Da «Controinformazione», Giugno 1976
Elementi interpretativi
1) Il fenomeno lotta armata
«Uso della forza», «comportamento di violenza organizzata», «nuova legalità operaia», «appropriazione di massa della ricchezza sociale»; «propaganda armata»: questi gli enunciati che negli ultimi anni hanno caratterizzato le avanguardie dell’autonomia di classe, orientando, direttamente o indirettamente, le tensioni rivoluzionarie, verso la confluenza strategica della lotta politico-militare. È ormai innegabile che il processo di contrapposizione reale alle classi dominanti trae continuità dalle insorgenze di classe più radicali e aggressive (resistenza operaia informale; nuclei di autonomia; movimenti di liberazione…), che stentano però a trovare una cifra politica attraverso cui centralizzare e disciplinare le tensioni eterogenee che vivono al loro interno.
In quanto parte integrante di un ordine sociale altro da quello dominante, da costruire sulla «negazione della realtà esistente», il bisogno tendenziale di un «partito combattente» è ormai componente insopprimibile della coscienza rivoluzionaria prima ancora della sua compiuta realizzazione.
Una rapida valutazione della germinazione dei gruppi che formano la più recente costellazione della avanguardie che teorizzano la lotta armata conferma tale ipotesi.
Pur sotto la tempesta dei colpi repressivi, delle persecuzioni e delle sconfitte capillari, che hanno spesso fatto registrare un pesante consuntivo di sangue, i gruppi politico-militari non solo sopravvivono ma proliferano. Sigle come «lotta armata per il comunismo», «guerra di classe per il comunismo», «mai più senza fucile» «senza tregua per il comunismo» «Formazioni comuniste armate», e innumerevoli altri aggregati senza nome si sono affiancati da tempo alle due organizzazioni storiche Nuclei armati proletari e Brigate rosse.
2) Le cause oggettive
II fenomeno della lotta violenta contro il sistema capitalistico non nasce come sostiene qualche «acuto» sociologo borghese o qualche «illuminato» magistrato di sinistra dai tessuti cancerosi del corpo sociale o dalla degradazione dei valori e della razionalità collettivi.
«La guerra civile» che, secondo gli osservatori stranieri, sconvolge i fragili equilibri istituzionali del paese, nasce da cause oggettive, riconducibili a rapporti di produzione determinanti. Lo spettro della guerra interna aleggia su una società disgregata e dilacerata nelle sue connessioni di classe fondamentali. Sempre più ampie quote di lavoratori subalterni, assai giovani e non irreggimentabili né attraverso la disciplina di fabbrica né con le intimidazioni esistenziali – famiglia, benessere avvenire… – vanno a ingrossare le sacche del mercato del lavoro marginale e clandestino.
La violenza che essi esprimono dalle profondità del ghetto è in sé ineliminabile come manifestazione di una resistenza biologica, antica e muta, contro la classe dominante. Ciò che attualmente la rende qualitativamente differente, collocabile in una tendenza rivoluzionaria, è il carattere strategico e irreversibile delle condizioni emarginanti create dalla ristrutturazione imperialista. Per tutti questi strati Non-Garantiti non esiste più possibilità di essere riassorbiti nel mantice del ciclo capitalistico, in funzione di relativa stabilità. Il «soffietto» della produzione «periferica» tipico degli anni ’50 e ’60 è stato attualmente distrutto dalla disseminazione intenzionale della fabbrica e delle sue induzioni sull’intero territorio.
La ricomposizione di queste masse come figure contrattualmente garantite è pressoché impossibile. Oggettivamente fanno parte del proletariato industriale e sociale; soggettivamente ricalcano però spesso comportamenti sottoproletari ed extralegali. La loro violenza ha iniziato dunque ad avere una cifra politica, quando attraverso la giungla dell’autonomia proletaria si è ricongiunta oggettivamente con la violenza organizzata e i comportamenti illegali della classe operaia centrale. Diverse sono le cause storiche e strutturali della violenza maturata da queste componenti nelle grandi fabbriche. Lo stillicidio di azioni organizzate dentro e fuori i luoghi di produzione ha come costante politica il legame evidente tra interessi determinanti di massa e iniziativa delle avanguardie. La scansione della violenza operaia è determinata da un ritmo interno alla classe che, col tempo, ha selezionato i suoi diretti protagonisti. Dalla marea indistinta del ’69 alle squadre del ’72–73 fino ai nuclei clandestini degli ultimi anni, la violenza operaia, avanzando, e assumendo forma organizzata, ha aggregato interno a sé tematiche e ipotesi diverse, spesso contrastanti, che caratterizzano bisogni e soggetti diversi in seno alla classe. Non ha operato una spaccatura che già esisteva, fomentata dall’unanimismo sindacale e revisionista, ma ne ha polarizzato gli elementi attivi e i detriti. Chi sono i suoi referenti oggettivi nella complessa serpentina del ciclo centrale? Gli operai dequalificati e massificati, cui è negato ogni risarcimento sia economico che ideologico, le fasce più basse del terziario di fabbrica, i quadri di lotta delle strutture consiliari che hanno bruciato con l’esperienza ogni illusione nel riformismo operaio.
3) Guerra interna o guerra di classe?
L’irreversibilità delle condizioni oggettive che alimentano le ipotesi rivoluzionarie sostanziate nei molteplici embrioni di organizzazione armata non celebra tuttavia la realizzazione politica soggettiva di questi principi. Lo scontro di classe sempre più si configura come guerra interna condotta contro le masse subalterne, ma questo non implica meccanicamente la costituzione della classe in Stato operaio armato. Infatti, da un lato esistono potenti tensioni disgregatrici all’interno della comune condizione oggettiva, fomentate dal riformismo, che producono fratture nella compagine di classe (nuove aristocrazie terziarie e operaie, contrapposizioni ideologiche tra garantiti e non-garantiti ecc.): plasmate dal potere sulla matrice opportunista e corporativa esse ne riproducono e veicolano il modello. Dall’altra parte, la difficoltà di compenetrare istanze soggettive provenienti da terreni di lotta differenti a loro volta spesso rappresentati da organizzazioni diverse, attinge al divario tra soggettività e soggettività rivoluzionaria. Lo spazio tra avanguardia e massa e tra avanguardia e avanguardia non è colmabile né col puro riscontro delle condizioni oggettive né con il volontarismo organizzativo. La traduzione della realtà in programma rivoluzionario si caratterizza come processo incessante di chiarificazione teorico-pratica, in cui l’azione non è totalità di lotta ma strumento strategico. Lo spartiacque della «lotta armata», se non risulta in grado di promuovere un processo di chiarificazione e di aggregazione evolutiva rispetto alle tensioni dell’autonomia di classe, può scadere a mera esaltazione delle contraddizioni di classe.
4) II fucile non parla
È evidente che l’azione in sé non è in grado, sia nella forma di esempio, sia nella forma di propaganda, di orientare e guidare, secondo le linee di un programma strategico, la dinamica molecolare delle avanguardie proletarie. Per quanto riguarda in specifico le forze che praticano la violenza proletaria, si nota che tutte le esperienze armate riconoscono la priorità dell’azione come unico criterio fondante e discriminante della pratica rivoluzionaria; d’altro canto sul piano politico programmatico le differenze d’analisi e gli scarti ideologici determinano spesso una chiara moltiplicazione dei moduli organizzativi e una rilevante diaspora delle iniziative. Ciò significa che l’azione armata, lungi dall’essere la sintesi univoca dei problemi politici che agita e rappresenta, produce ampi margini di ambiguità interpretativa e propositiva. Com’è possibile che la centralità dell’azione si concili con organizzazioni di matrice di classe differenti, con molte chiavi di lettura politica e con le molteplici formulazioni ideologiche e teoriche da essa stessa proposte?
5) Per uno schema di lettura
Riteniamo che per rispondere a questa apparente contraddittorietà sia necessario partire proprio dall’azione armata come fulcro delle teorie politico-militari. Poiché l’azione si presenta essenzialmente come un fenomeno militare che vuole avere in sé tutte le categorie dell’evidenza e della verifica politica, per renderla interpretabile all’analisi occorre disaggregarla nei suoi costituenti generali.
6) L’azione armata: sue componenti
L’azione considerata come insieme organico di aspetti tecnici, militari e politici può essere scomposta sempre in tre elementi fondamentali.
- Forme
- Contenuti
- Obiettivi
Dalla realizzazione o dallo scardinamento del loro equilibrio interno possono derivare interpretazioni politiche assai diverse. Per questo motivo viene raggiunto l’allineamento dialettico tra forme-contenuti-obiettivi corrispondente al programma strategico e al giudizio politico di fase, rispecchiante la realtà oggettiva dello scontro; non può esistere alcuna sfasatura tra l’azione armata (forma e contenuti) i fini perseguiti (obiettivi) e l’organizzazione che li attua. In questo caso l’azione militare è «la continuazione della lotta politica con altri mezzi».
Viceversa quando si verifica – ed è la maggior parte dei casi – lo scardinamento di un tale allineamento, l’azione diventa una copiosa sorgente di interpretazione e di ideologie soggettive spesso antitetiche.
7) Forme (e comportamenti)
Un esempio evidente di squilibrio tra le varie componenti l’azione e di sviante interpretazione che ne consegue, è rappresentato dalla esaltazione della lotta violenta spontanea. Queste forme di resistenza e di contrapposizione radicale della classe, pur non essendo azione armata ne contengono, comunque le caratteristiche. (…) Blocchi ferroviari, presidi di fabbrica, occupazioni di case, ecc. o sono assolutizzati nel loro contesto e quindi nel loro significato tattico, oppure non sono immediatamente riconducibili a un programma rivoluzionario di respiro strategico.
L’esperienza storica insegna che la radicalizzazione e l’espansione dei comportamenti antagonisti non determinano di per sé un nuovo livello di coscienza, una nuova soggettività rivoluzionaria dispiegata. Al contrario, quelle teorie che esaltano acriticamente l’esuberanza e la incisività irriducibili di tale violenza spontanea mettono al centro del loro abbaglio politico l’errata deduzione di contenuti immediatamente rivoluzionari dai comportamenti di classe più infuocati. Secondo quest’ottica la tendenza sempre più pronunciata verso la conflittualità extralegale è sintomo inequivocabile di una nuova fase politica, armata, dello scontro.
