Da ”L’erba voglio” n.27 ‑settembre/ottobre 1976
di Gianfranco Manfredi
A Parco Lambro mi sono smontato la testa. Come tanti. Ripetere questo smontaggio per iscritto non é facile, anche perché ho ancora tutti i pezzi in giro. D’altra parte pare indispensabile di fronte a un fatto su cui molti hanno tratto “conclusioni” e pochi “aperture”. E provenendo ogni “apertura” da uno smantellamento comincio col dire cosa ho personalmente smantellato grazie al Lambro.
I MITI
a) Proletariato giovanile
Se c’è una cosa certa dopo il Lambro, é che questo termine non ha senso. Attenzione: non che non abbia senso di per sé, non ha senso rispetto ai contenuti e alle prospettive che vi si supponevano inclusi. Ora: persino i radicali si accorgono dell’inconsistenza del termine (cfr. Prova radicale n. 2), però nel contesto dello stesso articolo propongono come concetto sostitutivo quello di “incazzati di tutti i tipi, di tutte le situazioni, di tutte le classi”. Il che vuol dire sostituire a un concetto impreciso, un altro anche più generico: “gli incazzati”. Incazzati di ruolo, si suppone. Forse quelli che la mattina si svegliano male, o quelli che quando gli accarezzi una spalla da dietro estraggono la Colt, si voltano e ti riducono un colabrodo (tipo Tex). Sempre i radicali, più avanti, in un altro articolo, provano a definire meglio questi “incazzati”: omosessuali, femministe e “proletari a caccia di polli”. Rieccoci da capo: riecco “il proletariato giovanile”. Allora? No. Se dobbiamo smontare un concetto, smontiamolo seriamente.
Anzitutto: come mai un concetto funzionale che all’inizio voleva solo dare un vago quadro sociologico (grosso modo: “i figli degli operai” o “i giovani operai senza lavoro o a lavoro precario”) é diventato nell’uso della sinistra “rivoluzionaria” (soprattutto di Lotta Continua e dell’Autonomia Operaia) un punto di riferimento politico, una indicazione di sviluppo e di prospettiva?.
Da quando la “sinistra di classe” ha scelto come nodo della sua pratica (non diciamo strategia) la realtà sociologica del “proletariato giovanile”, ecco che il termine ha acquistato valore d’indicazione di “classe” e le sue azioni coincidenza con la “lotta di classe”. Sono ormai ben più di dieci anni che sono/siamo tutti lì a cercare “la nuova classe operaia” o meglio “il nuovo soggetto storico” che la rappresenti. Ecco allora che rispetto alle varie fasi dello sviluppo della classe, una sua frazione di volta in volta é elevata a “rappresentante generale”: ieri l’operaio-massa, poi i giovani operai, infine il proletariato giovanile, strato sociale diffuso, vivo nel quartiere, spugna delle contraddizioni e di “comportamenti” anti-istituzionali. Dunque: primo gradino è l’individuazione di uno strato interno alla classe che in una fase la rappresenti o perlomeno ne rappresenti “i contenuti più avanzati”. Secondo gradino é, con la concentrazione della pratica politica e degli sforzi organizzativi sullo strato più avanzato, la definizione della classe attraverso la sua rappresentanza avanzata. Di qui all’identificazione, dello strato con la classe, il passo é breve, anzi spesso é spinto anche più in là fino all’identificazione dell’avanguardia-che-rappresenta-lo-strato-che-rappresenta-la-classe, con la classe stessa: cioè “il nucleo proletario armato” alla fine é “gli operai”.
Ma c’é di più: al termine settoriale così “isolato” si attribuiscono i valori che sono propri della classe nel suo insieme e cioè: di avere un’omogeneità interna che può esprimere un’omogeneità di comportamenti quindi una direzione unitaria e perlomeno nazionale, una rappresentanza organizzata. Bene o male, anche in Re Nudo, anche nell’ideologia del grande raduno annuale del proletariato giovanile, c’era e c’è dietro questo schema logico o meglio ideologico. C’é bisogno di questo schema sennò entrerebbe in crisi “la politica” e “l’organizzazione”: se “la gente” non é riferita alla “classe” va a farsi benedire qualsiasi discorso organizzativo perchè la “classe” si organizza (esprime o subisce organizzazione), ma “la gente” non é detto.
