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Pragma: per un dibattito sull’Autonomia

Ci sia­mo chie­sti fin da subi­to discu­ten­do sul che fare, noi casa edi­tri­ce e loro gli auto­ri, del sesto volu­me Sto­ria dei col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io, del­la nostra serie Gli auto­no­mi. Le sto­rie, le lot­te, le teo­rie, se ave­va un sen­so, se era oppor­tu­no, se non era una per­di­ta di tem­po ovve­ro se era “fuo­ri tem­po mas­si­mo” pro­por­re una discus­sio­ne su que­sto libro, sul­le que­stio­ni poli­ti­che, sul­le rifles­sio­ni che gli auto­ri e il cura­to­re del volu­me han­no sol­le­va­to e offer­to all’attenzione di un let­to­re curio­so e atten­to. Se ave­va sen­so far­lo al “tem­po del coro­na­vi­rus”, quan­do in appa­ren­za sem­bra che tut­to si sia fer­ma­to, che il “prin­ci­pio di con­trad­di­zio­ne”, che attra­ver­sa tut­to il rac­con­to del libro, sia a sua vol­ta “in qua­ran­te­na”. Per­ché altri sono oggi i pro­ble­mi, gli inte­res­si, per­ché anche quel let­to­re atten­to e curio­so, che ha com­pra­to e let­to il libro, ha altro a cui pen­sa­re. Abbia­mo con­cor­da­to che sì, che ha un sen­so, che ne vale la pena. Per due ragio­ni. La pri­ma: per­ché il libro fin dal­la sua usci­ta ha desta­to atten­zio­ne e inte­res­se, qua­si tra­sver­sa­le, da chi “ha fat­to le lot­te, ha lot­ta­to per il comu­ni­smo” tan­ti anni fa, da chi oggi, mol­to più gio­va­ne, ha voglia di lot­ta­re “per­ché lo sfrut­ta­men­to e il domi­nio capi­ta­li­sti­ci” era­no la real­tà di ieri e sono la real­tà di oggi, da chi pur non essen­do sta­to inter­no all’Autonomia ope­ra­ia orga­niz­za­ta degli anni ’70 è inte­res­sa­to a par­la­re, a discu­te­re, a capi­re quel tem­po che il libro rac­con­ta per com­pren­de­re, è l’auspicio, con più luci­di­tà il pre­sen­te. La secon­da: per­ché il “ tem­po del coro­na­vi­rus” che oggi stia­mo viven­do fini­rà, con­sa­pe­vo­li che è e sarà uno spar­tiac­que tra un pri­ma e un dopo, che nel “dopo” la con­trad­di­zio­ne, le con­trad­di­zio­ni rie­mer­ge­ran­no come lava vulcanica.

Quin­di oggi, men­tre sia­mo in “stand­by”, per­ché non uti­liz­zia­mo que­sto tem­po per leg­ge­re, discu­te­re, inter­ve­ni­re, usa­re l’arma del­la cri­ti­ca e del­la rifles­sio­ne, cri­ti­ca e rifles­sio­ne pro­po­si­ti­ve che spe­ria­mo con­ti­nui­no anche dopo il coro­na­vi­rus?
