PUZZ editoriale
Una comprensione esatta della problematica organizzativa, che l’autonomia operaia in generale e le strutture già formate che essa ha espresso si trovano ad affrontare, richiede la definizione la più esatta possibile dei processi di aggregazione che hanno determinato il formarsi della cosiddetta “area dell’autonomia”.
Le componenti che interagiscono in questo processo sono:
- il nascere, lo svilupparsi e l’interagire di organizzazioni reali in fabbrica e, in misura minore sul territorio.
Queste organizzazioni sono costituite da frange operaie più o meno consistenti che rompono in maniera netta con la tradizione riformista e burocratica per affermare l’esigenza di una direzione proletaria sulle lotte; – la crisi di una fascia “estremista” di quel ” personale politico” prodotto dai gruppi neoleninisti (Potere operaio, Gruppo Gramsci, elementi di sinistra di Lotta continua).
Questa crisi, motivata dall’impossibilità di costituire un partito coerentemente rivoluzionario, vale a dire capace di porre la propria candidatura alla direzione della classe sottraendola ai riformisti, comporta un’adesione di questi militanti a un’ipotesi organizzativa nuova e si definiscono area dell’autonomia; – l’azione di piccole burocrazie tradizionali di tipo stalino-maoista (Avanguardia comunista, W il comunismo, il Comitato comunista m‑l di unità e di lotta) che tagliate o tagliatesi fuori dal processo di aggregazione dei gruppi maggiori cercano di dialettizzarsi con i gruppi operai autonomi per trovare uno “spazio a sinistra” nella speranza abbastanza assurda di potersi proporre come partito guida. Non è d’uopo occuparsi infine degli ondeggianti “autonomisti”, di raggruppamenti come Re Nudo, il Fuori e le femministe, che godono dell’invidiabile prerogativa di poter fare ciò che desiderano senza recare alcun disturbo o giovamento di rilievo né alla borghesia né al proletariato, se non per rilevare che ciò contribuisce ad aumentare la confusione giocando sull’omonimia che può esserci tra autonomia di classe e autonomie locali o settoriali. Un quadro così complesso genera inevitabilmente una certa confusione, l’autonomia sembra un vaso adatto a qualsiasi condimento per ogni minestra: chi non è o non può definirsi “qualcos’altro” è “autonomo”.
In questa situazione giovano poco sia i tentativi di stabilire chi “ha capito prima” le cose, sia i richiami ai principi e soprattutto è inutile un dibattito “ideologico”. Si tratta di ricondursi ai problemi concreti che affronta il movimento del proletariato dal punto di vista teorico e pratico, tenendo presente che la pratica a cui si riferisce non è, secondo una diffusa concezione becera e maoista, quella dei “militanti” che su di essa si “confrontano”, ma semmai quella della classe nella misura in cui si muove in maniera antagonista al capitale. L’autonomia proletaria e i gruppi Il primo mito, accreditato da una visione poliziesca e giornalistica della questione diffusa abbondantemente da «Panorama», «l’Espresso», «Il Corriere della Sera» e le veline della Questura, è che i gruppi operai autonomi composti da ex-studenti e sottoproletari (sic!) siano il gruppo più cattivo che “predica il rifiuto del lavoro e la riappropriazione, cioè il furto”. È evidente che questa concezione travisa volutamente e completamente il rifiuto del frontismo con i riformisti, del contrattualismo e dell’opportunismo, rifiuto che caratterizza gli attuali embrioni di autonomia organizzata assieme alla difesa intransigente della lotta proletaria in tutte le sue forme legali e illegali. Secondo l’opinione dei questurini la discriminante fra “gruppettari” e “autonomi” è che i primi sono ragionevoli, i secondi violenti; i primi parolai i secondi duri. Gli autonomi sarebbero insomma il frutto più maturo o più acerbo, a seconda dei gusti o delle valutazione, della sinistra extra. Pertanto, l’autonomia sarebbe sorta dalla crisi dei gruppi come nuova forma organizzativa di un non meglio precisato movimento che comprenderebbe spontaneità operaia, studentesca, culturale, marginale, gruppi e tronconi di gruppi e chi più ne ha più ne metta. Una valutazione in termini reali porta invece a definire l’autonomia proletaria come la contraddizione irrinunciabile tra le classi, esistente come movimento aperto o sotterraneo capace di darsi proprie forme organizzate funzionali ai livelli di scontro che affronta. Certamente esiste quindi una problematica organizzativa, un’esigenza di centralizzazione in termini reali dato che la classe non può emanciparsi come somma di gruppi locali ma al contrario deve, per abolire lo sfruttamento, acquisire la capacità di espropriare i capitalisti e di riorganizzare la produzione su base mondiale. D’altra parte questa centralizzazione non può essere concepita come forzatura volontarista del movimento reale dentro un programma precostituito. Al contrario dev’essere la definizione continua di un programma teorico-pratico da parte dei proletari stessi. Chi si fa propugnatore di un’organizzazione concepita come passaggio dalla spontaneità alla direzione di una minoranza è per sua stessa logica all’interno del progetto socialdemocratico (non importa se apertamente riformista o “rivoluzionario” di stampo leninista) di fungere da cervello della classe operaia. In realtà il “salto” che propongono è quello dall’organizzazione operaia legata a precisi interessi di classe alla militanza di gruppo, all’illusione di “dirigere” un movimento che si annuncia anonimo, sprezzante di capi e di profeti, determinato solo dall’interesse operaio. Il gruppo non è insomma un’organizzazione “sbagliata” degli operai ma al contrario l’ultimo visibile prodotto della crisi della piccola borghesia in cerca di un ruolo da coprire.
Poco importa se rifluisce nel fronte con i riformisti come i gruppi maggiori o si “militarizza” per affrontare lo scontro con lo Stato in termini tratti dall’esperienza di rivoluzione nazional-popolare (rivoluzione cinese e cubana) o di “fronte popolare” (resistenza). In ogni caso è al di fuori della logica di classe, in ogni caso deve recuperare una tematica rifomista (fronte antifascista e lotta alla reazione assieme alla borghesia progressista).