Ecco allora che tutti i comportamenti devono essere riferiti alla classe. Ci casca anche il Mario Mieli che (sempre su Prova Radicale) scrive: “forse il proletariato, la classe rivoluzionaria sono le donne e gli omosessuali; in Italia almeno non vedo altro, non credo che i maschi siano rivoluzionari, e sento contraria alla mia libertà qualsiasi azione compiuta dai maschi, anche se mi rendo conto che come appartenente al sesso maschile posso ancora essere molto controrivoluzionario nei confronti delle donne”.
Qui appare chiara anche la “gerarchia degli strati rivoluzionari” che é implicita dentro ogni ricerca del “nuovo Soggetto”: il Più Oppresso di Tutti, il Cristincroce di turno. Secondo questa logica il nuovo Soggetto sarebbe probabilmente una vecchia ex-operaia negra schizofrenica e omosessuale. Nel riferire alla classe tutti i comportamenti anti-istituzionali anche Re Nudo non é stato da meno, a partire dalla stessa impostazione del giornale (e so quel che dico avendovi non poco contribuito). Un’espressione sintetica abbastanza chiara é stata quella usata da Romano Madera in un noto articolo: “la classe sfuma se non fuma”. Con questo egli probabilmente intendeva dire, nel contesto dell’articolo, che era necessario proprio che la classe “sfumasse”, ma la frase dice invece l’opposto e cioé che “fumare” é attività che contribuisce a rinsaldare la classe come unità rivoluzionaria. E dato che per Madera “fumare” é soprattutto “capire” e “ragionare”, si potrebbe dire anche che l’attività razionale (anche se intesa come sana pratica corporea) é alla fine il Soggetto rivoluzionario. Il che ha anche una sua parte di verità (assai parziale) purché non sia nuovamente riferito alla fantomatica “classe” che alla fine coinciderebbe (operazione non nuova) con lo “Spirito Assoluto” (o anche “la Materia che pensa Se Stessa”).
Di qui anche non poche frustrazioni per chi si recasse a un festival pop per vedere dietro il proletariato giovanile lo Spirito del Mondo, anche perché sono secoli che lo Spirito del Mondo non si concentra più in un punto solo. (Eppure un noto idiota se ne uscì dopo il festival con questo commento: “La gente sentiva l’assenza di una Weltanschauung”, al che un “proletario giovanile” ha aggiunto: “Sì é vero, anche Alan Stivell e gli Steeleye Span li avevano promessi e invece non c’erano”). Proviamo invece, nella storia di questi dieci anni di ricerca del nuovo Soggetto, a individuare un cammino opposto, inverso: non quello dell’aggregazione rivoluzionaria della classe attorno al suo strato più avanzato e alla sua (sempre attesa) rappresentanza, ma quello della disgregazione (dello sfumare) della classe attraverso suoi strati marginali al di là di ogni rappresentanza. Proviamo insomma a rileggere una storia diversa della classe e delle sue figure: l’operaio-massa non é, in questo quadro, il soggetto che sostituendosi all’operaio professionale e alle aristocrazie operaie muta il segno riformista in rivoluzionario e dà alla classe una “nuova unità”. L’omogeneità del lavoro, la ripetitività, le grandi aggregazioni d’uomini, la fine della “qualità”, sono sì caratteristiche d’una nuova figura operaia, ma di una figura operaia ormai assimilata totalmente al ciclo. Il “rifiuto del lavoro” non sta dentro queste caratteristiche ma “oltre”: é appunto “la posizione del Soggetto”. Da questo punto in poi il cammino del Soggetto non é affatto nella direzione di una più marcata aderenza al ciclo, di una sua internità che dovrebbe alla fine riassumerlo (rovesciato) in sé, ma é invece nella sua progressiva esternità al ciclo, oltre il lavoro, oltre la produzione, oltre la merce. Appunto verso il Soggetto. Ecco allora la banalità, tanto banale quanto vera: e se il Soggetto fosse proprio il soggetto, il sé, la persona?