Da decen­ni i cosid­det­ti “anni ’70” del seco­lo scor­so sono sta­ti coper­ti da uno stra­to di cene­re, dall’oblio, da par­te di isti­tu­zio­ni, gior­na­li, ceto poli­ti­co e intel­let­tua­le. Il Movi­men­to comu­ni­sta rivo­lu­zio­na­rio, l’Autonomia ope­ra­ia orga­niz­za­ta di quel decen­nio “male­det­to” sono sta­ti eti­chet­ta­ti come “ter­ro­ri­smo”. Da quarant’anni que­sta è la vul­ga­ta: sem­pli­ce, bana­le, fal­sa sto­ri­ca­men­te, como­da per­ché eli­mi­na, can­cel­la dal­la memo­ria col­let­ti­va un perio­do impor­tan­tis­si­mo e deci­si­vo nel­la sto­ria del nostro pae­se. Con que­sta cen­su­ra radi­ca­le è sta­ta gesti­ta e mani­po­la­ta la “sto­ria” ita­lia­na fino a oggi. Non fare i con­ti con la pro­pria sto­ria è una costan­te, un’abitudine, una for­ma men­ta­le di que­sto pae­se. In que­sti anni ci sono sta­ti pub­bli­ca­zio­ni, sag­gi, memo­ria­li­sti­ca, rac­col­te docu­men­ta­li da par­te dei pro­ta­go­ni­sti, dei mili­tan­ti di quei lon­ta­ni movi­men­ti poli­ti­ci, di quel­le real­tà orga­niz­za­te. Noi come casa edi­tri­ce negli anni abbia­mo cer­ca­to di sup­por­ta­re, nei limi­ti del­le nostre for­ze, que­sti con­tri­bu­ti, dar loro visi­bi­li­tà. Ma lo si è fat­to in ordi­ne spar­so. Per­ché non pro­va­re a discu­te­re col­let­ti­va­men­te di quel perio­do, con chi lo ha vis­su­to, con il giu­sto distac­co dopo tan­to tem­po che per­met­te di esse­re più luci­di e obiet­ti­vi su quel­le espe­rien­ze? Per­ché non far­lo con­fron­tan­do­si con chi vuo­le discu­te­re e capi­re l’oggi a par­ti­re dal­la let­tu­ra che ha fat­to del VI volu­me del­la nostra serie Gli auto­no­mi? Per­ché non leg­ge­re e con­fron­tar­si con chi non era inter­no all’Autonomia ope­ra­ia orga­niz­za­ta di quel lon­ta­no perio­do ma ha qual­co­sa di inte­res­san­te e di intel­li­gen­te da dire? Quin­di vor­rem­mo apri­re un’assemblea, un’agorà di con­fron­to e discus­sio­ne a par­ti­re dal testo del­la Sto­ria dei col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io, dove chi vor­rà inter­ve­ni­re sa che dopo un pri­mo inter­ven­to potrà, se lo vor­rà, inter­ve­ni­re anco­ra e anco­ra. Non quin­di un’assemblearismo gene­ri­co, fal­sa­men­te demo­cra­ti­co e di fat­to rea­zio­na­rio, mol­to di moda in que­sti tem­pi, ma un momen­to orga­niz­za­to che si svi­lup­pa con meto­do, che pro­du­ca non una quan­ti­tà di “bla­bla­bla” ma una qua­li­tà e una ric­chez­za di idee, spun­ti, indi­ca­zio­ni, uti­li soprat­tut­to a una gio­va­ne let­tri­ce, a un gio­va­ne let­to­re. Lo stru­men­to che uti­liz­zia­mo, la nostra pagi­na face­book, è una pro­va, un azzar­do, mai usa­to con que­sti inten­ti. Vedre­mo. Noi ci pro­via­mo. Quin­di inter­ve­ni­te, leg­ge­te, con­di­vi­de­te sui social il dibat­ti­to se vi sem­bre­rà interessante

Tra il movimento e la Lega

di Gian­fran­co Bettin

Deri­veAp­pro­di con­ti­nua la pub­bli­ca­zio­ne di volu­mi dedi­ca­ti alla rico­stru­zio­ne di una del­le espe­rien­ze prin­ci­pa­li del movi­men­to ita­lia­no, l’Autonomia. Il sesto volu­me del­la  serie, cura­to da Mim­mo Ser­san­te (mili­tan­te e stu­dio­so, come un po’ tut­ti i cura­to­ri dei diver­si volu­mi, il che ren­de l’opera nel suo insie­me più inten­sa e plau­si­bi­le), è un’intervista e un dia­lo­go con e tra i fra­tel­li Gia­co­mo e Pie­ro Despa­li, Sto­ria dei col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io (cor­re­da­ta di alcu­ne altre inter­vi­ste a ex mili­tan­ti, di sche­de rias­sun­ti­ve e docu­men­ti dell’epoca). Intel­let­tua­le soli­do e fine (la sua pri­ma cita­zio­ne nel libro è per l’Ulisse dan­te­sco) e a lun­go mili­tan­te, Gia­co­mo; mili­tan­te anco­ra più a lun­go e intel­let­tual­men­te curio­so e impe­gna­to Pie­ro (cita subi­to Mini­ma Mora­lia. Medi­ta­zio­ni del­la vita offe­sa, di Ador­no, come testo for­ma­ti­vo: «La vita offe­sa che si rivol­ta­va e pren­de­va la paro­la»), i fra­tel­li Despa­li sono sta­ti i lea­der più influen­ti di quel­la luci­da, furen­te e cora­le espe­rien­za che è sta­ta l’Autonomia pado­va­na (e vene­ta, con pro­pag­gi­ni nel più vasto nor­de­st). La rac­con­ta­no a Ser­san­te, e ai let­to­ri, con disin­can­to e fran­chez­za.
