Da ”pre-print” n.2 di Oreste Scalzone
L’insieme delle considerazioni finora così sommariamente esposte fa indirettamente rilevare la solitudine e l’eccezionalità del caso italiano. Ricchezza e miseria di questo caso risiedono nel fatto (per molti versi formidabile, per altri perverso) che in questo paese si produce e si riproduce un intreccio o quanto meno una compresenza fra una sovversione sociale mossa da una struttura desiderante, complessa, ricca del movimento e forme di iniziativa terroristica, sia di terrorismo diffuso che di terrorismo predeterminato, che tendono a prodursi come guerriglia. Ecco, l’Italia è in un certo senso l’unico caso sullo scenario mondiale dove fa la sua comparsa il divenire di una guerriglia senza programma, senza obiettivi apparenti cioè con delle ideologie anche molto diverse, molto agguerrite, molto sofisticate.
Ora, la domanda che viene naturale è proprio se questo sia un elemento di forza o un elemento di debolezza.
Noi crediamo che vi siano entrambi gli aspetti, ma che soprattutto nell’ultima fase questo secondo carattere negativo di limite, di freno di frustrazione dell’efficacia trasformativa di questa prassi si vada evidenziando. Un fatto da rilevare, per esempio, è senz’altro la scarsa sottolineatura della centralità delle armi della critica e del permanere del problema di una continua ridefinizione delle armi della critica lungo tutto l’arco del percorso dell’iniziativa rivoluzionaria, cioè, non è stato spiegato a sufficienza che dentro tutto il lungo percorso della critica delle armi permane, anzi diviene centrale il problema di armare criticamente la critica delle armi.
Invece di fatto è stata irresponsabilmente alimentata da parte delle organizzazioni soggettive una forma di manifestazione della nuova spontaneità, che alcune volte si è presentata nella sua brutalità sociale, altre volte si è vantata di ideologia che è proprio una pura e semplice ideologia della potenza dell’efficacia dell’azione, un disprezzo per l’universo delle parole, concepito come fatto di debolezza, di verbalismo. Il fatto è che lo spirito di combattimento, nel suo aspetto di ideologia che si fa materiale, ha ben presto cominciato a coniugarsi con quello che potremmo chiamare l’estremismo, il sovversivismo sociale, o meglio, con il sedimento e il costituirsi ideologico appunto di un’ideologia, di un universo di comportamenti estremisti come cristallizzazione della nuova spontaneità, cioè, una disponibilità da parte di strati non esigui di giovani proletari ad armare la propria volontà di soddisfare i bisogni. Per gli esclusi dal potere si è trattato come di una vertigine, di un corto circuito immediatista che ha come dato potenza alla volontà di riappropriazione di ricchezza e di condizioni diverse di vita. Anche qui qual è stato l’elemento di miseria di questo processo?
Il fatto che questo immediatismo si è ben presto avvolto su se stesso ed è diventato filosofia della miseria, ideologia della miseria perché ha cortocircuitato questa volontà di potenza e di riappropriazione sociale e di liberazione identificandola immediatamente attorno ad alcuni poveri feticci come quello, in fondo, della riappropriazione delle merci. Tralasciamo qui le ricostruzioni già fatte in altra sede, sia sull’humus ideologico, sia sull’habitat sociale in cui questa dinamica si è sviluppata, quello che ci interessa qui rilevare è la contraddizione fra il nucleo vivente della rottura teorico-pratica rappresentata dal passaggio alla lotta armata e l’elemento miserabile di questo tipo di rottura.
La ricchezza consiste nella individuazione lucida di una necessità di rompere il monopolio statale della violenza o più precisamente di rompere il monopolio statale della forma militare della violenza come unica possibilità di approssimare un processo di trasformazione sociale in cui i risultati emancipativi non vengano continuamente frenati e fermati al di qua di un livello di compatibilità con l’autodinamica del sistema. L’elemento di miseria (cioè il fatto che questa rottura non ha aperto una stagione felice, non ha risposto a una domanda di potere proposta dall’ondata di lotte emancipative dispiegatasi lungo tutti gli anni ’60) è nella progressiva autonomizzazione della storia della lotta armata, della guerriglia, delle soggettività del processo di emancipazione sociale. La pratica combattente ha finito per riprodurre in forma nuova e diversa tutti i limiti che in questi anni abbiamo rilevato dentro l’azione politica e sociale di parte comunista, cioè la miseria di una sostanziale e progressiva incapacità di produrre significativi elementi di trasformazione sociale, in altri termini, ciò che avrebbe dovuto essere un fattore di ricchezza dei soggetti ha spesso dato vita alla miseria reale di una povera ingegneria organizzativa, si è determinato un sistema chiuso, autoalimentantesi, scarsamente capace proprio per questa logica dell’autosufficienza, di interferire, di interagire continuamente con i passaggi del movimento. L’opinione di molti compagni insospettabili di pacifismo è che soprattutto negli ultimi mesi si sia giunti ad un punto critico perché gli elementi generativi presenti in questo rovescio della medaglia si sono dispiegati oltre il limite di tollerabilità al di là del quale la buona salute del movimento trasformativo si presenta come irrimediabilmente compromessa. Questo non perché l’insistere il moltiplicarsi, l’endemicizzarsi del fenomeno del terrorismo verticale e/o diffuso provochi un tale compattamento istituzionale da mettere in discussione e a fronte dell’iniziativa repressiva dello Stato e a fronte dell’iniziativa normalizzatrice del movimento operaio istituzionale le libertà politiche del movimento, la sua agibilità, la sua capacità di muoversi.
Anzi crediamo che nel groviglio di conseguenze certo contraddittorie in complesso, il terrorismo come ogni altra variabile politica determina i risultati di destabilizzazione, di disaggregazione delle varie componenti, frazioni, corporazioni, corpi separati, individualità.
