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Da ”L’er­ba voglio” n.27 ‑settembre/​ottobre 1976

di Gian­fran­co Manfredi

A Par­co Lam­bro mi sono smon­ta­to la testa. Come tan­ti. Ripe­te­re que­sto smon­tag­gio per iscrit­to non é faci­le, anche per­ché ho anco­ra tut­ti i pez­zi in giro. D’al­tra par­te pare indi­spen­sa­bi­le di fron­te a un fat­to su cui mol­ti han­no trat­to “con­clu­sio­ni” e pochi “aper­tu­re”. E pro­ve­nen­do ogni “aper­tu­ra” da uno sman­tel­la­men­to comin­cio col dire cosa ho per­so­nal­men­te sman­tel­la­to gra­zie al Lambro.

I MITI

a) Pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le
Se c’è una cosa cer­ta dopo il Lam­bro, é che que­sto ter­mi­ne non ha sen­so. Atten­zio­ne: non che non abbia sen­so di per sé, non ha sen­so rispet­to ai con­te­nu­ti e alle pro­spet­ti­ve che vi si sup­po­ne­va­no inclu­si. Ora: per­si­no i radi­ca­li si accor­go­no del­l’in­con­si­sten­za del ter­mi­ne (cfr. Pro­va radi­ca­le n. 2), però nel con­te­sto del­lo stes­so arti­co­lo pro­pon­go­no come con­cet­to sosti­tu­ti­vo quel­lo di “incaz­za­ti di tut­ti i tipi, di tut­te le situa­zio­ni, di tut­te le clas­si”. Il che vuol dire sosti­tui­re a un con­cet­to impre­ci­so, un altro anche più gene­ri­co: “gli incaz­za­ti”. Incaz­za­ti di ruo­lo, si sup­po­ne. For­se quel­li che la mat­ti­na si sve­glia­no male, o quel­li che quan­do gli acca­rez­zi una spal­la da die­tro estrag­go­no la Colt, si vol­ta­no e ti ridu­co­no un cola­bro­do (tipo Tex). Sem­pre i radi­ca­li, più avan­ti, in un altro arti­co­lo, pro­va­no a defi­ni­re meglio que­sti “incaz­za­ti”: omo­ses­sua­li, fem­mi­ni­ste e “pro­le­ta­ri a cac­cia di pol­li”. Riec­co­ci da capo: riec­co “il pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le”. Allo­ra? No. Se dob­bia­mo smon­ta­re un con­cet­to, smon­tia­mo­lo seria­men­te.
Anzi­tut­to: come mai un con­cet­to fun­zio­na­le che all’i­ni­zio vole­va solo dare un vago qua­dro socio­lo­gi­co (gros­so modo: “i figli degli ope­rai” o “i gio­va­ni ope­rai sen­za lavo­ro o a lavo­ro pre­ca­rio”) é diven­ta­to nel­l’u­so del­la sini­stra “rivo­lu­zio­na­ria” (soprat­tut­to di Lot­ta Con­ti­nua e del­l’Au­to­no­mia Ope­ra­ia) un pun­to di rife­ri­men­to poli­ti­co, una indi­ca­zio­ne di svi­lup­po e di pro­spet­ti­va?.
Da quan­do la “sini­stra di clas­se” ha scel­to come nodo del­la sua pra­ti­ca (non dicia­mo stra­te­gia) la real­tà socio­lo­gi­ca del “pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le”, ecco che il ter­mi­ne ha acqui­sta­to valo­re d’in­di­ca­zio­ne di “clas­se” e le sue azio­ni coin­ci­den­za con la “lot­ta di clas­se”. Sono ormai ben più di die­ci anni che sono/​siamo tut­ti lì a cer­ca­re “la nuo­va clas­se ope­ra­ia” o meglio “il nuo­vo sog­get­to sto­ri­co” che la rap­pre­sen­ti. Ecco allo­ra che rispet­to alle varie fasi del­lo svi­lup­po del­la clas­se, una sua fra­zio­ne di vol­ta in vol­ta é ele­va­ta a “rap­pre­sen­tan­te gene­ra­le”: ieri l’o­pe­ra­io-mas­sa, poi i gio­va­ni ope­rai, infi­ne il pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le, stra­to socia­le dif­fu­so, vivo nel quar­tie­re, spu­gna del­le con­trad­di­zio­ni e di “com­por­ta­men­ti” anti-isti­tu­zio­na­li. Dun­que: pri­mo gra­di­no è l’in­di­vi­dua­zio­ne di uno stra­to inter­no alla clas­se che in una fase la rap­pre­sen­ti o per­lo­me­no ne rap­pre­sen­ti “i con­te­nu­ti più avan­za­ti”. Secon­do gra­di­no é, con la con­cen­tra­zio­ne del­la pra­ti­ca poli­ti­ca e degli sfor­zi orga­niz­za­ti­vi sul­lo stra­to più avan­za­to, la defi­ni­zio­ne del­la clas­se attra­ver­so la sua rap­pre­sen­tan­za avan­za­ta. Di qui all’i­den­ti­fi­ca­zio­ne, del­lo stra­to con la clas­se, il pas­so é bre­ve, anzi spes­so é spin­to anche più in là fino all’i­den­ti­fi­ca­zio­ne del­l’a­van­guar­dia-che-rap­pre­sen­ta-lo-stra­to-che-rap­pre­sen­ta-la-clas­se, con la clas­se stes­sa: cioè “il nucleo pro­le­ta­rio arma­to” alla fine é “gli ope­rai”.
Ma c’é di più: al ter­mi­ne set­to­ria­le così “iso­la­to” si attri­bui­sco­no i valo­ri che sono pro­pri del­la clas­se nel suo insie­me e cioè: di ave­re un’o­mo­ge­nei­tà inter­na che può espri­me­re un’o­mo­ge­nei­tà di com­por­ta­men­ti quin­di una dire­zio­ne uni­ta­ria e per­lo­me­no nazio­na­le, una rap­pre­sen­tan­za orga­niz­za­ta. Bene o male, anche in Re Nudo, anche nel­l’i­deo­lo­gia del gran­de radu­no annua­le del pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le, c’e­ra e c’è die­tro que­sto sche­ma logi­co o meglio ideo­lo­gi­co. C’é biso­gno di que­sto sche­ma sen­nò entre­reb­be in cri­si “la poli­ti­ca” e “l’or­ga­niz­za­zio­ne”: se “la gen­te” non é rife­ri­ta alla “clas­se” va a far­si bene­di­re qual­sia­si discor­so orga­niz­za­ti­vo per­chè la “clas­se” si orga­niz­za (espri­me o subi­sce orga­niz­za­zio­ne), ma “la gen­te” non é det­to.
