Da «Magazzino», n. 1, Gennaio 1979
DA MARX A HEGEL E VICEVERSA
Nulla da dire: Cacciari ci prende. Nell’ ”opuscolo marxista” (n. 25, ora pubblicato da Feltrinelli: Dialettica e critica del politico.
Saggio su Hegel) egli riassume nel modo migliore un equilibrato e centrato giudizio sulla filosofia dello Stato di Hegel.
Un filone storiografico e critico, da Rosenzweig a Bodei, aveva detto le stesse cose, con minore enfasi ma con altrettanto rigore: “Il metodo hegeliano nell’affrontare l’arcano (dello Stato) è radicale.
Non soltanto egli non risponde al problema riducendo immediatamente la contraddizione ad uno dei suoi termini, ma afferma che entrambi i momenti devono esistere nel pieno della loro forza, vanno sviluppati radicalmente”, (p. 16) Lo Stato hegeliano dunque non nega ma contiene il negativo, non è il superamento ma è il momento di produzione del superamento.
La vicenda teorica dello Stato hegeliano è una continua premessa della sua determinazione storica: l’arcano dello Stato è la sua effettuale trasformabilità.
La trasformabilità dello Stato ne rappresenta la legittimazione. Certo: la figura dello Stato hegeliano è figura strettamente ricavata sullo sviluppo della rivoluzione borghese. “In altri termini: il problema riguarda il rapporto tra forma specifica della “rivoluzione” borghese del rapporto sociale e la sua (possibile) forma-Stato, la trans-formazione della “rivoluzione” del rapporto sociale in Stato, del potere del soggetto emergente da tale “rivoluzione”, nella sua inalienabile e irreversibile libertà, in organismo normativo, istituzionale.
Questa trans-formazione deve fondarsi sulla natura specifica di quel potere – cioè, la forma-Stato moderna deve legittimarsi sul fondamento della natura specifica della rivoluzione borghese: la forma di tale rivoluzione intende la forma-Stato, la Auf-hebung del soggetto la produce” (ivi, pag. 27).
L’analisi di Cacciari va bene a fondo su questo tema. La reimmissione del negativo nella definizione del pensiero filosofico hegeliano sullo Stato costituisce il punto felice dell’analisi.
Probabilmente sarebbe stato più utile a dimostrarlo la ripresa degli scritti di Hegel sul Reformbill del 1831, oppure di altri scritti più maturi, laddove la figura del negativo e della sua costituzionalizzazione è assolutamente chiara.
Mentre invece il richiamo che fa Cacciari alla tematica del Pòbel (plebe, popolaccio) sembra risentire da un lato della fantasia interpretativa che è tipica dell’autore, dall’altro di una forse inconsapevole ma chiara ascendenza crociana (Pòbel come Lebendigkeit, ossia vitalità, ossia espressione elementare dell’economico nella dialettica dei distinti – pag. 47).
Hegel dunque non è un reazionario.
Le interpretazioni della destra, così come quelle della sinistra, sono interpretazioni parziali e fondamentalmente errate.
Lo Stato in Hegel è un ente costituzionale, è la negazione del classico, dell’omogeneo, del contiguo. Il suo Stato è la possibilità di contenimento dei rapporti sociali contradditori, eppure anche la possibilità di superamento della alienazione. L’ ”Hegel politico” è il grande esperimento di questa possibilità: lo Stato sì produce come separato, come Autonomia – ma tale Autonomia è produzione del soggetto come fondamento, del soggetto come sostanza.
Il soggetto, compreso razionalmente come fondamento, produce la forma autonoma dello Stato. Politico è appunto questo operare del soggetto – operare sui generis: politico è la dimensione del produrre il separato, l’autonomo, come produrre, ex primere, la propria soggettività in quanto sostanzialità. In tale dimensione il movimento della alienazione si trasforma in movimento di affermazione del soggetto, di liberazione-riconoscimento del fondamento del soggetto” (pag. 73). È interessante questa lettura. A parte la sua correttezza filologica sorge un primo problema: come nasce questo testo nell’esperienza dell’autore? Nasce, secondo me, dalla crisi del metodo di Krisis.