La classe in quanto tale, l’omogeneità-lavoro uguale, non cerca una nuova rappresentanza, né la produce: la sua rappresentanza istituzionale, unitaria e nazionale, espressa dal suo essere classe, é il Partito Operaio che diventa Stato Operaio. Qui, in Italia, il PCI. La classe che si nega in quanto classe é Soggetto, l’operaio che si nega come operaio é persona. Ecco allora perché il “Proletariato Giovanile”. E’ nell’ultimo gradino della sua marginalizzazione rispetto alla macchina che l’operaio trova la sua figura lacerata tra la classe e la persona. Il termine “proletariato giovanile” esprime questa ambivalenza di direzioni, questa ambiguità: da una parte un termine (“proletariato”) che rimanda alla collocazione nel ciclo, dall’altra un termine (“giovanile”) che rimanda alla realtà del corpo.
Il superamento dell’ambiguità è un problema più ampio di quello dell’abolizione del termine che nella sua imprecisione é in realtà quanto di più preciso ci sia. Il superamento dell’ambiguità può avvenire in opposte direzioni: l’assorbimento del secondo termine nei primo (del corpo nel ciclo: tentativo estremamente trasparente per esempio attraverso la cosidetta “pomografia” cioé sessualità-lavoro, ripetitività-efficienza-produttività-scomposizione dell’atto sessuale), o l’assorbimento del primo nel secondo che é poi il problema stesso della rivoluzione: la negazione della classe, della società delle classi (capovolgimento del valore in uso, emergenza del soggetto di contro all’oggetto, della diversità-individualità concreta rispetto all’omogeneità-universalità astratta).
Ma dentro questa seconda prospettiva il problema è la ricerca, l’allargamento dell’area della coscienza, la comunicazione (per usare un termine vecchio, la cultura), non é l’organizzazione, l’allargamento dell’area dell’autonomia organizzata, la istituzionalità specularmente opposta quanto uguale (cioé la politica). Il che non vuoi dire negare la dialettica tra i due estremi della questione, ma vuol dire riconoscere che si tratta d’una dialettica delle opposizioni, d’una dialettica scontro, e non può trattarsi d’una dialettica della ricomposizione, dell’unità degli opposti. Questa seconda dialettica é proprio quella della perpetuazione (con il sogno/delirio dell’organizzazione) delle ambiguità non solo terminologiche.
b) Felicità
Altra questione rimbalzata da Parco Lambro: il vero obiettivo sarebbe la felicità, il problema giovanile starebbe tutto qui: Felicità. La suddetta felicità sarebbe poi divisa in due rami: a) occupazione; b) stare bene insieme (“creatività”). In termini antichi: panem et circenses. E’ uno dei casi non rari in cui la sinistra é destra: tra “panem et circenses” e “ora et labora” c’é solo una piccola differenza di ottica. Tant’é vero che Comunione e Liberazione ha avuto parole di grande comprensione per l’esigenza di “felicità” che emergeva (“certo in forme paradossali”) da Parco Lambro. E Comunione e Liberazione (C.L.) é l’immagine specularmente opposta di Lotta Continua (L.C.).