Ecco allo­ra che tut­ti i com­por­ta­men­ti devo­no esse­re rife­ri­ti alla clas­se. Ci casca anche il Mario Mie­li che (sem­pre su Pro­va Radi­ca­le) scri­ve: “for­se il pro­le­ta­ria­to, la clas­se rivo­lu­zio­na­ria sono le don­ne e gli omo­ses­sua­li; in Ita­lia alme­no non vedo altro, non cre­do che i maschi sia­no rivo­lu­zio­na­ri, e sen­to con­tra­ria alla mia liber­tà qual­sia­si azio­ne com­piu­ta dai maschi, anche se mi ren­do con­to che come appar­te­nen­te al ses­so maschi­le pos­so anco­ra esse­re mol­to con­tro­ri­vo­lu­zio­na­rio nei con­fron­ti del­le don­ne”.
Qui appa­re chia­ra anche la “gerar­chia degli stra­ti rivo­lu­zio­na­ri” che é impli­ci­ta den­tro ogni ricer­ca del “nuo­vo Sog­get­to”: il Più Oppres­so di Tut­ti, il Cri­stin­cro­ce di tur­no. Secon­do que­sta logi­ca il nuo­vo Sog­get­to sareb­be pro­ba­bil­men­te una vec­chia ex-ope­ra­ia negra schi­zo­fre­ni­ca e omo­ses­sua­le. Nel rife­ri­re alla clas­se tut­ti i com­por­ta­men­ti anti-isti­tu­zio­na­li anche Re Nudo non é sta­to da meno, a par­ti­re dal­la stes­sa impo­sta­zio­ne del gior­na­le (e so quel che dico aven­do­vi non poco con­tri­bui­to). Un’e­spres­sio­ne sin­te­ti­ca abba­stan­za chia­ra é sta­ta quel­la usa­ta da Roma­no Made­ra in un noto arti­co­lo: “la clas­se sfu­ma se non fuma”. Con que­sto egli pro­ba­bil­men­te inten­de­va dire, nel con­te­sto del­l’ar­ti­co­lo, che era neces­sa­rio pro­prio che la clas­se “sfu­mas­se”, ma la fra­se dice inve­ce l’op­po­sto e cioé che “fuma­re” é atti­vi­tà che con­tri­bui­sce a rin­sal­da­re la clas­se come uni­tà rivo­lu­zio­na­ria. E dato che per Made­ra “fuma­re” é soprat­tut­to “capi­re” e “ragio­na­re”, si potreb­be dire anche che l’at­ti­vi­tà razio­na­le (anche se inte­sa come sana pra­ti­ca cor­po­rea) é alla fine il Sog­get­to rivo­lu­zio­na­rio. Il che ha anche una sua par­te di veri­tà (assai par­zia­le) pur­ché non sia nuo­va­men­te rife­ri­to alla fan­to­ma­ti­ca “clas­se” che alla fine coin­ci­de­reb­be (ope­ra­zio­ne non nuo­va) con lo “Spi­ri­to Asso­lu­to” (o anche “la Mate­ria che pen­sa Se Stes­sa”).
Di qui anche non poche fru­stra­zio­ni per chi si recas­se a un festi­val pop per vede­re die­tro il pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le lo Spi­ri­to del Mon­do, anche per­ché sono seco­li che lo Spi­ri­to del Mon­do non si con­cen­tra più in un pun­to solo. (Eppu­re un noto idio­ta se ne uscì dopo il festi­val con que­sto com­men­to: “La gen­te sen­ti­va l’as­sen­za di una Welt­an­schauung”, al che un “pro­le­ta­rio gio­va­ni­le” ha aggiun­to: “Sì é vero, anche Alan Sti­vell e gli Stee­leye Span li ave­va­no pro­mes­si e inve­ce non c’e­ra­no”). Pro­via­mo inve­ce, nel­la sto­ria di que­sti die­ci anni di ricer­ca del nuo­vo Sog­get­to, a indi­vi­dua­re un cam­mi­no oppo­sto, inver­so: non quel­lo del­l’ag­gre­ga­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria del­la clas­se attor­no al suo stra­to più avan­za­to e alla sua (sem­pre atte­sa) rap­pre­sen­tan­za, ma quel­lo del­la disgre­ga­zio­ne (del­lo sfu­ma­re) del­la clas­se attra­ver­so suoi stra­ti mar­gi­na­li al di là di ogni rap­pre­sen­tan­za. Pro­via­mo insom­ma a rileg­ge­re una sto­ria diver­sa del­la clas­se e del­le sue figu­re: l’o­pe­ra­io-mas­sa non é, in que­sto qua­dro, il sog­get­to che sosti­tuen­do­si all’o­pe­ra­io pro­fes­sio­na­le e alle ari­sto­cra­zie ope­ra­ie muta il segno rifor­mi­sta in rivo­lu­zio­na­rio e dà alla clas­se una “nuo­va uni­tà”. L’o­mo­ge­nei­tà del lavo­ro, la ripe­ti­ti­vi­tà, le gran­di aggre­ga­zio­ni d’uo­mi­ni, la fine del­la “qua­li­tà”, sono sì carat­te­ri­sti­che d’u­na nuo­va figu­ra ope­ra­ia, ma di una figu­ra ope­ra­ia ormai assi­mi­la­ta total­men­te al ciclo. Il “rifiu­to del lavo­ro” non sta den­tro que­ste carat­te­ri­sti­che ma “oltre”: é appun­to “la posi­zio­ne del Sog­get­to”. Da que­sto pun­to in poi il cam­mi­no del Sog­get­to non é affat­to nel­la dire­zio­ne di una più mar­ca­ta ade­ren­za al ciclo, di una sua inter­ni­tà che dovreb­be alla fine rias­su­mer­lo (rove­scia­to) in sé, ma é inve­ce nel­la sua pro­gres­si­va ester­ni­tà al ciclo, oltre il lavo­ro, oltre la pro­du­zio­ne, oltre la mer­ce. Appun­to ver­so il Sog­get­to. Ecco allo­ra la bana­li­tà, tan­to bana­le quan­to vera: e se il Sog­get­to fos­se pro­prio il sog­get­to, il sé, la per­so­na?