Nella sua esasperazione ideologica quel metodo non poteva tenere: andava fondato o sul soggetto proletario o, con realismo (?), sulla società, su quella società che si fa Stato. Cacciari lo riconosce: il pensiero negativo ha considerato Hegel un “pazzo per lo Stato” ed ha negato la possibilità di un Politico dialettico.
Il pensiero negativo ha condotto la dialettica verso il rovesciamento, l’antagonismo e il dislocamento. Nei confronti dello Stato tutto ciò non può essere detto. Più equilibrato di Nietzsche, Hegel ha trattenuto la contraddizione nella trasformazione.
La ragionevole ideologia di Cacciari sa ora piegarsi a questo riconoscimento. Dopo aver rivoltato il metodo della Krisis contro il soggetto, dopo averne fatto un mezzo per la negazione del soggetto anziché (come dovuto) per la sua esaltazione proletaria, l’ideologia ragionevole rifonda sistematicamente il quadro della totalità: la dialettica ritorna ad essere circolare e teleologica.
Esattamente come in Proudhon: la trasformabilità è la verità della dialettica. Il paradosso che segue sarebbe rigoroso se non fosse comico: chi parla di distruzione dello Stato cadrebbe nella “miseria” del marxismo. Ogni affermazione di una dialettica che si svolge verso l’antagonismo farebbe parte di un discorso organicistico-statolatra!
Così la pensa Cacciari il quale, apprestandosi a votare il piano Pandolfi, ritiene che Agnoli, Offe, e O’Connor siano statolatri (p. 54).
Cosa indecente è piuttosto starnazzare a comando dì Bobbio e simili: finché c’è conflitto c’è lo Stato, lo Stato c’è finché c’è conflitto, rendiamo costituzionali l’uno e l’altro, garantiamone la consistenza e la permanenza. Se poi c’è un “resto di negativo dialetticamente insuperato” e se il superamento “non può comprendere questo risultato del sistema dei bisogni”, bene, non bisogna ideologizzare: basta la polizia (“che Hegel intende evidentemente come forma di governo nella società civile, non come semplice organismo di applicazione repressiva della legge”, pag. 37). Esattamente la stessa interpretazione di un grande allievo di Hegel, Lorenz von Stein, che, prima di trasformare la Polizeiwissenschaft settecentesca e di fondare la moderna scienza dell’amministrazione, fece per anni il suo noviziato come infiltrato della polizia prussiana a Parigi, nel “negativo dialetticamente insuperato”, cioè nel gruppo di Marx e dei suoi compagni. A chi giova? Ridiscendiamo da. queste sublimi altezze alla miseria del dibattito culturale interno al PCI e, rimescolando i fondi del caffè, facciamo qualche congettura. A me, questo proHegel, questo anti-Nietzsche sembra solamente un anti-Tronti. «Hegel dispiega le ragioni alle quali deve sottostare la razionalità dello Stato contemporaneo, dello Stato della società borghese in quanto epocalmente distinta dalla civil society degli inizi della filosofia borghese della storia”.
Come “si chiude” questa dimostrazione? Come può “chiudersi”?
Come legittimare la violenza dello Stato contemporaneo “de-sacralizzato”? “de-teologizzato”?
Come assumerne dialetticamente le divisioni di lavoro e di classe?
Come superarne il nihilismo e proporne come Valore la struttura organizzativa?
Come intenderne la necessaria autonomia e, insieme, il suo essere produzione della dialettica dell’autocoscienza nella libertà?
È sullo sfondo di queste domande che ha luogo il confronto del “pensiero negativo” con Hegel.
E sono queste domande a venire sempre dimenticate allorché si camuffa Hegel da semplice Realpolitiker, o da mero compimento della linea Machiavelli-Hobbes in nome di equivoci primati del Politico» (sovracoperta p. 4). Cacciari attacca dunque “l’autonomia del politico”, ridiscende da Marx a Hegel per affermare la dialettica fra società civile e Stato, nega il sublime.