Nulla insomma che riguardi il programma operaio di riappropriazione dei mezzi di produzione, di difesa dei propri interessi di classe contro tutte le altre classi, non importa se conservatrici o “progressiste”. Rivoluzione politica e rivoluzione sociale La differenza fondamentale tra comunismo come espresso dal programma proletario e il “comunismo” della piccola borghesia intellettuale sta nelle controparti e nelle finalità che queste due classi assumono. La piccola borghesia intellettuale in quanto classe esterna alla produzione, addetta all’amministrazione e alla circolazione del valore si pone il problema del potere come potere politico, cioè come potere sull’appropriazione delle merci prodotte.
Il piccolo borghese non combatte il modo di produzione capitalista, ma il fatto che la ricchezza venga distribuita in base al criterio (proprietà privata di tipo borghese) che lo esclude e lo emargina. (…) Il proletariato come classe dei produttori si oppone alla proprietà capitalista nella sua essenza di comando sulla produzione.
I proletari non lottano semplicemente contro questo o quel gestore della produzione: ma contro il meccanismo stesso della legge del valore. Il potere al quale i proletari mirano non è un astratto potere politico delegato a qualcuno, ma il potere sulla produzione che permette di rovesciarne la natura e le finalità. (…) Autonomia proletaria e gli obiettivi intermedi Un evidente tentativo di ridurre l’autonomia proletaria a supporto di strutture burocratiche è quello di definirla come un’insieme di obiettivi “qualificanti”: riappropriazione, salario garantito, rifiuto del lavoro. Vedere così la cosa significa confondere il movimento con delle forme che a volte assume, con delle tappe intermedie che si dà o che, peggio, si cerca di dargli. Al contrario, gli obiettivi che la classe di volta in volta persegue sono inevitabilmente determinati da contingenze particolari di luogo e di tempo, dalla forza operaia, dall’organizzazione capitalista, dal peso delle classi intermedie e persino da fattori casuali.
Come esempio di questa logica abbiamo visto in questi ultimi anni il tentativo di generalizzare a tutta la classe operaia italiana gli obiettivi e le forme di lotta di un suo settore importante ma specifico, cioè quelli portati avanti dagli operai della Fiat nella vertenza del ’68–69. Lotta continua, attraverso le assemblee operai-studenti, si fece carico della generalizzazione di questa esperienza, in pratica della sua mitizzazione.
La successiva storia dell’evoluzione di Lc da preteso “coordinamento delle avanguardie reali” a reggicoda del riformismo è esemplare per comprendere come questo stravolgimento del ruolo dell’organizzazione rivoluzionaria sia la preparazione se non la copertura a operazioni neo-burocratiche. Un rischio del genere oggi è corso dall’area dell’autonomia nella misura in cui viene proposta una centralizzazione sugli obiettivi. Attraverso questo discorso una serie di tronconi di gruppi si unifica e cerca di unificare anche organismi reali sull’idea che oggi il compito dell’Autonomia operaia organizzata sia quello di colpire il capitalismo visto in una crisi gravissima. Questa via conduce ad allontanarsi dagli interessi concreti della classe operaia, a centralizzarsi sui livelli “alti” dello scontro sottovalutando tutta una serie di tappe intermedie necessarie.
Peggio ancora si da spazio a due posizioni non proletarie: – il velleitarismo confusionario degli emarginati, la cui spontanea radicalità è assunta come referente politico, quando al massimo è un aspetto secondario dello scontro; – le mene dei piccoli gruppi m‑l che solo un inguaribile opportunismo può far considerare come forza di classe. (…) Compito di una minoranza rivoluzionaria non è quello di espropriare i proletari della comprensione della loro lotta attraverso il tentativo di funzionalizzarla a uno schema precostituito, ma al contrario di operare per uno sviluppo di questa comprensione. (…) Autonomia proletaria e problematica insurrezionale Il salto da lotta di fabbrica a lotta contro lo Stato sul piano generale e insurrezionale è uno dei passaggi obbligati del movimento che richiede la massima chiarezza di valutazione. Ancora una volta è necessario ricondursi alla natura dello scontro di classe e ai suoi specifici fini. Per il proletariato il problema militare è essenzialmente quello della difesa sul terreno dello scontro con l’apparato militare della fabbrica e dello Stato dei livelli di organizzazione raggiunta.
Nella misura in cui il comunismo è uno specifico rapporto di produzione, non è ne imponibile né difendibile dalla “volontà” di un corpo militare separato. Gli ultimi anni hanno visto il nascere di ipotesi organizzative basate sullo scontro “duro e diretto” con lo Stato. È necessario criticarle nella misura in cui i loro proponitori pretendono di essere fuori dalla logica riformista e neo-burocratica dei gruppi. L’argomento portato è che essi non pretendono di dirigere il movimento operaio, ma si limitano ad agire a un livello superiore. Le due ipotesi su cui si muovono sono: – quella classica che mira a un’organizzazione fortemente centralizzata il cui compito è di dare delle indicazioni al movimento durante lo scontro e il colpo finale allo Stato nella crisi rivoluzionaria.