I moti­vi per leg­ge­re que­sto libro sono mol­ti, sia per chi inten­da sca­va­re in que­gli anni sia per chi voglia coglier­ne i nes­si, non pochi, con i nostri. In que­sto sen­so, è uti­le a sto­ri­ci e a mili­tan­ti, e a chiun­que abbia voglia di capi­re di più di una sta­gio­ne cru­cia­le del­la nostra sto­ria. Il rac­con­to, ine­vi­ta­bil­men­te anche auto­bio­gra­fi­co, resti­tui­sce inol­tre il per­cor­so di due lea­der di movi­men­to dal pro­fi­lo sin­go­la­re. Dal­ma­ti, venu­ti in Ita­lia da bam­bi­ni non per moti­vi poli­ti­ci ben­sì eco­no­mi­ci, man­te­nen­do un lega­me con la par­te di fami­glia rima­sta a Zara, padre di sini­stra e madre che, da casa­lin­ga, «sco­pri­rà la poli­ti­ca dopo il 7 apri­le», quan­do i figli, come mol­ti altri mili­tan­ti, ver­ran­no col­pi­ti dal­le note inchie­ste (finen­do Gia­co­mo per diver­si anni in car­ce­re e Pie­ro a lun­go lati­tan­te), sono anche fra i non mol­ti lea­der di auten­ti­ca ori­gi­ne pro­le­ta­ria che i movi­men­ti ita­lia­ni dell’epoca abbia­no avu­to. Una del­le ragio­ni, que­sta loro lea­der­ship, che fon­da­va­no la capa­ci­tà dei Col­let­ti­vi pado­va­ni di spa­zia­re ege­mo­ni­ca­men­te dai gio­va­ni ribel­li del­la bor­ghe­sia vene­ta ai gio­va­ni del vec­chio e nuo­vo pro­le­ta­ria­to sia nel­la pro­vin­cia che in ambi­to metro­po­li­ta­no. Regi­stran­do, anche sog­get­ti­va­men­te, le muta­zio­ni socia­li in cor­so in tem­po rea­le: «Anche noi ne face­va­mo par­te (del­la nuo­va com­po­si­zio­ne socia­le, NdR) per età, per­cor­si sco­la­sti­ci, for­me di vita… In più sen­ti­va­mo di far­ne par­te. Sì, c’era que­sto comu­ne sen­ti­re dif­fi­ci­le da spie­ga­re, for­se per­ché non c’era nul­la da spie­ga­re, era così e basta».