Questa della Felicità é la colomba o la cornacchia estratta dal cappello a cilindro di chi pensa si debba continuare sulla strada dell’ambiguità, l’unica strada che conservi qualche aiuola di parcheggio alle “organizzazioni rivoluzionarie”. La Felicità infatti, nonostante per origine sia un termine proprio del “personale” é qui assimilata al “politico” e diventa quindi felicità ideologica che si esprime in riti collettivi (felicità per il governo delle sinistre, girotondi nudi, “potere a chi lavora” gridato tutti assieme per non far piovere, grandi raduni allietati da tarantelle e chiavi inglesi nascoste sotto le camicie nel caso che qualche sconsiderato non fosse felice e si bucasse). Questa Felicità, che è anche divertente per chi vi partecipa, é l’ultima mascherata della religione: é infatti più vicina al corpo che non la politica, proprio perché vuol essere la mediazione tra il corpo e la politica, la custode dell’ambiguità. Con l’inevitabilità dell’evasione dal personale. Se infatti si rimanesse nell’ambito della persona, la felicità non potrebbe mai essere un obiettivo, dato che non si tratta d’altro che d’uno stato particolare e temporaneo che esiste solo in quanto ne esistono degli altri che hanno lo stesso identico valore euristico, ivi compreso il dolore. Sul piano generale invece, la felicità richiede una sua definizione: non é più una condizione emotiva, é il rivestimento di un contenuto preciso di cui tracciare i confini. E i confini li traccia l’organizzazione: è l’organizzazione (previa assemblea) che decide se é giusto essere felici spiando una donna che piscia (no, non é giusto, non é femminista, non si deve fare), se é giusto essere felici battendo le mani all together (sì, è giusto perché così “si partecipa”).
Si tracciano le condizioni della felicità, il si può fare e il non si può fare. Ma il problema che si dovrebbe porre é: “perché sono felice a fare questo o quest’altro”, il che significa: “sentirsi”, dove le considerazioni oggettive avvengono dentro un piano di conoscenza-ricerca dei limiti e delle possibilità d’espansione del personale. Porre invece, al contrario, la felicità come obiettivo e “soluzione” del personale (invece che come oggetto d’indagine) porta all’individuazione delle “condizioni medie possibili e augurabili di felicità ora e in questo luogo” stante che la felicità é un dovere perché sei lì per quello: ecco che allora la “felicità collettiva” si manifesta come assoluta impotenza personale e totale paranoia quando si è fuori dal rito collettivo. Il rito collettivo con il suo universo chiuso di regole, valide per chi vi partecipa, é la Felicità: é il reciproco riconoscersi come identici, uguali agli altri. La diversità-individualità, la non partecipazione o il non gradimento del rito collettivo, diventa così tout court emarginazione, solitudine, impotenza.
“Nessuna salvezza fuori della Chiesa”. Invece d’essere la “soluzione” all’emarginazione, la Felicità come obiettivo generale, “politico”, la rafforza e la ricrea.
I RITI
I riti, manco a dirlo, sono riti di merce. E lo dico senza scandalizzarmi. Chi si scandalizza di solito é proprio chi prepara il rito perché la merce vi sia presente, ma sfuggente, vi sia esorcizzata.
Ma per chi ha presente che la merce esiste, non è la merce a costituire fonte d’irritazione, é casomai il rito che vorrebbe all’apparenza cancellarla mentre la consacra. La merce del caso non é infatti il pacchetto di Muratti o la presenza del divo x, o il mero “prezzo” del panino. La merce é il “rapporto di merce”: é merce-ideologia (la politica), é merce-cultura (la musica), é merce-soggetto (il palco). Vediamola attraverso alcuni suoi momenti simbolici al Lambro.