Questa non è che la faccia militare della vecchia logica di partito, e non merita un approfondimento; – l’ipotesi gradualista della costruzione di “basi rosse” all’interno della società capitalistica come potere alternativo a quello dello Stato, capace di svilupparsi prefigurando la nuova società. Anche se questa concezione può sembrare più funzionale a un’organizzazione non burocratica della lotta, è opportuno chiarire che si tratta di un processo organizzativo prodotto in situazioni storiche completamente diverse da quelle dei paesi industriali e quindi elaborato da classi che nulla hanno a che vedere col proletariato. (…) Le situazioni che hanno prodotto questa ipotesi sono quelle di economia agricola al cui interno sopravvive una netta o almeno rilevante separazione tra Stato e società civile. (…) In effetti, il capitalismo sviluppandosi ha distrutto questo tipo di condizioni, unificando il proletariato al di là delle apparenti divisioni nazionali, razziali e culturali e spazzando via o subordinando a sé ogni forma produttiva precedente. Insomma, forme militari-organizzative ricalcate in una logica sociologica da quelle di questo tipo non possono che abortire in breve a nuove forme di riformismo, al di là delle velleità radicali. Nella realtà il proletariato tende a utilizzare la violenza nella misura in cui gli è utile a fini specifici, creando le forme organizzative più adatte. Il proletariato è perfettamente capace di farsi carico dell’organizzazione militare funzionale ai suoi interessi e di sedimentare al suo interno gli elementi in grado di portarla avanti, senza bisogno di alcun maestro esterno in quanto è utilizzata come mezzo specifico in condizioni storicamente determinate. (…) Da “Collegamenti” n. 6 – dicembre 1974 – Autonomia come area La proletarizzazione non è affatto la sinistrizzazione dei ceti medi e altoborghesi.
Questa sinistrizzazione, che è quanto “sostanzialmente” è apparso di nuovo negli ultimi dieci anni in occidente, più che preliminare o nella prospettiva della proletarizzazione è stata la fogna ideologica che l’ha esorcizzata.
L’economista Paolo Sylos Labini – ideologo del “compromesso storico” – nel Saggio sulle classi sociali (non a caso abbondantemente recensito dai giornali della sinistra borghese e della borghesia sinistrista) tira come conclusione trionfalistica e positiva «… la crescita politica e quantitativa delle classi medie» mentre Umberto Fusi sul quotidiano del Partito Sedicente Comunista trova in questo il «presupposto per uscire realmente a sinistra dalla crisi che attraversiamo».
Questi sicari sono soddisfatti. La proletarizzazione che è stato l’incubo sul terreno delle possibilità per i capi della sinistra storica e nuova ha trovato la soluzione nel gelatinoso ottundimento dell’ideologia, è abortita nel democraticismo autogestionario accelerato e difeso maliziosamente dalla crisi orizzontale e verticale dell’esistente capitalistico come sua ultima autodifesa.
La riproduzione del capitale avviene dunque per aborti, la sinistra trionfante è la fabbrica di ristrutturazione dei modi di produzione estesisi – dominio reale del capitale – su tutto l’esistente sociale, i sicari soddisfatti preparano già la loro “notte dei lunghi coltelli”: l’indefinibile Pajetta, ignorante e anticomunista, ne esprime i preparativi rilasciando una intervista a «Panorama»: il possibile serbatoio di voti extraparlamentari verso cui il Piccì ha sempre mostrato un burbero interesse, un affetto manesco, nel tentativo dei gruppi di sopravvivere a se stessi trasformandosi in minipartiti si sta trasformando in serbatoio di voti per sé: di conseguenza gli Hitler e i Goering della sinistra classica stanno affilando le lame. Per quanto li concerne, gli extraparlamentari di sinistra, pomposamente catalogatisi come “sinistra rivoluzionaria”, potevano – forse… – realizzare dei punti di proletarizzazione (certamente di proletarizzazione anche per i proletari stessi) da cui si sarebbero autoorganizzati – in ogni senso, non in un significato politico – gli stessi proletarizzati.
Ma i gruppi si sono sempre accanitamente opposti a ciò; si può comprendere: la funzione a cui li ha determinati il processo capitalistico era appunto di esorcizzare la proletarizzazione, e la sua radicalizzazione autonoma, mentre la gestivano ideologicamente e organizzativamente.
Le scorie autonomistiche che i gruppi si sono lasciati alle spalle, compresa la cosiddetta “area dell’autonomia”, ripercorrono d’altronde i passaggi di un gruppuscolarismo senza gruppo: l’autonomia separata dalla radicalizzazione, dalla critica radicale e dialettica di tutto l’esistente capitalistico – e va puntualizzato: anche e soprattutto dalla politica, anche e soprattutto della Sinistra – non ha senso.
L’autonomia non può essere solo un fatto di organizzazione, l’estremismo autonomistico è solo una farsa drammatica rappresentante la radicalizzazione, l’estremismo è solo lo spettacolo della radicalità. Tuttavia le contraddizioni e lo spettacolo dell’ ”area dell’autonomia” celano – anche a se stessa e soprattutto – l’unico fatto che si possa ritenere interessante scaturito dal recente passato: l’unico fatto politico che contenga inespresso il proprio superamento radicale, la propria possibile radicalizzazione.
Non vi è radicalizzazione se non vi è la presenza concreta della soggettività radicale, della critica radicale portata nella sua totalità contro la totalità alienata ed alienante, della negazione non separata dalla creatività, della creatività non separata dalla negazione. O in questa prospettiva.
Tutto il resto è spettacolo, rappresentato o unilateralmente recepito, nella passività della rappresentazione e nella passività della ricezione. Soprattutto ora che la crisi verticale dell’esistente capitalistico incontra la sua crisi radicale, e produce la propria radicalizzazione che non può non prodursi, e dialetticamente la radicalizzazione di ogni momento della vita quotidiana. La storia non offre due volte lo stesso letto, la seconda volta è una bara. Tanto per iniziare si tratta di non scambiarla, tuttavia, per un letto. È poco, ed è già qualcosa. Autonomia, radicalizzazione… La strategia è il processo organico, la simbiosi possibile e necessaria, fra teoria e critica radicale, fra critica radicale e pratica, e, dialetticamente, viceversa. Mentre la politica è la mediazione – la separazione perpetuata, il cane da guardia delle separazioni, e la garanzia della loro ineliminabilità – gestita da altri o autogestita da se stessi, di momenti sociali separati l’un l’altro, la strategia è la negazione della politica ed è la strategia della negazione, della dialettica negazione-creatività, della creatività della negazione.