Personalmente non ho avuto mai nessun affetto per l’ ”autonomia del politico” e le sue teorie, dovrebbe quindi farmi piacere questa démarche di Cacciari: e invece no, è solo una regressione, quasi gramsciana. L’ ”autonomia del politico” di Tronti è un salto irrealistico in avanti, è il cinismo leninista riproposto, è l’illusione di un uso dello Stato per la classe operaia, ma è anche una formidabile applicazione, parziale quanto si vuole ma rigorosa, della dialettica del negativo, è in buona sostanza il rifiuto di ogni metodologia hegeliana o riformistica.
Se tutto ciò è pericoloso e irrealistico, non è certo meno importante: effetti miserabili discendevano dall’offerta che la teoria faceva di se stessa all’uso del PCI! Ma nessun punto di vista operaio e marxista può escludere dal proprio orizzonte la radicale discontinuità di quel progetto, né nella forma dell’autonomia del politico, né nella forma della metodologia di Krisis.
In ciò consisteva l’importanza dell’ipotesi di Tronti: un’ipotesi da attaccare politicamente ma da assumere teoricamente nel dibattito.
L’Hegel falso di Tronti è perciò infinitamente più interessante dell’Hegel vero di Cacciari: qui il cortocircuito è totale e la mistificazione assoluta. * * * Chissà perchè (probabilmente solo la contemporaneità della lettura), ma si sembra interessante inserire qui qualche nota su Simon Nora/Alain Minc, L’informatisation de la Societé (La Documentation Francaise, Paris, 1978). Certo, scendiamo dalle banalità del pensiero nietzscheano agli abissi di quello di Woody Alien: comunque si tratta di un rapporto presentato a Giscard d’Estaing da “due illustri direttori generali delle Finanze” ed è un libro talmente ricco di sollecitazioni che difficilmente puoi trascurare, una volta che ti sia caduto fra le mani. Da Marx a Hegel, inclusione della negatività e trasformabilità dello Stato: questi signori ci pensano in concreto. Quali sono le conseguenze che comporta l’informatica nella sua generale applicazione alla gestione dello Stato e della società? Lo spirito si fa velocemente reale, macchina addirittura, tanto velocemente che siamo ormai in grado di misurare la compatibilità dei progetti delle varie parti sociali e di approssimarne la considerazione in tempo reale. La flessibilità del controllo sistematico diviene la legge risolutiva di ogni antagonismo potenziale; l’unità dello sviluppo sociale è garanzia della sua articolazione. L’applicazione dell’informatica al controllo sociale attraverso il suo innesto sui circuiti di telecomunicazione, la formazione perciò di un orizzonte telematico, può permettere, secondo gli autori, di rispondere alla serie di problemi e di rischi che risorgono attorno ai tre grandi complessi (per dirla con Nora ma già con Offe) dell’equilibrio economico, del consenso sociale e dell’indipendenza nazionale. Ma basta con l’apologia: d’altra parte è anche quello che fa Nora. Il suo problema non è quello di costruire una nuova utopia della automazione sociale ma piuttosto quello di analizzare i progressi dell’automazione sociale in termini politici. Il suo problema è da un lato quello di fornire indicazioni perché lo Stato francese possa attrezzarsi di strumenti telematici e di satelliti, per poterne difendere l’indipendenza contro le multinazionali (ingenuo quanto generoso progetto da nuovo filosofo!), dall’altro quello di garantire un quadro dentro il quale il sistema dei poteri di una società cosiddetta democratica possa mantenersi. Vale a dire che il sistema informatico deve essere controllato dallo Stato ed essere messo in grado di determinare dal suo interno organizzazione, gerarchia, dipendenze ed esclusioni. Il sistema informatico diviene la chiave del controllo della riproduzione della società. Diviene dunque una delle forme fondamentali nelle quali si sviluppa il comando dello Stato, non come mera repressione, anzi, come possibilità elastica di contenere il negativo, di promuovere gli equilibri in forma adeguata al contenimento delle rotture, ecc. Nascono in propositi alcuni importanti problemi. Il primo riguarda la natura produttiva dell’attività informatica. Negli Annéxes del volume di