a) la merce-politica anzitutto: si presenta all’ingresso del prato come striscione-stand, libri riviste panini, tutti rigorosamente di sinistra e “rossi” ma perlopiù divisi per gruppo. Fenomenicamente uniti nell’immagine: uno stand vale l’altro. La gente accetta il rapporto, compra il panino. Ma é troppo caro. Il divario tra valore di mercato e prezzo imposto é troppo. Esplode la contraddizione del “prezzo politico”: il “prezzo politico” di solito tende a smussare il carattere di merce perché la presenta come “servizio”, come oggetto d’uso e non di “lucro”. Poi tutti sanno che dentro v’é ugualmente contenuto quello che metaforicamente si chiama il “giusto profitto” (c’é un profitto “giusto”?), però psicologicamente si preferisce prescinderne. Qui invece il “prezzo politico” mostra la politica con un volto diverso: quello parassitario, quello che si paga sul mangiare, anzi sull’avanzo del mangiare. Per di più la cosa è aggravata dalla gestione clientelare degli stand: chi é del gruppo o simpatizza col gruppo viene gratificato col panino migliore, chi é esterno si prende la merda. Qualcuno di fronte a tanta realtà si incazza: “Compagni se voglio sottoscrivere, sottoscrivo, ma se voglio un panino non potete aggiungerci il prezzo della sottoscrizione”. Rivendicazione giusta. Rivoluzionaria? No. Siamo sempre dentro il giusto prezzo, il giusto profitto, la giusta merce. Meno clientele, insomma, e poi non é il motivo per cui siamo tutti uniti contro la D.C.? Qui con “giusto profitto” molti intendono nient’altro che il mascheramento politico della merce, lo Stato Operaio che sul valore continua a vivere, però lo chiama “servizio”. Viene il dubbio che i più lucidi siano gli altri, i parassiti. Ecco infatti uno che dice testualmente: “ce la prendiamo perché i prezzi degli stand sono troppo alti, ma compagni non dimentichiamo che questi soldi diventano volantini, manifesti, organizzazione, lotta di classe”. Applausi. Mai frase fu più ben detta: i soldi diventano volantini, manifesti, lotta di classe.
Potenza dell’equivalente generale! x sterline = 20 libbre di tela= 1 Bibbia (diceva Marx) = 400 volantini = Xn lotta di classe, si può aggiungere). Insomma: la “politica” é dentro il ciclo. La politica é merce di scambio. La politica si paga sul lavoro. Chi vorrebbe nascondere il fatto e fare “lo stand benefico”, pagato con le sottoscrizioni di qualche miliardario “democratico consegunte” (cioè: uno che paga per nascondere a sé e agli altri la natura di merce dei rapporti sociali), non é rivoluzionario: é un nostalgico d’un rito laburista che s’é rotto, d’un travestimento della merce che é caduto. La merce c’é, e si vede. E questa merce é la politica.
L’ultima maschera della politica é quella dell’Autonomia Operaia. La politica qui si presenta come antagonista alla merce, si presenta come esproprio, negazione apparente del rapporto di merce: “non ti pago”. Ma questa negazione in quanto prescinde dal carattere specifico della merce (questa o quella, buona o cattiva) cioè dal suo reale godimento, nega proprio il suo lato concreto, d’uso, per affermarne il lato formale, l’astratto valore. La loro “festa” é sempre rito di merce. Assalto ai polli e polli in terra o gettati “alle masse” da qualche palchetto. I pirati amano il doblone perché sotto il doblone amano il rapporto di pirateria, il loro ruolo di espropriati-espropriatori, la loro immagine allo specchio (di subalternità rovesciata): di qui filibustiere, di là governatore. Si riappropriano con la merce, del rapporto di merce. Non sfuggono al ciclo, ci si divertono dentro. La politica qui raggiunge allora il massimo terreno di mistificazione, trasferisce la persona totalmente dentro il rito della merce (la persona, se un panino fa schifo o più semplicemente se non gli va, non lo tocca anche se é gratis, mentre il militante se ne appropria anche quando non ha fame perché ciò che serve, di cui ha fame, non é il panino, ma é il rapporto di merce amato-odiato che il panino esprime). Se bisogna contrattare il prezzo della merce oppure appropriarsene, é un problema della classe, é una variante dentro il ciclo (non é in sé più rivoluzionaria o più cosciente l’una cosa o l’altra). Il problema della persona e della coscienza rivoluzionaria, quella cioé che capovolge l’ordine di cose esistente, é la ricezione dell’oggetto, cioé la sua e la mia “qualità” che entrano in rapporto e come in questo rapporto posso far diventare la merce-cibo semplicemente cibo (gusto, nutrimento, piacere, non rapporto di classe) e la merce-politica semplicemente “liberi rapporti umani” (non pantomima speculare del rapporto di sfruttamento). La merce é là, non bisogna averne paura, né esorcizzarla anche perché ci conviviamo: bisogna frequentarla, amarla e assumerla ma non come valore bensì come uso, ricezione, stimolo, godimento, come insomma “qualità”, cioè oggetto che si fa soggetto, “natura” che si fa “coscienza”. La merce (l’ha detto Marx) esce dal ciclo quando uno la mangia, la consuma, la usa, quando ridiventa “cosa” buona o cattiva. Il rito-politica non può più permettersi di nascondere questa realtà, anche questa ambiguità al Lambro é stata rivelata.
