di Omid Firouzi Tabar
Dicembre, 2001. A un anno e mezzo dalla nascita del “collettivo di scienze politiche” avevamo deciso di occupare la Facoltà di scienze politiche di Padova, non succedeva da circa dieci anni, dai tempi della Pantera. Eravamo una cinquantina, mossi semplicemente dalla convinzione di fare la cosa giusta, “quello che devo fare” ripeteva Gert del Pozzo in “Q” e noi prendevamo quell’attitudine davvero sul serio, e con una giusta e sana dose di gioiosa incoscienza.
Ricordo che giravo con un paio di compagni per le aule vuote, ma “nostre”, con un senso di libertà e soddisfazione genuina, unita a una certa tensione, quasi reverenziale, perché seppur a grandi linee, sapevamo cosa avessero rappresentato quei luoghi negli anni ’70, era qualcosa che, credetemi, aleggiava nell’aria, ma non solo nell’aria.
Ad un certo punto consiglio di andare a fare un check nel mitico “giardinetto”, delimitato da un alto muro confinante con il Liceo Classico Tito Livio, e poi in Aula Magna, dove in tante e tanti avremmo passato la notte. Individuiamo le zone più “confortevoli” per mettere zaini e sacchi a pelo, ma prima di uscire succede qualcosa che mi e ci rimarrà impresso a lungo. Mentre scendo le ultime ripide scale, dove tante volte mi ero ritrovato seduto a terra a fare lezione causa sovraffollamento aule, noto una vaga e minuscola venatura color rosa affiorare sul bianco di una dalle pareti laterali. Con me c’era un compagno che ci sguazzava in queste cose, anche perché oggettivamente più consapevole della storia del luogo in cui ci trovavamo, e allora decidiamo di chiamare gli altri e cominciamo a grattare con delicatezza quella parte del muro, tipo archeologi, e con il passare dei secondi emerge in crescente color rosso la scritta “AUT.OP.”, con affianco la falce e il martello. Quando si dice: “se i muri potessero parlare”.
Per pochi attimi siamo rimasti in silenzio a fissare quella scritta, sorpresi e per certi versi affascinati. In quegli attimi passato e presente si sono furtivamente incontrati. Poi abbiamo sentito un grido, “correte compagni sono arrivati i digossini”, e siamo schizzati via. Sapevamo che ci avrebbero denunciato, lo avevamo messo in conto, il punto era tenere l’occupazione per fare gli incontri di autoformazione il giorno dopo. Il titolo dei seminari autogestiti era una cosa del tipo “la democrazia del sapere” ma questa è una storia lunga.
Leggendo il coinvolgente racconto e le considerazioni dei fratelli Despali su una fase cruciale della cosiddetta “anomalia italiana”, che coincide con la fine del lungo ’68 in questo paese, mi sono venute in mente numerosi ricordi ed istantanee legate a scienze politiche, ma anche ad alcuni luoghi strategici e a me molto famigliari che vengono ricordati, come le piazze, Capitaniato in particolare, le mense e le residenze studentesche di Padova. Sono tutti luoghi che, più di 30 anni dopo il ’77, ho avuto modo di attraversare in contesti di lotta.
Il libro, come già ricordato da alcuni ha, tra le varie, la forza di trasmetterci bene una delle caratteristiche più interessanti dell’esperienza dei Collettivi politici veneti per il potere operaio (CPV). Si tratta della centralità assegnata al territorio, ai suoi snodi strategici, alla logistica delle relazioni più vivaci che in esso si annidavano e muovevano, alla geografia variabile dei modi e delle zone di assembramento e “assemblaggio” delle soggettività ritenute in quel momento storico più “interessanti” per nuove forme di ricomposizione politica.
È vero, come ricorda Toni Negri, che ci vorrà molto per vedere una risposta matura alla crisi del modello fordista, e a un certo superamento delle dinamiche di classe che ne rappresentavano storicamente il paradigma di riferimento, e che questa risposta si manifesterà definitivamente proprio con la mia generazione, quella di Seattle e di Genova.
La lettura di queste pagine ci suggeriscono però che siamo debitori rispetto ai CPV, e in questo caso soprattutto sul piano pragmatico e metodologico della prassi, dell’azione e dell’organizzazione politica, per la loro capacità di intuire – posizionati sul solco lasciato dal pensiero operaista e ben supportati e ispirati dal pensiero critico elaborato in contemporanea proprio a Scienze politiche dai “cattivi maestri” – che il capitale tende a riorganizzarsi espandendo i confini della messa a valore e dunque gli spazi e i dispositivi del controllo della produzione e della riproduzione. E la consapevolezza di quella trasformazione in atto, ancora ibrida e sperimentale per quanto riguarda gli orientamenti del capitale, portava i Collettivi ad agire di conseguenza, prassi e conoscenza non sembrano conoscere nella loro esperienza soluzioni di continuità.