Il partito
Il comunismo vive già come strategia dentro questi comportamenti della classe. Per conseguire il totale successo del programma rivoluzionario mancano solo la guida e la rigorizzazione tattica – compito del partito – dei molteplici fuochi spontanei e disseminati che costituiscono le nuove emergenze antagoniste. Le forme dunque comprendono già ogni contenuto e ogni obiettivo genericamente come «volontà e bisogni immediati di comunismo». Il problema allora non è di combinare le forme con i contenuti, la spontaneità con il programma strategico: esigenze queste di una concezione che afferma i contenuti come prodotto politico cosciente e non come istinti del bisogno; ma di coordinare le forze disperse nei mille rivoli del movimento con le nuove forme di lotta internamente unitarie.
Tante forme che rimandano, quindi, a un unico contenuto – il comunismo – conseguibile mediante la «centralizzazione dell’espansività». In ultima analisi da queste considerazioni riaffiorano il dirigismo e il militarismo: dirigismo e verticismo, a livello di massa perché il nucleo del «problema strategico» si riduce a come legare insieme esperienze diverse. Secondo questa concezione però, dal momento che il contenuto di queste esperienze è uno solo, il partito non deve fare altro che organizzarle in un unico fronte allargato di attacco al potere. A livello di avanguardia, poi, si impone il militarismo.
Questa concezione apprezza in termini puramente quantitativi il significato dell’azione. Qualitativamente, l’azione, resa atto simbolico della «liturgia del comunismo», conta in sé e per sé come anticipazione parziale del movimento comunista reale. Nell’azione forme e forza si fondono perfettamente. Compito del programma è solo moltiplicare questi episodi fino a farli divenire pratica corrente e generale di offensiva rivoluzionaria.
Ideologia e propaganda
Con la teoria del «focolaio guerrigliero» tale formulazione ha pochi punti di contatto pratico-organizzativo ma numerose analogie ideologiche. Qui come là, la pratica rivoluzionaria è di limitarsi all’esaltazione dell’episodio armato fine a sé stesso, nella «mistica del fatto», che sussume ogni valutazione critica sui contenuti, sugli obiettivi e sul loro allineamento (…). Diviene così impossibile distinguere nei comportamenti i contenuti di attacco da quelli di difesa, la conflittualità oggettiva da quella soggettiva, la trincea della sopravvivenza dalla barricata dell’insurrezione.
Succede quindi che la più esasperata esaltazione del gesto, dell’azione e del comportamento totalmente risolti nella forma violenta, paradossalmente si rovescia nell’impotenza operativa (l’azione propone sé stessa) e nella diaspora delle iniziative e delle interpretazioni politiche: la diversificazione delle forme finisce per diversificare in modo permanente le forze.
8) I contenuti
I contenuti, pur essendo fondamentalmente la loro illuminazione in rapporto alle più radicali espressioni di avanguardia rimangono il più delle volte prigionieri o sussunti o derivati dalle forme di lotta, risultandone quindi subalterni. (…) Anche nel caso di quelle organizzazioni che apparentemente fanno nette distinzioni tra forme e contenuti sottolineando, con la propaganda e l’elaborazione teorica, i contenuti specifici delle azioni e facendo un gran uso dell’aggettivo «strategico», si nota in realtà l’assolutizzazione delle forme. Quando si considera l’obiettivo militare come caratterizzante il contenuto dell’azione e questo è tanto più importante quanto è più impegnativo quello, si finisce per sdrucciolare ancora una volta nella mistica delle forme di lotta. (…)
Esistono tanti contenuti quante sono le forme dell’azione armata che finiscono per darne la misura qualitativa. Praticando questa convinzione si scivola facilmente nel soggettivismo militarista. Se contenuti e forme di azione sono un tutt’uno politico-militare, ogni azione è già un episodio rivoluzionario compiuto (se il significato politico è determinato innanzitutto dal successo militare). Ogni azione messa ad effetto è già una parte realizzata del programma rivoluzionario, una espressione di lotta armata in atto, che mira a costruire le condizioni politico-militari per l’atto finale: la presa armata del potere. (…)
L’offensiva è tattica o strategica – nei contenuti perseguiti e propagandati – essenzialmente in relazione alla propria realizzazione militare.
Viene considerata tattica quell’azione diretta a punire ed epurare la gerarchia di fabbrica; a colpire i fascisti ecc.; mentre viene considerata strategica ogni azione svolta a disarticolare il potere centrale, con mezzi armati più elevati. Va da sé che l’uso dell’ordigno incendiario o del gruppo a elevata capacità di fuoco, situandosi su livelli diversi della scala di scontro, determinano perciò stesso la differenza qualitativa nei contenuti dell’azione.
Il partito combattente
II soggettivismo dell’azione armata impronta una concezione organizzativa inevitabilmente fuochista. L’avanguardia, che è l’unica a condurre lo scontro armato, viene considerata come un distaccamento compiutamente formato all’interno della classe (…). Il partito combattente, allora, essendo il nucleo armato che solo può elevare militarmente lo scontro (intensificando le azioni strategiche) diventa per ciò stesso anche l’unità di misura politica della guerra di classe. Il partito guerriglia che si identifica col nucleo guerrigliero ne è il depositario politico-militare.
Il suo compito è di aggregare attorno a sé nuove forze, di accrescere quantitativamente il programma rivoluzionario che incarna senza più mettere in discussione la sua rispondenza alla realtà contraddittoria di classe. Sul partito, catalizzatore politico in divenire dell’esercito proletario, prevale di fatto il nucleo militare, inteso come comando indiscusso delle forme di lotta armata. Il processo di sviluppo dello scontro di classe viene commisurato dunque sulla quantità delle forze, poiché la qualità rivoluzionaria è immanente alla colonna mobile strategica del partito combattente.
Ideologia e propaganda
Sul piano ideologico e propagandistico un tale ragionamento ingenera notevoli incongruenze politiche. Si viene a negare l’importanza della partecipazione generale di classe nella determinazione delle fasi di scontro.
Infatti, come è stato visto, la differenza tra tattica e strategia è determinata esclusivamente in termini di azione militare dall’avanguardia armata. Questo fatto produce anche una grossa ambiguità nella distinzione necessaria tra «propaganda e lotta armata». Propaganda armata diviene sinonimo di «azione tattica» a bassa capacità di fuoco e quindi a scarso contenuto di lotta. Lotta armata, all’opposto, diviene sinonimo di azione strategica, ad alto impegno militare e quindi ad elevato contenuto politico.
È questo un macroscopico esempio di fuochismo: propaganda armata e lotta armata corrispondenti a due fasi ben distinte della conflittualità di classe (difensiva strategica e offensiva generale), divengono due gradazioni militari dell’iniziativa guerrigliera, reversibili e contemperabili.
9) Gli obiettivi
Questi schemi ideologici politici e organizzativi esaltano entrambi, pur con modalità diverse, le «forme di lotta» a scapito del contenuto unico e universale per gli uni: il bisogno di comunismo, molteplice e militare per gli altri: il graduale sviluppo dell’attacco. Un ruolo di chiarificazione e verifica viene dunque assunto dalla collocazione e dal significato degli obiettivi nell’allineamento dell’azione armata.
Vediamo così come, rispetto al primo schema, l’obiettivo di fase (il bisogno di comunismo) si identifica con l’obiettivo finale (il comunismo maturo) ed entrambi siano dati come contenuto assimilato alle forme di lotta e ai comportamenti rivoluzionari. L’obiettivo quindi è forzatamente strategico e offensivo, come i contenuti e le forme di lotta; ma l’allineamento dialettico è fittizio: infatti l’azione armata rispecchia innanzitutto se stessa mentre l’unico collegamento con la realtà contraddittoria di classe avviene attraverso la generalizzazione e l’intensificazione delle forme, cioè attraverso un processo di espansione delle forze. Lo sbocco della pratica, dispiegata e progressiva, di un tale contropotere rivoluzionario, non può essere altro a ben vedere, che un processo insurrezionale costruito a frammenti e per addizione delle forze già singolarmente realizzate. L’obiettivo «comunismo» verrebbe così ad essere conseguito per aggregazione molecolare delle varie forze di classe che praticano le più svariate forme di lotta violenta accomunate però dalla caratterizzazione strategico-offensiva del loro contenuto.
La palma del protagonista va dunque ai «cento fiori delle avanguardie armate» mentre il partito non ne è che il centralizzatore e il moltiplicatore strategico.
Rispetto al secondo schema individuato, l’obiettivo di fase è il rafforzamento e l’allargamento delle condizioni favorevoli alla conquista armata del potere in un contesto di guerra di classe in atto (guerra civile).
I contenuti offensivi e difensivi, tattici e strategici, sono le forme di lotta più elevate, che danno l’impronta politica alle varie manifestazioni della «lotta armata». In entrambi i casi, la mistica dell’azione armata rischia di chiudersi in una sua logica interna praticamente impenetrabile dalle istanze che le sono ideologicamente e organizzativamente esterne. Questo percorso, come è stato più volte sottolineato storicamente da esperienze analoghe, conduce alla militarizzazione della politica e alla indifferenza per la coscienza possibile di classe, attraverso l’apologia del fucile.
Sulla china dell’involuzione tale pratica politica comporta l’esaltazione dell’esistenza guerrigliera come fatto in sé strategico; ove sopravvivere all’attacco del potere significa già dispiegare un attacco vittorioso.
10) Conclusioni: contro la cattiva unità
Guardando alla pratica di movimento, alle sue espressioni politiche, si può notare come indubitabilmente esista, e sia in veloce espansione, un’area che guarda alle espressioni di lotta violenta, politico-militare, sbrigativamente definita «lotta armata», come a un programma politico già compiuto e definito.
Qui si incontrano l’oggettivismo più determinista, che basa le sue valutazioni essenzialmente sugli aspetti quantitativi che assume il fenomeno dell’illegalità violenta, e il soggettivismo più sfrenato, che considera essenzialmente il peso dell’iniziativa volontarista e giacobina di una minuscola avanguardia cosciente. La «lotta armata», come è stato rapidamente analizzato nella nostra disamina, si mostra quindi per lo più come estremizzazione dei comportamenti di classe potenzialmente eversivi, o come assolutizzazione delle forme di lotta soggettive.
Dalla confluenza di queste due tendenze, unificate dalla considerazione dell’azione armata come unico criterio di definizione di una pratica realmente rivoluzionaria e sintesi politico-militare perfetta, si origina l’unità dell’area che si richiama alla «lotta armata». Noi riteniamo quest’unità, basata sulla mistica dell’azione armata, falsa e deleteria, una cattiva unità.
Falsa, perché accomuna indiscriminatamente Nap, alcune frazioni dell’Autonomia operaia, Br, spezzoni irrequieti di servizi d’ordine, nuclei informali di fabbrica e di quartiere, giovani dei ghetti, fino a semplici individui assetati di «rivoluzione» e alle esperienze di minor spessore e significato, ai detriti del movimento… in un fragilissimo mosaico.
