevolezza collettiva e non più individuale di quest’oppressione, il far sorgere concrete speranze di liberazione. Ma è evidente che questo ora non basta più: la speranza deve diventare certezza, l’oppressione scomparire, la consapevolezza diventare organizzazione e lotta.
Lo richiedono le stesse donne che già sono scese a migliaia in piazza per gridare la loro rabbia, il desiderio di una vita diversa, contro i tabù, contro le violenze quotidianamente perpetrate nei loro confronti, contro il loro sfruttamento.
Non basta perché non è mai bastato gridare contro, né scrivere contro.
E qui, indubbiamente, al femminismo «storico» dei gruppi è mancata una molla, una spinta, la capacità politica di fare un passo avanti nella storia.
E non solo, ma quella che poteva essere inizialmente un’arma offensiva di estrema efficacia come la denuncia della condizione femminile, si è spuntata restando tale e favorendo – caso mai – solo situazioni di denuncia e di autocommiserazione collettiva. C’è un’analogia evidente con il movimento dei giovani proletari che per un certo periodo ha teorizzato la propria reale oggettiva emarginazione come terreno proprio, da rivendicare. Ma a un certo punto qualcuno si è stancato e s’è detto: sono stufo di compiacermi di essere un emarginato, sono stufo di piangere insieme agli altri la mia miseria; assieme agli altri io voglio ridere, godere, avere uno spazio intero e non ritagliato dentro un ghetto. Per le donne si è creata una situazione in un certo senso simile eppure diversa.
Vediamo di chiarire. Bisogna innanzitutto partire dalla definizione di movimento femminista: esso si è configurato storicamente come la punta di un iceberg che ha tali vaste e palpabili proporzioni da renderlo non paragonabile a nessun altro movimento di massa.
Ecco: il corpo sotterraneo, nascosto, la sostanza di questo iceberg è: la «lotta delle donne».
Ed è successo prima del femminismo (e succederà dopo il femminismo) che le donne abbiano lottato e lottino in maniera non subalterna, riconoscendosi come soggetti autonomi, su esigenze proprie specifiche, legate alla propria condizione.
Cos’è allora che ha connotato il femminismo?
È stata la capacità di unificazione delle varie istanze di lotta, l’aver determinato lo specifico donna astraendolo da una realtà dispersa e disorganica, l’aver assunto la preminenza politica su un movimento sotterraneo portandolo così alla luce, l’aver creato intime relazioni tra forme di lotta diverse, in un certo senso l’aver creato da un processo una realtà unificante.
Un esempio può essere dato dall’autocoscienza, pratica che è nelle donne da sempre, proprio nella forma della «separazione autonoma» che le femministe si sono date in questo periodo storico: la differenza tra le «confidenze consolatorie» tra donne di ogni epoca, nei salotti, nei lavatoi, nelle cucine e l’autocoscienza di oggi consiste proprio nella forzatura che di questa è stata fatta in un’epoca di apparente egualitarismo, e quindi dell’uso provocatorio sia della separazione sia della «conoscenza di se stesse e dei propri problemi». Un altro elemento determinante è stato l’aver imposto l’abbandono di ogni delega per quanto riguarda la gestione delle proprie questioni e quindi di aver innescato un processo di autonomizzazione delle lotte non solo nella fase organizzativa, ma anche nella fase di contrattazione e di pressione politica per la risoluzione degli obiettivi posti dal movimento.
Questo ha fatto emergere una nuova soggettività tra le donne, cumulo di antiche capacità materiali di gestione delle lotte stesse e di nuova invenzione di modi di essere dentro le lotte, di modi di esprimere se stesse e la propria rabbia. Tutto ciò ha segnato l’espressione più alta del movimento femminista in Italia: ma ha anche mostrato i limiti che una simile posizione aveva dentro di sé, e la necessità di un superamento.
I limiti erano e sono oggettivi: la ghettizzazione dei comportamenti (fatto che usato provocatoriamente poteva servire; diventava inutile e dannoso come elemento di programma) si è prestata a una ghettizzazione di obiettivi e di linea politica. Per spiegarci, il recupero della «condizione femminile» come arma offensiva ha degenerato in autoriconoscimento di comportamenti leziosi; la non aggressività, la sorellanza sono diventate un pacioso stagno in cui tutto il putridume deposita in nome di non so bene cosa; nel nome donna si è annegata ogni professionalità, e ciò è servito a giustificare tutte le speculazioni.
L’immagine del movimento è arretrata all’immagine dei gruppi, i quali rispecchiano ormai solo il dissolvimento di se stessi. Antinomia tra femminismo e lotta delle donne o nascita del nuovo femminismo? Dentro questo quadro di desolante immiserimento le donne hanno comunque continuato a produrre lotte e strumenti organizzativi, al di là e oltre la volontà e il progetto dei gruppi femministi.
La spinta iniziale è servita a introdurre un processo a valanga di iniziative politiche in ogni situazione: nei partiti, nelle organizzazioni extraparlamentari, nei sindacati, in tutti i posti di lavoro, in ogni luogo di aggregazione di questa nuova soggettività. Queste iniziative si fondano decisamente su elementi materiali all’interno del rapporto di sfruttamento e vengono arricchite dalla estrema consapevolezza e realismo delle donne.
Lo scollamento avviene da un lato sull’inadeguatezza dei programmi dei gruppi, in quanto le determinazioni di potere e gli obiettivi di fatto si esplicitano a partire da una coscienza acquisita dalla pratica quotidiana dei rapporti, e ora liberata, con un superamento di fatto di slogan arretrati e fortemente ideologizzati («l’utero è mio e me lo gestisco io», «salario al lavoro domestico», «siamo donne, siamo tante, siamo stufe», tanto per citare i più noti): si materializzano infatti su conquiste di spazi concreti, sia personali soggettivi (rifiuto del lavoro), sia sociali (richiesta di servizi, loro efficiente funzionamento). D’altro lato si misura anche l’inadeguatezza organizzativa dei gruppi: infatti essi prevedevano il movimento di piazza come base fluttuante, il gruppo come struttura rigida e referente generale. L’organizzazione politica delle donne nelle lotte pare invece vada sviluppandosi nel senso di ritrovare sempre più elementi materiali di organizzazione permanente nelle condizioni specifiche in cui la struttura sociale della produzione e della riproduzione della forza lavoro le ha oggi collocate.
Quindi nei posti di lavoro e nelle situazioni di aggregazione sociale, che le vedono principali utenti dell’organizzazione capitalistica di controllo sulla riproduzione della forza lavoro, cioè i servizi. Sono strutture organizzative le più diverse, che hanno mutuato dal femminismo solo la più rigorosa autonomia; fondano la loro esistenza su obiettivi materiali precisi: dalla riduzione della giornata lavorativa, alla gratuità e ampliamento dei servizi sociali (dalle case agli asili, mense, lavanderie ecc.), alla qualità di un benessere di vita misurato dalla qualità del lavoro gratuito fornito fino a oggi dalle donne. In ogni fabbrica, in ogni scuola, in ogni ospedale cominciano a costituirsi comitati, coordinamenti di lavoratrici; negli asili (nidi e scuole materne), coordinamenti di madri; la cosa più recente: negli ospedali, i comitati per l’applicazione della legge sull’aborto, costituiti da donne ospedaliere e da utenti del servizio.