Nora (si tratta di quattro volumi curati dall’Administration francese) il problema della valutazione quantitativa degli effetti dell’informatica sugli equilibri macroeconomici viene largamente documentato, con riferimento ad alcuni importanti contributi giapponesi ed americani, ma sostanzialmente lasciato cadere. Non così avviene attorno al secondo problema: che è quello, fondamentale, del rapporto fra modificazioni del sistema di governo dell’economia e della società e composizione della classe proletaria. Qui l’ideologia si fa, riesce a farsi macchina statale, effettiva capacità di prefigurazione. Ora comprendiamo anche perché il primo problema sia stato fatto cadere: perchè l’efficacia economica è qui completamente subordinata all’efficacia politica, – e cioè alla capacità che il controllo informatico offre di disintegrare i grandi poli di classe delle società contemporanee, di costruire e controllare una società multipolare, con un’infinità di conflitti decentrati, disarticolati, ecc. L’ideologia si fa dunque direttamente macchina statale, strategia di divisione e di riassunzione controllata e funzionale dei conflitti. Nora lamenta che la coscienza statale non sia ancora proceduta sino a questo livello di maturità. La dialettica non è ancora entrata nella testona di quei burocrati repubblicani! Presto tuttavia ci entrerà: in Francia come in Italia, anche se da noi la legge 675 (sull’informatica) fa un povero effetto dinanzi al piano Nora. Ma non è che un inizio, si può ben sperare: lasciate fare a Cacciari. In terzo luogo, tuttavia, va considerato un problema non del tutto secondario: ed è il fatto che l’informatica funziona sull’informazione, che la gestione prefigurativa dell’equilibrio deve comunque, a valle, scontrarsi con il disequilibrio. È ben vero che a questo proposito il modo di produzione capitalistico, avviandosi ad entrare nella fase informatica, ha tentato di organizzare il processo lavorativo in maniera adeguata: inserendo nella fabbrica gli agenti dell’informazione a tutti i livelli della catena di produzione, utilizzando le mediazioni politiche degli operai per farne punti di spionaggio (attraverso la collaborazione del sindacato); disarticolando, d’altra parte, la produzione e diffondendola fuori dalla fabbrica in modo da poterla – esso solo, il capitale – ricomporre e mettendo in atto un sistema politico di informazione di territorio del tutto irrigidito nella sua funzionalità politica. Ma questo è solo un aspetto del problema. Nora sa qui, ed è preoccupato, quello che tutti gli hegeliani, alla Cacciari, ormai sanno (e non mostrano di esserne sufficientemente preoccupati): la potenza del negativo. Nora esplicitamente dichiara che l’automazione e la regolazione dei conflitti possono funzionare solo quando i soggetti siano stati materialmente, praticamente coinvolti nel progetto. L’automazione informatica è la democrazia partecipativa, la democrazia socialista di un processo produttivo completamente socializzato (alla Habermas, completamente pubblicizzato). Ironia del riconoscimento del negativo! Ma chi garantisce che gli indicatori indichino? chi garantisce (scusate le virgolette) “la rappresentanza” degli indici? Certo, il sogno degli informatici è quello di un’informazione globale e partecipata. Ma l’informazione globale subisce la vicenda paradossale dei geografi di Borges: “… In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tale Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la Mappa dell’Impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della Cartografia, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei Deserti dell’Ovest sopravvivono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Medichi; in tutto il Paese non c’è altra Reliquia delle Discipline Geografiche”. Prosa questa, invero, degna della critica aristotelica dell’enumerazione e dello scettico realismo della asimoviana fondazione Seldon! L’informazione globale è appunto un sogno. Tanto più lo è quando i livelli di composizione della classe, lungi dall’essere flessibili e disponibili alla mediazione informatica, sono rigidi, piantati su momenti di autovalorizzazione, disarticolati