Semmai si può dire che il terrorismo certo ha, così come la lotta sul salario e altre, un effetto di variabile politica che favorisce l’autodinamica capitalistica e che diventa in un certo senso una forza produttiva, basti pensare al contributo che la sua forma forse più legata alla lotta di classe e ai bisogni di massa, quella della gambizzazione dei capi, ha fornito al processo di trasferimento del comando gerarchico sulla produzione sempre più da elementi di autorità coercitiva esterna come la rete dei capi a elementi introiettati dentro il processo produttivo o alle macchine a controllo numerico all’informatica ecc. Quello che temiamo non è una conseguenza come quella che viene continuamente riproposta del marcito pastone delle ideologie della sinistra, cioè la reazione di destra, la creazione di un blocco sociale di destra, la creazione di un blocco politico istituzionale, di destra, l’obiettivo aiuto a tendenze autoritarie o addirittura golpiste, l’erosione del garantismo ecc., non è questo che attenta alla buona salute del movimento e non è questo perché in primo luogo noi restiamo fermamente convinti che un modello repressivo non è applicabile a questa situazione sociale, a questa sezione italiana del mercato mondiale e della composizione di classe; che appunto un paese come questo non è più governabile con i colonnelli, che questi siano solo fantasmi del passato del movimento operaio proprio perché nessuna forma di bonapartismo è applicabile a un livello così cresciuto così socializzato di fabbrica sociale e quindi di forza lavoro sociale. In secondo luogo noi crediamo che anche eccessivi strappi, eccessivi buchi insomma dentro le maglie del garantismo istituzionale non sia consentito al potere centrale realizzarli per alcune considerazioni sugli equilibri delle forze; non c’è una libertà, una autonomia dello Stato tale da consentirgli una indefinita libertà della violenza proprio perché qui lo Stato si pone come governo del conflitto e come sua regolamentazione. L’esempio vivente di questo tipo di contraddizione è la componente rappresentata dal Partito Comunista che continuamente rappresenta l’ala più radicale e forcaiola a parole: veramente le colonne dell’«Unità» puzzano di questura lontano un miglio, con questo trasudare logica questurina ad ogni passo.
Dobbiamo riconoscere che oggettivamente per la sua caratteristica di parziale specchio anche se deformante del sociale, per la sua ramificazione interna al territorio e alla composizione di classe, il Partito Comunista si rende conto che sostanzialmente ha ragione Curcio che ogni stretta repressiva favorisce il reclutamento delle organizzazioni guerrigliere, che ogni limitazione delle agibilità politiche sul filo, sul crinale tra politica e lotta armata favorisce l’impiantarsi di una variabile esclusivamente militare e di scivolamento di interi strati difficilmente gestibile per il movimento operaio storico.
Però c’è guerra e guerra cioè ci sono vari livelli di scatenamento di questa guerra, questo vale perfino nelle guerre dichiarate fra Stati. Naturalmente non può essere percorsa da una sola parte tutta l’escalation di una radicalizzazione senza dare per scontato la simmetrica adozione dello stesso tipo di radicalità da parte dell’avversario; quindi è inutile farneticare, cianciare di squadroni della morte, di controterrorismo; è chiaro che il potere sa che un’iniziativa del genere produrrebbe un salto di scala del terrorismo, un suo inasprimento, un suo diventare più cruento. Alcuni fanno un gran parlare del controterrorismo dello Stato francese contro l’OAS ma, appunto, lì la cosa si calibrava su un terreno che andava da un tentativo di omicidio politico contro i vertici dello Stato all’adozione di forme di terrorismo dinamitardo contro il tessuto sociale. Ma questo tipo di dispiegamento massimo di attività terroristica non è stato nemmeno approssimato, nemmeno sfiorato dalle formazioni terroristico-guerrigliere esistenti in Italia e lo Stato sa bene che ogni suo passo in direzione di una revoca del garantismo dalla generalizzazione di forme di tortura alla generalizzazione di una legge di guerra di fatto che giustizi sul posto i sovversivi armati, indubbiamente provocherebbe come reazione il passaggio a forme più radicali, più cruente di lotta e quindi c’è un problema per tutti di: calibratura, di controllo sui passaggi, di controllo sul tipo di spirale che si produce … In questo senso il Partito Comunista è una contraddizione vivente insomma tra le parole e le cose. Quando si parla di attacco alla buona salute del movimento, si parla proprio di una caratteristica di erosione interna della sua capacità e della sua potenza trasformativa, della sua capacità di produrre l’innovazione sociale, si parla cioè di una catena di «deviazioni». Cerchiamo di radiografarle: abbiamo visto manifestarsi una ritualità istituzionale, abbiamo visto prodursi una logica auto-conservativa, da corporazione di mestieri, abbiamo visto formarsi un’ideologia appunto di ceto.
La prassi combattente si è andata separando dai suoi fini di trasformazione sociale, si è avuta una sistematica sovradeterminazione operativa e un sottodimensionamento degli effetti di moltiplicazione dell’azione guerrigliera che solo il livello politico può realizzare. La prassi militare è stata via via privata di moltiplicatori politico-sociali, ha finito per manifestarsi come processo sporadico e sporadicità ha significato spesso incomprensibilità del codice ragionativo della proposta politica degli elementi progettuali. Il carattere progressivamente radicalizzato o cruento delle azioni è stato visto come una dinamica di crescita di tipo militare.
Questo è un errore di fondo. Non è vero che l’omicidio politico è militarmente ad un grado di iniziativa più avanzata rispetto ad altre forme di azione, è semplicemente una forma di terrorismo politico più radicale, tutto qui.
Non è un caso che la pratica delle organizzazioni combattenti ha completamente trascurato, tralasciato, non praticato, un terreno infinito di occasioni che i centri di polemologia delle società capitalistiche fanno tutt’altro che trascurare, come i meccanismi della simulazione, della guerra psicologica. Naturalmente questo vale per tutti, cioè il giochino di contrapporre terrorismo verticale e terrorismo diffuso come forma di iniziativa di partito è un trucco assolutamente sciocco e vuoto di contenuto.