La clas­se in quan­to tale, l’o­mo­ge­nei­tà-lavo­ro ugua­le, non cer­ca una nuo­va rap­pre­sen­tan­za, né la pro­du­ce: la sua rap­pre­sen­tan­za isti­tu­zio­na­le, uni­ta­ria e nazio­na­le, espres­sa dal suo esse­re clas­se, é il Par­ti­to Ope­ra­io che diven­ta Sta­to Ope­ra­io. Qui, in Ita­lia, il PCI. La clas­se che si nega in quan­to clas­se é Sog­get­to, l’o­pe­ra­io che si nega come ope­ra­io é per­so­na. Ecco allo­ra per­ché il “Pro­le­ta­ria­to Gio­va­ni­le”. E’ nel­l’ul­ti­mo gra­di­no del­la sua mar­gi­na­liz­za­zio­ne rispet­to alla mac­chi­na che l’o­pe­ra­io tro­va la sua figu­ra lace­ra­ta tra la clas­se e la per­so­na. Il ter­mi­ne “pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le” espri­me que­sta ambi­va­len­za di dire­zio­ni, que­sta ambi­gui­tà: da una par­te un ter­mi­ne (“pro­le­ta­ria­to”) che riman­da alla col­lo­ca­zio­ne nel ciclo, dal­l’al­tra un ter­mi­ne (“gio­va­ni­le”) che riman­da alla real­tà del cor­po.
Il supe­ra­men­to del­l’am­bi­gui­tà è un pro­ble­ma più ampio di quel­lo del­l’a­bo­li­zio­ne del ter­mi­ne che nel­la sua impre­ci­sio­ne é in real­tà quan­to di più pre­ci­so ci sia. Il supe­ra­men­to del­l’am­bi­gui­tà può avve­ni­re in oppo­ste dire­zio­ni: l’as­sor­bi­men­to del secon­do ter­mi­ne nei pri­mo (del cor­po nel ciclo: ten­ta­ti­vo estre­ma­men­te tra­spa­ren­te per esem­pio attra­ver­so la cosi­det­ta “pomo­gra­fia” cioé ses­sua­li­tà-lavo­ro, ripe­ti­ti­vi­tà-effi­cien­za-pro­dut­ti­vi­tà-scom­po­si­zio­ne del­l’at­to ses­sua­le), o l’as­sor­bi­men­to del pri­mo nel secon­do che é poi il pro­ble­ma stes­so del­la rivo­lu­zio­ne: la nega­zio­ne del­la clas­se, del­la socie­tà del­le clas­si (capo­vol­gi­men­to del valo­re in uso, emer­gen­za del sog­get­to di con­tro all’og­get­to, del­la diver­si­tà-indi­vi­dua­li­tà con­cre­ta rispet­to all’o­mo­ge­nei­tà-uni­ver­sa­li­tà astrat­ta).
Ma den­tro que­sta secon­da pro­spet­ti­va il pro­ble­ma è la ricer­ca, l’al­lar­ga­men­to del­l’a­rea del­la coscien­za, la comu­ni­ca­zio­ne (per usa­re un ter­mi­ne vec­chio, la cul­tu­ra), non é l’or­ga­niz­za­zio­ne, l’al­lar­ga­men­to del­l’a­rea del­l’au­to­no­mia orga­niz­za­ta, la isti­tu­zio­na­li­tà spe­cu­lar­men­te oppo­sta quan­to ugua­le (cioé la poli­ti­ca). Il che non vuoi dire nega­re la dia­let­ti­ca tra i due estre­mi del­la que­stio­ne, ma vuol dire rico­no­sce­re che si trat­ta d’u­na dia­let­ti­ca del­le oppo­si­zio­ni, d’u­na dia­let­ti­ca scon­tro, e non può trat­tar­si d’u­na dia­let­ti­ca del­la ricom­po­si­zio­ne, del­l’u­ni­tà degli oppo­sti. Que­sta secon­da dia­let­ti­ca é pro­prio quel­la del­la per­pe­tua­zio­ne (con il sogno/​delirio del­l’or­ga­niz­za­zio­ne) del­le ambi­gui­tà non solo terminologiche.

b) Feli­ci­tà
Altra que­stio­ne rim­bal­za­ta da Par­co Lam­bro: il vero obiet­ti­vo sareb­be la feli­ci­tà, il pro­ble­ma gio­va­ni­le sta­reb­be tut­to qui: Feli­ci­tà. La sud­det­ta feli­ci­tà sareb­be poi divi­sa in due rami: a) occu­pa­zio­ne; b) sta­re bene insie­me (“crea­ti­vi­tà”). In ter­mi­ni anti­chi: panem et cir­cen­ses. E’ uno dei casi non rari in cui la sini­stra é destra: tra “panem et cir­cen­ses” e “ora et labo­ra” c’é solo una pic­co­la dif­fe­ren­za di otti­ca. Tan­t’é vero che Comu­nio­ne e Libe­ra­zio­ne ha avu­to paro­le di gran­de com­pren­sio­ne per l’e­si­gen­za di “feli­ci­tà” che emer­ge­va (“cer­to in for­me para­dos­sa­li”) da Par­co Lam­bro. E Comu­nio­ne e Libe­ra­zio­ne (C.L.) é l’im­ma­gi­ne spe­cu­lar­men­te oppo­sta di Lot­ta Con­ti­nua (L.C.).