Deleteria, perché stempera, senza alcun risarcimento, le caratteristiche teorico-pratiche di ciascuna organizzazione o gruppo, il suo riferimento a un determinato strato o esperienza della massa subalterna, e impedisce un processo di confronto reale tra proposte differenti e distinte.
Ciò che manca, e che nessuna alchimia d’avanguardia può trasfondere immediatamente e magicamente nell’«azione armata», è il programma, la mediazione politica che renda realmente possibile l’egemonia rivoluzionaria sul movimento, che trasformi in ricomposizione soggettiva, cosciente, il processo che scuote e sommuove oggettivamente la struttura di classe operaia e proletaria.
L’urgenza è forte: l’aggravarsi della crisi e la molteplicità – spesso convulsa – delle risposte di classe determinano una situazione in cui – come dimostra la confusione dettata da alcune delle ultime azioni – una lunga serie di nodi teorici irrisolti vengono al pettine della storia.
Il rapporto tra avanguardie e massa, tra strategia e tattica, tra lavoro legale e lavoro illegale, rischiano di diventare altrettanti sviluppi irrisolti e incancreniti, se non vengono opportunamente collocati e organizzati in una pratica rivoluzionaria in cui la coerenza dell’azione rispecchi la coerenza progressiva di un programma in costruzione.
OLTRE LA GUERRA DEI SESSANTA GIORNI
Da «Controinformazione», n. 11–12, Luglio 1978
Lo stato della crisi e il movimento di classe
In relazione agli avvenimenti politici degli ultimi mesi si è svolto, all’interno della redazione, un dibattito che ha fatto emergere posizioni e tesi differenti. L’editoriale che segue riporta questa discussione che, per evitare falsi unanimismi o convergenze politiche al livello più basso, è stata sintetizzata in tre differenti interventi, che corrispondono sia alle convinzioni che allo stile dei rispettivi estensori.
La funzione spettacolare del sequestro Moro
Baudillard analizzando la strage di Mogadiscio ha parlato di teatro della crudeltà. Violenza rivoluzionaria e violenza controrivoluzionaria entrerebbero in cortocircuito facendo esplodere il non-senso.
Che ci sia spettacolo in queste azioni è fuori dubbio. Giustamente Eric Hobsbawm parla di pubblicità dell’azione.
Però è stato fatto notare, che esiste anche un simbolico rovesciato, una trasformazione dell’uomo colpito o sequestrato in non-persona, in funzione intercambiabile della macchina.
Anatomizzare l’obiettivo, in uno Stato disseminato, come il nostro, è impossibile; ma più assurdo ancora è ritenere che al personaggio chiave corrisponda una funzione chiave insostituibile. Quasi a dire che il presidente della Dc è una «memoria» della macchina Stato, un organo senza il quale il congegno si ferma. Il software del potere, ovviamente, non è cosi centralizzato… Occorrerebbe sottolineare due aspetti che per la fretta o per l’isteria sono stati spesso sottovalutati. Da una parte il fatto che la riduzione di Moro a pura funzione intercambiabile, a non-persona, ha permesso alla Dc di sacrificare il suo presidente salvando l’autorità e l’immagine del partito. Dall’altro la linea della fermezza, il partito della morte – come è stato scritto con indubbia efficacia – che ha però avuto cura di immolare l’uomo incensandone la persona, la virtù, il sacrificio. Ha così ottenuto l’appoggio morale dell’opinione pubblica. L’uomo è stato sacrificato sugli altari. È diventato un martire. Moro come «corpo mistico» ha magnetizzato l’elettorato.
La linea dura è stata così ricompensata con una cospicua gratificazione elettorale.
L’astuzia machiavellica, dunque, è consistita nel separare l’uomo dalla funzione, facendo mostra di operare l’impossibile, cioè di sacrificare la non-persona e salvare la persona. Chiaro che è stata una scena assurda e macabra perché dentro la funzione del presidente c’era l’uomo. All’uomo è stata tributata l’immortalità del lutto nazionale, della memoria pubblica. E, oggi, con l’esaltazione del pensiero dello statista, con l’eredità politica dello scomparso, rivendicata dalla segreteria, con il rito dell’unanimismo, si sta giungendo addirittura a una forma di beatificazione politica del presidente Dc: Moro come tutore spirituale e politico del partito, della sua linea. La Dc si rilancia come associazione integralista che ha il potere per investitura divina o, se non altro, per superiorità morale. In questo senso se è fuori dubbio che lo Stato è stato colpito non è altrettanto certo che sia stato messo fuori uso.
Il significato simbolico è caduto del resto, sia perché è stato rifiutato lo scambio coi prigionieri, sia perché immediatamente è stato detto dalla Dc che Moro era una funzione intercambiabile. Anche le prime «rivelazioni»: l’attacco a Zaccagnini a Cossiga a Taviani, non hanno sortito il risultato voluto. Tant’è che le Br, alla fine, hanno affermato che avrebbero usato le notizie e le informazioni in mano loro per portare avanti la lotta. Che è a dire: mettiamo il silenzio stampa, noi, sul «processo spettacolare» al presidente Dc. Il significato, perciò, da questo momento, non è più stato né simbolico, né esemplare, ma letterale. Il sequestro di Moro come un momento della strategia di guerriglia condotta dall’organizzazione clandestina.
Reazioni e «dialogo a distanza» tra le Br e il movimento di classe antagonista
Sostanzialmente si sono avute due posizioni, una di tipo moralistico, umanitario, portata avanti da Lc e un’altra politica, di netto dissenso, fatta propria dall’autonomia.
Rispetto alla prima, le argomentazioni umanitarie non hanno sfondato come si è voluto fare credere. Da anni la violenza è un comportamento di classe, da anni si grida «pagherete caro pagherete tutto». Molti compagni della sinistra non hanno avuto niente da ridire sul fatto Moro, in termini morali. Che la morale rivoluzionaria sia tutta idillica è ancora da dimostrare, specie in una società classista. Queste sono posizioni da falsa rivoluzione culturale che possono ipnotizzare alcuni settori del movimento ma non altri. E questo riguarda, in particolare, chi vive sulla propria pelle lo sfruttamento quotidiano e sa che in Italia c’è un’ecatombe di operai uccisi dalla fabbrica e dal sistema ogni anno: un morto all’ora, per essere precisi, un ferito al minuto, per non parlare degli incidenti stradali e dello stritolamento quotidiano… Come giudizio morale vale ancora ciò che scrisse Marx, sulla rivoluzione sanguinosa del giugno 1848: Lo Stato ne assisterà le vedove e gli orfani (dei soldati uccisi, n.d.r.), la stampa li proclamerà immortali. Ma i plebei straziati dalla fame, insultati dalla stampa, bollati come incendiari e galeotti, le loro mogli, i loro figli, precipitati in una miseria indicibile (…)?».
L’atteggiamento proletario in genere, quello meno emotivizzato dalle chiamate antifasciste e dalle adunate oceaniche, ha dunque saputo distinguere la linea di classe che passa tra la vita e la morte, il lutto e il compianto, il movimento dei padroni e quello dei proletari. Qui l’identificazione forzata in molti casi si è ribaltata in non-identificazione viscerale. «Ma come», dicevano molti operai, «quando qualcuno di noi muore, nessuno ne parla… se dovessero fare sciopero per ognuno di noi che ci lascia la pelle nessuno lavorerebbe più ». Questa, senza dubbio, è stata una reazione istintiva che non ha alcun rapporto con la teoria sul valore astratto della vita umana, sulla morale non violenta, sulla tesi del diritto uguale. ecc.
La seconda reazione, invece, quella politica, evidenziava molto bene certi fantasmi del passato terzintenazionalista, fantasmi autoritari, dirigistici, che la gestione Br del sequestro Moro, ha resuscitato di fronte agli occhi di migliaia di compagni. Mi riferisco a quello che è stato definito il problema della legittimità. Stato imperialista/Stato guerrigliero; processo di Torino/controprocesso Moro; prigione borghese/prigione del popolo.
La questione del ripristino della pena di morte, la questione della violenza rivoluzionaria, come norma contro chiunque si opponga a una linea che si autoproclama strategica e vincente, stava dentro questo dibattito per intero. L’escalation della violenza astratta, il ragionamento del fucile sono stati criticati duramente, non tanto per opportunismo, ma perché ci si è domandati, credo, che senso abbia misurare politicamente la giustezza di un programma solo in base alla capacità tecnica, militare. Ma come, chi si richiama al leninismo, non sa che le dispute e la polemica anche feroce tra bolscevichi e menscevichi, socialisti rivoluzionari, anarchici, non vertevano su quale obiettivo sparare, bensì su quale tattica e su quali parole d’ordine adottare nei confronti del popolo?
In sintesi, quindi, la critica più dura alla gestione e alla sordità politica delle Br è nata da questa obiezione: la distanza e il percorso di una strategia rivoluzionaria di classe non si misurano con la gittata di una pallottola. L’alternativa globale, poi, non si costruisce presentando un modello di potere antitetico ma speculare a quello che si combatte.
Dato che l’argomento è delicato la cosa migliore è fare parlare questa organizzazione, attraverso i documenti. Scorrendo i comunicati si nota che è stato lanciato un ardito ponte tra avanguardia armata e movimento rivoluzionario nel comunicato n. 2 scrivendo: «onore ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli». Riconoscimento subito respinto al mittente dal circolo Leoncavallo. La circostanza però non è né accidentale né marginale. Infatti nel comunicato n. 4, parlando del partito si dice che «agire da partito» vuol dire dare all’iniziativa armata un duplice carattere (…) «disarticolare e rendere disfunzionale la macchina dello Stato e proiettarsi nel movimento, essere di indicazione politico militare per dirigere e organizzare il MRPO verso la guerra civile antimperialista». Ebbene, le Br puntano a organizzare quella che definiscono «guerra civile strisciante», per impedire che le mille iniziative scoordinate nebulizzino nel nulla la carica di contropotere del movimento. Ma per fare questo ci vuole Autorità. E siamo al punto cruciale.
Il partito
L’autorità ce l’ha il partito, ma se non c’è il partito chi se la arroga? Ecco la loro risposta; «agire da partito»: cioè a partire dal nucleo combattente Br costruire il partito combattente nel movimento di resistenza.
È leninismo dottrinario, astratto, che postula: «trasformare il processo di guerra civile ancora disorganizzato in un’offensiva generale».
È qui l’origine del dirigismo armato delle Br. Pretendere che il «partito» – esterno al movimento, non per la sua dislocazione fisica, strategia della clandestinità, ma per la estraneità agli obiettivi materiali alla coscienza possibile della classe – possa dirigere tutta l’opposizione, tutto il dissenso, tutto l’antagonismo che si sostanzia in comportamenti molto sfumati e contraddittori. La classe viene vista, in ultima analisi, come massa da dirigere: ovvio che questa concezione eteronoma della lotta sia sgradita a chi, da anni, sta cercando l’autoricomposizione, non la delega.