Non vi è nessun elemento intelligente di critica della autonomizzazione dal sociale e dal politico che si manifesta al suo punto massimo in azioni come quella su Rossa o quella su Alessandrini, non c’è nessun elemento effettivo di critica pratica, intelligente nella proposta delle varie notti dei fuochi, che settori del movimento combattente o i partiti combattenti diversi o di frazioni combattenti diverse promuovono cioè, in realtà si tratta di una logica che si differenzia ma che si dibatte dentro gli stessi elementi di miseria.
Questi elementi sono il sovrapporre continuamente una comunità illusoria a un’attenzione verso la produzione di una comunità antagonistica reale, e la comunità illusoria può essere quella della direzione strategica, può essere quella della microfrazione x o y, può essere quella di un ambito sociale più allargato che però nella misura in cui non critica e si arresta a contemplare il proprio ombelico, riproduce solo l’insieme delle proprie dinamiche, dei propri comportamenti. Comunità illusorie e altrettanto illusorie dei micropartitini o altrettanto illusorie delle microfrazioni guerrigliere, possono essere gli organismi di base, gli organismi territoriali, i collettivi più o meno formali o informali che manifestano la loro iniziativa nel movimento. In realtà il vizio di fondo è l’autoisolamento della funzione militare, è il suo carattere unilaterale, unidimensionale, là dove al contrario ricchezza e potenza sovversiva dovrebbero risiedere nell’interazione, nell’interdipendenza tra i terreni d’azione, le logiche, i linguaggi diversi e complementari della sovversione per la trasformazione sociale. Nell’ultima fase si sono andati accentuando questi caratteri negativi del processo. Carattere misero e carattere illusorio delle comunità agenti si sono ancora di più liberati. Le azioni più recenti di cui si è discusso appaiono come guidate dal carattere cieco di un riflesso condizionato.
Facciamo ancora delle considerazioni descrittive di insieme: col termine generico di lotta armata ci si riferisce a fenomeni anche molto diversi che possiamo accorpare in due tronconi fondamentali all’interno dei quali poi ve ne sono molte altre.
In linea di massima possiamo dire che il primo, il terrorismo verticale, si è andato separando dalla politica, ha perso soprattutto il senso della centralità dell’interazione fra il politico e il militare, ha reagito al suo essere, malgrado tutto, tattica di partito senza partito, rinnovando la sua autoproposizione come forma strategica onnicomprensiva di governo del lavoro rivoluzionario. Il secondo si è andato talmente immergendo nel ventre molle del sociale e dell’immediato da perdere perciò spesso socialità, cioè capacità di generalizzazione sociale, non di unificazione forzosa ma di generalizzazione, cioè è diventato espressione non solo delle differenze ma via via dei particolarismi sempre più indecifrabili, una specie di manifestarsi nelle viscere profonde del movimento di un inconscio mare irrequieto, di un sotterraneo ribollire del movimento. Una rapida cristallizzazione ideologica e sociologica si è determinata ugualmente, cioè la comunità illusoria del piccolo gruppo, anche se c’è una apparente elasticità che deriva da questa immagine di fortissima entropia delle sue forme, permane anche nelle affermazioni di critica del formalismo organizzativo, di critica dei micropartiti, di critica delle frazioni guerrigliere costituite come corpo separato.
Il carattere di comunità illusoria c’è anche nel collettivo di base, esclusivamente di base, che traccia attorno a sé un cerchio di gesso e pensa di aver bevuto fino in fondo il calice della critica della politica e della critica delle separatezze. Ora, anziché integrarsi, completarsi, scoprire una forma elementare di interazione che è la complementarità, riaffermare un rapporto simbiotico con la interezza del movimento, per esempio con le sue dinamiche rivendicative continuamente rinnovantesi e che poi finiscono per ripiegarsi su se stesse, insomma invece di avere continuamente nella testa il proprio limite e di scoprire continuamente il proprio limite, queste due forme di iniziativa terroristica, di iniziativa combattente, di comportamento violento, di politica armata ecc., hanno inasprito i loro caratteri separati. Se è vero che a questo punto il terrorismo resta una variabile politica assolutamente rilevante e atipica del caso italiano è anche vero che questa variabile è in sé, così com’è, o come può essere pensata sulla base di piccole correzioni e piccole modificazioni dall’interno, un ferro vecchio rispetto ad un nuovo piano politico d’azione rivoluzionaria. Ma osserviamo ciò che è andato avvenendo; esaminiamo alcuni casi: da una parte ci sono le forme di azione radicale immediatista che si è trasferita armi e bagagli dal terreno della riappropriazione con tentativi di decreto. Di questa è stata consumata fino in fondo una critica perché è stato visto che in realtà le proporzioni di una riappropriazione sociale anche individuale, attraverso l’uso dei meccanismi e delle vene della economia sommersa, è certamente molto peggiore di quella consentita da sporadiche forme di decreto e soprattutto da sporadiche forme di normativa impositiva; ecco si è passati, armi e bagagli, al terreno del giustiziamento. Il caso estremo, su questo terrena, è l’uso di un omicidio politico quasi per caso, come quello evidenziato insomma dai fenomeni come la liquidazione del giovane Cecchetti a Roma.
Al capo opposto ci sono tre forme, fondamentalmente diverse: la prima, a nostro avviso la più banale, è il caso della proposta quantitativa delle notti dei fuochi come proposta di socializzazione; in realtà crediamo che sia il fenomeno meno interessante, un fenomeno di appiattimento e di territorializzazione formale, apparente, in termini spettacolari, del processo. E poi ci sono invece i due episodi più inquietanti, condotti e argomentati con logica di decisione centrale, preordinata; si tratta dell’episodio Rossa e dell’episodio Alessandrini. Ecco, in questo mare magnum di episodi – che sono ormai al tempo stesso endemici, frequentissimi, continui, ma sporadici nella loro significatività e che sono quindi leggibili o coll’occhio del sociologo che è attento ai significati del dato quantitativo in sé, o però equivocabili anche sulla base delle più folli iperipotesi – finiscono per annegare anche i pochi episodi, i pochi processi, le poche linee che, al di là di un giudizio che è complessivo sulla loro opportunità, però appaiono francamente motivati da un tipo di linea che si ispira, che argomenta in qualche modo una considerazione delle conseguenze delle iniziative.