Que­sta del­la Feli­ci­tà é la colom­ba o la cor­nac­chia estrat­ta dal cap­pel­lo a cilin­dro di chi pen­sa si deb­ba con­ti­nua­re sul­la stra­da del­l’am­bi­gui­tà, l’u­ni­ca stra­da che con­ser­vi qual­che aiuo­la di par­cheg­gio alle “orga­niz­za­zio­ni rivo­lu­zio­na­rie”. La Feli­ci­tà infat­ti, nono­stan­te per ori­gi­ne sia un ter­mi­ne pro­prio del “per­so­na­le” é qui assi­mi­la­ta al “poli­ti­co” e diven­ta quin­di feli­ci­tà ideo­lo­gi­ca che si espri­me in riti col­let­ti­vi (feli­ci­tà per il gover­no del­le sini­stre, giro­ton­di nudi, “pote­re a chi lavo­ra” gri­da­to tut­ti assie­me per non far pio­ve­re, gran­di radu­ni allie­ta­ti da taran­tel­le e chia­vi ingle­si nasco­ste sot­to le cami­cie nel caso che qual­che scon­si­de­ra­to non fos­se feli­ce e si bucas­se). Que­sta Feli­ci­tà, che è anche diver­ten­te per chi vi par­te­ci­pa, é l’ul­ti­ma masche­ra­ta del­la reli­gio­ne: é infat­ti più vici­na al cor­po che non la poli­ti­ca, pro­prio per­ché vuol esse­re la media­zio­ne tra il cor­po e la poli­ti­ca, la custo­de del­l’am­bi­gui­tà. Con l’i­ne­vi­ta­bi­li­tà del­l’e­va­sio­ne dal per­so­na­le. Se infat­ti si rima­nes­se nel­l’am­bi­to del­la per­so­na, la feli­ci­tà non potreb­be mai esse­re un obiet­ti­vo, dato che non si trat­ta d’al­tro che d’u­no sta­to par­ti­co­la­re e tem­po­ra­neo che esi­ste solo in quan­to ne esi­sto­no degli altri che han­no lo stes­so iden­ti­co valo­re euri­sti­co, ivi com­pre­so il dolo­re. Sul pia­no gene­ra­le inve­ce, la feli­ci­tà richie­de una sua defi­ni­zio­ne: non é più una con­di­zio­ne emo­ti­va, é il rive­sti­men­to di un con­te­nu­to pre­ci­so di cui trac­cia­re i con­fi­ni. E i con­fi­ni li trac­cia l’or­ga­niz­za­zio­ne: è l’or­ga­niz­za­zio­ne (pre­via assem­blea) che deci­de se é giu­sto esse­re feli­ci spian­do una don­na che piscia (no, non é giu­sto, non é fem­mi­ni­sta, non si deve fare), se é giu­sto esse­re feli­ci bat­ten­do le mani all toge­ther (sì, è giu­sto per­ché così “si par­te­ci­pa”).
Si trac­cia­no le con­di­zio­ni del­la feli­ci­tà, il si può fare e il non si può fare. Ma il pro­ble­ma che si dovreb­be por­re é: “per­ché sono feli­ce a fare que­sto o que­st’al­tro”, il che signi­fi­ca: “sen­tir­si”, dove le con­si­de­ra­zio­ni ogget­ti­ve avven­go­no den­tro un pia­no di cono­scen­za-ricer­ca dei limi­ti e del­le pos­si­bi­li­tà d’e­span­sio­ne del per­so­na­le. Por­re inve­ce, al con­tra­rio, la feli­ci­tà come obiet­ti­vo e “solu­zio­ne” del per­so­na­le (inve­ce che come ogget­to d’in­da­gi­ne) por­ta all’in­di­vi­dua­zio­ne del­le “con­di­zio­ni medie pos­si­bi­li e augu­ra­bi­li di feli­ci­tà ora e in que­sto luo­go” stan­te che la feli­ci­tà é un dove­re per­ché sei lì per quel­lo: ecco che allo­ra la “feli­ci­tà col­let­ti­va” si mani­fe­sta come asso­lu­ta impo­ten­za per­so­na­le e tota­le para­no­ia quan­do si è fuo­ri dal rito col­let­ti­vo. Il rito col­let­ti­vo con il suo uni­ver­so chiu­so di rego­le, vali­de per chi vi par­te­ci­pa, é la Feli­ci­tà: é il reci­pro­co rico­no­scer­si come iden­ti­ci, ugua­li agli altri. La diver­si­tà-indi­vi­dua­li­tà, la non par­te­ci­pa­zio­ne o il non gra­di­men­to del rito col­let­ti­vo, diven­ta così tout court emar­gi­na­zio­ne, soli­tu­di­ne, impo­ten­za.
“Nes­su­na sal­vez­za fuo­ri del­la Chie­sa”. Inve­ce d’es­se­re la “solu­zio­ne” all’e­mar­gi­na­zio­ne, la Feli­ci­tà come obiet­ti­vo gene­ra­le, “poli­ti­co”, la raf­for­za e la ricrea.

I RITI

I riti, man­co a dir­lo, sono riti di mer­ce. E lo dico sen­za scan­da­liz­zar­mi. Chi si scan­da­liz­za di soli­to é pro­prio chi pre­pa­ra il rito per­ché la mer­ce vi sia pre­sen­te, ma sfug­gen­te, vi sia esor­ciz­za­ta.
Ma per chi ha pre­sen­te che la mer­ce esi­ste, non è la mer­ce a costi­tui­re fon­te d’ir­ri­ta­zio­ne, é caso­mai il rito che vor­reb­be all’ap­pa­ren­za can­cel­lar­la men­tre la con­sa­cra. La mer­ce del caso non é infat­ti il pac­chet­to di Murat­ti o la pre­sen­za del divo x, o il mero “prez­zo” del pani­no. La mer­ce é il “rap­por­to di mer­ce”: é mer­ce-ideo­lo­gia (la poli­ti­ca), é mer­ce-cul­tu­ra (la musi­ca), é mer­ce-sog­get­to (il pal­co). Vedia­mo­la attra­ver­so alcu­ni suoi momen­ti sim­bo­li­ci al Lambro.