Tutto ciò garantisce un forte sviluppo di lotte in senso orizzontale – diffusivo; e ogni situazione organizzata è in grado di farsi latrice di un progetto politico più ampio, come di recepire istanze simili dall’esterno e farsene carico.
È indubbiamente vero che anche questo tra non molto non sarà più sufficiente: la necessità di confronto politico organizzato tra le varie situazioni di lotta diventa sempre più impellente.
Sempre più tra le donne si affaccia la richiesta di coordinamento e di direzione e ciò non può avvenire se non attraverso un ampio dibattito che agiti le acque ora troppo chete del femminismo. Provocatoriamente buttiamo un sasso nello stagno: compagne usciamo dal ghetto della nostra specificità! Ma uscirne per le donne non significa – l’abbiamo già visto – abbandonare temi e forme organizzative che sono loro proprie. Significa invece usare della propria condizione gli elementi più totalizzanti ed eversivi; significa da un lato essere nella posizione più favorevole per farsi soggetto attivo nelle lotte che sembrano dare un segno distintivo a questo periodo: le lotte per il reddito garantito contro il salario reso variabile dipendente; d’altro lato significa ribaltare tutta la concezione, comunemente utilizzata dal capitale, della contrapposizione tra soggetti in lotta e popolazione, creando elementi di aggregazione e di compattazione che rendano immediatamente impraticabile questo progetto; in terzo luogo la possibilità, data dalla propria situazione soggettiva, di ricostruire gli obiettivi parziali dei «lavoratori» trasformandoli in obiettivi che comprendano lo stravolgimento, la riduzione, il pagamento in salario, beni e servizi dell’intera giornata lavorativa comandata dal capitale, fatta sia dal lavoro per la produzione di merci che dal lavoro per riprodurre se stessi e la propria razza. E questa nuova soggettività ha la possibilità, io credo, di uscire dalla propria specificità proprio usandola fino in fondo, espandendola, imponendo gli «obiettivi delle donne», proprio perché così larghi, così «totali», in fondo così poco specifici.
Quando tutto il lavoro legato alla riproduzione comincia a venir rigettato tra le braccia dei «riprodotti» dove è soggettivamente possibile, in braccio allo Stato dove è organizzativamente possibile, contro l’organizzazione capitalistica della produzione dove è politicamente fattibile, allora comincia ad essere difficile a chicchessia trovare argomenti a favore del lavoro salariato, a favore del «giusto sfruttamento», che non siano mera ideologia. (…)
NEOLOGISMI
Valorizzazione
Per valorizzazione si intende il processo di sviluppo capitalistico in quanto messa a valore del capitale e delle sue parti componenti.
Logicamente il processo di valorizzazione capitalistico è distinto dal processo lavorativo; ma, storicamente, i due processi sono venuti man mano sovrapponendosi.
Quando il processo lavorativo è completamente dominato dal processo di valorizzazione si dice attuata la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale.
Il processo di valorizzazione capitalistica è dinamico ed estensivo: l’intera società è assoggettata e riorganizzata dal capitale, tanto più quanto più il capitale diviene esso stesso una categoria sociale.
In questo quadro .la classe operaia ha una composizione tecnica che, sul piano nazionale (mercato del lavoro) e sul piano internazionale (divisione internazionale del lavoro), è adeguata alle necessità della valorizzazione capitalistica.
Il fine della valorizzazione capitalistica è la produzione e la riproduzione del valore di scambio nella forma del profitto: nelle fasi di crisi, fine della valorizzazione è la semplice riproduzione delle condizioni di produzione del profitto, la semplice riproduzione dei rapporti sociali che sono sottesi alla produzione del profitto.
In questo senso il processo di valorizzazione è processo di continua disciplinarizzazione della forza lavoro, a tutti i livelli sui quali la disciplina può essere imposta, dalla fabbrica singola allo Stato. Nei periodi di crisi la valorizzazione tende a divenire sempre più decisamente processo di comando puro e semplice Autovalorizzazione Per autovalorizzazione si intendono tutti quei processi di sviluppo della composizione di classe operaia che non sono riducibili immediatamente alla dialettica della valorizzazione capitalistica.
L’autovalorizzazione operaia consiste nell’accumulo, dentro la classe operaia, di livelli irriducibili di salario relativo, di livelli di sapere generalizzati, di livelli di espressione politica e di lotta, e di esercizio di contropotere. L’autovalorizzazione operaia è un elemento antagonistico dello sviluppo capitalistico: è la sintesi di tutti gli elementi (sabotaggio della produzione, lotta sul salario, conquista di salario sociale, indipendenza nella riproduzione, riappropriazione, espressione di bisogni politici e di organizzazione, “the making of working class”) che non sono riducibili al valore di scambio.
Lo sviluppo capitalistico è un continuo tentativo di dominare i momenti storici della autovalorizzazione di classe, le ristrutturazioni capitalistiche sono operazioni intese a riformare la produzione e le condizioni sociali di produzione per comprendervi la forza autovalorizzante della classe operaia.
Quando i livelli di autovalorizzazione giungono a consolidarsi su altissimi limiti di espressione, l’autovalorizzazione si sviluppa in transizione: ciò significa che la classe operaia e proletaria comincia allora a sviluppare momenti di egemonia e ad esprimere in maniera permanente il suo contropotere contro il potere del capitale.
È evidente che a questo punto tutte le categorie del capitale vanno in crisi perchè la dialettica del valore non riesce più a dispiegarsi: essa è sostituita dall’antagonismo delle forze soggettive (le due classi), ognuna delle quali tenta di espandere e di esaltare la propria indipendenza soggettiva in maniera dinamica, fino alla distruzione dell’avversario. Autodeterminazione Per autodeterminazione si intende la forza normativa dell’autovalorizzazione.
Questa forza normativa si esprime in due sensi.
In primo luogo, essa è processo cosciente di ricomposizione di classe, di “Ausgleichung” (eguagliamento) delle sue differenze, è fenomeno di riappropriazione di identità politica della classe operaia e proletaria, è sintesi delle diverse autonomie: in un primo senso l’autodeterminazione è un processo intensivo di classe, dentro la classe.
In un secondo senso, autodeterminazione è un processo volto contro la classe nemica.
L’organizzazione di classe, come elemento determinato e necessario per sviluppare la lotta, il rapporto fra strategia e tattica – rapporto fino in fondo condizionato dalla dinamica autovalorizzante della composizione di classe data – bene, tutti questi elementi vengono riassunti nella autodeterminazione di classe.
L’autodeterminazione di classe è dunque in questo secondo senso la forza innovativa in termini propri, il rovescio dell’imprenditorialità capitalistica, la funzione fondamentale perchè si attui il processo rivoluzionario.
Tutta la storia del movimento operaio rivoluzionario può essere studiata come storia del rapporto fra dimensioni determinate dell’autovalorizzazione e forme storiche dell’autodeterminazione.
Riscoprire questo rapporto, in forma adeguata all’attuale livello della composizione di classe ed alla straordinaria attuale altezza del processo di autovalorizzazione, è il compito di massa che dobbiamo espletare.