Per esempio l’azione sulla gerarchia carceraria è stata usata politicamente in modo non diverso dall’attacco ai capi e senz’altro ha rappresentato una forma reale di sabotaggio, di lotta di classe armata cioè sostanzialmente non di lotta rivoluzionaria ma di lotta di classe armata e quindi di conquista di alcuni spazi, di alcune garanzie, di alcune possibilità di movimento e di alcuni elementi che possiamo anche chiamare contropotere; oppure l’azione su diversi nodi proprietari e istituzionali che organizzano insomma elementi del blocco sociale moderato, per esempio i nodi che regolano la questione della casa, oppure l’azione sul terreno della critica pratica della scienza, della medicina, della produzione di morte, intese proprio come riappropriazione anche di alcuni strumenti di emancipazione proletaria e attacco al carattere opprimente di un macrosapere capitalistico. Ecco, però, anche questi pochi segnali positivi, nel loro complesso si collocano al di qua, potremmo dire, di un terreno di trasformazione e, diciamo così, al meglio su un terreno che è quello sabotaggio-lotta di classe e non lotta rivoluzionaria. Ma veniamo ai due casi più drammatici che hanno scosso anche drammaticamente la coscienza del movimento: i casi Rossa e Alessandrini. All’una e all’altra vicenda vale la pena probabilmente di dedicare alcune osservazioni. Nel primo caso quello che colpisce è l’assenza quasi totale di considerazioni di ordine per così dire politico-sociali che è cosa diversa da un semplice problema di consenso; non è questo che conta perché è chiaro che rispetto al consenso si potrebbe rimettere mano a tutto l’armamentario di discorsi che denuncino l’immonda mistificazione degli atteggiamenti legalitari di chi usa la tematica dell’umanità semplicemente contro le forme di violenza sovversiva e illegale e come invece elemento di legittimazione della violenza nascosta, permanente, quella insita nel processo produttivo, della violenza legale, quella agita dallo Stato democratico, della violenza comunque istituzionale quella per esempio così platealmente oggi esercitata dagli Stati di tutto il mondo e in primo luogo dagli Stati socialisti contrapposti. Sarebbe facile qui spiegare che non si può consentire a nessuno, e meno che mai agli uomini del Partito Comunista, che non si pronunciano rispetto agli Stati, di parlare di questioni di umanità. Certo, si potrebbe premettere per l’ennesima volta che la violenza c’è, che la non-violenza è pura e ipocrita apparenza nel mondo dominato dal modo di produzione capitalistica, in un mondo che per quanto riguarda i rapporti uomo-uomo e uomo-natura è anche fabbrica totale di morti. È certo che va detto e ribadito fino in fondo che è enormemente più violento il reparto di una fabbrica nociva che un corteo che spacchi qualche vetrina lungo il suo percorso; un uomo in divisa che spara, rispetto a qualsiasi azione violenta che esprime comunque insubordinazione, ribellione, sovversione. Però, è impossibile continuare a ripetere solo questa litania, non possiamo farci incastrare all’infinito in questa posizione che vogliono definire giustifìcazionista e che invece è semplicemente una posizione di pregiudiziale rifiuto delle mistificazioni immonde, schifose della sinistra legale. Non possiamo limitarci a ripetere queste cose e nemmeno possiamo cavarcela con il cinismo un po’ tracotante e un po’ esibizionista di frasi come quelle di chi afferma «siamo contrari per criteri politici ma sia ben chiaro non ce ne fotte un cazzo della vita di questi due impiegati dello Stato», perché il problema è imporre assolutamente, di espungere ogni mistificazione sui valori su questo terreno e di imporre un dibattito radicale di carattere politico-sociale, di carattere politico-militare. Abbiamo detto «espungere i valori», quindi nessuna concessione di salvacondotti preliminari o di statuti speciali, cioè noi certamente dobbiamo dire con chiarezza, rispetto alle lacrime di glicerina e all’orrore formale manifestato dalla stampa di sinistra, che né la qualifica di operaio né quella di un militante di un partito possono offrire una particolare aureola a nessuno.
Perché quello che conta non è né la collocazione individuale di tipo sociologico all’interno dei diversi reparti della fabbrica sociale, né evidentemente l’adesione a un partito tra l’altro di così larga e indiscriminata possibilità di adesione.
Quello che conta è certamente il comportamento rispetto alla lotta di classe, per la liberazione dallo sfruttamento, per la liberazione del lavoro salariato e, in questo, il discorso invece è un altro, è l’attacco alla logica politica di questo tipo di iniziativa in primo luogo e poi alla logica giustizialista, da tribunale arbitrario che si arroga il diritto di giudicare e di procedere senza un coro di controllo significativo né quantitativamente, né, quel che più conta, dal punto di vista dei contenuti. Allora, vediamo di analizzare più specificamente questo tipo di azione. Innanzitutto, ciò che colpisce è una sorta di stolida fedeltà ai propri schemi come dire, quello che è detto è detto e non teniamo più conto di niente. Vediamo meglio in che consiste questa immagine ottusa che va dando di sé la lotta armata in queste forme.
Ecco, facciamo varie ipotesi, in primo luogo quella che l’azione di Rossa abbia il senso di un’apertura di campagna contro gli apparati sindacali e di partito del movimento operaio istituzionale, individuate come articolazioni dello Stato sociale, come istituti di amministrazione e di gestione della forza lavoro in quanto tale, cioè nel suo rapporto di sussunzione rispetto al Capitale.