Certo il soggetto centrale rimaneva, e viene ricordato nel testo, l’operaio e il luogo di riferimento la fabbrica, quella in via di ristrutturazione. Ma diciamolo, chi prenderà in mano il libro pensando di leggere solo, o soprattutto, di picchetti ai cancelli delle fabbriche e delle modalità con cui i CPV interagivano con gli operai sotto il segno della “conricerca” di operaistica memoria rimarrà in qualche modo deluso.
Abbiamo piuttosto la possibilità di vedere attraverso la loro esperienza come la fabbrica si prolunga e tende ad abbracciare e incorporare il territorio e di osservare e registrare i contro-poteri che i CPV organizzano per cercare di togliere il terreno sotto i piedi dei padroni ed essere un dispositivo politico destabilizzante, per provare a rappresentare in definitiva un problema. Ogni tanto ce lo dimentichiamo, ma alla fine questo è il punto, essere per il potere non solo un fastidio, ma un problema, meglio se non facilmente sussumibile.
In questo senso gli “autonomi” si muovono a vari livelli, e stringono relazioni e “alleanze” con soggetti e gruppi sociali emergenti come alcuni lavoratori precari e “atipici” rispetto ai precedenti criteri, e parte della popolazione universitaria, individui la cui vita sociale eccede chiaramente le pareti materiali e simboliche della fabbrica, piccola o grande che sia.
Eccola allora una questione dirimente che traspare dalle parole di Piero e Giacomo, che rappresenta a mio avviso contemporaneamente un’asse di continuità con il precedente operaismo e una proiezione virtuosa con i giorni nostri, o meglio con le modalità con cui alcune/i militanti affrontano le sfide dei giorni nostri.
Si tratta del fatto di cercare di assettarsi sui punti più avanzati delle trasformazioni del capitale, una postura di matrice marxiana che trova rinnovata linfa teorica negli intellettuali operaisti e cosiddetti “postoperaisti” e, nel nostro caso, applicazione pratica in molte scelte e orientamenti dei CPV. Essere ed agire sui punti più avanzati dei mutamenti in atto, anche a costo di proiettarsi troppo in avanti ed esporsi al vuoto, risulta comunque opzione preferibile rispetto a quella diciamo conservatrice, di retroguardia, di “posizione” ed attendista.
Sarà questo un orientamento che mi accompagnerà tra la fine degli anni ’90 ad oggi in tutte le dimensioni politiche attraversate da me e da centinaia di compagne e compagni, una tendenza che spesso ci ha, direi felicemente, distanziati da altri gruppi o progetti.
Sul tema della violenza non mi pare il caso di soffermarsi come giustamente non fanno più di tanto gli autori del libro. Non servono troppi giri di parole per capirsi. Talvolta si scelgono campi di battaglia, obiettivi e vengono individuate poste in palio e affrontati scontri che raggiungono soglie a cui ci si prepara in un certo modo, soprattutto per un legittimo diritto di resistenza.
Vorrei chiudere ripartendo da alcune note personali.
Riprendendo nuovamente i commenti di Toni Negri, anch’io ho subito notato la decisione di concludere il racconto del libro con i fatti avvenuti alla fine degli anni ’70. Quando è comunemente noto che – dopo lunghi anni di complicata “resistenza” all’infame repressione, e soprattutto a ripartire dal ciclo Seattle/Genova – alcune tendenze e propensioni presenti nei CPV tornano in campo, certamente alla luce, e in contrattacco, della ristrutturazione “neoliberale” messa in atto dal capitale in quei 20 anni.
Ma soprattutto tornano in scena alcune/i compagne/i che l’esperienza raccontata in questo testo l’hanno vissuta e che ricominciano a misurarsi, senza timore reverenziale, con le sfide del nuovo millennio.
Questo è successo – nella “fase due” dei CPV si direbbe di questi tempi – in termini complessi come succede in tutte le esperienze ambiziose, con traiettorie ambivalenti, con scelte organizzative discutibili e con alterne fortune, di certo con importanti intuizioni sulle forme di lotta e con sperimentazioni virtuose che tuttora sono a mio avviso materiale da cui attingere. Quelle che riporto qui sono pensieri e impressioni sedimentate in 20 anni di militanza, da militante ostinatamente indipendente ed “esterno”, ma comunque spesso “prossimo” a questo percorsi e a queste/i compagne/i.
La mia familiarizzazione con l’“autonomia” passa per vie molteplici.
Ne sento parlare in casa da mio padre, figura decisiva per la mia prima politicizzazione, i primi anni del liceo, in termini tendenzialmente stigmatizzanti. È a suo modo più che comprensibile. Lui era un comunista ortodosso, veniva chiamato Majid “Soviet” tra i compagni, era un quadro del partito “Tudeh” fortemente legato al Pci, negli anni ’70 aveva vissuto diversi conflitti con i CPV e si era trincerato saldamente nella sua ortodossia fino al ritorno in Iran durante la rivoluzione e agli anni di carcere che avevano posto fine alla sua militanza. Tenermi alla larga dagli “autonomi”, definiti come “gruppettari” troppo radicali ecc., era uno degli obiettivi dei miei genitori negli anni del liceo e dell’Università.