Teoria, critica, pratica, vengono stravolte nella politica in ideologia, nel “pensiero” fissato, reificato, delle idee morte – proprio mentre tutta la società è già bloccata nel suo riprodursi in quanto ideologia e solo in quanto tale – cioè la società è la politica generalizzata – la critica politica della società capitalizzata non ha senso, non è una critica, è la “critica” costruttiva della società così come è, immutata e immutabile; la politica anche nelle sue estremizzazioni massime e terroristiche è la parte del puzzle sociale che va a comporre la finitezza e reificazione dell’ideologia generale, del puzzle sociale della politica generalizzata; anche se questa parte del puzzle si scompone violentemente, scende nella clandestinità, si dà a un terrorismo ragionato e politicamente gestito, non produce il proprio superamento e radicalizzazione – che è il superamento dell’ideologia – esso ha già lo spazio capitalistico in cui incastrarsi e farsi incastrare.
Questi imbecilli in armi, che definiscono ambiguità la critica radicale della politica, mentre offrono un fiore a Lenin, preparano i crisantemi per il proletariato, in suo nome; che essi siano in buona fede non cambia molto, mentre è contro il cambiamento, fedeli alle unilateralità del capitale che tutto produce tranne il cambiamento; il rifiuto del puzzle è l’accettazione interiorizzata del puzzle: non perché sia una nostra idea, ma perché così è la storia. Il dire “qui si fa politica”, il dire “qui non si fa politica”, sono entrambi due atteggiamenti politici: la negazione della politica non è il suo rifiuto (che è ancora un rifiuto politico, la politica e la non-politica essendo entrambi la politica dell’esistente capitalista) ma il suo superamento nella soggettività radicale e realmente sociale nella sua critica radicale all’esistente sociale reificato, soggettività che ha nella strategia il modo di portarsi e di rapportarsi, che è armata della critica radicale all’esistente sociale nella sua totalità per la totalità del suo stravolgimento; la teoria e la pratica non vengono prima o dopo la critica radicale, ma sono dialetticamente inseparabili e l’un l’altra producentisi. O così dovrebbe essere: la separazione di una dall’altra, la loro reciproca autonomizzazione crea il vuoto che nei fatti è riempito dalla ideologia e dalla politica, come una trappola per orsi riempita alla superficie.
Il voler fare politica, la politicizzazione di se stessi e della propria vita quotidiana, dei propri rapporti interpersonali, del proprio corpo, è la rappresentazione – lo spettacolo vissuto come alienazione in prima persona – della propria necessità vitale di negazione dell’esistente capitalista stravolta (recuperata) come momento di riproduzione di questo esistente; ciò che spinge alla vita – la vita stessa repressa ma non soppressa – trova come espressione solo quello che il capitale vuoi fargli esprimere: su questo punto milioni di giovani e non giovani sono scoppiati ovunque negli anni precedenti; dove e in chi è mancata la radicalizzazione – la critica radicale dell’ideologia (molti scambiano la radicalizzazione per estremizzazione di una specifica ideologia…) e immediatamente la critica radicale della totalità dell’esistente sociale capitalizzato che è questa ideologia autoriproducenresi – è subentrata la politica e la non politica – momenti strategici dell’ideologia autoriproducentesi – come palliativo, come impotenza narcisisticamente ripiegata su se stessa e soddisfatta della propria rappresentazione.
Una soddisfazione prodotta da nessun piacere! Che ponendosi prima di ogni piacere lo esorcizza! Se la politica è questo, gli “apolitici”, gli “impolitici”, i feticisti del fare, non sono diversamente: costoro credono che il riflusso sia stato prodotto da un eccesso di teoria e di critica e privilegiano immediatisticamente la pratica: ma questo spontaneismo del cazzo e tracotante ignora che a guardar bene negli anni passati poco o nulla vi è stato di teoria e di critica, solo la loro rappresentazione ideologica, il loro modello capitalista ridotto a consumo unilaterale, lo spettacolo della teoria e della critica smerciato a compensare l’assenza di teoria e di critica (questo per la “sinistra rivoluzionaria” e l’ultrasinistra; mentre il capitale è andato giù più tranquillo: egli – esso – sa che l’ideologia produce merce e null’altro).
La dialettica non è un’idea ma è la storia svelata nel suo procedere, chi non vive questo, chi solo lo pensa, chi lo ignora, non coglie di essere prodotto dalla storia né coglie dialetticamente la possibilità di fare la storia, cade nell’illusione di un “fare” che è in realtà un essere fatto: egli – esso – è un semplice e semplicistico oggetto.
Ciò che sfugge alla dialettica non sfugge al capitale, mentre la dialettica è proprio un non sfuggire alla determinazione del capitale rovesciandola come negazione del capitale stesso, e lo sa.