a) la mer­ce-poli­ti­ca anzi­tut­to: si pre­sen­ta all’in­gres­so del pra­to come stri­scio­ne-stand, libri rivi­ste pani­ni, tut­ti rigo­ro­sa­men­te di sini­stra e “ros­si” ma per­lo­più divi­si per grup­po. Feno­me­ni­ca­men­te uni­ti nel­l’im­ma­gi­ne: uno stand vale l’al­tro. La gen­te accet­ta il rap­por­to, com­pra il pani­no. Ma é trop­po caro. Il diva­rio tra valo­re di mer­ca­to e prez­zo impo­sto é trop­po. Esplo­de la con­trad­di­zio­ne del “prez­zo poli­ti­co”: il “prez­zo poli­ti­co” di soli­to ten­de a smus­sa­re il carat­te­re di mer­ce per­ché la pre­sen­ta come “ser­vi­zio”, come ogget­to d’u­so e non di “lucro”. Poi tut­ti san­no che den­tro v’é ugual­men­te con­te­nu­to quel­lo che meta­fo­ri­ca­men­te si chia­ma il “giu­sto pro­fit­to” (c’é un pro­fit­to “giu­sto”?), però psi­co­lo­gi­ca­men­te si pre­fe­ri­sce pre­scin­der­ne. Qui inve­ce il “prez­zo poli­ti­co” mostra la poli­ti­ca con un vol­to diver­so: quel­lo paras­si­ta­rio, quel­lo che si paga sul man­gia­re, anzi sul­l’a­van­zo del man­gia­re. Per di più la cosa è aggra­va­ta dal­la gestio­ne clien­te­la­re degli stand: chi é del grup­po o sim­pa­tiz­za col grup­po vie­ne gra­ti­fi­ca­to col pani­no miglio­re, chi é ester­no si pren­de la mer­da. Qual­cu­no di fron­te a tan­ta real­tà si incaz­za: “Com­pa­gni se voglio sot­to­scri­ve­re, sot­to­scri­vo, ma se voglio un pani­no non pote­te aggiun­ger­ci il prez­zo del­la sot­to­scri­zio­ne”. Riven­di­ca­zio­ne giu­sta. Rivo­lu­zio­na­ria? No. Sia­mo sem­pre den­tro il giu­sto prez­zo, il giu­sto pro­fit­to, la giu­sta mer­ce. Meno clien­te­le, insom­ma, e poi non é il moti­vo per cui sia­mo tut­ti uni­ti con­tro la D.C.? Qui con “giu­sto pro­fit­to” mol­ti inten­do­no nien­t’al­tro che il masche­ra­men­to poli­ti­co del­la mer­ce, lo Sta­to Ope­ra­io che sul valo­re con­ti­nua a vive­re, però lo chia­ma “ser­vi­zio”. Vie­ne il dub­bio che i più luci­di sia­no gli altri, i paras­si­ti. Ecco infat­ti uno che dice testual­men­te: “ce la pren­dia­mo per­ché i prez­zi degli stand sono trop­po alti, ma com­pa­gni non dimen­ti­chia­mo che que­sti sol­di diven­ta­no volan­ti­ni, mani­fe­sti, orga­niz­za­zio­ne, lot­ta di clas­se”. Applau­si. Mai fra­se fu più ben det­ta: i sol­di diven­ta­no volan­ti­ni, mani­fe­sti, lot­ta di clas­se.
Poten­za del­l’e­qui­va­len­te gene­ra­le! x ster­li­ne = 20 lib­bre di tela= 1 Bib­bia (dice­va Marx) = 400 volan­ti­ni = Xn lot­ta di clas­se, si può aggiun­ge­re). Insom­ma: la “poli­ti­ca” é den­tro il ciclo. La poli­ti­ca é mer­ce di scam­bio. La poli­ti­ca si paga sul lavo­ro. Chi vor­reb­be nascon­de­re il fat­to e fare “lo stand bene­fi­co”, paga­to con le sot­to­scri­zio­ni di qual­che miliar­da­rio “demo­cra­ti­co con­se­gun­te” (cioè: uno che paga per nascon­de­re a sé e agli altri la natu­ra di mer­ce dei rap­por­ti socia­li), non é rivo­lu­zio­na­rio: é un nostal­gi­co d’un rito labu­ri­sta che s’é rot­to, d’un tra­ve­sti­men­to del­la mer­ce che é cadu­to. La mer­ce c’é, e si vede. E que­sta mer­ce é la poli­ti­ca.
L’ul­ti­ma masche­ra del­la poli­ti­ca é quel­la del­l’Au­to­no­mia Ope­ra­ia. La poli­ti­ca qui si pre­sen­ta come anta­go­ni­sta alla mer­ce, si pre­sen­ta come espro­prio, nega­zio­ne appa­ren­te del rap­por­to di mer­ce: “non ti pago”. Ma que­sta nega­zio­ne in quan­to pre­scin­de dal carat­te­re spe­ci­fi­co del­la mer­ce (que­sta o quel­la, buo­na o cat­ti­va) cioè dal suo rea­le godi­men­to, nega pro­prio il suo lato con­cre­to, d’u­so, per affer­mar­ne il lato for­ma­le, l’a­strat­to valo­re. La loro “festa” é sem­pre rito di mer­ce. Assal­to ai pol­li e pol­li in ter­ra o get­ta­ti “alle mas­se” da qual­che pal­chet­to. I pira­ti ama­no il doblo­ne per­ché sot­to il doblo­ne ama­no il rap­por­to di pira­te­ria, il loro ruo­lo di espro­pria­ti-espro­pria­to­ri, la loro imma­gi­ne allo spec­chio (di subal­ter­ni­tà rove­scia­ta): di qui fili­bu­stie­re, di là gover­na­to­re. Si riap­pro­pria­no con la mer­ce, del rap­por­to di mer­ce. Non sfug­go­no al ciclo, ci si diver­to­no den­tro. La poli­ti­ca qui rag­giun­ge allo­ra il mas­si­mo ter­re­no di misti­fi­ca­zio­ne, tra­sfe­ri­sce la per­so­na total­men­te den­tro il rito del­la mer­ce (la per­so­na, se un pani­no fa schi­fo o più sem­pli­ce­men­te se non gli va, non lo toc­ca anche se é gra­tis, men­tre il mili­tan­te se ne appro­pria anche quan­do non ha fame per­ché ciò che ser­ve, di cui ha fame, non é il pani­no, ma é il rap­por­to di mer­ce ama­to-odia­to che il pani­no espri­me). Se biso­gna con­trat­ta­re il prez­zo del­la mer­ce oppu­re appro­priar­se­ne, é un pro­ble­ma del­la clas­se, é una varian­te den­tro il ciclo (non é in sé più rivo­lu­zio­na­ria o più coscien­te l’u­na cosa o l’al­tra). Il pro­ble­ma del­la per­so­na e del­la coscien­za rivo­lu­zio­na­ria, quel­la cioé che capo­vol­ge l’or­di­ne di cose esi­sten­te, é la rice­zio­ne del­l’og­get­to, cioé la sua e la mia “qua­li­tà” che entra­no in rap­por­to e come in que­sto rap­por­to pos­so far diven­ta­re la mer­ce-cibo sem­pli­ce­men­te cibo (gusto, nutri­men­to, pia­ce­re, non rap­por­to di clas­se) e la mer­ce-poli­ti­ca sem­pli­ce­men­te “libe­ri rap­por­ti uma­ni” (non pan­to­mi­ma spe­cu­la­re del rap­por­to di sfrut­ta­men­to). La mer­ce é là, non biso­gna aver­ne pau­ra, né esor­ciz­zar­la anche per­ché ci con­vi­via­mo: biso­gna fre­quen­tar­la, amar­la e assu­mer­la ma non come valo­re ben­sì come uso, rice­zio­ne, sti­mo­lo, godi­men­to, come insom­ma “qua­li­tà”, cioè ogget­to che si fa sog­get­to, “natu­ra” che si fa “coscien­za”. La mer­ce (l’ha det­to Marx) esce dal ciclo quan­do uno la man­gia, la con­su­ma, la usa, quan­do ridi­ven­ta “cosa” buo­na o cat­ti­va. Il rito-poli­ti­ca non può più per­met­ter­si di nascon­de­re que­sta real­tà, anche que­sta ambi­gui­tà al Lam­bro é sta­ta rivelata.