Da «Magazzino», n. 2, maggio 1979
DAL TAYLORISMO AL POST-TAYLORISMO
Di Sandra Bonfiglioli Perelli e Alberto Magnaghi
RISTRUTTURAZIONE E DECONCENTRAZIONE TERRITORIALE DEL CICLO PRODUTTIVO. DALLA METROPOLI INDUSTRIALE ALLA FORMAZIONE DELLA FABBRICA DIFFUSA.
UN PASSAGGIO STORICO NELLA FORMA DELL’ACCUMULAZIONE COME RISPOSTA ALLA LOTTA DELL’OPERAIO MASSA.
DECENTRAMENTO PRODUTTIVO SU SCALA MONDIALE E MODIFICAZIONE DI RUOLO DELLE AREE METROPOLITANE.
LE AREE METROPOLITANE COME FABBRICA DEL COMANDO SULLA PRODUZIONE MONDIALE. LA PRODUZIONE DIFFUSA: STRATEGIA NON CONGIUNTURALE DEL CAPITALE. CARATTERISTICHE DELLA PRODUZIONE DELL’IMPRESA POST-TAYLORISTA. LA NUOVA COMPOSIZIONE DI CLASSE E LE MODIFICAZIONI DEL MERCATO DEL LAVORO.
LA “FORMA URBANA” DELLA METROPOLI POST-TAYLORISTA. LE MODIFICAZIONI DEL GOVERNO LOCALE.
Relazione tenuta al convegno sul Mediterraneo, organizzato dalla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano il 27 novembre 1978.
Ci proponiamo con questa relazione di delineare alcune linee interpretative del passaggio storico dalla metropoli industriale, fase avanzata della “città-fabbrica”, caratterizzata dalla presenza regolatrice della grande fabbrica tayloristica, alla fabbrica diffusa, intesa come una riorganizzazione tendenziale, di tipo post-tayloristico, delle funzioni e dei modi di produzione nella metropoli capitalistica. La situazione italiana, ed in particolare la regione industriale del Nord, in cui sono concentrati investimenti produttivi e forza-lavoro, rappresenta in modo esemplare questo processo, in rapporto anche alle rapide trasformazioni provocate dal ciclo di lotte operaie e proletarie degli anni ’60 e ’70. La crisi della metropoli industriale si determina negli anni ’70 non solo come crisi tecnica di una forma determinata di organizzazione territoriale della produzione, ma soprattutto come espressione materiale della crisi di un intero ciclo di accumulazione e della sua forma storica; per questo è necessario risalire alle forme generali della risposta capitalistica a tale crisi per comprendere a fondo i significati delle modificazioni territoriali che ne derivano. La rivolta degli operai-massa nella metropoli industriale, verificatasi a partire dal ’68, ha rovesciato i rapporti di produzione sulla cui base il dominio capitalistico si era fondato distruggendo la funzione del salario come variabile dipendente, scaricando i costi sociali di riproduzione sulla spesa pubblica, trasformando il ghetto metropolitano in momento di organizzazione politica e sociale, vanificando attraverso il rifiuto del lavoro le forme del comando d’impresa sull’erogazione di lavoro e sulla produttività, ribaltando la mobilità territoriale in fattore di diffusione dei processi d’organizzazione e di omogeneizzazione dei livelli di lotta, determinando una rigidità totale del mercato del lavoro industriale.
Questo ciclo di lotte che ha investito le principali “cittadelle” della produzione mondiale, ha introdotto per il capitale l’urgenza di una risposta strategica, di un passaggio storico nella forma dell’accumulazione.
Il passaggio dalla metropoli industriale alla fabbrica diffusa deve dunque essere analizzato come tentativo di rottura del “potere operaio” sul ciclo di produzione e riproduzione di capitale, come processo generale di trasformazione, nella crisi, delle condizioni generali di erogazione della forza-lavoro. Consideriamo allora le caratteristiche costitutive della “fabbrica diffusa”, a partire dal “modello italiano” sviluppatosi nelle aree metropolitane negli anni ’70. Possiamo identificare due livelli di diffusione della struttura produttiva metropolitana: Un primo livello riguarda il decentramento produttivo su scala mondiale che, a partire dal ’69, ha determinato un rovesciamento del modello di accumulazione basato sulla concentrazione in alcune regioni mondiali. Questo modello è venuto sviluppandosi attraverso la migrazione internazionale della forza-lavoro dalla periferia mondiale verso la metropoli.
Un secondo livello riguarda le modificazioni dei modi e delle forme d’organizzazione del ciclo produttivo all’interno delle aree metropolitane, una volta che determinate funzioni produttive sono state trasferite verso la periferia mondiale.
Tali modificazioni del ruolo delle aree metropolitane si sono sviluppate secondo le linee seguenti: – riduzione del peso relativo e assoluto delle grandi concentrazioni operaie in rapporto ai processi di riproduzione su scala sociale; questa riduzione è stata realizzata attraverso un insieme di operazioni del tipo: riduzione massiccia dell’occupazione (licenziamenti, “cassa integrazione”, blocco del “turn-over”, pensionamento anticipato) in particolare nei settori di produzione dei beni di consumo: introduzione di nuovi macchinari nelle grandi fabbriche (automazione crescente di tutte le fasi produttive, introduzione nel lavoro meccanico di robot “intelligenti” della terza generazione in sostituzione del lavoro alle linee di saldatura, verniciatura e prova, introduzione delle “isole di montaggio”, computerizzazione dei processi di circolazione delle merci e di controllo dei “flux productifs”).
- diversificazione produttiva da parte delle holding multinazionali, che sviluppano nelle aree metropolitane i settori relativi ai beni d’investimento (macchine utensili), alla produzione di energia (nucleare), ai sistemi di comunicazione e controllo (elettronica, telecomunicazioni), ai sistemi sofisticati di programmazione e gestione (engeenering) e le fasi dei cicli produttivi ad alta composizione organica, in presenza di lavoro qualificato. – sviluppo del terziario “avanzato” relativo all’aumento delle funzioni di comando e di gestione dei cicli produttivi su scala multinazionale (produzione di servizi per l’impresa, di funzioni di programmazione cibernetica dei cicli produttivi diffusi, di funzioni relative alla razionalizzazione dei processi di circolazione, produzione di servizi pubblici e sociali, di processi formativi e di strumenti di controllo del mercato del lavoro ecc.). A partire dallo sviluppo di queste funzioni si assiste a un cambiamento radicale del ruolo delle aree metropolitane che risultano sempre più caratterizzate, nel contesto della nuova divisione internazionale del lavoro, come centri d’organizzazione della “fabbrica di comando sulla produzione mondiale”.
- “diffusione” del processo produttivo (così modificato nelle funzioni e nella composizione dei settori merceologici) nel territorio metropolitano, non solo attraverso il decentramento delle unità produttive e la riutilizzazione della piccola e media impresa nel circuito finanziario e di gestione della grande holding, ma anche attraverso l’espansione del part-time, del lavoro nero, del lavoro a domicilio, del doppio o triplo lavoro, del lavoro autonomo, del lavoro clandestino.