in estensione ma resistenti e ricchi in intensità. Capitalizzare, per via informatica, questa microfisica del potere proletario è forse possibile, certo non è un’operazione di dominio che passerà facilmente a questo livello della composizione di classe. Come sempre il problema è quello della composizione di classe e della sua analisi: questo è infatti il negativo. Che la società si faccia Stato, lo si può bensì auspicare sulla falsariga di Hegel, oppure lo si può tentare sulla base della strumentazione automatica. In realtà ci si trova poi davanti alla testarda risposta di classe, all’emersione di soggettività tanto antagonistiche da ridicolizzare sia gli auspici che i tentativi. Questa composizione di classe, questa che ci sta davanti. Si può provare a dividerla, a diluirla sul territorio, a separarla: ma il capitale può fare questo solo organizzando la società. Ogni tentativo effettivo di disorganizzazione del proletariato è quindi comunque un tramite, un potenziale nuovo livello di ricomposizione. La rigidità materiale della composizione di classe è in ciò decisiva: ma non è semplicemente un livello di resistenza, è anche un livello di autovalorizzazione, di autonomo sviluppo di bisogni e di comportamenti proletari. Questa composizione di classe (resistenza ed autovalorizzazione) è venuta formandosi in maniera originale negli anni successivi alla seconda grande guerra imperialista e nel ’68 ha avuto un primo momento di autoriconoscimento. Non si capisce nulla della lotta di classe, se non si tengono presenti queste sue qualità, queste sue determinazioni e questi suoi punti complessivi di sviluppo. Siamo nel 1978, decennale del ’68. Di libri, ricordi, valutazioni ecc. ne sono usciti un’infinità. Non voglio certo dare un giudizio complessivo su questa produzione libraria. Mi interessano poche cose di quelle uscite, fra le mani ho due libri di due militanti, non solo del ’68 ma della lotta di classe. Régis Debray, Modeste contribution aux discours et cérémonies officielles du dixième anniversaire, Maspero, Parigi, 1978; Guido Viale, Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta, Milano, 1978. Sono due bei libri, i ragazzi sanno scrivere. Ma l’uno e l’altro non capiscono nulla del problema che ci interessa: quello della continuità e della maturazione della lotta di classe attraverso il ’68, quello della novità che, nella continuità della lotta, il ’68 rappresenta. Per Debray il gioco è facile. Il ’68 rappresenta per lui semplicemente un momento di rottura della forza operaia, della resistenza operaia. Il ’68 è un’iniziativa del capitale. Traduciamo alcune pagine – pagine comunque degne di discussione – rinviando per il resto a quella che speriamo sia presto la traduzione del volume. […]
Da «Magazzino», n. 2, Maggio 1979
AUTONOMIA O GHETTO?
Di nuovo, ricorrente, la crisi.
Compagni sballati, nuovo ciclo generazionale di ricerca della felicità, che decolla proprio quando il precedente ciclo (quello iniziato nel ’68) giunge alla sua estrema unzione.
Bastano dieci anni per trascorrere, come vogliono i nuovi macondini, dai vizi dei Lumpen a quelli dei ricchi, vizi, come ricorda Marx, del tutto paralleli e corrispondenti.
Così decidono le mode. Di cui siamo parte. Ma siamo parte anche di quello che avviene più a fondo, di una realtà in movimento che la moda non basta a rendere incoerente. La moda segue l’auspicio del nemico di classe: “ci sono due società”, suona: ergo ci devono essere “due” società”.
L’analisi scientifica combatte l’auspicio ed il bisogno del nemico: ci sono due società, quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori, ci deve essere una sola società, della libertà e del comunismo.
L’apparire del nuovo soggetto proletario, nella dialettica che sempre configura la composizione della classe, nell’antagonismo fra nuova forma della cooperazione sociale (forma ricchissima di bisogni radicali e di bisogni politici) e nuovo modo di produzione multinazionale (organizzato di conseguenza dallo Stato per capitalizzare proprio questa microfisica proletaria, del potere), l’apparire del nuovo soggetto proletario è dunque il nodo della contraddizione.