Per contro, le Br calcano sempre di più, con tutto il loro peso militare, che è indubbio, per ottenere un riconoscimento, per imporre l’autorità politica sul movimento, sotto forma di egemonia militare.
Ma per la natura stessa dell’errore che essi compiono: scambiare una forma di lotta con l’essenza dello scontro, scambiare lo strumento dell’attacco con il programma complessivo, le possibilità di instaurare realmente tale autorità sono minime.
Dietro il loro impianto infatti c’è una scommessa millenaristica: o terza guerra mondiale o guerra civile che ben poco si lega all’esperienza culturale, alla verifica empirica degli ultimi anni, durante i quali la normalizzazione è apparsa come un processo ben più sottile e dialettico…
Solo due modelli di guerriglia sociale, cioè di lotta militare strettamente intrecciata alla lotta sociale sono stati rilevanti. Il primo è quello cinese che si avvalse però di zone libere, cioè di microstati nello Stato. Zone dove il popolo non solo guerreggiava ma lavorava, viveva, procreava in modo alternativo contro il sistema dominante. Questo è un retroterra valido, perché è un retroterra complessivo, non solo militare, ma materiale e ideale…
Il secondo esempio ci porta al dramma dell’Uruguay. Il regime di Bordaberry ha soffocato nel sangue, versato dalla dittatura, un grande movimento di lotta che aveva nei tupamaros il suo epicentro. Laggiù questi compagni tentarono di radicare un modello di guerriglia inedito, legale e illegale, militare e sociale. Il fronte ampio non fu certo la vittoria della linea morbida bensì della linea dispiegata. Ciò che propugnano le Br, invece, non ha ne retroterra né proiezione. Viene spontaneo domandarsi, dove pensano che si riproducano le avanguardie rivoluzionarie di massa, in quale terreno…
Lo stato
Quale teoria dello Stato le Br mostrano di avere?
Alla teoria del cuore dello Stato imperialista non si può contrapporre né quella dei due cuori, uno nel partito e uno negli apparati, propria della Dc; né quella del cuore operaio e democratico tipica del Pci.
Sempre per restare nella metafora sarebbe più giusto, forse, parlare di uno Stato senza cuore. Ovvero di uno Stato che pulsa di una vita economica, politica, sociale e istituzionale non propriamente localizzata in un organo vitale. Il continuo riferimento delle Br all’esecutivo parla chiaro: per prendere il potere occorre colpire, disarticolare e abbattere questo motore.
Ma una tale concezione nasce da una contaminazione assai confusa tra la teoria del superimperialismo (un paese imperialista egemone) con quella dell’ultraimperialismo (armonia conflittuale tra le superpotenze).
Da questo offuscamento, poi, prende corpo la tesi della guerra di lunga durata come «insurrezione progressiva» contro i poteri dello Stato imperialista.
Insomma lo Stato o si abbatte o si disarticola e se lo si disarticola nel corso di questo «corpo a corpo» si trasformerà. È inevitabile. Ma come?
Dunque, per restare alla sostanza dello Stato, va detto che l’analisi che le Br fanno della Dc e del Pci è quantomeno nebulosa. Se la Dc è asse portante della ristrutturazione e il Pci ne è l’altra faccia, allora è come dire che ci sono solo diversità di forma. Riformismo e annientamento – scrivono le Br – sono complementari. Il punto, invece, è che la ristrutturazione dello Stato in Sim non è affatto chiara neppure per il «personale imperialista» che deve gestirla. In breve: mentre per buona parte del Pci (per i quadri duri e la base sincera, almeno) la conquista dello Stato viene intesa come statalizzazione dei monopoli, come politicizzazione revisionista delle istituzioni dominanti, per la Dc, invece, è l’opposto.
Non di statalizzazione del capitale si tratterà, bensì di capitalizzazione dello Stato, di monopolizzazione delle istituzioni, del parlamento, ecc.
Nasce di qui una contrapposizione non solo distintiva ma antagonistica tra concezione dello Stato democristiana e revisionista. Quella che si può chiamare, per gli uni, i Dc, concezione extranazionale e per gli altri, i Pci, sovranazionale.
Terza guerra mondiale? Benissimo, ma allora occorre includere tra le metropoli dell’imperialismo anche le capitali dell’Est. E con la guerra civile nel cuore del socialimperialismo come la mettiamo?
Sono i processi di classe, peculiari, certo anche nazionali; è la microfisica del potere; sono le trasformazioni molecolari del tessuto di classe a darci come «risultante» un certo Stato e il suo funzionamento. Uno Stato determinato che non esce da un laboratorio americano o sovietico. L’unico laboratorio è la storia. Il moloch è solo una metafora.
Le Br attaccano le teorie «dell’involuzione autoritaria e della generazione dei corpi separati». Giusto, ma poi leggendo la ristrutturazione degli apparati di sicurezza in chiave di funzionalizzazione alla superstruttura imperialista, non fanno che ripetere, su grande scala, lo stesso errore. Qui non si tratta di mutamenti istituzionali, separati dal corpo sociale, dai processi molecolari di classe; si tratta, invece, di interazione profonda, storico-politica, tra strutture e istituzioni. Marx l’ha detto chiaramente: «È sempre il rapporto diretto tra i proprietari della condizione di produzione e i produttori diretti (…) in cui noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma specifica dello Stato in quel momento».
Vediamo quindi quali sono i rapporti di produzione, qual è il modo di produzione e di qui, caso mai, deriveremo la «metamorfosi» delle istituzioni, la forma-Stato presente…
È doveroso sottolineare la priorizzazione della rivoluzione politica tipica delle Br. Rovesciare uno Stato con un altro Stato sembrerebbe una tappa fondamentale del loro programma. Cambiare il segno del potere, non il principio. Su questa concezione hegeliana dello Stato che fonda i rapporti sociali (forse involontariamente rivisitata dal linguaggio «legalitario» contenuto nella sfida dello Stato degli oppressi contro lo Stato degli oppressori – ma compito della rivoluzione non è distruggere ogni forma-Stato?) è fin troppo facile polemizzare…
La composizione di classe e il soggetto rivoluzionario
II referente – per usare questo orribile neologismo sinistrese – cui si rivolgono le BR, ma anche il soggetto di massa rivoluzionario, oggi sembra assente dalla scena politica. Forse il prestigio delle BR, la loro autorità, è stato esagerato anche per questo motivo, per la mancanza di un’ipotesi antagonista organizzata, combattiva. D’altra parte la parola d’ordine, uscita dal movimento del ’77, ormai in agonia: «non prendiamo il potere» ha contrassegnato più il riflusso di certe categorie proletarie emarginate che non la piena maturità del movimento di lotta. Il Pci che ha contato molto come riferimento in negativo per tutto il movimento, dal ’76 ad oggi, ha fatto coincidere la sua «entrata nello Stato» con una teoria del potere nuova di zecca.
È la danza del granchio eretta a sistema. La società democratico-borghese che si fa sempre più autoritaria, anche a detta dì un Canosa, di uno Stame, per i revisionisti più si istituzionalizza e si verticizza e più diventa partecipata.
Più la lotta di classe viene sublimata nella dialettica dei partiti e più acquista potere. Così la fase delle lotte rivendicative, per il salario, per una migliore collocazione di lavoro, ecc., viene oggi definita dal Pci difensiva, mentre il soffocamento di ogni istanza anticapitalistica nelle fabbriche, nelle scuole e nel territorio, viene contrabbandata come realizzazione di una strategia offensiva.
Tronti ha definito la centralità operaia nell’autonomia del politico come capacità di «gestione della macchina statale», come «attracco con la politica ». In altri termini il baricentro dell’egemonia di classe non sta più nella fabbrica, nei luoghi di produzione, bensì nelle istituzioni. Di fronte a queste posizioni è comprensibile che molti degli operai espropriati della loro centralità di lotta (delegata ora ai burocrati che li rappresentano nel «farsi Stato») possano pensare «all’altro Stato», quello armato, quello BR. Ma non è questo che ci interessa.
I punti fondamentali da chiarire sono due. Primo: che rapporto c’è, se c’è, tra la strategia della guerra civile Br e l’attuale composizione di classe antagonista.
Secondo: il movimento di classe, può ancora esprimere una strategia rivoluzionaria che non sia quella millenarista; se sì. qual è il suo terreno sociale di riproduzione, quali i comportamenti e gli obiettivi di lotta?
Partiamo dalla fabbrica. Ciò che si nota subito è la separazione netta tra composizione tecnica e composizione politica degli operai. In altri termini il padronato è riuscito a divaricare sempre più le condizioni di esistenza produttiva dalle condizioni di esistenza riproduttiva dell’operaio. Storicamente parlando siamo alla terza fase.
La prima, quella dell’operaio professionale, vedeva la composizione tecnica, l’esistenza produttiva, degli operai di mestiere, centrale rispetto alla società.
Il produttore era più importante del cittadino, per dirla con Gramsci. L’operaio, quindi, era forte in fabbrica ma ancora debole nella società. Nella seconda fase, quella dell’operaio massa, la trasformazione del ciclo, la ristrutturazione delle mansioni, l’automatizzazione, hanno reso la composizione tecnica dell’operaio omogenea lungo tutto il ciclo principale.
La composizione politica, poi, sia per le lotte sociali – casa, trasporti, servizi – sia per la presenza massiccia degli operai, come classe, venne a corrispondere per un certo periodo alla forza interna. Forza contrattuale nella fabbrica, forza politica nel sociale. Ecco la ricomposizione da cui scaturì la scintilla delle grandi lotte spontanee.
Terza fase: è stata denominata dell’operaio sociale, dei non garantiti o delle fasce mobili di precariato. Al di là dei termini ciò che conta è la sostanza. L’attuale processo di scomposizione tecnica e di disgregazione politica può così essere sintetizzato: decentramento, disseminazione produttiva da un lato; dispersione, diffusione sociale dall’altro.
Il risultato è che la classe non è più forte né in fabbrica né sul sociale.
L’esistenza produttiva è minacciata dalla mobilità, dalla decurtazione del salario, dai licenziamenti, dall’aumento dei ritmi ecc.; l’esistenza riproduttiva, a sua volta, è attaccata dalla criminalizzazione, dalla disoccupazione, dalla polverizzazione, dal controllo istituzionale, ecc.