b) la “merce-cultura” in un Festival-pop vive principalmente come musica. La polemica contro la “musica commerciale” é vecchia come il movimento giovanile e anch’essa manifesta lo stesso pavido tentativo di occultare la realtà (in ciò é stata maestra Stampa Alternativa). La musica, qualsiasi musica, in quanto dentro un rapporto di scambio. é merce, é quindi “musica commerciale”. Il problema vero é: questa musica o quella musica? Di nuovo, il problema é la sua ricezione, il suo uso. Di solito invece si contrappone alla “musica commerciale” la “musica collettiva”, quella che cioé ricrea il rito. Musica collettiva spontanea (tamburi battuti in cerchio fino alla noia) o musica cosidetta ” di partecipazione”. Questa seconda é una delle mistificazioni più grosse che il “movimento” abbia partorito. Quando Elvis Presley a Las Vegas durante l’esecuzione di “Love me tender” scendeva dal palco a baciare le giovani e a farsi baciare, questa era partecipazione. Partecipazione a un rito, a un’identificazione col divo. Il trucco di far battere le mani alla gente o di farli cantare in coro è noto alle suore quanto, sempre in campo musicale, a Bing Crosby. In gergo si dice che é una maniera per “risolvere”: molti cantanti e gruppi tengono come pezzo finale il pezzo dalla ritmica più elementare così la gente batte le mani, il pezzo finisce in un crescendo di applausi, la gente applaude il divo, il divo applaude la gente, abbiamo fatto una bella festa in famiglia e vi regalo pure il bis. La musica del Lambro io l’ho sentita fino alla noia, l’ho ascoltata e riascoltata dal vivo e sui nastri registrati: ore e ore di musica. Un’analisi particolareggiata richiederebbe un discorso a parte. Sintetizzo e vengo al nocciolo del suo contenuto “rituale”. Alla musica si chiedeva di rappresentare l’unità della gente del Lambro. Questo già costituiva una preclusione rispetto all’ascolto: la musica come espressione e comunicazione del gruppo x, come ricerca personale, partiva già compressa. Impossibile che neppure si presentasse “alla ribalta” quella che si prestava alla scomposizione del pubblico, a “ribaltare” una contraddizione tra la gente. E’ interessante notare in alcune prestazioni musicali di livello, quelle per esempio della Taberna Mylaensis, del Canzoniere del Lazio, di Don Cherry, di Toni Esposito, come in genere i momenti di maggior “successo”, individuati dalla quantità e dal calore degli applausi e dei consensi, siano inversamente proporzionali alla qualità musicale espressa.