Questo processo che investe tutti i settori (agricoltura, industria, terziario), non guarda un utilizzo congiunturale di quote del mercato marginale, ma si sviluppa come fenomeno interno alle modificazioni strutturali dell’apparato produttivo, attraversando tutti i settori avanzati (meccanica, elettromeccanica, elettronica, chimica), il pubblico impiego e le attività terziarie in generale; questo processo determina una nuova forma generalizzata dei rapporti di produzione che tende a ribaltare la rigidità del lavoro salariato tramite forme più articolate di forza-lavoro e di controllo della produzione, sottraendo terreno alla contrattazione, determinando forme altissime di mobilità e di autosfruttamento, prolungando la giornata lavorativa sociale.
A partire dalle inchieste condotte sulla formazione della fabbrica diffusa nella regione lombarda, un ciclo produttivo “tipo” di una grande impresa può essere scomposto nelle seguenti sezioni produttive: – sezioni produttive composte di unità medio-grandi, dove le condizioni di erogazione del lavoro sono garantite istituzionalmente tramite i contratti di lavoro.
In questi settori la composizione della forza-lavoro subisce un progressivo invecchiamento (età media 30/40 anni), una riduzione dell’occupazione dovuta ai processi d’automazione e cibernetizzazione delle fasi produttive specifiche e al blocco del turn-over, un aumento della produttività del lavoro. Il comando sul lavoro in questi settori del ciclo è affidato, oltre che ai capi tradizionali, alle nuove strutture di organizzazione sindacale (delegati) e all’ulteriore trasferimento di “intelligenza” ai macchinari.
- sezioni produttive decentrate dì tipo artigianale o di piccole unità produttive in cui, a fianco di alcuni operai a contratto, gravita forza lavoro che viene assunta (stagionale, a cottimo) o licenziata secondo le oscillazioni della produzione.
Il lavoro erogato da queste figure operaie precarie non è soggetto ad alcuna normativa o garanzia istituzionale. La figura sociale presente in questi settori è costituita in parte da operai di fabbrica (lavoratori turnisti, assenteisti o lavoratori in “cassa integrazione”) che fanno un doppio lavoro, in parte da studenti (che lavorano i giorni festivi o orari extrascolastici), in parte da giovani proletari che hanno interrotto gli studi, in parte da donne e da una forza-lavoro espulsa dal mercato del lavoro ufficiale.
La composizione della forza-lavoro è dunque, in questi settori, continuamente variabile; il comando sul lavoro viene esercitato in parte dalla presenza diretta del padrone ed in parte tramite una cooperazione spontanea tra gli operai stabili che organizzano l’intera unità produttiva regolando l’immissione e l’espulsione della forza-lavoro precaria.
- sezioni produttive diffuse all’interno dei luoghi di riproduzione (appartamenti, cantine, solai, magazzini riadattati ecc.) in cui la forza-lavoro è composta in parte da operai di fabbrica che fanno il doppio lavoro e, prevalentemente, da donne, da vecchi, da ex-operai, da giovani; l’organizzazione del lavoro e l’imposizione ad esso si determinano attraverso la gerarchia della struttura familiare che agisce essenzialmente su due figure sociali: donne, vecchi e marginali, che erogano lavoro senza alcuna garanzia contrattuale, e i giovani, spesso già inseriti nel mercato del lavoro o nella scuola, che vengono indotti al lavoro saltuario dalla necessità di soddisfare bisogni non primari.
In questo settore del ciclo produttivo sparisce qualsiasi contrattazione esplicita sul terreno salariale (e con ciò la coscienza di partecipare al processo di valorizzazione del capitale).
- sezioni produttive di tipo “mobile”, esemplificati dalle “carovane” come forma precaria d’organizzazione del lavoro di mantenimento delle istallazioni produttive, organizzato a partire da un’impresa con un nucleo di operai specializzati con l’utilizzo flessibile e mobile di forza-lavoro decontrattualizzata.
- sezioni produttive dì tipo “cooperativo”, che, al di là delle forme più tradizionali di cooperazione, hanno avuto un nuovo sviluppo soprattutto tra i giovani nel quadro dell’espansione del lavoro autonomo e del rifiuto del lavoro salariato.
In questi settori sia l’organizzazione del lavoro che i rapporti con i committenti sono autogestiti. A partire da questa descrizione molto schematica delle tipologie della struttura produttiva, ciò che ci preme qui sottolineare sono determinati effetti generali di questa organizzazione del lavoro sulla forma del processo di accumulazione, sulla riorganizzazione tecnologica, sul mercato del lavoro ed infine sul ruolo del territorio nel processo di produzione.
I settori “esterni” alla fabbrica tradizionale nella quale si ha il lavoro istituzionalizzato, hanno assunto un’importanza crescente (qualitativa e quantitativa) nel processo di valorizzazione capitalistica, in modo tale che le quote tradizionalmente deboli del mercato del lavoro, in particolare le donne, non risultano più marginali; in questi settori un enorme processo di appropriazione capitalistica della cooperazione sociale si realizza attraverso il prolungamento della giornata lavorativa sociale e l’integrazione delle forme più diverse di utilizzo del lavoro e dei rapporti di produzione (decentramento e diffusione del ciclo e centralizzazione del comando sono due facce del medesimo processo di ristrutturazione); non c’è dunque alcun motivo di parlare di due sistemi produttivi (uno “centrale”, l’altro “marginale”) dal momento che si tratta della stessa impresa del settore centrale del ciclo produttivo che si organizza assorbendo, sviluppando e integrando il sistema marginale di produzione in un unico processo di valorizzazione.
La fabbrica diffusa non si presenta come fabbrica “da quattro soldi” a fianco di un sistema centrale ad alta produttività (non vi sono due modi di produzione), ma è essa stessa il prodotto della riorganizzazione tecnologica e della gestione d’impresa di un sistema in cui, nelle aree metropolitane, la grande fabbrica tayloristica non è più il centro della valorizzazione.
Nella fabbrica diffusa si realizza un notevole salto tecnologico; questo non è più leggibile solamente all’interno dei soli laboratori di produzione, ma soprattutto nella riorganizzazione delle forme di gestione, dei processi di circolazione dell’informazione, delle merci, del comando, nel contesto dell’integrazione sociale delle diverse forme di rapporto di lavoro, delle differenti tipologie dei settori produttivi a seconda delle diverse composizioni tecniche di capitale a cui ci siamo riferiti in precedenza.
Tale riorganizzazione tecnologica si realizza dunque essenzialmente attraverso i differenti modi di circolazione delle merci e dell’informazione (sistemi cibernetici di controllo e di gestione del ciclo produttivo, informatica finalizzata alla riorganizzazione di informazione e di gestione dei processi, ecc.) che determina un “comando strisciante” sulla struttura della produzione decentrata.
Nel sistema produttivo post-tayloristico sparisce la ”continuità” fisica del ciclo di produzione e del sistema delle macchine; la struttura del comando non è più costituita, come nel sistema di macchinari precedente, da una struttura gerarchica riconosciuta e visibile ma è costituita da un insieme complesso di strumenti di regolamento, di forme autogestite e decentrate della struttura produttiva.
Il mercato del lavoro “centrale” nelle aree metropolitane non è più costituito dalla forza-lavoro emigrata e non scolarizzata che caratterizzava nel ciclo precedente l’operaio massa delle grandi concentrazioni produttive, ma dall’enorme massa del proletariato urbano scolarizzato (o comunque di formazione urbana) presente nella metropoli come residuo del rifiuto del lavoro astratto nella grande fabbrica tayloristica.