Questa, la frattura storica con la quale il movimento deve fare i conti. Chi attende con fede il ritorno delle lotte di fabbrica è convinto che si tornerà, prima o poi, alla centralità fisica dell’operaio, chi invece teorizza l’accerchiamento dei luoghi produttivi da parte del proletariato non-garantito dà per scontato che la grande fabbrica sarà sempre più una cattedrale nel deserto dell’emarginazione…
Oggi il centro politico della classe organizzata è posto fuori della fabbrica e della sua autonomia. È un centro burocratico e dirigistico che reprime e controlla le «lotte di fabbrica» invece di galvanizzarle. Ciò significa che ogni margine di «riformismo operaio » quello nei cui interstizi, per intenderci, è prosperato il sindacalismo di sinistra, l’anarco-sindacalismo, lo spontaneismo operaio, ecc., è stato colmato dalla presenza invadente della dirigenza riformista, che non è più disposta a tollerare alcuna diarchia fabbrica/istituzioni… D’altro canto nel sociale dove gli unici frammenti e coaguli organizzativi erano conseguenza delle lotte di fabbrica, a maggior ragione dopo la «bonifica politica» non c’è più nulla. Perciò, schematizzando, si può dire che i movimenti del territorio nascano non tanto dalla negazione dell’esistente quanto dalla assenza di obiettivi comuni. Tuttavia le condizioni effettive per un nuovo movimento rivoluzionario ci sono ma sono tali da risultare sfasate rispetto alla organizzazione soggettiva, alla finalizzazione organizzativa. Facciamo un esempio: c’è il lavoro nero. Combattiamo contro il lavoro nero. Ma se si organizza soggettivamente questa lotta come lotta di settore, di specifico, si brucia a molti la possibilità di riprodursi perché tolto il lavoro nero non hanno altro, non hanno l’assistenza, l’alternativa, hanno quello e basta.
Le Br affermano che rimane valida la concezione dell’egemonia operaia.
Quale operaio e quale egemonia? L’operaio Fiat o quello del ciclo marginale?
Sono distinzioni reali e la scelta del referente è fondamentale, ma le Br non hanno un programma che tenga conto dell’esistenza materiale della classe; in che modo pensano di riequilibra re tatticamente la composizione tecnica dell’operaio con quella politica e militare?
La simpatia operaia, che è un fatto reale, è dovuta quindi, al discorso «presa di potere» che le Br fanno e che si avvicina di più alla vecchia ideologia terzinternazionalista che non alle attuali teorie dei bisogni. Con ciò si esclude un rapporto dialettico tra programma politico, strategia armata e retroterra sociale e materiale.
Il discorso Br è militarista, è clandestino, proprio perché dà una divisa di rivoluzionario a chiunque sia disposto ad accettare lo scontro totale, armi in pugno, nelle sue file, ma non sta certo a misurare «la taglia» oggettiva, materiale, sociale, dei suoi referenti. Si punta a costruire l’esercito guerrigliero, non ad organizzare l’opposizione e il dissenso di classe. Sono due concetti diversi…
Il caso Moro lo ha fatto capire chiaramente: l’aberrazione è palese: ogni ipotesi che non nasca dalla canna del fucile non viene minimamente considerata dalle BR. Il che è una vera sciocchezza perché politicamente parlando sono state e saranno solo e sempre le lotte, anche quelle «delle 10 lire», a fare sì che non si prosciughi il retroterra rivoluzionario oggettivo. Come diceva Lenin: «Sotto ogni lotta politica c’è una lotta economica».
Dobbiamo notare che economicamente il paese capitalistico è stabile, «stabilissimo». Siamo nel ciclo politico della crisi ma la bilancia dei pagamenti sta andando alla pari. I profitti aumentano, il tasso di accumulazione cresce. La Fiat è in ripresa.
Non si può dire altrettanto per il paese proletario, dove il doppio lavoro cresce in proporzione diretta alla disoccupazione apparente, dove la giornata di lavoro si allunga in proporzione alla diminuzione del tempo di lavoro necessario, dove le fabbriche falliscono per risuscitare poco dopo sotto forma di piccolissime aziende.
Ecco il centro; qui occorre colpire e destabilizzare, perché il piede diffuso delle istituzioni è questo ed è un piede solido.
Ciò che notiamo, a ben guardare, è un processo molto complesso che si svolge sotto pelle.
Il mercato si restringe, i consumi interni ristagnano. È ovvio che sia così perché il valore d’acquisto del salario decresce a vista d’occhio, mentre aumentano i prezzi dei generi di prima necessità. Contemporaneamente cresce lo sfruttamento estensivo, cioè la produzione di plus valore assoluto.
Questo ci dice che la disoccupazione è un problema fantasma.
In parte infatti è lavoro occulto, in parte lavoro famigliare, reddito di nucleo. Ecco la ricetta del profitto: cresce la composizione organica di capitali in certi settori e segmenti del ciclo. Si concentra, poniamo, nel settore petrolchimico, elettronico, in certi reparti di produzione auto, e, viceversa, cresce la scomposizione tecnica e politica del proletariato. Il capitale costante © comanda porzioni via via crescenti di lavoro vivo (v), solo che il comando è «fisicamente» diluito. Così a seconda delle esigenze del ciclo qui c’è maggiore intensità dello sfruttamento là maggiore estensione; qui si produce plus valore assoluto (perché prevale la manodopera). La combinazione, poi, delle varie forme avviene nella sussunzione al ciclo; al singolo capitale per ciò che concerne l’impresa, al capitale complessivo per ciò che concerne l’intera circolazione. L’insieme del processo è oltremodo importante e va studiato accuratamente. Infatti quando parliamo di doppio ciclo, di garantiti e non garantiti, in realtà indichiamo con delle contrapposizioni o delle disgiunzioni ciò che non è affatto separato ma che deve apparire separato. L’essenza capitalistica dei fenomeni è unica e altamente integrata. Negli ultimi anni si è assistito alla diminuzione del prezzo del lavoro e all’aumento della produttività. Come? Il capitale incrementando la composizione organica, con la ristrutturazione degli impianti, ha aumentato la produttività e intensificato la produzione di plus valore relativo. Questo è avvenuto essenzialmente nella grande fabbrica «automatizzata».
Dall’altra parte con il decentramento e l’attacco ai salari, la creazione del ciclo marginale e del mercato marginale del lavoro, è enormemente diminuito il monte salari, cioè la quota sociale del capitale variabile anticipato.
È clamorosamente falsa l’analisi che afferma la diminuzione e il ristagno in assoluto delle forze produttive.
In questo errore è contenuto il meccanicismo delle BR. Dicono: le forze produttive non si sviluppano più perché se si espandessero ancora dovrebbero mutare anche i rapporti di produzione e questo il capitale non se lo può permettere.
In realtà i rapporti di produzione sono mutati, ma nel segno opposto: non esportando l’antagonismo bensì potenziando l’istituzionalizzazione e clientelarizzazione del proletariato marginale e realizzando la marginalizzazione politica e lo sfruttamento assoluto del lavoro vivo lungo tutta la rete del decentramento.
Aggiungiamo poi che «ogni capitalista» tende a realizzare il massimo su ogni «singolo prodotto» e avremo, appunto, il quadro del presente: settori che producono per il mercato interno e altri che esportano solo: settori di valorizzazione finanziaria; un salario la cui destinazione è assai mutevole e che può essere rinforzato solo da un secondo lavoro che produce plus valore assoluto.
È chiaro che, secondo una tale analisi, l’esprit politique, giacobino, serve fino a un certo punto. La ricerca vera comincia a partire dalla ricomposizione degli obiettivi politico-sociali comuni ai vari soggetti produttivi. Non ricomposizione militare o al di sopra degli obiettivi.
Quindi: individuare la funzione strutturale del precariato che attualmente è la fascia principale di produzione di plus valore assoluto e di stabilizzazione del comando diffuso; smetterla di parlare di autovalorizzazione proletaria separata che in realtà è solo un modo diverso per spiegare l’intreccio tra mobilità assoluta e sfruttamento assoluto non codificati in contratti e posti di lavoro contrattati.
Poi risalire le varie «tappe e intersezioni » del ciclo e cogliere i «luoghi» in cui si annodano le varie funzioni: salario e reddito produttivo, lavoro necessario e lavoro astratto, plus valore relativo e assoluto, repressione strutturale e controllo, repressione politica.
Ovvio che il valore lavoro di cui parliamo si connette immediatamente alla composizione politica, al valore sociale del proletariato, al suo essere classe. La diminuzione del valore lavoro si spiega solo se riusciranno a spiegare la nuova funzione del comando, il nuovo potere, le nuove istituzioni, il nuovo stato, i nuovi rapporti sociali e di classe, che pesano in senso antiproletario.
Concludendo con previsioni nostre possiamo quindi sintetizzare le cose dette.
È poco probabile una svolta di destra, sia perché non c’è la base strutturale, per un regime monopolistico nazionale, ormai superato, sia perché, in parte, la pressione politica sui salari e la produzione di plus valore assoluto sono ottenuti «con altri mezzi», cosiddetti democratici.
Neppure è pensabile «un’argentinizzazione strisciante» perché non esiste ancora la «colonna guerrigliera» in grado di catalizzare e esclusivizzare militarmente le istanze materiali, oggettive, di antagonismo e di ingovernabilità del proletariato.
La ipotesi socialdemocratica, di tipo sovrannazionale, avanzata dal Pci, pare arretrare, dopo la batosta elettorale. Le istituzioni non si surrogano con la polizia operaia, ha detto chiaro la Dc.
Tuttavia il processo di socializzazione dello Stato, con relativo consenso e criminalizzazione, deve continuare a marciare. Deve, perché, altrimenti, la contrapposizione tra garantiti e precari, proletari con diritti e proletari senza diritti, su cui si fonda il nuovo ciclo politico rischia di incepparsi. Di qui, sembra sia possibile dire che nascerà in certe componenti operaie una rinnovata velleità del potere operaio aristocratico. Il capitale necessita, infatti, di cinghie di trasmissione tecnocratiche, di natura operaia. Ecco la nuova base sociale «gratificata» del revisionismo autoritario.
Ma ecco anche aprirsi nuovi spazi di conflittualità e di dissenso contro i vertici, perché il Pci non può più sbandierare false cambiali da incassare «non appena andrà al governo».
Molti altri seguiranno la cometa Br alla ricerca di un potere qui e ora, che ricalchi la rassicurante propaganda «operativa». Ma l’assenza di ogni mediazione coi bisogni è un valore negativo.