Ecco, rispetto a tutto ciò noi sappiamo certo che il Pci e l’istituzione sindacale sono senz’altro un ostacolo, una forza nemica alla liberazione comunista, però, sappiamo anche che a tutt’oggi rappresentano anche la stragrande maggioranza della forza lavoro sociale e dunque la battaglia non può che essere tutta su questo terreno dello snodo politico, su questa necessità di rompere il ruolo di cerniera fra Stato e società che questo tipo di organizzazioni hanno, cioè tutta intesa a promuovere la revoca di questa rappresentanza.
Il discorso non è dunque cortocircuitabile in termini militari, come se si trattasse di un corpo separato da disarticolare. Noi abbiamo visto che Guido Rossa è un delegato e questo non può essere ritenuto un fatto puramente accidentale. Un delatore non è uguale ad un altro delatore, ed è davvero schematico pensare che basti l’azione forte, evidente, drammatizzata (cioè una specie di didattica autoritaria) per «aprire gli occhi alla gente».
Ora, vediamo cosa significa questa specificità del ruolo di delegato: di delatore più «legittimato» degli altri, nel regno delle apparenze. Qui non si sostiene una teoria o una ideologia di ritorno sulla sacralità di queste figure.
L’esperienza rivoluzionaria del filone operista, da cui sono nate le esperienze di Potere operaio e dei Comitati Comunisti a cui noi ci richiamiamo, ha sempre portato avanti nei confronti di queste figure, del loro ruolo, una critica radicale, anche se sommaria e priva di articolazioni tattiche.
Senz’altro era una critica ben più radicale di quella che connota, ad esempio, l’arsenale teorico e di linea delle Br.
Ora, è proprio dal discorso della matrice operaista che nasce un’analisi sullo stato pianificato keynesiano, sullo stato del capitalismo organizzato che vede il sindacato come articolazione istituzionale preposta alla gestione, alla amministrazione della forza lavoro e il partito preposto proprio alla realizzazione della sussunzione politica del lavoro nel capitale.
In altre parole, il sindacato non è più solo interno al sistema in quanto venditore della forza lavoro (Lenin diceva «il sindacato è un fenomeno del capitalismo come il fumo delle ciminiere») ma, proprio, diventa un fattore esplicito dell’equilibrio del sistema. È quindi organico non solo al sistema, ma al governo del sistema.
Si dedica al mantenimento del sistema e anche all’orientamento delle sue autodinamiche. È infatti esplicitamente portatore di un modello di democrazia consociativa piuttosto che conflittuale.
Su questo la nostra analisi è assolutamente più radicale rispetto a quella appunto delle Br. Però, proprio da questa analisi emerge l’impossibilità di omologare una figura come il sindacato e quella di un corpo separato. La verità pratica è che qui siamo in presenza di una cerniera tra Stato e società. Quindi, il fatto che si tratti di un delegato rivela l’esistenza di un nodo sociale e politico da sciogliere. Questa istituzione-cerniera tra Stato e società non può essere assimilata a un corpo separato. Non può essere trattata alla stregua di un corpo separato. In quel caso il problema per una formazione guerrigliera è certamente quello di intimidirne i singoli elementi, di paralizzarlo e di disarticolarlo.
La complessità speciale di un meccanismo come quello della delega non può essere tagliata via con qualche colpo, il piombo non è un metallo leggero. Se invece facciamo una seconda ipotesi, l’azione è motivata con una valutazione assolutamente specifica, la punizione di una spia, allora la critica va al suo carattere assolutamente privato, di giustizia privata che questa azione ha, cioè uccidere «in proprio» il tuo delatore, il tuo poliziotto, il tuo accusatore, il tuo giudice. A volere sottilizzare c’è una sorta di discorso sul tradimento che sembra quasi non avere la consapevolezza lucida di questo carattere appunto di istituzione completamente collocata, di istituzione la cui funzione (non la cui composizione) è collocata sul terreno delle nuove forme dello Stato. Sembra appunto un discorso un po’ ambiguo, cioè quello in qualche modo sulla punizione del traditore. È dunque un discorso che così allude: siamo dopo tutto nella stessa famiglia e per questo il traditore merita il massimo della pena.
La critica si appunta proprio a questo fatto: non vi è il distacco di chi sa che i Rossa non sono dei traditori ma dei nuovi funzionari dello Stato allargato, diffuso, che quindi non tradiscono ma fanno il loro mestiere, un brutto lavoro di tipo nuovo, in linea con le confederazioni sindacali e con il loro partito.
Se invece viene assunto a motivazione e a giustificazione politica di questo episodio l’errore tecnico in tal caso va portata una critica drastica: perché l’errore tecnico non giustifica niente quando è dichiarato e ammesso da una organizzazione che ha sempre ossessivamente sottolineato il fatto che efficienza operativa e disciplina dei militanti sono un requisito fondamentale di qualità politica. E non c’è ottusa reazione diversa dallo scontro a fuoco che possa autorizzare un singolo militante a decidere di cambiare in modo così radicale il segno politico dell’iniziativa, altrimenti siamo all’anarchismo e al particolarismo totale.
Un’ultima considerazione conclusiva si impone: se è vero che a monte dell’azione Rossa c’è il dito messo su una piaga delle conseguenze pratiche della linea iper-statolatrica del Pci, se è vero che questa cosa ha riflessi talmente dirompenti nella struttura del partito, da indurre riflessi difensivi (basti pensare al fatto che Pajetta ha sentito il bisogno di scrivere un articolo interamente di rilegittimazione dal titolo «Io una spia» sull’«Unità» due giorni dopo l’uccisione) è anche vero che la radicalità dell’azione si trova in bilico tra la tematica del social-fascismo e la tematica del «tradimento in famiglia» o riguarda un rapporto schizofrenico tra questi due punti.
È anche vero che proprio il carattere estremo e allucinato dell’estrapolazione compiuta e della radicalità dell’azione ha in qualche modo concorso a risanare questo tipo di crisi e indotto in qualche modo difficoltà per il Pci.