Che la storia di tutti coincida infine – ma a partire da ora, nella nostra miseria! – con la storia di ognuno è la sola utopia che ci interessa, l’utopia non intesa come una fantascienza del futuro ma una prospettiva che parte qui e ora fra noi, e fra noi e noi stessi. All’autonomizzarsi – il separarsi da tutti e da tutto colmando questa separazione con il vuoto dell’ideologia, operazione in cui il capitale è maestro – si tratta di contrapporre radicalmente l’autonomia: la soggettività dialettica, fra se stessa e la storia, fra se stessa e gli altri soggetti, fra se stessa e se stessa; autoorganizzata oltre la politica e oltre il rifiuto politico della politica nella comunità in atto di un gruppo, di un nucleo, di una comune, di un luogo stabile o provvisorio e autorganizzata come prefigurazione in atto, come inizio immediato della realizzazione della comunità futura, della comunità reale, comunista, non certo di quel “comunismo” gestito politicamente dai fascisti rossi da cui ci separa sempre più lo spazio di una pallottola proprio perché i partigiani della vita non si lasceranno pacificamente uccidere, ma non consentiranno alla morte di impadronirsi della loro “passione”; armata dialetticamente, delle armi che dialetticamente la passione la porterà ad armarsi, da fuoco o erotiche, per sconfiggere la noia e l’alienazione, la sopravvivenza bruta e la morte dei desideri; armata strategicamente e dialetticamente della critica radicale, senza separazioni; conscia di essere, e non di rappresentare, la negazione dialettica dell’esistente capitalista creativamente negato nella sua totalità e in ogni suo specifico momento, non privilegiando un momento sull’altro, scatenando la negazione della critica radicale su tutti i momenti con la stessa efficienza qualitativa con un’efficacia vissuta pienamente, non lasciandosi in nessun specifico (nelle fabbriche, nelle scuole, nel proprio corpo, nel proprio genere, maschile o femminile, nella famiglia, nel gruppo politico, o nell’antigruppo politico ecc.), in nessun ruolo né controruolo. Tratto da «Puzz» n. 17–18 – gennaio-marzo 1975. Il nodo della decomposizione Mentre la crisi è la merce più consumata, il prodotto più lavorato, la farsa sociale sanguinolenta stantuffa a vapore sui binari usuali, il treno capitalista fila attraverso le barbarie di questo medio evo, fra i sicuri binari del progresso democratico e del suo contrappunto reazionario, saldati dalla certezza – per entrambi – della conservazione. Ben poco o nulla, pochi o nessuno, preme per uscire dal carcere del sistema binario, mentre si può assistere al gran lavorare per il gran progresso della ferrovia.
La crisi non è la crisi del sistema binario: è la sua forza. Infatti la crisi è il “nemico di classe” che sta prendendo il posto svuotantesi dei ruoli storici borghesia-proletariato, ruoli in massima decomposizione e scomposizione.
I reazionari indeboliti e abbandonati dalla logica storica del dominio capitalistico – che assolutamente necessita di avere una stampella democratica e progressista ora – sono la rotaia debole del sistema binario e ciò che squilibra la riproduzione dell’esistente sociale capitalizzato: allora fra i cattivi la crisi assume il suo ruolo: i cattivi padroni e la cattiva crisi sono i nemici che minacciano il lavoro (l’attività produttiva di Valore e l’attività consumativa di Valore), dunque ecco ricomposto nel fittizio – per il momento – il defunto scontro di classi, il motore della storia – e la storia non è mai stata altro che la storia del Capitale. Dunque Carlo aveva ragione: la storia si ripete, solo che la seconda volta è una farsa. Sanguinosa, occorre aggiungere, mortale, squallidamente banalizzata. Ma, si aggiunga, la prima volta lo scontro ha una possibilità “comunista”, è negazionista, cioè senza regia; ma la seconda volta la regia c’è ed è tutta del capitale.
I comunisti possibili diventano i burattini legati a tutti i fili in cui si intreccia la logica capitalistica. Il riflusso, seguito ai pruriti contestativi e operai dell’esistente capitalistico che talvolta furono conati rivoluzionari negli anni Sessanta, negli anni Settanta diviene il luogo dei rimbambiti: l’inadeguatezza – il ritardo – delle ideologie strettamente politiche che soprattutto se monolitiche si scontrano buffamente con la vastità e la radicalità di quanto sta avvenendo, lo disconosce, non lo coglie neppure, e rimbambisce determinatamente nello sforzo di ridurre il tutto agli schemi caldi e usuali (il che significa il tempio del terzinternazionalismo con la bizzarria alternativa del quartinternazionalismo trotzkoforo come seconda rotaia del binario leninista). Sull’inizio degli anni Settanta la strana ultrasinistra, che aveva dissepolto il cadavere inutile di un periodo rivoluzionario che si concluse definitivamente ed eroicamente sconfitto nel ’39 in Spagna, aveva continuato a lanciare molotov, cortei sabatopomeriggio e quotidiani “autogestiti” contro il muro (l’alter ego binario) che si stava trasformando nelle sue sabbie mobili.
Non affonderà tanto presto.
L’istituzione ha necessità di questa istituzionale ultrasinistra divenuta ancor più istituzionale.
L’istituzione statalizzata usava un tempo – e fino al ’69 – le corde per impiccare, ora le lancia a questi feroci ragazzi, perché restino nelle sabbie mobili, ma che affiorino in parte, per recitare il ruolo degli imbecilli che lanciano qualcosa contro un muro in scomposizione. Tanto non fa più male a nessuno. Fa solo bene: qualsiasi cosa lancino. E difficile affrontare la questione cosiddetta extraparlamentare senza dover tener conto della psicopatologia della normalità, del rientro nella normalità e che vuoi essere normativo, che realizza l’autorepressione e che è repressivo in ogni suo estrinsecarsi, che non è semplicemente stalinismo o socialfascismo. Né stalinismo né socialfascismo furono e sono moti trascendenti la logica di produzione e di riproduzione dell’esistente capitalistico, ne vanno assolutamente colti autonomamente.
Così il capitale diviene un mito democraticistico, un nemico astratto, dove lo si banalizzi come vago termine rappresentante il vago cattivo (cattivo che, si badi bene, – tragico dell’ironia… – è la versione capitalizzata del male cristiano: l’alter ego del bene: cioè il bene al negativo…), reiterato nel linguaggio, qualunquistizzato nell’abitudine del parlare e del “pensiero” colonizzato, mentre il capitale è questa materialità micidiale, questo intreccio di repressione, profitto, alienazione, sopravvivenza, morte ambulante nei corpi, violenza repressiva, autorepressione, controllo sociale e autocontrollo, questa metodica e logicamente meccanica modellazione della normalità e la normalità ruolizzata che modella reiteratamente e oppressivamente; è questa struttura di base del lavoro – e non solo dei suoi momenti stipendiati e salariati – che domina e controlla l’insieme sociale. L’extraparlamentarismo, la nuova sinistra, l’ultrasinistrismo, il gauchisme, furono e “sono” la risposta consumista che la società dei consumi (del consumo tout court) diede e dà alle sue nuove contraddizioni non più mediabili e proprio per mediarle.