Nelle aree metropolitane, questa sezione del mercato del lavoro tende a configurarsi come figura centrale nella ridefinizione della composizione di classe: sia dal punto di vista capitalistico, dal momento che i suoi comportamenti sociali sono determinanti per la ricomposizione del ciclo produttivo tramite la riappropriazione delle nuove qualità cooperative e d’intelligenza tecnica in rapporto con le nuove funzioni “produttive” (mobilità, polivalenza, alternanza tra lavoro manuale e intellettuale, autoregolamentazione della giornata lavorativa); sia per la lotta di classe, dal momento che questo settore proletario ha diretto in questi ultimi anni i movimenti antagonisti alla riorganizzazione del sistema di produzione e di riproduzione sociale del capitale.
La forma urbana della metropoli post-taylorista presenta le seguenti caratteristiche generali: – riduzione dei processi migratori “ufficiali” dalla periferia verso il centro, e riutilizzo del mercato urbano “interno” alle aree metropolitane unito a fenomeni di immigrazione straniera “clandestina”. – blocco e riduzione della produzione nelle zone centrali delle regioni metropolitane e riutilizzo delle aree periferiche secondo i modelli di decentramento produttivo descritti più sopra; riutilizzo dei centri urbani preesistenti e del tessuto rurale; la metropolizzazione non consiste nella semplice riproduzione decentrata dei fattori territoriali inerenti al sistema della grande fabbrica (decentramento ma nel riutilizzo, sotto il comando della grande impresa, del tessuto produttivo diffuso con la conseguente riduzione della mobilità infraregionale verso il polo centrale metropolitano e l’aumento della mobilità all’interno di queste zone).
Il territorio della regione metropolitana diviene sempre più la sede nella quale “si occulta” la grande produzione, il luogo diffuso nel quale si organizza la giornata lavorativa sociale.
Cadono allora i rigidi criteri di “zoning” che erano rappresentativi della divisione funzionale e spaziale tra produzione e riproduzione, in un contesto nel quale cambiano i ruoli dei fattori di produzione nel processo di valorizzazione del capitale, aumenta la mobilità e la precarietà della forza lavoro ed interviene una più alta integrazione fra attività produttive e riproduttive.
Il territorio metropolitano diviene così un mezzo di produzione su scala sociale e s’identifica, nella sua complessità di funzione integrata, con la fabbrica post-tayloristica. S’accentuano i processi di terziarizzazione e d’espansione delle aree centrali metropolitane in rapporto con le funzioni centralizzate del comando, della gestione, dell’informazione, della circolazione.
La riorganizzazione su base “industriale” di queste funzioni segue i criteri della ristrutturazione della produzione (riduzione del lavoro contrattualizzato, espansione della mobilità e del lavoro precario, decentramento-diffusione dei cicli di produzione ecc.).
In questo progetto non ci sono frontiere rigide tra lavoro terziario e industriale: difatti la stessa figura di operaio sociale, anche se essa è articolata su diversi livelli di formazione tecnica, presenta un’alta mobilità fra operaio industriale e operaio terziario, fra lavoro manuale e lavoro intellettuale; spesso questa mobilità si realizza nella stessa persona attraverso il doppio lavoro.
In tal modo non si ha una determinazione rigida e ghettizzata del mercato del lavoro dell’area centrale a fronte di quello della periferia, ma – al contrario – una notevole permeabilità reciproca nel quadro di una figura sociale della forza lavoro tendenzialmente unificato.
Se il territorio metropolitano è l’elemento costitutivo della fabbrica post-tayloristica, ne deriva conseguentemente la modificazione del ruolo del governo del territorio, non più limitato alla gestione di qualche aspetto dei processi di riproduzione e degli effetti indotti sull’organizzazione territoriale delle scelte produttive bensì relazionato alla gestione delle condizioni generali di funzionamento della fabbrica diffusa, – tanto per quello che riguarda le condizioni sociali di utilizzo della forza lavoro (controllo della mobilità, formazione professionale, controllo e gestione del mercato del lavoro), quanto come intervento diretto e indiretto del governo del territorio (dalla regione e dal comune agli organismi intermedi e alla rete diffusa di organismi di pianificazione, decentramento e partecipazione) s’è sviluppata nelle aree metropolitane italiane in rapporto con la crisi del sistema di impresa e con la necessità di rendere profittevole una gestione sociale della forza lavoro.
A fronte di questi problemi, il governo locale tende sempre più a presentarsi come strumento di regolazione dei fattori territoriali inerenti alla gestione del mercato del lavoro e come strumento di mediazione politica e sociale dinnanzi alle scelte produttive e riproduttive del capitale, modificando radicalmente il ruolo “separato” ed esterno che esso aveva nel precedente modello di accumulazione, e ciò vale sia a fronte della dinamica dei rapporti di offerta e domanda di forza lavoro, sia a fronte del governo dell’economia.
GRANDE FABBRICA E OPERAIO SOCIALE: LA COOPERAZIONE SOVVERSIVA
Di Collettivi Politici Operai (Milano)
1. CONTRATTI 1979: SVOLTA CAPITALISTICA E RIVOLTA DELL’OPERAIO SOCIALE
Questa campagna contrattuale segna il primo momento della rivolta dell’operaio sociale all’interno della grande fabbrica. Si afferma questo non perché si ritengano i contratti momenti decisivi della lotta di classe operaia ma perché spesso essi rivelano elementi emblematici di questa lotta e della fase attraversata.
In particolare:
a) dal punto di vista del capitale.
Il 1978 rappresenta il momento di una fondamentale inversione di tendenza, concepita come passaggio politico.
Le condizioni sono poste sia sul livello della ristrutturazione (genericamente: avvio della campagna di ristrutturazione sui settori portanti ed adeguatamente alla nuova divisione internazionale del lavoro – energia, automazione, decentramento come schema multinazionale della ristrutturazione e della nuova gerarchia, specificamente:
riorganizzazione del tessuto produttivo italiano secondo quelle grandi linee e fissazione, nelle grandi fabbriche, di elementi di ristrutturazione adeguati – il centro energetico, la struttura multinazionale della dequalificazione attraverso robotizzazione;
la struttura combinata dell’informazione e del decentramento produttivo, l’attacco alla fabbrica assistita e la ripresa dell’iniziativa di pianificazione generale);
sia sul livello politico (consolidamento della nuova struttura amministrativa, completamente subordinata alla regola della produttività; adeguamento e garanzia del livello di produttività alla regola delle multinazionali, fatta valere dallo SME;
rafforzamento della struttura corporativa della contrattazione, sia sul livello della grande e media industria, sia sul livello della gestione della spesa pubblica).
Come vedremo, i contratti debbono significare, per i padroni, un primo risalto istituzionale di questo nuovo livello di equilibrio del profitto;
b) dal punto di vista operaio.
Anche in questa prospettiva i contratti del ’78–79 rappresentano un decisivo passaggio.
Si chiede agli operai di sanzionare b1 la loro divisione nella fabbrica, b2 la divisione di gran parte di loro, che pure hanno gli stessi interessi degli operai nella società (lavoro nero, part-time, lavoro diffuso, ecc.), dall’operaio sociale.