b) la “mer­ce-cul­tu­ra” in un Festi­val-pop vive prin­ci­pal­men­te come musi­ca. La pole­mi­ca con­tro la “musi­ca com­mer­cia­le” é vec­chia come il movi­men­to gio­va­ni­le e anch’es­sa mani­fe­sta lo stes­so pavi­do ten­ta­ti­vo di occul­ta­re la real­tà (in ciò é sta­ta mae­stra Stam­pa Alter­na­ti­va). La musi­ca, qual­sia­si musi­ca, in quan­to den­tro un rap­por­to di scam­bio. é mer­ce, é quin­di “musi­ca com­mer­cia­le”. Il pro­ble­ma vero é: que­sta musi­ca o quel­la musi­ca? Di nuo­vo, il pro­ble­ma é la sua rice­zio­ne, il suo uso. Di soli­to inve­ce si con­trap­po­ne alla “musi­ca com­mer­cia­le” la “musi­ca col­let­ti­va”, quel­la che cioé ricrea il rito. Musi­ca col­let­ti­va spon­ta­nea (tam­bu­ri bat­tu­ti in cer­chio fino alla noia) o musi­ca cosi­det­ta ” di par­te­ci­pa­zio­ne”. Que­sta secon­da é una del­le misti­fi­ca­zio­ni più gros­se che il “movi­men­to” abbia par­to­ri­to. Quan­do Elvis Pre­sley a Las Vegas duran­te l’e­se­cu­zio­ne di “Love me ten­der” scen­de­va dal pal­co a bacia­re le gio­va­ni e a far­si bacia­re, que­sta era par­te­ci­pa­zio­ne. Par­te­ci­pa­zio­ne a un rito, a un’i­den­ti­fi­ca­zio­ne col divo. Il truc­co di far bat­te­re le mani alla gen­te o di far­li can­ta­re in coro è noto alle suo­re quan­to, sem­pre in cam­po musi­ca­le, a Bing Cro­sby. In ger­go si dice che é una manie­ra per “risol­ve­re”: mol­ti can­tan­ti e grup­pi ten­go­no come pez­zo fina­le il pez­zo dal­la rit­mi­ca più ele­men­ta­re così la gen­te bat­te le mani, il pez­zo fini­sce in un cre­scen­do di applau­si, la gen­te applau­de il divo, il divo applau­de la gen­te, abbia­mo fat­to una bel­la festa in fami­glia e vi rega­lo pure il bis. La musi­ca del Lam­bro io l’ho sen­ti­ta fino alla noia, l’ho ascol­ta­ta e ria­scol­ta­ta dal vivo e sui nastri regi­stra­ti: ore e ore di musi­ca. Un’a­na­li­si par­ti­co­la­reg­gia­ta richie­de­reb­be un discor­so a par­te. Sin­te­tiz­zo e ven­go al noc­cio­lo del suo con­te­nu­to “ritua­le”. Alla musi­ca si chie­de­va di rap­pre­sen­ta­re l’u­ni­tà del­la gen­te del Lam­bro. Que­sto già costi­tui­va una pre­clu­sio­ne rispet­to all’a­scol­to: la musi­ca come espres­sio­ne e comu­ni­ca­zio­ne del grup­po x, come ricer­ca per­so­na­le, par­ti­va già com­pres­sa. Impos­si­bi­le che nep­pu­re si pre­sen­tas­se “alla ribal­ta” quel­la che si pre­sta­va alla scom­po­si­zio­ne del pub­bli­co, a “ribal­ta­re” una con­trad­di­zio­ne tra la gen­te. E’ inte­res­san­te nota­re in alcu­ne pre­sta­zio­ni musi­ca­li di livel­lo, quel­le per esem­pio del­la Taber­na Mylaen­sis, del Can­zo­nie­re del Lazio, di Don Cher­ry, di Toni Espo­si­to, come in gene­re i momen­ti di mag­gior “suc­ces­so”, indi­vi­dua­ti dal­la quan­ti­tà e dal calo­re degli applau­si e dei con­sen­si, sia­no inver­sa­men­te pro­por­zio­na­li alla qua­li­tà musi­ca­le espres­sa.