La ripresa di massa della lotta dovrà passare attraverso contenuti e obiettivi ricompositivi. Bisognerà tornare ad analizzare la struttura sociale del salario, non come reddito assicurato o cardine tattico del rapporto di forza tra capitale e lavoro, ma come ingrediente decisivo della attuale fase di accumulazione. Perciò occorre uscire dalla settorializzazione e dalla contrattazione rivendicativa, e investire variamente il problema del lavoro differenziato e del ciclo a «garanzie operaie difformi». Solo così si potrà tornare a pensare in termini di esplicazione e di coscienza storica la sussunzione della forza lavoro – nelle sue varie applicazioni al capitale, nelle sue varie forme e gerarchie – e il loro ribaltamento. È necessario infine aggiungere, che occorre anche tornare a considerare il metodo come conoscenza dialettica e non come dogma, e a considerare le azioni armate nel loro giusto peso, come mezzi e forme e non come fine, della lotta di classe.
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Lo sviluppo dello scontro di classe culminato, sul piano istituzionale, con l’azione condotta contro il presidente della Democrazia cristiana, ha prodotto nel Movimento un singolare balbettio più o meno confuso a seconda che prevalessero interessi d’identità politica di gruppo o preoccupazioni di natura squisitamente personale di questo o quel leader «storico». Comune a tutti è l’assenza di qualsivoglia analisi di classe. Al pari della borghesia, che in nome della «ragion di Stato» ha affossato senza traumi visibili il principio liberale della salvaguardia della vita del singolo cittadino (premessa di ogni altro diritto), la sinistra sembra aver dimesso nel momento della prima verifica seria tutto il patrimonio teorico e di esperienze di analisi accumulato dal Movimento in questi ultimi dieci anni. L’unica preoccupazione sembra essere – se si lasciano da parte le discussioni gesuitiche sulla violenza – la rivendicazione di un proprio e diverso terreno dello scontro, affermato apoditticamente come l’unico e il risolutorio.
Lo scopo è – nonostante i successivi aggiustamenti «tattici» – chiaro, né si può tacere per carità di patria: sottrarsi preventivamente all’ondata repressiva in atto ed ai suoi prevedibili sviluppi. Una posizione, sia detto per inciso, tanto difensiva quanto miope, che, come è stato esperimentato innumerevoli volte, dà respiro alla repressione presente e pone le premesse per ulteriori e più allargate azioni del potere.
Ma al di là della miseria delle motivazioni immediate deve essere chiaro che la scelta, che si pretende di compiere, è in realtà una scelta imposta dal potere costituito, tendente a stabilire una spaccatura artificiale tra il terreno istituzionale e il livello strutturale in analogia al modello di scomposizione che i processi di ristrutturazione in atto vanno prefigurando. Si lascia, in altre parole, all’avversario il compito di delimitare l’area dello scontro, se non di stabilirne le modalità, quasi esistessero articolazioni del comando capitalistico da «risparmiare», terreni «propri» e «impropri» allo scontro di classe nell’era della sussunzione reale, dell’identità tra politico e sociale.
L’articolazione del comando complessivo
Che il ristabilimento del controllo su ogni forma di autonomia di classe e l’esigenza di spezzare ogni residuo di rigidità, conquistato e difeso con i denti negli ultimi dieci anni di lotte, come anche tutte quelle nuove forme di rigidità sociale che il proletariato non-garantito va sviluppando a dispetto delle più cervellotiche costruzioni degli «ingegneri sociali», non possa compiersi senza una profonda trasformazione dello Stato in termini terroristici è da considerarsi scontato. Altrettanto pacifico è che tale trasformazione non può non avvenire se non in un quadro sovranazionale, quantomeno europeo.
Ciò che, invece, non può essere dato per scontato è che tale processo proceda e si compia senza smagliature e contraddizioni laceranti, tanto sul piano strutturale, quanto sul piano istituzionale. Il nuovo modello di scomposizione in garantiti e non-garantiti fatica sempre più, come avevamo previsto, a trovare un’area di consenso reale, e le periodiche e ricorrenti chiamate alle adunate oceaniche ne sono la manifestazione più evidente. L’area di privilegio dei «garantiti» si dimostra sempre più evanescente, il consenso, senza contropartite consistenti, è sempre più aleatorio, dopo che la stessa promessa «egemonia» politica è stata sacrificata sull’altare della subordinazione più totale alla DC. Ciò non toglie, però, che l’avanzato processo di segmentazione del ciclo produttivo, il blocco prolungato del turn-over, i licenziamenti e la continua erosione del reddito prodotto dall’inflazione monetaria e dal blocco degli aumenti salariali, abbiano di fatto delineato una profonda spaccatura a livello di classe. Tale nuova scomposizione determina il quadro dello scontro di classe al di là delle posizioni programmatiche e della pratica politica soggettiva.
Si presentano dunque due ordini di contraddizioni all’interno della classe e nell’ambito del dominio capitalista. All’evidente interesse dei settori più garantiti di proletariato di congelare o quantomeno rallentare i processi di ristrutturazione in corso si contrappone la spinta crescente degli strati non-garantiti, oggettivamente destabilizzante, ad appropriarsi di una quota sempre maggiore di ricchezza sociale, sottraendosi non solo ai classici meccanismi di sfruttamento nel sistema produttivo, ma anche a tutte le nuove forme di sfruttamento sociale. Il settore garantito maggioritario delega al PCI e al sindacato il compito di rallentare la ristrutturazione (rallentamento che attualmente rappresenta l’unica forma di garanzia occupazionale) attraverso una politica deflazionistica (a dir poco) «selvaggia», ben definita dallo slogan dei «sacrifici». È evidente che la prosecuzione dei processi di segmentazione e di diffusa computerizzazione del ciclo significherebbe non solo il ridimensionamento di importanti categorie professionali di classe operaia, ma il loro completo annientamento fisico, come già avviene in altri paesi (Germania, Stati Uniti). La dimensione prettamente istituzionale di tali scelte si scontra da un lato, come è stato accennato, con una realtà politica, caratterizzata dal fatto che le organizzazioni tradizionali del movimento operaio si pongono in una posizione subordinata, oggettivamente incapace di surrogare ai bisogni degli strati «garantiti», e dall’altro con le forme di acquisizione di reddito degli strati non-garantiti, riottose ad essere ricondotte nell’ambito di una regolamentazione sociale da mercato del lavoro fluidificato, che rappresenterebbe, infine, il prezzo da pagare per il congelamento dei processi di ristrutturazione in corso. In tale contesto si situa la tendenza, che coinvolge settori significativi dei «garantiti», di prospettare un’alternativa istituzionale di tipo escatologico, impropriamente definita «vetero-stalinista».
Nell’ambito del dominio capitalista, di converso, l’impossibilità di riversare su settori di classe circoscritti (come è avvenuto in Germania nel caso degli immigrati) l’onere dell’emarginazione, in una prima fase del processo di segmentazione del ciclo, e la necessità di imporre nei singoli segmenti consistenti incrementi di produttività ai fini di un riequilibrio del sistema complessivo, produce una crescente pressione sul settore «garantito», che PCI e sindacato con l’offerta di un maggior numero di ore lavorate non riescono a compensare in forma soddisfacente. L’esigenza di un incremento della produttività si stempera quindi nella necessità della ricerca del consenso di un settore di classe garantito, mediato dalle proprie organizzazioni, con il magro compenso di una relativa migliore utilizzazione degli impianti, con il prezzo di un decremento della produttività media, e con il rischio che l’auspicato nuovo mercato del lavoro fluidificato risulti ingovernabile. I tempi della verifica politica, da parte capitalistica, di PCI e sindacato rischiano infatti di approfondire quei fenomeni di degenerazione del mercato del lavoro, che, sempre dal punto di vista del capitale, caratterizzano la situazione italiana; il prolungato blocco del turn-over e la concentrazione, quindi, della maggior parte dei disoccupati nella forza-lavoro giovanile (negli altri paesi tale fenomeno è molto meno accentuato), hanno prodotto uno spostamento quasi insanabile della scala delle età della forza-lavoro occupata verso l’alto, dalle conseguenze terrificanti e non solo per ogni buon sociologo borghese. Tale situazione ha imposto ed impone con sempre maggior urgenza una accelerazione di tutte le iniziative soggettive, atte a trasformare in termini terroristici il contesto istituzionale, ad accentuare, nell’accezione capitalistica dello slogan dei «sacrifici», i termini della subordinazione politica di PCI e sindacato.
Il riconoscimento, peraltro oltremodo tardivo, della «destabilizzazione» come prodotto dallo scontro istituzionale ha portato alcuni settori dell’autonomia ad assumere – acriticamente ed opportunisticamente – la definizione dell’organizzazione rivoluzionaria come «articolazione strumentale del movimento» (da noi proposta nel numero precedente), proponendo quindi, nella sostanza, una sorta di «divisione dei compiti». Ma «la trasformazione della guerra istituzionale in guerra rivoluzionaria» è da considerarsi uno slogan oltreché paradossale anche semplicistico: riduce una realtà di classe composita ad uno schema di comodo nel quale sistemare tutte le forme di lotta e qualsivoglia azione in un’astrazione omnicomprensiva. I meccanismi di riunificazione e la riappropriazione di un terreno di scontro complessivo che colga tutti i nodi del comando capitalistico non vengono innescati da nuove parole d’ordine, distillate da una logica astratta.
Il modulo interpretativo che viene riproposto è quello solito: nell’ambito istituzionale il movimento di classe sarebbe l’immagine speculare delle strutture di potere capitalistico, ovvero di come questo ama costituirsi verso l’esterno, attraverso le proprie strutture «rappresentative». Ma è un’immagine parziale e falsata allo stesso modo di quella che identifica il movimento di classe, la contraddizione tra capitale e lavoro, con le forme organizzative del movimento di classe e la loro storia politica. La «moroteizzazione della conflittualità sociale», come è stata definita, se coinvolge indubbiamente quei settori di classe (ciò sia da un punto di vista riformista, quanto da un punto di vista «escatologico») in via di emarginazione nel quadro dei processi di ristrutturazione e del diffondersi a livello di classe di forme di contropotere reale, ha, d’altro canto, il compito di ricondurre ad uno sbocco politico tradizionale ogni tensione e contraddizione. Gli sviluppi collegati alla «vicenda Moro» nei loro aspetti meramente politico- istituzionali ne sono una conferma lampante.