Qui Pie­ro rac­con­ta del­la «sco­per­ta» dell’operaio socia­le, poi descrit­to e valo­riz­za­to nel­la sua nuo­va cen­tra­li­tà anche poli­ti­ca da Negri («Pos­sia­mo dire di aver­lo anti­ci­pa­to sul ter­re­no del­la poli­ti­ca pra­ti­ca»). Ci arri­va­no attra­ver­so l’autocoscienza di sé e anche attra­ver­so l’inchiesta sul cam­po, a vol­te strut­tu­ra­ta, siste­ma­ti­ca (i cui mate­ria­li fini­sco­no infi­ne sul­le rivi­ste di area, ulti­ma «Auto­no­mia»), ma più spes­so, nel­la quo­ti­dia­ni­tà, la sco­per­ta del­la nuo­va com­po­si­zio­ne socia­le vie­ne intui­ta, spe­ri­men­ta­ta. E su di essa vie­ne model­la­ta l’iniziativa poli­ti­ca che così, dai luo­ghi ori­gi­na­ri, dal­le roc­ca­for­ti dell’Università e del­le supe­rio­ri pado­va­ne e di alcu­ne fab­bri­che (com­pre­so il Petrol­chi­mi­co di Por­to Mar­ghe­ra, rac­co­glien­do l’eredità dell’assemblea auto­no­ma e dei suoi leg­gen­da­ri lea­der ope­rai), si irra­dia sul ter­ri­to­rio (con i «grup­pi socia­li» e con i «comi­ta­ti» tema­ti­ci e/​o di zona), che rap­pre­sen­ta­no il tes­su­to di base su cui si inne­sta l’organizzazione poli­ti­ca vera e pro­pria, in tut­te le sue arti­co­la­zio­ni. L’esperienza dei Col­let­ti­vi vene­ti è di inte­res­se anche su que­sto pia­no, per chi voglia con­fron­tar­si con una ver­sio­ne ori­gi­na­le e, per anni, par­ti­co­lar­men­te effi­ca­ce del­la for­ma par­ti­to, un par­ti­to rivo­lu­zio­na­rio e comu­ni­sta per voca­zio­ne e pras­si. Il libro con­tie­ne sia rifles­sio­ni retro­spet­ti­ve degli auto­ri e del cura­to­re sia docu­men­ti uti­li a com­ple­ta­re il qua­dro (anche in rap­por­to a espe­rien­ze simi­li avve­nu­te altro­ve, soprat­tut­to nel con­fron­to con Roma, con i Vol­sci in par­ti­co­la­re, e con i ten­ta­ti­vi di strut­tu­ra­re un sog­get­to nazio­na­le a par­ti­re dal­le visio­ni stra­te­gi­che e di fase di intel­let­tua­li mili­tan­ti di rife­ri­men­to, Toni Negri in pri­mis).
Ciò che, tut­ta­via, mi sem­bra più attua­le e forie­ro di rifles­sio­ni sul nostro pre­sen­te riguar­da pro­prio la sco­per­ta del­la figu­ra che ver­rà chia­ma­ta «ope­ra­io socia­le» e che, nel rac­con­to dei Despa­li, diven­ta poi, con una meta­mor­fo­si spiaz­zan­te e per cer­ti ver­si agghiac­cian­te, «l’uomo del­la Lega».
Il Vene­to in cui nasce la rivol­ta stu­den­te­sca e ope­ra­ia è quel­lo che sta uscen­do dal­la pover­tà, dal­la con­di­zio­ne rura­le, pun­teg­gia­to di iso­le indu­stria­li (pic­co­le o sgra­na­te, sal­vo il gran­de polo di Mar­ghe­ra), segna­to dall’egemonia cle­ri­ca­le e demo­cri­stia­na, scos­sa ma non rove­scia­ta dal ciclo di con­te­sta­zio­ni e lot­te, da muta­men­ti di men­ta­li­tà e nuo­vi sti­li di vita. Ma dura poco. Il Vene­to del tra­mon­to del­la