Diviene allora evidente la perdita di qualsiasi capacità di fantasia politica… C’è per esempio una sottovalutazione della materialità di quella che uno schematismo vetero-comunista fa ritenere pura sovrastruttura, cioè l’elemento di guerra psicologica, l’influenza dei mass-media, questa capacità continua di dare una immagine del terrorismo come di una pratica sanguinaria, insomma.
C’è una completa indifferenza alla materialità del fatto che questo induce e introduce, a livello di immaginario collettivo, a livello di simbolico sociale, meccanismi che sono assolutamente contraddittori con le intenzioni (o, almeno, così speriamo). Colpisce il fatto che si ha perdita di una capacità anche strumentale di operare sul terreno della comunicazione.
Ecco, quello che separa, quello che fa sentire proprio come un corpo estraneo questo tipo di prassi non è tanto il carattere cruento della iniziativa, ma il sospetto che si tratti comunque di un fatto privato, sia nell’ipotesi giustizialista del farsi giustizia da sé, sia nell’ipotesi di un arbitrario erigersi a tribunale della storia.
Al tempo stesso il riconoscimento del fatto che questa radicalizzazione del carattere cruento (che arriva appunto alla pratica dell’omicidio politico) non corrisponde a un aumento di potenza o efficacia militare (perché non v’è nulla di potente o di efficace o di militarmente complesso in un’azione condotta di notte contro uno che ha girato la chiave del motore e sta aspettando che si scaldi, oppure nel traffico del mattino ancora addormentato e uggioso di nebbia).
È più difficile, sostengono gli esperti in medicina legale, colpire alle gambe che non raggiungere organi vitali. Ecco, quello che dà la sensazione di una divaricazione profonda nel modo di ragionare è la indecifrabilità, l’autonomizzazione delle decisioni, la loro indipendenza, il loro parlare accanto, nel caso migliore, al movimento, al dibattito, al senso comune, con una sorte di suprema, inesorabile indifferenza, con la severa autorità di un partito che sa, che si irrita per le critiche, che pretende il consenso, perché sa, perché conosce i misteriosi percorsi che passano sotto la pelle della realtà. Invece il problema è che questo partito dai mille occhi non c’è, non sa perché non c’è, non c’è perché non sa.
Dire che si opera come se ci fosse non vuol dire nulla perché le categorie oggi sono tutte messe in discussione e non si può procedere sul terreno della pratica con la tranquilla sicurezza di chi procede facendo finta di sapere, sapendo i passi successivi perché si fa finta di conoscerli, perché i buchi neri della teoria si sono allargati e allora bisogna ricominciare a pensare collettivamente, a produrre una forma di cooperazione intellettuale che cominci ad assomigliare a una macchina analitica.
Tanto più la sovversione sociale permane, tanto più la prassi è dura tanto più, al limite, si approssima o si allude a un terreno di guerra e di risoluzione rivoluzionaria del conflitto.
Proprio perché l’antagonismo è in piedi, perché la crisi della teoria sovraccumulatasi sulla crisi economica non ha piegato e sconfitto la classe, proprio perché è vero tutto questo.
Allora è vero che bisogna «aggiustare la macchina in corsa» ma tener presente la necessità di una ripresa, di una riqualificazione del dibattito, tener presente la necessità di guardare con diffidenza le certezze, non per un elogio del dubbio ma per amore della ricerca. E poi, non per amore della ricerca, ma per odio della robotizzazione, dei meccanismi autonomizzati e ciechi. Il secondo caso che dobbiamo considerare è l’affare Emilio Alessandrini. Diciamo senza mezzi termini che, a nostro parere, questa iniziativa segna il punto di massima degenerazione neo-gruppista dell’iniziativa combattente.
Nel dare questo giudizio non cediamo, non vogliamo cedere, al ricatto dell’emozione, dello sgomento che per la prima volta abbiamo visto autenticamente dipinto sul volto di persone che, pur facendo parte della sinistra legale, hanno dato in questi anni prova di notevole autonomia di giudizio e di comportamento rispetto al PCI.
Non ci riscopriamo all’improvviso vittime di un raptus opportunista, membri di quella famiglia della sinistra legale una parte non indegna della quale è stata ferita a fondo dall’uccisione di Alessandrini.
No, vogliamo ancora una volta discutere con la testa lucida.
Quello che salta agli occhi è il peso abnorme di preoccupazioni di carattere micro-frazionistico, cioè una logica concorrenziale di setta, un privilegiamento assoluto di problemi di egemonia, una considerazione assolutamente sommaria del rapporto tra mezzi e fini.
Tutto ciò porta a una iniziativa che sembra ispirata da una logica allucinata priva di effettiva potenza militare.
Dov’è infatti il ruolo di avanguardia o anche solo di esemplarità di questo tipo di iniziativa?
È mai possibile che qualcuno all’interno dell’ universo sociale sia stimolato a muoversi, a organizzarsi sul terreno della sovversione da una sequenza di azioni che appaiono così stralunate, e in ultima analisi indecifrabili, è mai possibile che la volontà di lotta, i comportamenti, la fantasia di strati significativi di proletariato possano essere galvanizzati da una simile immagine dell’iniziativa rivoluzionaria che viene fatta circolare in luogo di quello che dovrebbe essere il ricco intreccio fra sovversione e politica, fra sovversione sociale, iniziativa politica e forme di azione guerrigliera? Chi può giudicare desiderabile il processo rivoluzionario che appare come una specie di vuoto pneumatico scandito da una serie di esecuzioni il cui filo conduttore diventa subito (solo che si esca dalla cerchia dei suoi ideatori) indecifrabile o, peggio, ricercabile solo sulla base di un filologismo puntiglioso.
Questa «linea» è rintracciabile dentro i frammentari e non verificati processi mentali prodotti dalle infinite varianti del militarismo, ieri volantinomane oggi armato.