L’azione condotta contro il vertice democristiano più che essere uno strumento di «destabilizzazione», come vogliono dare ad intendere i settori più forcaioli della borghesia e (all’opposto) quei segmenti del movimento rivoluzionario che si muovono sul terreno istituzionale, è stato l’espressione di una realtà «destabilizzata» in atto, caratterizzata dall’incapacità degli organi dello Stato di gestione attraverso i tradizionali meccanismi di regolamentazione istituzionali ed economici. Tale constatazione è importante perché proprio contro tali meccanismi è rivolta l’azione di quei settori e segmenti di classe garantita che fanno da supporto alle organizzazioni che hanno scelto la lotta armata istituzionale, e, viceversa, a favore di tali meccanismi – è opportuno sottolinearlo ancora una volta – viene indirizzata la strategia del revisionismo che pretende di «rappresentare» i medesimi strati. Ma la realtà del comando sul lavoro si fonda oramai, come le lotte degli ultimi dieci anni hanno ampiamente svelato, su ben altri meccanismi nel piano istituzionale-sovrastrutturale, che lo scenario politico tradizionale.
Attaccare la facciata del comando sul lavoro senza intaccarne la sostanza, ma legittimando implicitamente persino nel linguaggio pseudolegalitario, è per certi versi la dimostrazione di quanto sia avanzato il processo di scomposizione, la spaccatura tra chi individua una controparte – anche se da abbattere -, nei poteri politici costituiti e chi ne attua un superamento nella quotidiana distruzione dello stato presente delle cose. Lo scontro in atto è quindi non solo uno scontro a base di cadaveri, ma anche uno scontro tra cadaveri, un conflitto tra le marionette del potere e un settore di classe in via di emarginazione, la cui caratteristica è quella, come osservavamo per il caso Schleyer, che l’una parte cerca di superare l’altra in bestialità, senza peraltro riuscirci compiutamente.
Si è detto all’inizio che il terreno istituzionale, ove la controffensiva proletaria investe, distrugge e supera tutte le articolazioni del comando sul lavoro, includendo in esso anche e non secondariamente la dittatura del lavoro garantito sul lavoro non-garantito, costituisce il luogo di riproduzione del movimento di classe.
Mentre il ministero degli interni faceva scattare il «piano Zero», con grande imbarazzo di prefetti e questori, all’Alfa Romeo si sperimentava, con ben altro successo, quella nuova forma di comando sul lavoro, che nell’isolamento politico delle avanguardie si costituisce sul piano istituzionale come gestione sociale del lavoro garantito sul lavoro non-garantito: questo è il vero significato della «centralità operaia» riscoperta dal PCI e la dimensione concreta attraverso la quale si attua il progetto di controllo nel momento presente. Ai giochi formali istituzionali scanditi dai comunicati reciproci, tra ritirate strategiche e fughe in avanti, tra richieste apparentemente ultimative e controfferte, tra mediazioni e submediazioni, si contrappone la distruzione reale dei residui di rigidità operaia, la premessa per una scomposizione sempre più netta e tesa al ridimensionamento e all’isolamento di ogni forma d’autonomia.
Ma se il «cuore dello Stato» continuava a battere con rinnovato vigore, lo scompiglio creato nell’area rivoluzionaria dalle ultime vicende non sembra averne favorito l’identificazione anatomica. Mentre la persona Moro veniva sacrificata in nome di una astratta ragion di Stato e di una non meno astratta morale rivoluzionaria, tutte le faticose conquiste del Movimento ed ogni forma d’autonomia raggiunta venivano implicitamente negate e ricacciate a forza in uno schema ottocentesco che ci si era illusi di aver superato per sempre. Due sono perciò diventati i compiti più urgenti: rifiutare la logica restrittiva e sviante della «guerra privata», della repressione e della controrepressione; e riproporre quella pratica dei bisogni proletari, che oltre ad essere stata l’unica a produrre «aritmie» nel «cuore dello Stato», è il solo ambito – anche istituzionale – nel quale il comunismo vive come processo e non muore come utopia.
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Nessun organismo, nessuna frazione della sinistra rivoluzionaria, del movimento di classe antagonista non clandestino. ha riconosciuto nel cadavere del presidente della Democrazia cristiana il «più alto atto di umanità possibile in questa società», o un avanzamento della lotta di classe in ogni possibile accezione. Al contrario, il ritrovamento del corpo spettacolarmente martoriato di uno dei più grossi e irriducibili nemici del proletariato ha sanato molte delle contraddizioni aperte nei 54 giorni della operazione Moro, fra i partiti e interne ai partiti; ha ricompattato a destra l’intero asse politico istituzionale di dominio; ha permesso l’inizio di una campagna repressiva, liberticida, antiproletaria e controrivoluzionaria accelerata, ampia e profonda; ha contribuito ad aumentare gli spazi nemicali di vuoto, di disorientamento, di isolamento, di emarginazione, di divisione nei confronti e in seno al movimento di classe sia da parte dell’organizzazione statuale vera e propria, sia da parte della corrispondente e parallela organizzazione interna alle classi subalterne (PCI e OO.SS. e, fra queste, CGIL in primo luogo); l’episodio di via Caetani, e la campagna su di esso abilmente orchestrata, consente infine una paurosa e colossale inversione di tendenza nel processo di liberazione «culturale» della società civile, nella presa di coscienza e di autonomia delle classi subalterne rispetto ai valori dominanti della società borghese, prospettando il riemergere di abitudini, comportamenti, mentalità e stati d’animo creduti sepolti dopo gli scontri referendari del ’74 ed elettorali del ’75 e del ’76, dopo la ininterrotta rivoluzione culturale di questi ultimi 10 anni. Di ciò i risultati elettorali del 14 maggio 1978 costituiscono una pur piccola (in termini qualitativi, si intende, e non quantitativi), ma sempre significativa, dura, aperta, violenta e sconfortante proiezione (la più schiacciante affermazione democristiana dopo il 18 aprile 1948). Il processo proletario di liberazione e di emancipazione, insomma, segna il passo e con esso lo segna l’intero movimento di classe che non ha scelto (in tutto o in parte) gli indirizzi «tattici» delle organizzazioni armate e, in particolare, tempi, modi e «vedute» delle Brigate rosse.
Ma non è questa, certamente, la convinzione e/o la preoccupazione delle Brigate rosse. Non vi è convinzione che il movimento di classe abbia segnato il passo perché per le Br il «movimento di classe» si identifica, si totalizza, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, nell’area della lotta armata (e ciò indipendentemente da certe dichiarazioni contenute in alcuni comunicati emessi durante l’operazione Moro – vedi in particolare il n. 2 – dettate probabilmente da motivi di opportunità politica, più che da una precisa volontà di confronto con le altre articolazioni del movimento rivoluzionario che non siano i gruppi armati); nel febbraio 1978 la Risoluzione della Direzione Strategica afferma nel capitolo sul rapporto «Guerriglia e Potere Proletario»: « Bisogna prendere coscienza che nella nuova fase l’unica possibilità di sviluppare l’antagonismo e l’iniziativa proletaria si dà con il fucile in mano ed i nuovi compiti delle avanguardie comuniste riguardano la organizzazione della lotta armata per il comunismo», dopo avere specificato, onde evitare qualsiasi fraintendimento, che «… tra tutte le forze produttive, noi, l’avanguardia rivoluzionaria del proletariato metropolitano, siamo la principale» (le considerazioni più generose nei confronti dei vari segmenti dell’autonomia organizzata sostengono che «sarebbe un vero e proprio suicidio politico – oltre che fisico – [dopo la chiusura delle sedi dell’autonomia, il confino per i suoi militanti, lo stato d’assedio per i centri urbani] ostinarsi su posizioni legalitarie che se non sono opportunistiche marce indietro, si riducono a puro avventurismo velleitario»).
Se si accetta questa premessa non vi è dubbio che il movimento rivoluzionario non solo non abbia segnato il passo, ma sia stato uno dei tre grandi protagonisti usciti vincitori dallo scontro di questi due mesi: la catalizzazione della attenzione mondiale per un periodo così lungo, la derisione e l’umiliazione immediata dello Stato, unita a un’offensiva «terroristica» senza precedenti durante e dopo la vicenda Moro, hanno significato un successo, un prestigio, un incoraggiamento (non esclusi i livelli del «mito» e della «leggenda»), un consolidamento dei gruppi armati e in primo luogo, ovviamente, delle Brigate rosse che in tal modo sembrano aver imposto «definitivamente» la propria egemonia sull’ormai vasto, «scoordinato» ed (apparentemente) disarticolato fronte della clandestinità. Il rapimento Moro ha inoltre de facto ratificato la «ufficializzazione», la «legalizzazione» delle Br come nucleo strategico del «Partito Comunista Combattente», come punto di riferimento necessario, «obbligato» di ogni frazione armata che svolga il proprio lavoro esclusivamente sul piano della clandestinità. Ma anche a livello nemicale il clamore enorme della cassa di risonanza Moro, la elevata e intensa concentrazione indotta di attenzione e di tensione da parte della società civile e dei poteri pubblici (da Paolo VI a Waldheim, dalla Democrazia cristiana al Partito Comunista) hanno prodotto sui piani politico-istituzionale, terroristico-repressivo, manipolatorio-opinionale quegli effetti, di sostanziale riconoscimento della propria «valenza politica» che le Brigate perseguivano e avevano deciso di ottenere ora, preannunciandolo nella «Risoluzione» di febbraio. Da qui, per linee di svolgimento interne a tale logica, la assenza di «preoccupazioni» per l’incremento e l’accelerazione dei processi repressivi che tendono a liquidare quote rilevanti di movimento reale di classe che ancora usano i residui spazi di «legalità democratica» e di agibilità politica per avanzare e diffondere quegli elementi strategici di insubordinazione sociale, di comportamenti «illegali», di autonomia e pratica dei bisogni, elementi ancora sofferenti, nelle circostanze storiche in cui si danno attualmente, di una evidente dimensione minoritaria.
Il comunismo è allo stato nascente. Il grande messaggio di cui è portatore il proletariato, in lotta per la propria e altrui emancipazione, gode ancora di un piccolo sviluppo. Sviluppo che viene pericolosamente messo in stato di precarietà quando di esso si danno letture e rappresentazioni mitiche, irreali, volontarie, presuntuose, assolute. Mettere sullo stato della difensiva vaste quote del movimento reale di classe; contribuire alla edificazione della campagna di liquidazione precoce dei comunisti; facilitare il drenaggio dell’acqua nella quale nuotano i pesci della rivoluzione, significa agire in un’ottica di gruppo, chiusa alla logica della dialettica di movimento, nella persuasione unica, assoluta, indiscutibile della verità propria e sacrosanta, e della incorreggibile e definitiva stupidità degli «altri».