civil­tà con­ta­di­na e dell’avvento di un’epoca indu­stria­le diven­ta, pre­sto, un’altra cosa anco­ra. È il nuo­vo mon­do dell’operaio socia­le, appun­to, del­la pro­du­zio­ne che esce dal recin­to del­la fab­bri­ca for­di­sta e si spar­pa­glia sul ter­ri­to­rio (più tar­di, oggi, entre­rà per­fi­no nel­le sin­go­le abi­ta­zio­ni, nel più per­so­na­le ambi­to di ognu­no di noi). I Col­let­ti­vi sono, nel movi­men­to, nel­la sini­stra tut­ta, fra i più luci­di osser­va­to­ri di que­sta meta­mor­fo­si e i più pron­ti, come si è det­to, a ricon­fi­gu­ra­re la pro­pria agen­da di lavo­ro e la pro­pria stes­sa orga­niz­za­zio­ne. L’operaio socia­le, però, non si rive­la affat­to incar­na­re in manie­ra dif­fu­sa e linea­re la for­ma nuo­va di una sog­get­ti­vi­tà ribel­le che nel­la fab­bri­ca for­di­sta si era mani­fe­sta­ta (e anco­ra era pre­sen­te, in mol­ti luo­ghi). A gran­de distan­za di tem­po, anche con il sug­ge­sti­vo aiu­to di un roman­zo nel­la cui tra­ma si pos­so­no ritro­va­re vicen­de per qual­che ver­so ana­lo­ghe, Pasto­ra­le Ame­ri­ca­na di Phi­lip Roth, Pie­ro ripen­sa a quel­la vicen­da e con­clu­de che quel Vene­to, «labo­ra­to­rio del­la nuo­va com­po­si­zio­ne di clas­se», inve­ce che il luo­go del­la rot­tu­ra, «era diven­ta­to il luo­go dell’identità leghi­sta «men­tre il rifiu­to del lavo­ro sala­ria­to si era risol­to nel­la com­ple­ta iden­ti­fi­ca­zio­ne col lavo­ro». Era diven­ta­to il mon­do che un bra­vo atto­re e auto­re di que­ste par­ti, Andrea Pen­nac­chi, fa ora espri­me­re con le paro­le e la postu­ra orgo­glio­se, gre­vi e ottu­se del suo eroe, il Poja­na.
Gia­co­mo ripren­de il ragio­na­men­to a par­ti­re dal Petrol­chi­mi­co, l’altro pia­ne­ta pre­ci­pi­ta­to nel vec­chio Vene­to a scon­vol­ger­lo: «Arri­va la cri­si e con la cri­si i licen­zia­men­ti; la nostra avan­guar­dia che fa? Deve pur cam­pa­re; non può rifiu­ta­re il lavo­ro e anda­re a far­si le can­ne in piaz­za Fer­ret­to a Mestre. Deve tro­var­si un lavo­ro, inven­tar­se­lo. Tor­na a casa e fa l’imprenditore per­ché altri­men­ti come caz­zo cam­pa la fami­glia, come man­gia? Poi c’è la pro­vin­cia… Met­ti insie­me que­ste due real­tà e avrai l’uomo del­la Lega». Una let­tu­ra, anco­ra­ta al dato mate­ria­le cru­do e con­di­zio­nan­te, che si esten­de alla stes­sa gene­ra­zio­ne del ’77: «Non mi con­vin­ce la tesi soste­nu­ta a suo tem­po secon­do cui col ’77 sareb­be appar­sa una nuo­va gene­ra­zio­ne di gio­va­ni che volon­ta­ria­men­te pre­fe­ri­sce le mil­le occu­pa­zio­ni al lavo­ro sot­to padro­ne. Sono con­vin­to inve­ce che noi sia­mo i figli, i pro­dot­ti del capi­ta­li­smo; è il padro­ne che ha crea­to que­sta figu­ra. Nes­su­no, ne sono con­vin­to, vuol fare il pre­ca­rio».