C’era poi il piano delle rappresentazioni pubbliche e mediatiche. Fin dai primi passi della mia militanza, pure muovendomi in collettivi e percorsi indipendenti, mi sono trovato cucito addosso l’etichetta di “autonomo”. Ogni volta la solita storia, gli “autonomi” hanno fatto questo e quell’altro, che dal punto di vista comunicativo veniva inteso i “violenti” hanno fatto questo e quell’altro. Devo dire che questa etichettata, come ogni altra semplificazione, non mi ha mai entusiasmato, ma allo stesso tempo non ho mai sentito un particolare motivo per sforzarmi di rigettarla o perdere tempo in puntualizzazioni ecc. Negli anni, come altre/i della mia generazione ho nutrito, attraverso racconti e letture, una semplice e genuina fascinazione verso l’esperienza dei CPV. Non ho mai avuto dubbi, sono esercizi di fantasia che credo facciamo tutte/i, che se fossi vissuto in quell’epoca avrei scelto quello come contesto di riferimento.
Decisamente più complicato il rapporto diretto con le/i militanti che, reduci da quella fase storica, avevano appunto deciso di rilanciare nuovi percorsi politici individuando come base gravitazionale Radio Sherwood. Parlo di relazioni e cooperazioni segnate da elementi da cui ho imparato molto e che mi hanno fatto crescere, ma anche caratterizzate da attriti e conflittualità in alcuni casi piuttosto intense.
C’era poi, come per moltissime altre persone, l’idea che nel corso degli anni mi sono fatto di quell’esperienza attraverso i racconti dei compagni più grandi e attraverso le letture di riviste e libri. A proposito una parte del materiale della Libreria Calusca, decine di libri e riviste degli anni ’70, donateci da Radio Sherwood ai tempi del “Collettivo di Scienze Politiche”, si trova oggi al Bioslab di Padova, e alla fine di questa crisi sanitaria, sarà di nuovo a disposizione della città.
Detto questo la lettura del libro mi conferma l’idea che ci sia qualcosa dentro l’esperienza degli “autonomi” che trascende singoli episodi o scelte, una sorta di postura, di stile della militanza che a mio avviso ha la potenza, rara, della “riproducibilità”, quella di resistere negli anni.
Un’attitudine direi biopolitica, fortemente incarnata nelle pratiche, che proietta ad affrontare l’azione politica con ambizione nel senso di percepire e leggere ogni passaggio e ogni fase vissuta come terreno di ripartenza per spostare più in alto l’asticella del conflitto; con laicità nel senso di rifiutare ogni tentazione ad affrontare tattiche e strategie intorno a questioni morali o di principio, bensì agire con pragmatismo e giudicare l’opportunità di ogni scelta, relazione, alleanza, negoziazione o temporanea tregua o compromesso, alla luce di quanto esse siano o meno materialmente funzionali, nel presente o in prospettiva, al cambiamento radicale dell’esistente, al conflitto sociale e alla produzione di contro poteri. Non importa se stai organizzando barricate, occupando le Università, cacciando sindacalisti indesiderati, trattando con istituzioni, parlando con il Papa o intervenendo dentro il parlamento europeo. Importa il fatto che ogni cosa sia destabilizzante, che sappia irrompere nel piano del discorso e abbia effetti materiali di emancipazione e libertà; con una propensione direi strutturale a rappresentare “eccedenza”, il che non vuol dire in alcun modo marginalità, anzi. Si tratta di una irriducibilità a prendere stabilmente forma dentro partiti, sindacati o, ancor più, in quadri istituzionali, locali o nazionali, non certo per una questione di principio. Se deve succedere (e capita che succeda, vedi il punto precedente), avviene per uso strumentale e strategico, si interagisce con l’“alto” sempre e comunque per giungere a destabilizzare i piani e liberare nuove forze incontrollabili istituzionalmente nel “basso”. Vuol dire stare fino in fondo dentro le dinamiche costituenti e i processi sociali dinamici e in divenire e assegnare proprio a questi un ruolo da protagonisti nel progetto rivoluzionario.
C’è poi un ultimo punto, un ultimo tratto di “riconoscibilità”, direi un vero marchio di fabbrica sempre vivo e valido, ed è il rapporto con la repressione. Mai fare le vittime, mai lamentarsi della repressione, certo affrontarla razionalmente e con intelligenza, ma non lamentarsi. Il capitale, ci insegnano gli “autonomi”, sa essere, nel difendere i suoi interessi di classe, molto violento, feroce, allora mettersi contro vuol dire attirare le sue attenzioni, vuol dire che cercherà di neutralizzarti in ogni modo, spesso con la repressione, il carcere, a volte con l’assassinio. Se si tenta di rapinare una banca ci si organizza come si deve, se poi le cose vanno male, lo si mette in conto, è qualcosa di prevedibile da mettere in conto, al massimo si fa il possibile per fare sì che il conto non sia troppo salato, per tornare in azione prima possibile.