Autonomia o ghetto?
Come sempre i rapporti di forza partecipano della definizione.
Laddove, da parte proletaria, la forza è debole e da parte padronale è invece robusta, ivi la teoria dell’autonomia si presenta come teoria della sconfitta, come teoria del ghetto.
Diversamente, laddove i rapporti di forza sono diversi o rovesciati: 1′“altro” movimento riassorbe qui nella propria tensione autonoma anche il ghetto e ne fa la base della propria iniziativa, il santuario inattaccabile da cui muove la guerriglia.
In ogni caso, comunque, l’antagonismo è dato in maniera reale, come presupposto: e questo costituisce novità e specificità del nostro tempo. Sono apparsi in Germania due volumetti.
Il primo è Autonomia oder Getto? Kontroversen uberdie Alternativbewegung (Autonomia o Ghetto? Controversie sul movimento alternativo): vi hanno contribuito una serie di compagni che hanno vissuto l’esperienza del movimento tedesco in questo decennio (Peter Brückner, Daniel Cohn-Bendit, Thomas Schmid e altri) (Verlag Neue Kritik, Frankfurt, 1978).
Il secondo è Zwei Kulturen? Tunix, Mescolero und die Folgen (Verlag Aesthetik und Kommunikation, Berlin, 1978), in cui alla traduzione dei saggi di Asor Rosa e Umberto Eco sulle “due società”, si accompagnano interventi di militanti tedeschi fra i quali risultano quelli di Johannes Agnoli e ancora di Thomas Schmid.
In entrambi i volumetti il problema è quello posto più sopra, naturalmente confrontato alla vicenda nel movimento tedesco. Brückner va subito al centro del dibattito identificando immediatamente il concetto di autonomia all’interno della modificazione della composizione di classe e alla sua qualificazione in termini di specifici interessi rivoluzionari.
Nell’omogeneizzazione socio-culturale del proletariato (prodotto e termine della socializzazione capitalistica) si radicano alternative che hanno in primo luogo, dal punto di vista ideologico, il comunismo come contenuto – mentre la forma della espressione consiste nella critica della figura tradizionale dell’organizzazione produttiva e delle sue superfetazioni politiche (il partito in primo luogo); in secondo luogo, storicamente, questi movimenti alternativi articolano la resistenza all’integrazione con l’identificazione e lo sviluppo di forme di indipendenza culturale e di contropotere politico.
Nulla da aggiungere a questa prima definizione. Anche Johannes Agnoli, su un piano descrittivo e con l’occhio rivolto all’Italia, la conferma con esempi ed argomentazioni polemiche (fra queste, molto divertente, un richiamo ad un articolo di certo Piccirillo in La civiltà cattolica, n. 19, 1868, serie VII, voi. 2, pp. 384 sgg., dove, a fronte del primo grande sciopero di Bologna – 1868 appunto – l’autorevole organo gesuita teorizza le “due società” esattamente come fatto da Asor). (Per altro verso, per quanto riguarda la borghesia francese e la teoria delle “due società” vedi la documentazione e l’indicazione del continuo riapparire, nella sua storia, di questo sporco ritornello: Jean Paul de Gaudemar, La Mobilisation General, Rapport final de Récherche, effectuée pour la Mission de la Recherche Urbaine, Faculté de Sciences Economique, CERS, Université d’Aix-Marseille II, giugno 1978, dove appunto la teoria delle due società è vista come contraltare ideologico delle diverse forme di mobilità del lavoro imposte dall’accumulazione capitalistica). È chiaro tuttavia che il problema non è quello dell’identificazione sociologica e/o economica della funzione della teoria delle “due società”. Se il Capitale è un rapporto, niente di più facile che il ceto capitalista lo senta come rapporto scisso; se il capitale è un rapporto proporzionato in continua ristrutturazione, il ceto capitalista dove continuamente forgiare la proporzione del rapporto attraverso sussunzioni e/o esclusioni. La cultura, come le salmerie, seguirà. Problema non sono dunque le due culture, la loro eventuale esistenza e la loro vicenda lunga o evanescente: il problema che nasce è solo quello dell’egemonia, meglio – fuori dalle fumisterie del concetto “egemonia” – quello del comando.