Ci sono degli ambi­ti d’a­scol­to dove si crea quel­la “giu­sta” ten­sio­ne psi­chi­ca e cor­po­ra­le, quel­la “comu­ni­ca­zio­ne” in cui la per­so­na che tra­smet­te qual­co­sa di sé dal pal­co rie­sce non solo a espri­mer­si pie­na­men­te, ma a “inven­ta­re”, a comu­ni­ca­re oltre i con­fi­ni pre­vi­sti e pre­fis­sa­ti, a sco­pri­re se stes­so, nuo­ve par­ti pri­ma all’o­scu­ro del­la pro­pria “musi­ca inte­rio­re”. Ci sono altre atmo­sfe­re, e que­sto era il Lam­bro, dove chia­ris­si­mo a tut­ti i musi­ci­sti era il fat­to che ogni libe­ra­zio­ne del per­so­na­le sareb­be sta­ta con­fu­sa con ego­ti­smo e quin­di s’a­ve­va da ricor­re­re ai truc­chi del mestie­re, al pez­zo faci­le e di sicu­ro effet­to, al gio­co di bot­te­ga, cioé alle risor­se del lavo­ro. Di nuo­vo: la mer­ce. Ogni ten­ta­ti­vo di sor­ti­ta ver­so dimen­sio­ni sono­re più godi­bi­li in un rap­por­to di per­so­ne, rilas­sa­te, emo­ti­ve, aper­te, era bol­la­to da indif­fe­ren­za o da cadu­ta di ten­sio­ne; men­tre ogni ripie­ga­men­to sul­la “par­te­ci­pa­zio­ne” fur­ba, sul­la pre­sen­ta­zio­ne “poli­ti­ca”, sul­la rit­mi­ca sem­pli­ce, sul­l’ef­fet­ti­smo, sul­la “mec­ca­ni­ca” pro­fes­sio­na­le, sul rito col­let­ti­vo susci­ta­to dal soli­to atto magi­co sem­pre ugua­le a se stes­so, era inve­ce coro­na­to dal­l’ap­plau­so, dal suc­ces­so e quin­di a sua vol­ta ripa­ga­to in mer­ce (dischi).
Ma c’è un livel­lo anche più pro­fon­do: da un paio d’an­ni a que­sta par­te c’é sta­ta in Ita­lia a livel­lo musi­ca­le, pilo­ta­ta dai festi­val pop, una gros­sa ripre­sa del­la rit­mi­ca: rit­mi­ca chia­ma cor­po, cor­po chia­ma ses­so. La cosa dovreb­be esse­re posi­ti­va. Senon­ché la matri­ce ori­gi­na­le di tut­to ciò nascon­de un’am­bi­va­len­za: c’é rit­mi­ca e rit­mi­ca, c’é quel­la del cor­po e c’é quel­la del lavo­ro. La musi­ca pri­mi­ti­va dove il lavo­ro é crea­ti­vo ed é lega­to al ciclo del­la ses­sua­li­tà, nascon­de que­sta ambi­gui­tà. Ma la musi­ca del nostro tem­po non può più celar­la. Nel­la stes­sa rit­mi­ca afri­ca­na e orien­ta­le d’al­tron­de, il rit­mo non è mero bat­ti­men­to, pul­sio­ne, ma é un vero e pro­prio lin­guag­gio, espri­me signi­fi­ca­ti, com­por­ta­men­ti, con­te­nu­ti uma­ni. La nostra musi­ca, soprat­tut­to quel­la ita­lia­na di ascen­den­za con­ta­di­na, espri­me tal­vol­ta attra­ver­so suo­ni ono­ma­to­pei­ci que­sti signi­fi­ca­ti (soprat­tut­to allu­sio­ni ero­ti­che), ma più spes­so riman­da a una signi­fi­ca­zio­ne di fon­do che é appun­to il lavo­ro, la scan­sio­ne del rit­mo di lavo­ro. Il ritua­le col­let­ti­vo é in que­sto caso scan­di­to da un gesto ripe­ti­ti­vo e ugua­le tra­smes­so da lavo­ra­to­re a lavo­ra­to­re. Ci si iden­ti­fi­ca in quan­to “lavo­ra­to­ri”.
Que­sta “musi­ca del lavo­ro” é inu­ti­le nascon­de­re che é sta­ta la matri­ce del­la musi­ca del­la sini­stra ita­lia­na. L’al­tra matri­ce anch’es­sa d’o­ri­gi­ne “popo­la­re” é la mar­cia, anch’es­sa a rit­mo costan­te, deci­so e scan­di­to, gesti ripe­ti­ti­vi e ugua­li, cioé la musi­ca mar­zia­le, che non é solo musi­ca del­l’e­ser­ci­to, ma anche musi­ca “di lot­ta”. Infi­ne la musi­ca da chie­sa, cora­le, ritua­le, impo­sta­ta anch’es­sa su un rit­mo costan­te, su fasi sem­pli­ci e ripe­ti­ti­ve, slo­gan. Appa­re già una dif­fe­ren­za sostan­zia­le dal­la rit­mi­ca afri­ca­na, orien­ta­le e, in par­te, afro-ame­ri­ca­na: qui pro­prio per un richia­mo cor­po­reo e/​o “col­to” più mar­ca­to, le varian­ti rit­mi­che si sovrap­pon­go­no e/​o tra­smu­ta­no le une nel­le altre. Inve­ce nel­la nostra rit­mi­ca, le varian­ti ten­do­no ad appiat­tir­si su un uni­co dise­gno bat­ten­te sem­pre ugua­le a se stes­so e per­ciò tan­to più coin­vol­gen­te. Ma si trat­ta di coin­vol­gi­men­to da “lavo­ro”, da “mili­zia” (anche in ser­vi­zio d’or­di­ne), o da “reli­gio­ne-ideo­lo­gia” (slo­gan rit­ma­to, doman­da-rispo­sta, rito sim­bo­li­co).
Se la musi­ca deve espri­me­re l’u­ni­tà poli­ti­ca del pro­le­ta­ria­to gio­va­ni­le, é ovvio che essa deve negar­si come musi­ca e ridur­si a “suo­no del ciclo”: lavo­ro, mili­tan­za e fede. Nel­lo stes­so tem­po la musi­ca espri­me in ter­mi­ni astrat­ti, media­ti, ma più vici­ni al cor­po, que­sti tre capi­sal­di del­la “coscien­za di clas­se” e quin­di a dif­fe­ren­za del­la poli­ti­ca si pre­sta meno alla rile­va­zio­ne del­la con­trad­di­zio­ne. E infat­ti al Lam­bro se la con­trad­di­zio­ne del­la poli­ti­ca si é espres­sa, quel­la del­la cul­tu­ra-musi­ca non si é espres­sa o si é espres­sa in ter­mi­ni vec­chi iden­ti­fi­can­do cioé come mer­ce solo la musi­ca che non trac­cia­va lega­me espli­ci­to con lavo­ro-mili­tan­za-fede, l’al­tra inve­ce era “musi­ca nostra”, era “par­te­ci­pa­zio­ne”: eppu­re si trat­ta­va spes­so d’u­na par­te­ci­pa­zio­ne allo stes­so rito poli­ti­co di mer­ce che s’e­ra in qual­che modo sma­sche­ra­to. Qui, nel­la musi­ca, l’am­bi­va­len­za é anco­ra da mostra­re, può anco­ra trat­tar­si d’un ter­re­no d’ap­pa­ren­te uni­tà. Il che per chi fa musi­ca e per chi ama la musi­ca costi­tui­sce un impe­gno a lot­ta­re in dire­zio­ne del­la scis­sio­ne, del­lo scio­gli­men­to del­l’am­bi­gui­tà, con­tro il “rito del lavo­ro” ver­so la “comu­ni­ca­zio­ne tra per­so­ne”. E anche al Lam­bro qual­cu­no c’é riu­sci­to. E non é poco.