Per le Brigate rosse questo significa agire in opposizione alle acquisizioni più sane e incontrovertibili del patrimonio teorico appartenente al Movimento Operaio, pure riaffermate nella «Risoluzione»: «assumere il criterio della prassi sociale come criterio di verità e perciò anche di validità dell’azione rivoluzionaria ci porta ad affermare questo principio generale: “quando i proletari conducono una lotta contro la borghesia se agiscono isolatamente o in maniera dispersiva la loro lotta fallisce: vince se essi agiscono unanimemente e nell’unità”». Ma il documento si affretta a precisare che gli intenti di unanimità e di unità si riferiscono unicamente ai gruppi armati che praticano esclusivamente la lotta clandestina, per cui è «dispersivo» ogni altro lavoro politico, è fuori dall’area della lotta per il comunismo ogni altra frazione proletaria. Vi è dunque una lettura della realtà data da una sussunzione di elementi derivanti prevalentemente dalle proprie volontà soggettive, da apodittiche asserzioni sulla teoria e sulla pratica rivoluzionaria nella attuale congiuntura politica; essa è incontestabilmente «caratterizzata dal passaggio della fase della pace armata a quella della guerra»; per le Brigate rosse il criterio della prassi sociale non è confronto con i diversificati livelli e settori del vasto fronte rivoluzionario nella pluriarticolata, complessa e ricca situazione italiana; non è insegnamento scaturente dalle diverse configurazioni assunte dalla lotta proletaria complessiva contro la borghesia e dagli effettivi rapporti di forza fra le classi; non è innesco nell’intreccio dialettico fra lotte di massa e azioni d’avanguardia, fra lotte legali e lotte illegali, in un mutuo rapporto di stimolo, di crescita e di sviluppo, così come si sono originalmente evolute nel nostro paese in questi ultimi anni. Al contrario, per le Brigate rosse «il criterio della prassi sociale» sembra essere il criterio della propria prassi e, marginalmente, degli altri gruppi armati. La congiuntura politica diventa il rapporto fra la propria organizzazione e l’apparato statuale-istituzionale in un’ottica militaristica per la quale si stravolgono antichi assiomi della teoria rivoluzionaria marxista («incidere militarmente per poter incidere politicamente») o si getta a mare la elementare funzione dialettica fra azione militare e lavoro politico, volume di fuoco e livello di coscienza e di preparazione delle classi subalterne. La assenza di «preoccupazioni» sulla intensificazione accelerata dei processi repressivi (che si danno anche per le ridotte possibilità di resistenza del movimento di classe in seguito al rapimento del presidente democristiano, operazione di un livello tale da trovare il movimento stesso sorpreso e sprovveduto, elementi che tuttavia non sono imputabili, almeno in parte, alle sue frazioni organizzate, bensì ad una mancata dialettizzazione delle Brigate con la situazione generale, il che ripropone la questione dell’essere uno e non dieci passi «avanti» rispetto alla classe e che postula l’efficacia e l’opportunità tattica della medesima operazione o, se si preferisce, la non possibilità di affiancarla e cogestirla) non è pressapochismo, leggerezza, superficialità dei brigatisti, ma è carente con la loro interpretazione del fenomeno «repressione », ovvero con la negazione di essa e anzi con l’affermazione che si tratta di «stanare la controrivoluzione», di togliere la maschera democratica allo stato antiproletario, di accelerare il passaggio dalla «pace armata» alla «guerra guerreggiata».
Si esplicita insomma, in tutta la sua interezza, la secondarietà, per le BR, del movimento di classe nel suo complesso; le Br non si rivolgono, non si confrontano, non si dialettizzano con il movimento se non per spingerlo alla precoce clandestinizzazione forzata; i loro veri interlocutori sono lo Stato e le istituzioni in una visione polarizzata dello scontro che esclude la capacità e la possibilità di ergersi a protagonisti per vaste quote di classe, e tiene conto unicamente del «nucleo strategico del P.C.C.», cioè di se stessi. Questa visione dello scontro è verificata dalla scelta dell’obbiettivo nell’operazione di marzo e dalla gestione dell’ostaggio catturato; questa scelta si inquadra in una ottica tutta politico-istituzionale. Dopo l’operazione Amerio, ormai lontana quattro anni e mezzo, nessun altro rapimento è stato in seguito attuato allo scopo di penetrare ed incidere nella dinamica conflittuale di classe che avesse per oggetto elementi di contrattazione, di rivendicazione economica, «sindacale», occupazionale o salariale. Prima con Sossi, poi con Moro, le richieste, seppure necessario e irrinunciabili, si sono limitate ad uno scambio di prigionieri politici con l’effetto di restringere ad un angusto limite classicamente militare (o militare-politico) il respiro di una azione che avrebbe potuto, in tutto o in parte, avere effetti o puntare a sbocchi politici, sociali, «sindacali» e militari. Non vi è stato alcun tentativo di rapportarsi ai grandi temi delle rivendicazioni della classe in questa fase: dalla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, all’ampliamento della base occupazionale, dalla riduzione della fatica al problema dei prezzi e dei salari, per non parlare delle grandi lotte sui temi «civili», sulla salute e le connesse questioni energetiche, sui ladri e delinquenti di stato, sulle carceri di vario genere (manicomi, ospedali, lager), ecc.
In altri termini, che effetti avrebbe avuto, nei confronti della classe e del nemico, per una destabilizzazione attiva, propositiva e costruttiva, la richiesta di assumere, a mo’ di esempio, centomila giovani disoccupati? Ci sarebbe stato un mutuo rafforzamento reciproco, una saldatura fra reparti di massa ed «avanguardie» armate dell’esercito proletario?, avrebbe dato tutto ciò maggiore e più reale credibilità alla rivoluzione, oppure no? In realtà le operazioni Br e la loro dinamica di svolgimento sono interne ad una logica di partito obsoleta ed avulsa dalla realtà.
Esse sono in qualche modo coerenti con le concettualizzazioni sullo «SIM», ma distanti dalla quasi totalità del movimento reale di classe ed in quanto tali non producenti quegli «effetti di cumulo con l’antagonismo proletario di massa» che taluni hanno voluto sostenere. La stessa logica di organizzazione sulla quale ci si muove, di criptopartitismo di maniera, che dovrebbe raccogliere le istanze provenienti dalla classe per dettarne la strada e guidarla, mortifica l’enorme patrimonio di intelligenza teorica acquisita negli ultimi dieci anni di lotte, la carica energetica di antagonismo diffusa socialmente, la autonomia di massa nella teoria, nella pratica e nella organizzazione proletaria, il contropotere ramificato e reticolato che già germoglia ed edifica la società comunista. Il modo schematico ortodosso nell’analisi e nella proposta operativa delle Br è dato vieppiù dalla loro pratica quotidiana: la loro attenzione prevalentemente rivolta alle grandi fabbriche metropolitane, ai funzionari del partito democristiano, ai manipolatori dell’opinione pubblica, ai carcerieri di vario rango, misconosce macroscopicamente il rilievo assunto negli ultimi anni dalla scomposizione di classe e dalle nuove realtà emergenti, per le quali l’articolazione della violenza organizzata si è esplicitata in una multiformità ben più ricca e complessa, come è dimostrato dalle incursioni nei centri di lavoro nero, dalle punizioni dei carnefici appartenenti alla corporazione medica, e così via; solo assumendo un punto di vista sufficientemente ampio da contenere tutte queste coordinate della eversione di classe si può pensare di dar vita ad una strategia maggioritaria per la rivoluzione comunista. Ma così non è per chi ha eluso ideologicamente (costrettovi peraltro da un irreversibile meccanismo messo in moto) critiche e suggerimenti di altri rivoluzionari scegliendo di portare alle estreme conseguenze l’operazione Moro. La morte del presidente democristiano ha ridato slancio e lustro alla maggiore, peggiore e delinquenziale organizzazione terroristica legale della borghesia italiana, sanandone molte crepe e contraddizioni storiche, rinvigorendo la destra più ferocemente antiproletarìa: le contraddizioni nuove e la destabilizzazione che l’operazione primaverile delle Brigate rosse avrebbe prodotto, secondo molti, sono più un aspetto fenomenico che un momento reale; la Democrazia cristiana è maestra storica nel ricucirsi e nel mediare, nel sacrificare ogni contrasto all’altare della conservazione del potere. Ma la morte di Moro ha prodotto anche un ricompattamento su posizioni reazionarie dell’intero asse politico nazionale e condotto su posizioni conservatrici larga parte della sinistra di classe nella sua accezione più vasta; ancora, Moro morto è servito ad accelerare troppo repentinamente, troppo anticipatamente, la trasformazione autoritaria, poliziesca, repressiva del partito comunista*. Questi in seno alle masse subalterne, come partito istituzionalmente preposto al controllo e alla repressione (in altri termini ad assolvere la funzione interna alla classe per la controrivoluzione), la Democrazia cristiana in seno alla borghesia, infine le Brigate rosse per le ragioni elencate all’inizio sono i tre grandi vincitori della battaglia di primavera sul fronte della «guerra di classe» italiana. Il movimento di classe, più che altro, è stato a guardare, ed ora sopporta le conseguenze repressive. Ma questo è solo uno dei problemi.
Al fondo ce ne sta un altro ben più importante ed è il problema della dialettica fra i rivoluzionari (l’isolamento e l’autoritarismo operativo e decisionale delle Br dovrebbero far riflettere, dopo le critiche ad esse mosse, gli stessi brigatisti), del processo rivoluzionario, dell’analisi di classe, della strategia, della tattica, il problema stesso di concezioni radicalmente diverse del comunismo. È ora di aprire su questo un dibattito non certo in termini settari, non certo in termini di «neo»-cattolicesimo, come fa spesso la quinta pagina di un noto quotidiano extra-parlamentare.
Questo vuole essere un primo parziale contributo nella direzione di tale improcrastinabile riflessione critica.
* Nella Risoluzione del febbraio 1978 le Brigate rosse scrivono: «La precarietà del quadro politico fondato sull’accordo di maggioranza parlamentare (appena nato e già in crisi) ne fa testo (delle possibilità di scontro fra le componenti della borghesia). In pratica però queste contraddizioni possono evolversi solo in conseguenza dell’iniziativa delle forze rivoluzionarie». Tale evoluzione si è rivelata una pia illusione; tutti i partiti, la stampa, l’«opinione pubblica» interna ed internazionale hanno fatto quadrato attorno al governo, allo Stato, alla linea della fermezza (neppure vale la pena di soffermarsi sulle poco serie posizioni del PSI). Il PCI in particolare si è mostrato più realista del Re, documentando praticamente di essersi fatto più che Stato. Il 9 maggio, Longo e Berlinguer arrivavano al punto di inviare un telegramma a Zaccagnini nel quale si affermava: «continuiamo assieme la politica tracciata da Aldo Moro».
Questi i fatti. Ora il movimento rivoluzionario aspetta, per fornire armi alla sua indefessa opera di destabilizzazione e di apertura di contraddizioni, le famose rivelazioni contenute negli interrogatori del presidente defunto.