Chi comanda chi?
Le culture, in generale, sono sempre state degli utensili della classe dominante.
Possono divenire una forza della classe proletaria?
L’analisi sociologica diviene solo a questo punto interessante, quando cioè scopre la potenzialità del comando svilupparsi, attraverso e contro lo sviluppo capitalistico, dalla parte della classe operaia e proletaria.
Le varianti, in proposito, possono essere molte.
Negli scritti di Thomas Schmid, ad esempio, compresi in questi due volumetti, la situazione dell’autonomia tedesca è ripresa in esame con molto realismo: il paradosso qui rivelato è quello di una effettiva autonomizzazione della vita proletaria che è tuttavia dominata da un continuo fuoco di sbarramento del capitale, non tanto – quindi ridotta ad essere funzione di questo (che la sua consistenza non lo permette già più) quanto giocata come elemento puramente culturale, spinta verso la palude, verso la grande zuppa dei mass media e delle mode.
Il più indiscriminato “pluralismo” – tra fumo e libertà individuale – domina il quadro vieppiù interiorizzato del movimento.
Omologhe sono la pressione capitalistica e la coscienza di parte del movimento. Castrato.
L’intervento di Dany Cohn-Bendit, con tutta la sua pregnanza rappresentativa del movimento e con tutta l’ambiguità ivi registrata, conferma la pesantezza dell’attacco di Thomas Schmid: si direbbe che Dany commenti a sua insaputa la disincantata constatazione marxiana: ad un certo livello dello sviluppo capitalistico “la prostituzione generale si presenta come una fase necessaria del carattere sociale delle disposizioni, capacità, abilità e attività personali”, – tanto più per il proletariato! Traiamo qui di passaggio due conclusioni provvisorie.
Primo (sociologicamente): il problema delle due culture è semplicemente un indice dello svolgersi dei rapporti delle due classi verso una crisi definitiva. Da questo punto di vista è puramente accidentale il fatto che si parli di due culture: basterebbe solo parlare di crisi dell’attuale forma di civilizzazione capitalistica.
Secondo (politicamente): il problema delle due culture, il suo stesso insorgere, indicano una tendenza vincente del movimento proletario, contro il capitale. Non si sarebbe mai ricorsi alla immagine delle due culture, da chi ne possiede una che è sempre stata egemone, se la forza proletaria non fosse emersa con tale indipendente vivacità.
Naturalmente l’esito dello scontro è indeciso. Val tuttavia la pena di considerare a questo punto l’alternativa “autonomia o ghetto” come un’alternativa completamente astratta se posta in termini sociologici o culturali, valida tuttavia se la si pone in termini politici. Due ulteriori questioni, su lati, per così dire, opposti.
Primo.
Significa, questo nostro insistere sul concetto politico di cultura proletaria, che si nega autonomia e valore alle espressioni specificamente culturali del movimento proletario?
Secondo.
Significa, questo nostro sottolineare la consistenza materiale della controcultura di classe, forse sottovalutare i momenti di riflusso, di vera e propria ghettizzazione subiti talora dal movimento?
Quanto al primo interrogativo mi sembra che bisogna rispondere con molto equilibrio. Insistere sulla natura e qualità politiche della cultura proletaria non significa negarne il valore intrinseco e specifico ma solo definirlo come contenuto di lotta.
Il farsi della classe operaia, il suo autonomo making sono determinati da un rapporto di forze sempre più intenso quanto più lo sviluppo capitalistico procede. Taluni, che pur si muovono molto bene su questo terreno (vedi per esempio l’intervento di Vittorio Dini sulla storiografia di classe nel n. 14 di Critica del Diritto) accusano una tale definizione di strutturalismo.
Il rapporto di forza, intrinseco alla definizione, negherebbe l’autenticità dell’espressione controculturale di movimento.