Questa conclusione risulta violentemente liquidatoria a compagni del tutto degni del nostro apprezzamento, ma occorre accettare il dramma non spettacolarizzato della discontinuità, in ogni suo aspetto conseguente: la liquidazione critica di quanto ci ha prodotto è il solo modo di situare storicamente ciò che nella storia si è prodotto.
Se “la nostra eversione scatta dalla discontinuità”, non saremo noi a lamentarci delle conseguenze.
E a questo punto non abbiamo difficoltà a chiarire il nostro fallimento. Che è ben più un successo di ogni altro “successo” – politico o meno. Si fallisce (o si ha “successo”) dove ancora abita e si è abitati dal passato. Si tratta di radicalizzare ulteriormente la discontinuità, ben più violentemente e provocatoriamente di quanto abbiamo fatto fino ad ora. Poesia Metropolitana-Gatti Selvaggi n. 4 Novembre-Dicembre 1975, Milano. Autonomia, radicalizzazione, aggregazione informale…
1) La dialettica del superamento, la lucida visione che spacca il vissuto (e il non-vissuto quotidiano), la critica violenta dell’esistente, nell’esistente, della propria esperienza, l’affermazione radicale del diverso come pratica e crescita o meglio come origine dell’uomo totale, della donna totale, della specie nella sua totalità; ciò che squarcia i tendini che legano al passato, che azzanna la lugubre continuità riproduttiva di ognuno, violentandone i nervi e scorticandone la gola, tutto questo e solo questo è inscrivibile in quel progetto originario
(poiché si pone come fine l’origine dell’essere) che è il comunismo.
2) Ciò che non si esprime nella pratica del rifiuto (della negazione), rimbalza impotente, nelle latrine gerarchizzate e ruolizzate della socialdemocrazia o in qualche infame sottoprodotto di marca nazista. Ciò che il diverso esprime è creatività poiché scolla violentemente la sua essenza dell’esistente traendo dal proprio farsi (e non dal riprodursi) le indicazioni della vera guerra.
Ciò che differenzia il diverso dal nuovo è il suo porsi come certezza in atto e non come novità di mercato.
L’estremismo, con tutte le fredde accozzaglie che lo accompagnano, coi gesti romantici dei martiri sciagurati, con i consunti movimenti che riproducono, sotto la vernice fresca del rivoluzionario, i vecchi passi che il capitale meglio e altrove sa fare e controllare, resta il punto fermo dell’esistente; (…)
L’estremismo è l’ultima corda con cui si allestiscono le forche del capitale, l’accettazione del riprodursi del capitale come sviluppo interiorizzato.
Inutili gli esempi a chi possiede lo sguardo disincantato e la miseria reale dell’ultrasinistra.
3) La pratica del rifiuto e lo sganciarsi violento dal programma capitalistico, la disintegrazione pratica dell’io, la tenaglia che spezza il cavo teso che congiunge il proprio progetto al progetto generale prefabbricato. L’estremista e il deviante cadono, sotto la mannaia della storia, nel cesto di vimini cui sono riferiti.
Si muore e si nasce nella stanza di sempre, ma la vita è altrove.
Il rompicapo semantico riduce estremismo e devianza al nodo scorsoio del riferimento grammaticale e atono di un complemento di specificazione: estremisti di chi, di che cosa?
Devianti di chi, di che cosa?
Rivoluzionari di chi, di che cosa?
L’interrogativo si esaurisce nella scaltra determinazione del soggetto nascosto: il capitale. (…)
Il significato del dominio reale come momento storico del capitale interiorizzato svela, del resto, gli ultimi appigli psicoanalitici.
I vecchi totem e i mistici tabù cui si riferisce Reich in Psicologia di massa del fascismo lasciano il posto, sotto lo sguardo consenziente della normalità imperante e del suo recupero spettacolare qual è la pazzia normalizzata, agli idoli recenti aleggianti tra le pieghe delle novità del mercato rivoluzionario, su cui si contrabbandano le nuove parole d’ordine da valorizzare.
4) Si tratta alla fine di non avere più idoli, né mercati o parole d’ordine a cui ubbidire. Si tratta alla fine di insorgere nella pratica del rifiuto, spezzando la normalità rassegnata e i suoi eccessi, estremi. Ciò che frantuma la continuità dell’esistente è l’essenza che stabilisce, insorgendo, la di/visione tra il normale e il diverso, ossia ciò che abolisce il fulcro latente cui le false insurrezioni fanno riferimento.
La vera eversione, la coscienza della diversità che pulsa, si riferisce solo a se stessa, come momento corporeo della rivoluzione in processo. Si tratta, alla fine, di avere se stessi a portata di mano come arma individuale innescata dalla pluralità della lotta.
Possedere se stessi vuol dire parimenti essere posseduti dai propri desideri che squarciano i veli del fittizio indicando la realtà propria e del mondo. (…) Ogni sortita che non muova dalla vita corrente intesa come rottura in atto della quotidiana pianificazione capitalistica, si pone sempre come fase riproduttiva (seppure estrema) dell’esistente.
Le armi, in questo caso, diventano le armature con cui si valorizza la propria essenza.
Al contrario, la lucida chiarezza di ciò che si sta vivendo, del come si sta vivendo, del perché non si può vivere, della vita corrente come momento di scontro, fanno dell’essere più nudo, l’unica vera potenza armata.
5) (…).
Da quando il dominio reale del capitale ha trasformato il pianeta sociale (la società spettacolare-mercantile) in un unico mercato, ognuno fa della propria esistenza il mercatino della propria assenza.