I compagni ricordano il proliferare rissoso dei volantini, le scomuniche reciproche fra le sette, le analisi roboanti da far tremare il mondo che poi si riducevano ai pestaggi, tutto un universo che faceva sorridere chi lo guardava con occhio appena più distaccato e toglieva credibilità agli occhi per esempio degli operai, all’insieme del lavoro rivoluzionario. Ecco, come si può pensare che un proletario normale (uso provocatoriamente questo termine, cioè uno che vive le contraddizioni sociali non in un ghetto allucinato o in un elitario laboratorio ideologico) possa accettare e capire che si ammazzi uno per un distinguo, per un codicillo, per affermare una linea di lettura piuttosto che un’altra di quella tale pagina dei classici, per esemplificare un modello più o meno geniale partorito da qualche pensatore rivoluzionario, per dimostrare un corollario, per dar potenza a una linea o a un’organizzazione piuttosto che ad un’altra. La realtà è che la Babele delle linee politiche che abbiamo conosciuto nel movimento della cosiddetta Nuova Sinistra negli anni passati si è come trasformata pari pari in Babele delle linee di combattimento.
Le stesse manifestazioni di iper-politicantismo, gli stessi irresponsabili settarismi, le stesse sterili miopie, lo stesso carattere deresponsabilizzato che ha connotato in tutti questi anni l’esperienza del minoritarismo ossessivamente preoccupato di stabilire chi sono i veri comunisti. C’è solo da compiacerci del fatto che i più stupidi siano stati «istituzionalizzati», resi pertanto relativamente innocui.
Ora, l’incapacità di superare la fase delle sette certamente denota infantilismo, anche quando costa soltanto carta di ciclostile sprecata. Quando il terreno della sperimentazione o della lotta per l’egemonia diventa la pratica del terrorismo allora il discorso cambia.
Chi può accettare l’adozione di metodi di guerra per condurre battaglie teorico-politiche che poi in realtà sono battaglie puramente ideologiche, battaglie interne al movimento, o addirittura al suo ceto politico?
Si dice: fuoriuscire dalla logica frontista-massimalista della lotta armata vuol dire non già menare colpi al ventre molle e sociale del sistema ma anche ai suoi gangli vitali, i punti traenti della sua riorganizzazione, i nodi della sua modernizzazione.
In questo senso l’attacco al personale riformista, il sabotaggio del suo ruolo sarebbero all’ordine del giorno. È proprio qui che si fa un rapidissimo corto circuito, è qui che si confonde l’effetto politico destabilizzante e disarticolante del terrorismo con le operazioni di materiale disarticolazione che sul terreno militare esso conduce.
Non è affatto detto che per colpire politicamente si debba necessariamente colpire militarmente, altrimenti delle due l’una: o l’effetto finisce con l’essere contraddittorio, cioè di rinsaldamento, oppure occorrerebbe condurre un terrorismo di sterminio.
Chiunque, a questo punto, è in grado di capire che non siamo in una fase di guerra civile dispiegata.
La relativa massificazione, che chiamerei piuttosto iper-proliferazione dei comportamenti armati più diversi, è da un lato il segno di una riproducibilità impressionante e ormai inestirpabile del processo, ma dall’altro è la manifestazione estrema di una differenza, di un movimento nascente che però può ridursi a un ghetto allargato perché non ha ancora esplicitato le sue protezionalità.
I racket politici non hanno riunificato significativi strati proletari, hanno al massimo coagulato piccole comunità che (tanto per fare riferimenti alla imbecillità corrente) Vacca non saprebbe collocare nel nuovo Medioevo, né Alberoni nel suo nuovo Rinascimento.
Anche una comunità allargata può tradursi in una comunità illusoria: questo è sotto gli occhi di tutti. Siamo ad un bivio: o la costituzione organica di un nuovo movimento (che sia come l’effetto di una rivoluzione copernicana, indipendente e antitetico rispetto al movimento operaio istituzionale) o la conferma e magari la dilatazione progressiva, la riproduzione continua di un ghetto politico sociale di proporzioni crescenti.
Il dato certo è comunque che non si ha immanenza della guerra civile, e quindi non c’è uno stato sociale di guerra.
Su questo va fatta un’osservazione: io credo che si debba dire con chiarezza che la guerriglia per sé (non inserita in un insieme di interrelazioni, di intrecci, di interazioni che compongono una politica rivoluzionaria o non mediata politicamente verso l’esterno) non riesce a produrre radicalizzazione rivoluzionaria, sovversione sociale. Il circuito è appunto dalla guerriglia alla guerriglia e, non vi è dentro questa ideologia, dentro a questa pratica, nessuna possibilità di sbocco. La possibilità di una guerra privata (di un’opzione sui suoi fini) rischia di diventare addirittura un boomerang, perché, se non vi è una esplicita finalizzazione della guerra come passaggio storico (magari lungo, però che metta capo ad un risultato di cui si intravedono alcune direttrici fondamentali), l’unico atteggiamento sociale, l’unica rivendicazione di massa che può diffondersi è la rivendicazione della fine della guerra, un pacifismo confuso e diffuso.
È urgente sottolineare che la immanenza della guerra civile non c’è; dobbiamo sottolineare anche che se pure pensassimo a una moltiplicazione indefinita esponenziale delle forme di terrorismo pre-guerrigliero verticale o orizzontale, soggettivo, diffuso e così via, nulla può far pensare al passaggio dal terreno del terrorismo e della guerriglia fino ai fronti sociali necessari per la guerra civile.
Quello che c’è invece, è un comportamento armato, molteplice, una sorta di pluralismo del terrorismo in cui si intrecciano e si accavallano elementi preordinati e spontanei, concentrati e diffusi.
Al di là delle sue autoproposizioni spesso irritanti nel loro carattere tronfio, tutto questo ancora oggi appare come fine a se stesso, tattica senza partito o faccia puramente negativa e distruttiva della nuova spontaneità.
Continuerà ad apparire così, se non si identificano proprio i passaggi dentro il processo e cioè appunto il rivendicazionismo armato, la politica armata e così via «on the road»? In questa forma di azione deve essere vincolato, reso variabile e dipendente il rivendicazionismo armato, la politica armata comunque dei passaggi di innovazione sociale? In questo senso va detto che, ed è un termine che ripeteremo più avanti, l’unico effettivo moltiplicatore di potenza sembra essere la politica e l’uso politico del terreno militare.