L’uso di definizioni politiche (dialettiche, strutturali) determinerebbe effetti di rigidità tali da bloccare ogni forma di genuina originale espressione culturale del movimento, da relegare in posizione subordinata al capitale il farsi del movimento.
Non credo che di ciò si tratti.
Per due ragioni.
Innanzitutto, una di carattere storico: la dipendenza strutturale del movimento di classe dal movimento capitalistico è tendenzialmente in via di esaurimento. Ciò è il corrispettivo della crisi della legge del valore. Ma il fatto che la valorizzazione capitalistica venga meno come elemento di qualificazione del processo non distrugge di per sé il comando di capitale e le relazioni da questo imposte.
Una seconda ragione, di carattere teorico, segnala il momento del liberarsi indipendente della cultura proletaria come distruzione dell’avversario: e la distruzione è un fatto di libertà.
Nessuna teoria e nessuna filosofia – se non la becera saggezza reazionaria – riusciranno mai a dimostrare l’omologabilità del gesto distruttore e dell’oggetto distrutto. (L’assunzione di questa omologia rappresenta il contenuto fascista delle teorie della “dissidenza” e della “nuova filosofia”: è comunque evidente che né le une né l’altra possono essere esclusivamente ridotte a ciò).
Lo strutturalismo stesso può realmente essere distrutto solo da un atto di distruzione dell’avversario: altrimenti la struttura resta, non è un vizio teorico o un’ormai inutile machine à penser, è un fatto. Ma c’era un altro interrogativo.
Ci si chiedeva se in tal modo non si sottovalutavano gli effetti di ghettizzazione, in termini perversi e indecenti.
Ora, non val certo la pena di sottovalutare gli effetti di ghettizzazione che la autonoma cultura proletaria può subire.
Possediamo una formidabile documentazione delle subculture, della loro forza, della loro felicità, nulla può negarlo: ma è anche vero che le subculture apparivano tanto più forti quanto più le classi erano profondamente divise. (In proposito vedi il formidabile libro M. Bakhtin “L’oeuvre de François Rabelais et la culture populaire au Moyen Age et sous la Renaissance, Gallimard, 1970).
Dunque, pur data la loro ricchezza e vivacità, pure subculture restavano. Siamo in una fase analoga?
Oppure addirittura in una fase di radicale immiserimento e di crescente volgarità?
Le preoccupazioni dei compagni tedeschi, testimoni di uno sviluppo terroristico dello Stato e di un ripiegamento intimistico del movimento (ma solo in Germania di ciò si tratta?
E la subcultura di Lotta Continua formato Deaglio-Boato dove la mettiamo?
E la sifilide da “nuova filosofia” ed il disfattismo di Liberation?
E il progetto, sempre su questo terreno patologico e con questi vizietti, del nuovo Tageszeitung tedesco?) – le testimonianze dunque di alcuni compagni tedeschi portano su questo. Tunix – il raduno dell’autonomia berlinese e tedesca della scorsa primavera è stato un ghetto bordellato ed infame.
Come romperlo? Forse è possibile.
Non dal di fuori del ghetto, non con prediche e rimbrotti.
Al contrario.
Riconquistando il ghetto non come rifugio di frustrazioni (borghesi?) ma come sede collettiva di bisogni e desideri proletari alternativi. Come momento di lotta e di autovalorizzazione.
I moventi profondi della controcultura vanno ripresi e criticati praticamente.
I proletari americani insegnano: è solo la diffusione massificata dei nuovi bisogni, il loro aderire alla vita quotidiana, il loro strapparsi all’isolamento della semplice espressione ideologica, che restituisce la politica al movimento.
Non l’ideologia ma la quotidianità e la lotta tolgono l’autonomia dal ghetto e la seconda cultura dalla subalternità.
È la multilateralità dell’esperienza proletaria a condurre il proletariato all’indipendenza politica. È la distruzione dell’avversario, la quotidianità dell’odio di classe e della lotta, a costituire la cultura in forza di liberazione.