c) la “mer­ce sog­get­to”. Se già pas­san­do dal­la “poli­ti­ca” alla “cul­tu­ra” la con­trad­di­zio­ne s’am­mor­bi­di­va e si cela­va, qui giun­ta alle soglie del­l’io, la con­trad­di­zio­ne si nascon­de­va pro­prio. La pul­ce nel­l’o­rec­chio m’é venu­ta dal­la soli­ta bana­li­tà feno­me­ni­ca: la gen­te ave­va pre­so il pal­co e si alter­na­va a par­la­re al micro­fo­no.
“Par­lo io, par­lo io”, “No toc­ca a me” e via a strap­par­se­lo. Vab­bé, mi dice­vo, é il soli­to pro­ble­ma del­le code. Poi ognu­no si presentava:“Sono un com­pa­gno di … “, oppu­re “sono un ope­ra­io…”: che noia ‘sti bigliet­ti da visi­ta. Poi “com­pa­gni” di qui, “com­pa­gni” di là. Ma che biso­gno c’é… Infi­ne il flash, l’ul­ti­ma scon­cer­tan­te osser­va­zio­ne. C’e­ra il micro­fo­no, ben due enor­mi alto­par­lan­ti acce­si, da super­grup­po, la gen­te tut­ta sot­to il pal­co pra­ti­ca­men­te a por­ta­ta di voce natu­ra­le. Eppu­re chi par­la­va al micro­fo­no urla­va. La mia stu­pi­da doman­da inte­rio­re era dun­que que­sta: il micro­fo­no é un raf­fi­na­to stru­men­to tec­no­lo­gi­co atto ad ampli­fi­ca­re le onde sono­re: la sua spe­ci­fi­ci­tà sta insom­ma nel fat­to che per­met­te di par­la­re a voce nor­ma­le e di far­si inten­de­re ugual­men­te a gran­di distan­ze. “Ma allo­ra per­ché urla­no?” Urla­re al micro­fo­no é un po’ come met­ter­si l’ap­pa­rec­chio acu­sti­co quan­do si ha un otti­mo udi­to, o anche come guar­da­re un ele­fan­te con la len­te d’in­gran­di­men­to. Eppu­re no, non é cosi.
A livel­lo di espres­si­vi­tà cor­po­ra­le nel­l’ur­lo al micro­fo­no s’e­spri­me l’i­stin­to di poten­za, il pote­re sugli altri. Tut­ti pic­co­li Char­lot che fan­no Hitler. Allo­ra: ave­va­no pre­so il pal­co o era­no sta­ti pre­si dal pal­co? Cos’é il pal­co, se non qual­co­sa che ti met­te sul­la testa degli altri, e per­ché l’os­ses­sio­ne di pren­der­lo se non per met­ter­si sul­la testa degli altri?
Que­sto é il gio­co del pal­co. Che é anche il gio­co del Sog­get­to. II Sog­get­to é colui che ha pote­re, e il pote­re é un pal­co. Ma i sog­get­ti muta­no e cam­bia­no, si alter­na­no a urla­re al micro­fo­no, il pal­co resta per­ché il pote­re è lui. Il Sog­get­to é una “Cosa”: il pal­co, e i sog­get­ti che si defi­ni­sco­no tali solo in vir­tù del­la dimen­sio­ne del pal­co sono sog­get­ti fan­ta­sma­ti­ci, sono per­so­nag­gi in cer­ca d’au­to­re. E’ il pal­co il vero Sog­get­to, é l’Au­to­re, quel­lo che ti pre­sta voce e atteg­gia­men­to e ti tra­smet­te gestua­li­tà. Anche qui: il pal­co, nono­stan­te tut­to, uni­sce. E’ l’u­ni­tà ritua­le che per­met­te l’as­sem­blea per­ché par­la­re in croc­chio o a due, a tre, a quat­tro, pare non sia comu­ni­ca­zio­ne inter­per­so­na­le “vera­ce”: la comu­ni­ca­zio­ne é assem­blea e il pal­co ne é il Sog­get­to, e il sog­get­to sin­go­lo si pen­sa tale solo quan­do si toglie dal­la sua sog­get­ti­vi­tà rea­le di per­so­na e si mostra come “figu­ra del pal­co”, per­ché la comu­ni­ca­zio­ne non é da per­so­ne a per­so­ne ma da “sog­get­to poli­ti­co” “coa­gu­lo di pote­re” “io urlan­te al micro­fo­no”, a “mas­se” “clas­se” “com­pa­gni”, uni­tà indi­stin­ta di altri “sog­get­ti poli­ti­ci” che anch’es­sa non s’e­spri­me in sguar­di, sen­sa­zio­ni tat­ti­li, paro­le chia­re o sot­tin­te­se, ma in urla applau­si e fischi (o lat­ti­ne). Ciclo del pote­re: la pol­ve­re e l’al­ta­re, con la pol­ve­re che da un momen­to all’al­tro ti può anche fini­re negli occhi. Altri non urla­va­no: era­no lì a usa­re un micro­fo­no, una strut­tu­ra casua­le per­ché in quel momen­to era lì che si comu­ni­ca­va e comu­ni­ca­va­no maga­ri rac­con­tan­do di sé, com’e­ra­no arri­va­ti al par­co, cosa gli era suc­ces­so. Quel­li sono sce­si dal pal­co come ci sono sali­ti: han­no par­la­to lì come altro­ve. Anche qui, qual­cu­no c’é riu­sci­to. E non é poco. Che sia­no sem­pre più sog­get­ti a par­la­re e sem­pre meno “sog­get­ti poli­ti­ci”, sem­pre più “per­so­ne”, e sem­pre meno “com­pa­gni”.