Ci sono degli ambiti d’ascolto dove si crea quella “giusta” tensione psichica e corporale, quella “comunicazione” in cui la persona che trasmette qualcosa di sé dal palco riesce non solo a esprimersi pienamente, ma a “inventare”, a comunicare oltre i confini previsti e prefissati, a scoprire se stesso, nuove parti prima all’oscuro della propria “musica interiore”. Ci sono altre atmosfere, e questo era il Lambro, dove chiarissimo a tutti i musicisti era il fatto che ogni liberazione del personale sarebbe stata confusa con egotismo e quindi s’aveva da ricorrere ai trucchi del mestiere, al pezzo facile e di sicuro effetto, al gioco di bottega, cioé alle risorse del lavoro. Di nuovo: la merce. Ogni tentativo di sortita verso dimensioni sonore più godibili in un rapporto di persone, rilassate, emotive, aperte, era bollato da indifferenza o da caduta di tensione; mentre ogni ripiegamento sulla “partecipazione” furba, sulla presentazione “politica”, sulla ritmica semplice, sull’effettismo, sulla “meccanica” professionale, sul rito collettivo suscitato dal solito atto magico sempre uguale a se stesso, era invece coronato dall’applauso, dal successo e quindi a sua volta ripagato in merce (dischi).
Ma c’è un livello anche più profondo: da un paio d’anni a questa parte c’é stata in Italia a livello musicale, pilotata dai festival pop, una grossa ripresa della ritmica: ritmica chiama corpo, corpo chiama sesso. La cosa dovrebbe essere positiva. Senonché la matrice originale di tutto ciò nasconde un’ambivalenza: c’é ritmica e ritmica, c’é quella del corpo e c’é quella del lavoro. La musica primitiva dove il lavoro é creativo ed é legato al ciclo della sessualità, nasconde questa ambiguità. Ma la musica del nostro tempo non può più celarla. Nella stessa ritmica africana e orientale d’altronde, il ritmo non è mero battimento, pulsione, ma é un vero e proprio linguaggio, esprime significati, comportamenti, contenuti umani. La nostra musica, soprattutto quella italiana di ascendenza contadina, esprime talvolta attraverso suoni onomatopeici questi significati (soprattutto allusioni erotiche), ma più spesso rimanda a una significazione di fondo che é appunto il lavoro, la scansione del ritmo di lavoro. Il rituale collettivo é in questo caso scandito da un gesto ripetitivo e uguale trasmesso da lavoratore a lavoratore. Ci si identifica in quanto “lavoratori”.
Questa “musica del lavoro” é inutile nascondere che é stata la matrice della musica della sinistra italiana. L’altra matrice anch’essa d’origine “popolare” é la marcia, anch’essa a ritmo costante, deciso e scandito, gesti ripetitivi e uguali, cioé la musica marziale, che non é solo musica dell’esercito, ma anche musica “di lotta”. Infine la musica da chiesa, corale, rituale, impostata anch’essa su un ritmo costante, su fasi semplici e ripetitive, slogan. Appare già una differenza sostanziale dalla ritmica africana, orientale e, in parte, afro-americana: qui proprio per un richiamo corporeo e/o “colto” più marcato, le varianti ritmiche si sovrappongono e/o trasmutano le une nelle altre. Invece nella nostra ritmica, le varianti tendono ad appiattirsi su un unico disegno battente sempre uguale a se stesso e perciò tanto più coinvolgente. Ma si tratta di coinvolgimento da “lavoro”, da “milizia” (anche in servizio d’ordine), o da “religione-ideologia” (slogan ritmato, domanda-risposta, rito simbolico).
Se la musica deve esprimere l’unità politica del proletariato giovanile, é ovvio che essa deve negarsi come musica e ridursi a “suono del ciclo”: lavoro, militanza e fede. Nello stesso tempo la musica esprime in termini astratti, mediati, ma più vicini al corpo, questi tre capisaldi della “coscienza di classe” e quindi a differenza della politica si presta meno alla rilevazione della contraddizione. E infatti al Lambro se la contraddizione della politica si é espressa, quella della cultura-musica non si é espressa o si é espressa in termini vecchi identificando cioé come merce solo la musica che non tracciava legame esplicito con lavoro-militanza-fede, l’altra invece era “musica nostra”, era “partecipazione”: eppure si trattava spesso d’una partecipazione allo stesso rito politico di merce che s’era in qualche modo smascherato. Qui, nella musica, l’ambivalenza é ancora da mostrare, può ancora trattarsi d’un terreno d’apparente unità. Il che per chi fa musica e per chi ama la musica costituisce un impegno a lottare in direzione della scissione, dello scioglimento dell’ambiguità, contro il “rito del lavoro” verso la “comunicazione tra persone”. E anche al Lambro qualcuno c’é riuscito. E non é poco.