Ognuno, nelle attuali condizioni, è forza produttiva circolante e interscambiabile della propria miseria. I rapporti tra gli individui non sono altro che l’immagine mistificata (epifenomeni) dei rapporti di produzione. Il movimento di valorizzazione del capitale e dei suoi prodotti ideologici (produzione-scambio-circolazione di merci, al pari della produzione-scambio-circolazione di idee) si è fuso e depositato nell’essere, gestore autogestito di una dinamica che non gli appartiene.
Si guardi per un attimo l’interscambiabilità dei ruoli, le misere rappresentazioni della figlia-moglie-madre come momento manifesto di questa unità dialettica del capitale. Il capitale, anche in termini di integrazione positiva, precede sempre le mosse del suo popolo.
12) (…)
quando i morti seppelliscono i loro morti i vivi restano soli. Questa è, d’impatto, l’immagine che coglie il partigiano dell’essere alle prese con la storia.
Nel superamento qualitativo, nella crescita che accompagna la .corporeità in rivolta, le file si assottigliano, le presenze fisiche si sfoltiscono. Ne potrebbe essere diversamente in un movimento storico in cui la lotta e la creazione stessa esigono la negazione degli altri, il rigetto dell’opportunismo.
Il vomito che accompagna l’espulsione del capitale interiorizzato gioca puzzolente nella gola del partigiano, prima di essere sputato. È in questo senso che la gola si sente soffocare, che la parola sembra impossibile, che lo sguardo si fa allucinante.
Ma siamo nell’esistente e resistente rimane anche per noi il riferimento della lotta seppur in termini distruttivi e non riproduttivi.
Non basta sognare la liberazione o parlarne, bisogna praticarla, ed è in questa pratica che la screpolatura e gli incendi innescano la gioia, mentre le delusioni attizzano il peso enorme della schiavitù.
Più il corpo procede disincantato verso la propria conquista, più il peso delle catene si fa intollerabile, più la specie procede verso la propria unione, verso la propria origine, più la separazione e la solitudine piombano come corvi sui corpi in rivolta.
È lo scotto che da sempre l’oppresso paga all’oppressore, ma per l’ultima volta! La falsa socialità, del resto, nutre gli uomini della falsa illusione di essere insieme, di vivere insieme mentre altro non sono che elementi transistorizzati di un computer sociale la cui scheda perforata porta il marchio del capitale.
Dividersi dagli assenti non significa propriamente solitudine ma autonomia. Chi non coglie la radicalità del tempo che stiamo per abbattere, è soggetto agli abbagli dell’isolamento, mentre una minima inversione di pensiero lo renderebbe conscio della propria dirompente autonomia.
13) Tutto ciò che non possiede e non tende alla totalità trasmuta impeccabilmente nelle fonderie dell’ideologia, mentre tutto ciò che si sfuoca nell’ideologia si erge contro l’essere, assumendo il compito (la cinghia di trasmissione) con cui il capitale recupera ogni movimento. Ciò che esiste sotto il nome di autonomia non troverà certo il suo significato nei collettivi organizzati (…). L’autonomia non è un movimento ma l’essere in movimento, il diverso che diventa padrone della propria dinamica e della dinamica sociale. L’autonomia è il riscoprirsi come totalità agente, come unità integrata del corpo con il mondo, come coscienza reale dei bisogni e desideri che sottendono il corpo nella sua individualità e la specie nella sua pluralità. Si tratta, alla fine di essere autonomi dalla, e nella, autonomia stessa.
«Puzz» – La fabbrica della repressione – numero unico-settembre 1975 Autonomia operaia e autonomia dei proletari
Sono circa due anni che i giornali del Kapitale italiano (tutte le sue tendenze, dal «Tempo» all’«Unità») sbraitano contro un nuovo “gruppo”: Autonomia Operaia, autore a loro dire di tutte le “provocazioni” e delle “azioni teppistiche” compiute negli ultimi tempi. In questi giorni poi la campagna giornalistica (soprattutto da parte della sinistra capitalistica) contro i “provocatori” si è accentuata poiché in fase di ristrutturazione il capitale italiano non può sopportare l’attività “sovversiva” dei compagni che non intendono più pagare sulla propria pelle il prezzo delle varie “crisi” capitalistiche o meglio il prezzo dell’esistenza capitalistica stessa.
Compagni che sono usciti dalla logica “politica” dei partiti o gruppetti stalino-leninisti e che superando la falsa sfera della “politica”, alienante e separata, portano avanti un discorso basato sull’esigenza di negare la sopravvivenza capitalistica, la dittatura spettacolar-mercantile che il dominio reale del capitale ha imposto. Storicamente la classe operaia nei momenti di esplosione rivoluzionaria ha sempre mandato affanculo i preti radical-borghesi socialisti, sedicenti comunisti, che erigendosi a suoi rappresentanti si erano innalzati i propri templi imponendo ai “protetti” il pellegrinaggio dopolavoristico.
Fin dalle sue origini la classe operaia ha trovato momenti di organizzazione e di collegamento al di là degli schemi delle varie organizzazioni radical-borghesi, non ha certo aspettato il messia rivoluzionario per reagire al capitalismo. Ha saputo trovare propri mezzi e modi: dagli scioperi selvaggi agli atti di sabotaggio. Cominciando dal 1811 in Inghilterra con il movimento luddista, prima e grossa espressione dell’autonomia operaia, passando per il giugno 1848 con le giornate del proletariato rivoluzionario parigino, continuando con La Comune e con i movimenti del Novecento, con la rivoluzione sovietica (fino a quando rimane tale), fino al ’68.