Ma la situazione delle grandi fabbriche è già divenuta tale da rendere questo passaggio estremamente difficile.
Nelle grandi fabbriche è infatti cresciuta in questi anni la coscienza dell’unità dell’interesse operaio.
Il tentativo contrattuale non si incontra dunque con la mistificazione egemone bensì si scontra con la nuova coscienza operaia, rappresentata dal sempre più diffuso rifiuto del lavoro, dalla sempre più potente rinuncia alla delega, dal sempre più forte impulso all’aumento dei valori del lavoro necessario (e comunque dal rifiuto del loro abbassamento).
Si scontra anche con la consapevolezza che nella figura dell’operaio socialmente mobile si riuniscono oggi tutte le pretese sacrosante all’autovalorizzazione operaia.
Da questo punto di vista non si tratta dunque di vincere o perdere sui contratti (anche se su singoli punti di questo si tratta): si tratta piuttosto di distruggere la figura contrattuale come tale.
2. LE FASI DELLA LOTTA DELL’OPERAIO SOCIALE CONTRO E NELLA FABBRICA
Questa fase contrattuale è preceduta da tre grandi fasi di lotta. La prima è quella della primavera del ’77.
L’espulsione di Lama dall’Università di Roma è un fatto operaio.
Con l’espulsione di Lama l’unità dei primi frammenti dell’operaio diffuso sul territorio si mostrava per la prima volta come unità politica ed espansiva.
Unità politica che doveva sviluppare gli interessi di classe e di lotta contro lo sfruttamento, ricomponendo intensivamente la nuova composizione della classe operaia.
Unità espansiva che doveva percorrere la via dall’esterno sull’interno della fabbrica.
I disoccupati organizzati che chiedevano e ottenevano lavoro in fabbrica, studenti e operai neri che circondavano la fabbrica, operai dal 1° al 3° livello che scoprivano che la fabbrica non era un privilegio professionale ma essa stessa un ghetto di emarginazione: questi sono stati i portatori della prima grande ondata di ricomposizione sociale della classe.
Espellere Lama dall’Università del lavoro nero fu per gli operai rientrare nella fabbrica con l’interezza dell’interesse proletario nella coscienza. La seconda fase di lotta è estensiva.
S’è sviluppata fra il 1977 e il 1978 con grande forza.
È la fase della lotta contro il lavoro nero, la territorializzazione dell’insubordinazione dell’operaio sociale. Azione di denuncia ed azione di contropotere si sono mescolate con grande forza in questo periodo. Ma soprattutto si è svolta qui un’azione formidabile di ricongiungimento delle avanguardie.
Lo sviluppo territoriale della lotta ha inoltre offerto il terreno proprio ed insostituibile della ricomposizione dell’operaio sociale.
La terza fase della lotta è quella che mostra il primo processo di accerchiamento della grande fabbrica da parte delle avanguardie dell’operaio sociale.
Che questo avvenga, come a Milano, con l’assemblarsi delle avanguardie territoriali del lavoro nero davanti alle porte dell’Alfa, insieme contro padrone e sindacato corporativo: o che avvenga, come alla Rivalta, nella fabbrica-città piemontese, attraverso l’azione del nuovo operaio di 2–3° livello, dell’operaio sociale di fabbrica, unico vero portatore dell’interesse generale del proletariato, – poco cambia.
L’accerchiamento è l’ultima indicazione di un processo che comincia a diventare reale dentro la grande fabbrica capitalistica; è il fuori che diventa l’elemento fondamentale della lotta contro la grande fabbrica del capitale.
La fase contrattuale che si apre, ma soprattutto le lotte che le avanguardie vanno a costruire in questo periodo, rappresentano una quarta fase se considerate rispetto al passato: in realtà, rispetto al presente ed al futuro, si tratta di una prima grande scadenza che porta tutto il proletariato sociale, interno ed esterno alla fabbrica, contro il disegno della ristrutturazione multinazionale e contro il progetto di nuova divisione internazionale del lavoro.
3. COOPERAZIONE SOCIALE SOVVERSIVA CONTRO CORPORATIVISMO SINDACALE
L’obiettivo strategico delle avanguardie comuniste è la ricomposizione della forza operaia al livello dell’attuale cooperazione produttiva, è il rovesciamento sovversivo delle condizioni di sfruttamento oggi imposte dal capitale e dal suo piano.
Quali sono queste condizioni? Sono quelle di uno sfruttamento sociale che va a rimpinguare, gratis, le casse dei padroni dell’industria, sono quelle di un’accumulazione sociale che si sviluppa sui tempi della produttività aziendale ed è da questa comandata.
Allo Stato l’accumulazione, alla società operaia lo sfruttamento, al capitale il comando.
Come si vede mai come oggi la contraddizione fra forze produttive sociali e rapporti di produzione capitalistici è diventata profonda ed antagonistica. Il padrone ruba il lavoro fatto in tutta la società, ruba la produttività (potenziale ed attuale: scuola e scienza) che si sviluppa nella società, impone costi generali per il suo proprio sviluppo (ed è rubare di nuovo per la terza volta).
Non contento di aver determinato questa scissione, fra fabbrica e società, oggi il padrone – anche in Italia come già altrove – tenta di importare nella fabbrica e di scaricare sulle grandi masse del lavoro subordinato di fabbrica lo stesso modello di sfruttamento sociale della forza lavoro (mobilità altissima, dentro e dentro/fuori la fabbrica).
La funzione delle istituzioni statali, ed in particolare dall’istituzione sindacale, non è più – in questa situazione – quella mercantile classica della vendita della forza lavoro, ma quella corporativa – di stampo autoritario e francamente fascista – dell’organizzazione del lavoro per l’accumulazione capitalista. Per questa accumulazione e non per altre.
La funzione della divisione dell’associazione cooperativa di tutto il lavoro produttivo è quindi organicamente assunta dalla corporazione sindacale.
L’interesse generale del sindacato è la divisione della classe operaia, secondo le regole della professionalità: vale a dire secondo la regola della rappresentanza per gli interessi direttamente collegati al comando sulla cooperazione sociale. Di contro l’allargamento della cooperazione sociale produttiva presenta grandi possibilità di lotta comunista.
È obiettivo primario e fondamentale dei comunisti quello di opporre l’organizzazione sociale della cooperazione produttiva, quale più alta forza produttiva, al corporativismo sindacale e al socialismo di Stato.
Non di alleanze, parlano dunque i lavoratori, ma della possibilità di mostrare – contro gli attuali rapporti di produzione – come la cooperazione sociale del lavoro permetta di procedere verso alte realizzazioni del programma comunista: l’abolizione del lavoro salariato, l’organizzazione sociale progressiva dell’abolizione del lavoro.
Nella nuova forma della cooperazione sociale il lavoro assume una ricca complessità – insieme forza intellettuale e scientifica, capacità di organizzazione e di produzione materiale, larga compenetrazione sociale di funzioni -, che si tratta di organizzare subito in forma sovversiva, nella rottura di ogni connessione produttiva di sfruttamento che il capitale scarica contro la classe operaia.