c) la “merce soggetto”. Se già passando dalla “politica” alla “cultura” la contraddizione s’ammorbidiva e si celava, qui giunta alle soglie dell’io, la contraddizione si nascondeva proprio. La pulce nell’orecchio m’é venuta dalla solita banalità fenomenica: la gente aveva preso il palco e si alternava a parlare al microfono.
“Parlo io, parlo io”, “No tocca a me” e via a strapparselo. Vabbé, mi dicevo, é il solito problema delle code. Poi ognuno si presentava:“Sono un compagno di … “, oppure “sono un operaio…”: che noia ‘sti biglietti da visita. Poi “compagni” di qui, “compagni” di là. Ma che bisogno c’é… Infine il flash, l’ultima sconcertante osservazione. C’era il microfono, ben due enormi altoparlanti accesi, da supergruppo, la gente tutta sotto il palco praticamente a portata di voce naturale. Eppure chi parlava al microfono urlava. La mia stupida domanda interiore era dunque questa: il microfono é un raffinato strumento tecnologico atto ad amplificare le onde sonore: la sua specificità sta insomma nel fatto che permette di parlare a voce normale e di farsi intendere ugualmente a grandi distanze. “Ma allora perché urlano?” Urlare al microfono é un po’ come mettersi l’apparecchio acustico quando si ha un ottimo udito, o anche come guardare un elefante con la lente d’ingrandimento. Eppure no, non é cosi.
A livello di espressività corporale nell’urlo al microfono s’esprime l’istinto di potenza, il potere sugli altri. Tutti piccoli Charlot che fanno Hitler. Allora: avevano preso il palco o erano stati presi dal palco? Cos’é il palco, se non qualcosa che ti mette sulla testa degli altri, e perché l’ossessione di prenderlo se non per mettersi sulla testa degli altri?
Questo é il gioco del palco. Che é anche il gioco del Soggetto. II Soggetto é colui che ha potere, e il potere é un palco. Ma i soggetti mutano e cambiano, si alternano a urlare al microfono, il palco resta perché il potere è lui. Il Soggetto é una “Cosa”: il palco, e i soggetti che si definiscono tali solo in virtù della dimensione del palco sono soggetti fantasmatici, sono personaggi in cerca d’autore. E’ il palco il vero Soggetto, é l’Autore, quello che ti presta voce e atteggiamento e ti trasmette gestualità. Anche qui: il palco, nonostante tutto, unisce. E’ l’unità rituale che permette l’assemblea perché parlare in crocchio o a due, a tre, a quattro, pare non sia comunicazione interpersonale “verace”: la comunicazione é assemblea e il palco ne é il Soggetto, e il soggetto singolo si pensa tale solo quando si toglie dalla sua soggettività reale di persona e si mostra come “figura del palco”, perché la comunicazione non é da persone a persone ma da “soggetto politico” “coagulo di potere” “io urlante al microfono”, a “masse” “classe” “compagni”, unità indistinta di altri “soggetti politici” che anch’essa non s’esprime in sguardi, sensazioni tattili, parole chiare o sottintese, ma in urla applausi e fischi (o lattine). Ciclo del potere: la polvere e l’altare, con la polvere che da un momento all’altro ti può anche finire negli occhi. Altri non urlavano: erano lì a usare un microfono, una struttura casuale perché in quel momento era lì che si comunicava e comunicavano magari raccontando di sé, com’erano arrivati al parco, cosa gli era successo. Quelli sono scesi dal palco come ci sono saliti: hanno parlato lì come altrove. Anche qui, qualcuno c’é riuscito. E non é poco. Che siano sempre più soggetti a parlare e sempre meno “soggetti politici”, sempre più “persone”, e sempre meno “compagni”.