In queste esperienze il proletariato ha però superato l’ambito riduttivo delle rivendicazioni economico-politiche; o meglio nel momento in cui il capitale superando la fase di dominio formale ha instaurato il suo dominio reale, il proletariato, e con esso i proletarizzati, ha cominciato un discorso totale contro il suo essere proletario (o proletarizzato), contro il lavoro, contro la sopravvivenza capitalistica rifiutando la sfera separata della “politica”. Concludendo, si può parlare dell’autonomia degli operai che tendono a negare la loro sopravvivenza in quanto tali e ad affermare la loro vita in quanto comunisti, dell’autonomia dei proletarizzati che negano la società spettacolar-mercantile ponendosi contro di essa (al di fuori non ci crede nessuno).
Cosa diversa è invece l’organizzazione “Autonomia Operaia”, rimasta interna alla logica politica, all’ideologia marx-leninista, all’ipotesi del “partito rivoluzionario”, negando il contrasto tra i due concetti: di partito, che implica una ideologia, una struttura verticale, dei quadri dirigenti, dei militari, dei simpatizzanti, degli iscritti, dei militarizzati e dei non…; e di rivoluzionario, che nega tutto ciò e afferma se stesso, il proprio corpo, le proprie esigenze (comuniste). Questi compagni (Aut. Op.) partono da una realtà rivoluzionaria: l’esigenza di sviluppo autonomo di bisogni proletari, per riproporre tuttavia la “militanza rivoluzionaria” (professionale) e il partito, con l’unico risultato di incanalare queste esigenze rivoluzionarie negli schemi capitalistici della “politica” e dell’ ”ideologia”.
Pur muovendosi da premesse antirevisioniste (il rifiuto della figura coscienziale del partito e l’innesco del movimento autonomo) l’autonomia operaia organizzata fa rientrare il partito dalla finestra, burocratizzando lo stesso concetto di “autonomia”.
Da Neg/azione 1976 Provocazione
L’aggravarsi della situazione economica planetaria, disoccupazione, caro vita, svalutazione della moneta, incertezza negli investimenti, (difficoltà di un pieno controllo politico, che pure rimane tendenziale) come esaurirsi dell’età dell’Economia Pura all’interno della preistoria è oggi il rinfocolarsi visibile dell’estremismo covante sotto braci non ancora incenerite.
L’estremismo torna ad essere di massa in Italia dopo aver serrato suicidamente le fila in avanguardia distaccata.
Oggi, al centro del suo occhio i Commandos dell’autonomia; in periferia i resti delle BR e NAP; nel tessuto lo spontaneismo ma anche la spontaneità che lo eccede. È il rinascere del ’68–69 di cui già da tempo cianciano gli psicosociólogi più attivi del modernismo capitalista, i Galli, gli Alberoni e i mass-media che li sostengono: Repubblica, Panorama, La Stampa, il Corriere, ecc…
La contestazione anticipata, computerizzata e rinchiusa in provetta, agitata al momento giusto, deposita il nuovo assetto societario capitalistico, mentre il capitale è alle corde per impossibilità planetaria di espansione dell’Economia Pura.
Capitale del ristagno, della polluzione, della crisi, necessariamente alla ricerca di nuovi valori economici con la mercificazione di ciò che eccede la materia prima (Transeconomia, fase di economicizzazione di ogni attività ed espressione umana ridotta a valore consumabile). A questo proposito sorge opponunatamente quell’Area composita di raduno che si definisce Autonomia Operaia, area di parcheggio nel politico per gli scontenti dei gruppi:
1) ex militanti di P.O., L.C., Gruppo Gramsci; 2) frange giovanili, ex freaks passati ad una mistica più materialistica, gente che non ha fatto il ’68–69.
L’uso dello spontaneismo è chiaro, il tentativo di gestione politica attecchito sulla materia degli iniziali espropri, sabotaggi, assalti ai grandi magazzini.
Si noti l’uso di Autonomia Operaia da parte del radicalismo borghese (es. l’apologetica di «Tempi Moderni» – settembre ’75 “Autocensimento dei gruppi di base”). Dilatazione della politicizzazione di questi momenti.
Soltanto l’illusione dell’ottica alternativa tardo-proletaria, Autonomia Operaia si pone come momento di gestione complessiva della rabbia sociale con una linea populista-terrorista la cui operazione si dispiega a livello storico nei due poli della rivoluzione alienata e della controrivoluzione che la incapsula.
Tale organizzazione è semplicemente il modo incanalatesi dell’autonomizzazione dello spontaneismo, che contiene oggi molto più che nel passato, i meccanismi della logica del dominio e dell’autoregolamentazione capitalistica. La caratteristica principale dell’organizzazione dell’Autonomia rispetto alle organizzazioni della destra stalino-leninista è l’abbinamento dell’ideologia collettivistica e di quella individualistica, la sua decentralizzazione. L’ammodernamento del capitale è nell’area dell’Autonomia il ritmo di scambio-ricambio ideologico, più rapido, mobile; la liberizzazione di ogni consumo di merce.
Tale metodologia di controllo viene ad esplicarsi negli ambiti più inquieti, come reintroduzione del politico, del bisogno di soggettività incapace di esprimersi nella critica radicale.
La produzione in proprio di ideologia e la partecipatività al gruppo della possibilità qualitativa. Area dell’Autonomia:
a) Struttura neoleninista di fondo. b) Ampio spazio per l’ideologia personale in cui il singolo recupera da ambiti disparati, forme privatizzate e parcellari di alternativa, di ultramodernismo.
Il recupero non è gestito in un’unica direzione (la linea) dall’apparato gerarchico, ma dai singoli che rovesciano nel recipiente comune l’apporto dell’ideologia particolare, contenuta d’altra parte (e qui sta l’impossibilità della critica) nell’ideologia neoleninista di base che la sostiene. La specialità dell’Organizzazione dell’Autonomia Operaia sta nello sceneggiare i momenti che sfuggono alle organizzazioni ritardatarie della destra stalino-leninista italiana, raffinando il gioco abbozzato rozzamente da LC nel ’69–70: la politicizzazione di questi momenti e la loro addomesticazione. Editoriale Puzz