Quello che va detto con chiarezza è che delle forme come quelle che conosciamo di terrorismo politico preguerrigliero orizzontale o concentrato, semispontaneo o preordinato, i soggetti che li conducono non possono avere la falsa coscienza di credere e di affermare che questo possa essere un metodo di lotta risolutivo. Da questo punto di vista va ripetuto con chiarezza che la guerriglia per sé non ha effettiva potenza trasformativa.
Non ha nessun senso un discorso che vada appunto dalla guerriglia alla guerriglia: o la guerriglia contiene in sé il codice della propria soluzione profondamente attraversato, innervato da un sistema di bisogni (una struttura desiderante che esprime una intelligenza sociale programmatica che ne costituisca il fine continuamente riproposto) oppure è solo il mezzo per spostare i rapporti di forza fino al punto di proporre una soluzione politica, un esito politico, una prospettiva mediata politicamente.
Altrimenti non ha senso, cioè è una guerriglia senza fine, un simulacro di guerra senza fine, che poi non è, perché appunto non ha la potenza sociale, non ha i confini sociali, non ha la dimensione sociale della guerra, e non può avere agli occhi, diciamo così, delle masse altro effetto che quello di provocare quello che abbiamo appena definito desiderio di fine della guerra.
Quindi è assolutamente importante questa critica della robotizzazione, della autonomizzazione delle scadenze, dei moti, delle forme, delle necessità della conduzione della guerriglia.
Anche dal punto di vista della impossibilità che da uno sviluppo della guerriglia per sé possa nascere il terreno di una guerra di liberazione come effettivo passaggio della trasformazione sociale.
Un’altra considerazione va fatta (traendola proprio dall’arsenale teorico del leninismo) contro il corto circuito elementare e rozzo per cui sostanzialmente una formazione guerrigliera che voglia colpire un determinato processo riorganizzativo, un determinato progetto di ristrutturazione del comando, un determinato obiettivo debba necessariamente (poiché si tratta di una organizzazione guerrigliera che usa come mezzo e metodo di lotta la forma della prassi combattente) intervenire su quel terreno, su quel tipo di operazione, di soggetto, di persona ostile, con la forma diretta dell’intervento, accettando dunque le indicazioni che il nemico stesso ha reso immediatamente disponibili.
In questo caso, la giustificazione o l’argomentazione portata dall’organizzazione che ha compiuto questo atto di guerra è data in termini di ragioni puramente e propriamente militari.
È data sulla base delle considerazioni che vorrebbero non ammettere repliche, cioè che dicono in realtà qui abbiamo colpito una figura che sulla base di nostre informazioni risulta essere una figura di particolare pericolosità, di particolare modernità nella messa in opera di forme di intelligenza e di tecniche aggressive tendenti a distruggere e a ghettizzare non solo le forme di organizzazione guerrigliera, non solo le forme di antagonismo sociale più radicale ma più in generale i processi di sovversione sociale, introducendo una iniziativa attenta, moderna, accorta e per questo pericolosa di normalizzazione sociale. Cerchiamo per un attimo di calarci, di immedesimarci nella logica, nel tipo di ragionamento che può presiedere alla formazione di una decisione di questo tipo da parte di una organizzazione guerrigliera.
L’organizzazione guerrigliera ha carattere prevalentemente militare se davvero si fosse trattato di questa necessità assoluta di compiere un atto difensivo, cioè di liquidare il cervello di un’iniziativa repressiva, intelligente, moderna da parte dello Stato contro il movimento di classe; mentre qui c’è un’evidente puntigliosità nel volere argomentare, motivare il carattere esemplare, programmatico, polemico dell’iniziativa.
Non solo: c’è anche il rifiuto dell’anonimato e la volontà di sottolineare il carattere di forma e di mezzo di lotta dentro il movimento.
L’unica cosa che possa motivare questo tipo di condotta è appunto una illogica deviazione (che il linguaggio tradizionale anche consunto chiama militarismo) in cui cioè un ordine di considerazioni di tipo organizzativo militare, diventa onnivoro e totalizzante.
Se invece di errori si tratta, contro questa linea politica va fatta una battaglia di merito.
Nel movimento noi abbiamo sempre fatto una analisi del Pci come articolazione dello Stato del partitismo organizzato, dello Stato moderno, complesso, pluralistico, indirizzato al controllo e alla normalizzazione del conflitto e non alla sua repressione.
Però salvo questo tipo di analisi, che ha condotto a una critica radicale del socialismo e del movimento operaio storico (senza nessun elemento di demonizzazione ideologica proprio perché non c’era nessun residuo di una tematica sul tradimento) nel movimento, nelle sue ideologie tradizionali, troviamo continuamente un’altalena tra ipotesi veramente entriste (o comunque di perdita di autonomia nei confronti del movimento operaio storico) e il recupero del vecchio arsenale sul social-fascismo.
Questo tipo di venatura è corsa dentro le tematiche sul gulag a Bologna che sono circolate durante il movimento del ’77, è corsa dentro componenti emmelliste dell’area rivoluzionaria dell’autonomia che sostanzialmente hanno reinterpretato il discorso che noi tentavamo di tenere come discorso sul PCI come socialdemocrazia sui generis, neo-corporativa, imperfetta, autoritaria, stalinista, demonazionale!?.
Costoro hanno tradotto immediatamente e cortocircuitato questo discorso nei termini di una riedizione con segno rovesciato della tematica sul “socialfascismo”, utilizzando lo stesso schema delle varie ideologie della “germanizzazione” e i “blabla” sulla “russificazione” di questo paese.
Noi crediamo che non tanto le ultime azioni ma le ultime argomentazioni proposte dal movimento combattente siano una riedizione ammodernata e filtrata (in rapporto con la socialità del movimento) di queste tematiche.