Nella fabbrica sociale, così come nella grande fabbrica, il contenuto comunista della cooperazione sociale lavorativa deve subito mostrarsi nelle forme più alte ed aggressive: contro l’organizzazione produttiva, contro gli agenti sindacali della divisione di classe, contro l’organizzazione capitalistica del comando.
La positività di contenuti della lotta comunista va sempre ritenuta al centro di ogni iniziativa, sia nella forma che negli obiettivi della lotta. Il punto centrale sul quale insistere è la nuova forma della cooperazione sociale: la lotta deve mostrarlo in tutta la sua potenza.
4. IL NUOVO MODELLO DI SFRUTTAMENTO NELLE PIATTAFORME CONTRATTUALI
Le piattaforme contrattuali presentate dal sindacato per la tornata ’78–79 sono pienamente coerenti con la linea EUR.
Questa linea è quella dell’assorbimento corporativo del sindacato nello sviluppo capitalistico a questo livello.
Due sono fondamentalmente gli obiettivi contrattuali del padrone di fabbrica, uniti ad un obiettivo politico.
Il primo obiettivo contrattuale è quello di garantire la professionalità. Che cosa significa professionalità in questo contesto?
Significa divisione della classe, significa assorbimento di uno stato operaio sul livello del comando produttivo, in una situazione di produzione ristrutturata che vede da un lato l’oggettività della divisione entrata e consolidata nella fabbrica (linee robotizzate ed in generale strumenti del comando automatico), dall’altro la divisione estendersi dal comando di fabbrica, attraverso la professionalità, alla grande massa del lavoro in fabbrica, fuori della fabbrica, sul terreno metropolitano e multinazionale, – l’intera pianificazione capitalistica del mercato del lavoro funziona per la determinazione del comando secondo lo schema della divisione professionale.
Riparametrazione e blocco del salario (come base per superminimi e pratiche padronali del salario: secondo la linea Eur il salario è una variabile indipendente del comando capitalistico) funzionano in questo senso.
Il secondo obiettivo contrattuale del padrone è quello della mobilità più superata.
Sotto il IV livello c’è forza lavoro sociale.
Questo riconoscimento va utilizzato.
La cooperazione sociale allargata va organizzata come mobilità, dal comando, per il comando.
Mobilità aziendale, infraziendale, settoriale, infrasettoriale, regionale, metropolitana, nazionale, multinazionale: non di un esercito di riserva (che deve comunque pagare) ma di un esercito mobile, adatto per i suoi blitz ha bisogno oggi il capitale.
A fianco della forza lavoro professionalizzata e corporativizzata (assunta perciò nella gerarchia immediata del comando produttivo) il capitale vuole una grande massa, un’enorme massa di forza-lavoro mobile, disponibile, comandabile.
Mobilità contrattuale come possibilità di mobilitazione continua per la guerra del profitto.
Questa mobilitazione è insieme spaziale e temporale. Il padrone ed il suo Stato e i suoi sindacati prevedono una organizzazione mobile lungo tutta la giornata lavorativa e sull’intera dimensione spaziale dell’accumulazione.
Lavoro straordinario accanto a lavoro decentrato, terzo turno accanto a lavoro nero.
Il soggetto proletario nuovo deve essere organizzato nell’esclusivo comando di capitale.
La tensione del rifiuto del lavoro e dell’autovalorizzazione proletaria deve essere controllata, sussunta, raccolta nel comando. Questi sono i termini del contratto: una nuova organizzazione della forza lavoro (del mercato del lavoro) dentro la nuova divisione internazionale del lavoro, per l’esaltazione della mobilità spaziale e temporale della forza-lavoro, sotto il comando degli strati professionalizzati e corporativizzati secondo linee oggettive di ristrutturazione tecnologica.
A questi due obiettivi contrattuali se ne aggiunge uno, fondamentale, politico: questi contratti debbono affermare istituzionalmente il “patto sociale”, l’accordo di piano e politico su tutte le dimensioni della produzione e della riproduzione sociali.
Contratti e piano Pandolfi, contratti e piano triennale, contratti e ristrutturazione dell’amministrazione, contratti e definitivo riconoscimento delle funzioni istituzionali del sindacato corporativo e professionale, sono la stessa cosa.
Il sindacato ha accettato.
5. LA FUNZIONE DEI CONTRATTI PER LA RIORGANIZZAZIONE AUTORITARIA DELLO STATO
Il nesso coerente che stringe il contratto con la proposta di riorganizzazione amministrativa dello Stato mostra ancora una volta quale sia il terreno sul quale i padroni portano oggi il problema della produttività: il terreno dell’accumulazione sociale; il terreno politico, il terreno del comando.
L’intera società deve essere organizzata secondo modelli di comando di fabbrica: che vuol dire, da un lato la grande massa degli esecutori sfruttati – ma nello stesso tempo unici produttori sociali – dall’altro le organizzazioni corporate della raccolta delle informazioni e della trasmissione del comando, assieme ai corpi speciali di repressione e di rappresentanza.
Il problema dei padroni è quello di rendere omogeneo il regime di fabbrica e quello dell’organizzazione sociale e questi contratti 1979 sono uno dei momenti sui quali si punta per costituire questa omogeneità.
Non è questo il luogo per approfondire questa tematica: val solo la pena di sottolineare due conseguenze che l’organizzazione operaia sa trarre, e cioè:
a) il fatto che sempre di più l’operaio massificato dell’industria si trova a lato come alleato organico non solo il lavoratore sociale diffuso ma anche tutta la massa degli operai dei servizi, della riproduzione, ecc.;
b) il fatto che sempre di più il terreno di ricomposizione del lavoro operaio in generale è quello sociale, è quello territoriale, dove la somma degli strati di classe compie un salto qualitativo verso un’unità politica estremamente alta e forte.
6. STRUMENTI DI ORGANIZZAZIONE PER IL CONTROPOTERE
La cosiddetta “opposizione operaia” non ha capito un cazzo di tutto questo. In realtà si attribuisce il nome di opposizione operaia ma è semplicemente “opposizione sindacale”.
Essa s’è sempre mossa sulla semplice estremizzazione delle rivendicazioni: per creare appunto una sinistra dove c’è una destra, una linea Eur 2 davanti ad una linea Eur 1.
L’opposizione sindacale è un fatto burocratico, del tutto interno alla dialettica che normalmente fa vivere l’istituzione.
Ma se un tempo, quando la capacità capitalistica di controllo non s’era mobilitata al punto in cui lo è oggi, l’estremismo rivendicazionista poteva avere ancora un senso di rottura, oggi non è più il caso.
L’irrigidimento della struttura centrale del potere non lascia alcuno spazio alle alternative istituzionali: comunque l’alternativa istituzionale non corrisponde in alcun senso alla spinta ricompositiva di classe, alle urgenze dell’operaio sociale.
Quando è onesta e conseguente l’opposizione sindacale rinvia all’opposizione parlamentare: dieci anni per crearla, – se va bene.
Così come è stata ruffiana l’organizzazione attuale del controllo (ideologizzazione, feticismo dei delegati) nella fabbrica, così la sinistra sindacale,
L’opposizione sindacale è ora complice di un ulteriore passaggio truffaldino nell’organizzazione del consenso; prova a spingere gli operai dal livello della lotta di fabbrica, dalla difesa degli interessi immediati e veri, dal tentativo di ricomposizione con la forza sociale del lavoro produttivo, a nuove esperienze di mediazione parlamentare, di delega, di soluzione democraticistica dei loro conflitti.
Il gran rumore che è stato fatto attorno alle ultime elezioni dei consigli è caratteristico: riabituare i quadri dell’avanguardia di fabbrica, del potere operaio, a votare, per buttarli nelle braccia di Pannella e Boato. È un disegno lurido, – degno di Scalfari e Craxi.
Basta con questa sporcizia, basta con queste truffe da quattro soldi! La vera opposizione operaia è quella autonoma, fondata sull’opposizione ad ogni genere di delega – tanto più se è quella parlamentare per individui e politicanti della “nuova sinistra”.
Occorre puntare l’inchiesta, l’agitazione, l’iniziativa militante contro ogni tentativo di riorganizzazione operaia posto in termini di contropiattaforma.
L’unico nostro problema è creare contropotere, è esprimere bisogni e lotte operaie, riarticolarle sull’intera base del lavoro produttivo, organizzare momenti unitari (attorno alla fabbrica così come sul territorio) di espressione ricomposta dell’operaio sociale.
I comitati di reparto nella fabbrica e i collettivi territoriali possono e debbono marciare assieme sul terreno di un’alternativa diffusa e continua, nello spazio e nel tempo, di contropotere.
Molti punti di rottura vanno creati, costruiti, sviluppati, nella prospettiva della loro unificazione strategica.
Ma questa unificazione non può essere una contropiattaforma, 38 ore piuttosto di 40!
È ridicolo!
Questa unificazione è il programma strategico dello sviluppo della lotta rivoluzionaria in Italia.
7. PROGRAMMA DI LOTTA NELLA FABBRICA E NELLA SOCIETÀ
Possiamo cominciare a riassumere il programma di lotta nella fabbrica come indicazione di lotta nel medio periodo.
Si tratta di lavorare a fondo per la ricomposizione della forza dell’operaio sociale, per la definizione del suo progetto politico generale.
È necessario quindi:
A) da un punto di vista polemico, di lotta e di demistificazione, battere tutte le posizioni che, come l’opposizione sindacale, tentano di tirare la lotta dentro piattaforme o contropiattaforme, oppure, come è avvenuto in certi settori della lotta autonoma (ospedalieri), tentano di recintare interessi settoriali senza la capacità di trasformarli in leve per la lotta generale.
B) da un punto di vista positivo, di lotta e di proposta, è necessario puntare a momenti di ricomposizione organizzativa dell’operaio sociale. Prima di tutto in fabbrica.
Qui gli obiettivi abbondano, ma vanno sempre considerati in termini di forza: obiettivi contro la gerarchia, obiettivi materiali impiantati sulla immediatezza dei bisogni operai; termini di forza che vanno riportati sempre alla continuità del progetto organizzativo e di potere.
In proposito va fortemente sottolineata la necessità di riconquistare spazi politici di dibattito, autonomi, e la necessità di coordinare le azioni di reparto in forma pubblica e sempre più generale.
Obiettivi e spazi costituiscono la sintesi del contropotere in fabbrica, inteso oggi insieme a contrastare il definitivo stabilizzarsi di contratto sindacale e ristrutturazione padronale, e a mettere in movimento strutture organizzative, adeguate, continue, radicate.
Ma l’iniziativa non può essere chiusa nella fabbrica.
È la stessa lotta di fabbrica che porta verso la lotta esterna.
Il terreno dell’unità operaia deve stendersi dentro e fuori la fabbrica.
Il problema dell’occupazione (non della disoccupazione quanto del lavoro produttivo sociale, non garantito, ecc.), il problema dei prezzi, sia delle merci che dei servizi, e quindi le politiche restrittive della spesa pubblica, – tutti questi obiettivi visti in termini di destrutturazione ed appropriazione debbono costituire il tramite del passaggio dalla fabbrica al territorio, e viceversa.
Mai come oggi il progetto capitalistico di dominio sul lavoro produttivo sociale s’è presentato con tanta coerenza: la divisione attorno al III livello in fabbrica è corrispettivo della mobilità selvaggia e non garantita della forza lavoro nel territorio, lo svuotamento del salario è corrispettivo della politica di restringimento o di strozzamento della spesa pubblica, l’inflazione è il corrispettivo dell’emarginazione politica di larghi strati proletari.
Il tutto è attraversato dalla struttura istituzionale che vede all’opera Stato, padroni e sindacati in maniera del tutto coerente.
Struttura definitiva ed irreversibile, elemento proprio della forma dello Stato.
Rompere tutto questo attraverso l’unità del fronte ricomposto di classe è il nostro scopo. Uno scopo strategico, – fondare l’unità comunista di tutto il lavoro salariato, di tutto il lavoro produttivo sociale per permettere la liberazione ed una riorganizzazione sociale adeguata alla forza produttiva del lavoro associato; uno scopo strategico che oggi si tratta di provare con grande intensità sullo snodo tattico che i contratti e il consolidamento della nuova forma Stato producono.
Attorno a questo passaggio misuriamo la possibilità di tenere aperta la via rivoluzionaria in Italia.
8. DIMENSIONE INTERNAZIONALE DELLA LOTTA IN CORSO: CONTRO LO SME
Lo scontro che ci proponiamo è uno scontro di potere.
La strategia della ristrutturazione italiana è guidata dalle multinazionali ed ha la sua prima e fondamentale collocazione operativa nel quadro dello SME. SME significa livelli di produttività legati alle dimensioni dello sfruttamento in Europa, significa quantità di ristrutturazione produttiva e di reazione politica commisurati al grado di dominio del più retrivo capitale internazionale (quello franco-tedesco).
SME significa comando diretto, amministrativo, del grande capitale mondiale su tutte le dimensioni del rapporto di classe.
Attaccare sui contratti (che evidentemente costituiscono un semplice innesco) ed in generale difendere e promuovere i livelli di autovalorizzazione del proletariato italiano significa rompere con lo SME. Significa rompere con l’Europa dei padroni.
Noi siamo comunisti, quindi internazionalisti per principio, siamo anche europeisti nella misura nella quale come operai ci riconosciamo fratelli di tutti i lavoratori bianchi e neri dell’Europa: ma l’Europa dei padroni è la più schifosa realtà che il capitale abbia prodotto.
Solo il PCI e Pannella potevano accettarla.
In un’epoca in cui il mondo sta cambiando, in cui l’eroica lotta dei popoli sfruttati ha distrutto Yalta e l’assetto da questa data al mondo, in quest’epoca noi rifiutiamo il ricatto del padrone europeo.
Rompere sui contratti, mantenere il livello di autovalorizzazione del proletariato italiano, distruggere l’illusione di un nuovo livello di equilibrio riformistico e livello europeo, è rompere con lo SME.
È assumere, dentro la fase dei contratti – in prima linea – una nuova linea internazionalistica ed un nuovo progetto rivoluzionario di potere.
Il contrattualismo non è finito solo nelle fabbriche.
È finito in ogni aspetto della vita operaia.
Organizzazione, contropotere, comunismo sono le nostre parole d’ordine e la nostra tenera speranza.