La que­stio­ne, però, è che l’«operaio socia­le», a un cer­to pun­to, sem­bra but­tar­si ani­ma e cor­po, nel nuo­vo desti­no. Sem­bra far­lo pro­prio. Spo­sar­lo. Sem­bra deci­de­re che la pro­pria liber­tà e la pro­pria eman­ci­pa­zio­ne eco­no­mi­ca e poli­ti­ca, riven­di­ca­te dap­pri­ma in fab­bri­ca con for­za, con rab­bia, spes­so con intel­li­gen­te dirom­pen­za, ora dipen­do­no da altro: dall’impegno sul lavo­ro, con sacri­fi­cio, fino all’auto sfrut­ta­men­to (lad­do­ve si lavo­ra da soli o nell’impresa di fami­glia, ma a vol­te anche nell’impresa del padro­ne ami­co, del padro­ne com­pae­sa­no). Esse­re libe­ri sem­bra ora signi­fi­ca­re pro­va­re a fare sol­di, fat­tu­ra­re, quin­di pro­dur­re, con­cor­re­re (tro­va­re per­ciò i pro­pri riva­li non nell’avversario di clas­se ben­sì nel con­cor­ren­te appun­to), par­te­ci­pa­re alla gara dell’accumulazione, chie­de­re nuo­ve rego­le non per esse­re ugua­li, non per ave­re dirit­ti socia­li, ben­sì age­vo­la­zio­ni fisca­li (o eva­sio­ni, elu­sio­ni, in con­flit­to con lo Sta­to esat­to­re, con la sua buro­cra­zia e il suo cen­tra­li­smo). Signi­fi­ca guar­da­re agli oriz­zon­ti inter­na­zio­na­li – non inter­na­zio­na­li­sti – come obiet­ti­vi di mer­ca­to e, con­tem­po­ra­nea­men­te, guar­da­re al loca­le come al cuo­re del pro­prio ambien­te pro­dut­ti­vo, eco­no­mi­co, e bar­dar­lo come se fos­se una casa­mat­ta poli­ti­ca a tute­la di que­ste prio­ri­tà. Ecco l’uomo e il mon­do del­la Lega.
Nel libro ci si chie­de qua­li erro­ri sia­no sta­ti com­mes­si, dal movi­men­to, dai Col­let­ti­vi stes­si, per non riu­sci­re a impe­di­re que­sta deri­va. E, giu­sta­men­te, si sot­to­li­nea come l’abbattersi del­la repres­sio­ne sui Col­let­ti­vi e su tut­to il movi­men­to alla fine del decen­nio Set­tan­ta, abbia tol­to di mez­zo un sog­get­to che, col­ta la nuo­va dina­mi­ca, pote­va met­te­re in cam­po una pro­po­sta radi­ca­le, alter­na­ti­va a quel­la che poi sareb­be diven­ta­ta la pro­po­sta leghi­sta. La Lega nasce pro­prio allo­ra: «Ripu­li­to il Vene­to dagli auto­no­mi, tut­to per lor signo­ri è sta­to più faci­le».
Sareb­be potu­ta anda­re diver­sa­men­te? Le for­ze che han­no crea­to il Poja­na­stan, per dir­la anco­ra con Pen­nac­chi, era­no for­mi­da­bi­li. Era­no le for­ze stes­se del capi­ta­li­smo sbri­glia­to e pre­po­ten­te, vora­ce di pro­fit­ti e pro­dut­ti­vi­tà, che si sca­te­na in que­gli anni e che fa del Vene­to e del nor­de­st ita­lia­no una del­le loco­mo­ti­ve, secon­do l’abusata meta­fo­ra, del­lo svi­lup­po nazio­na­le ed euro­peo e una del­le capi­ta­li del­la glo­ba­liz­za­zio­ne neo­li­be­ri­sta a caval­lo del mil­len­nio. Dif­fi­ci­le con­tra­star­ne la dina­mi­ca. Tut­ta­via, una for­za capa­ce di sta­re in cam­po leg­gen­do con tem­pe­sti­vi­tà le con­trad­di­zio­ni di quel tem­po e di offri­re un’alternativa poli­ti­ca e cul­tu­ra­le e anche, per così dire, un’indicazione di pos­si­bi­le comu­ni­tà diver­sa, avreb­be potu­to gio­car­si le sue car­te, mostra­re un’altra via all’emancipazione.
Non sareb­be­ro basta­ti i Col­let­ti­vi, ovvia­men­te. Ma la loro pre­co­ce intel­li­gen­za del­le cose e la sog­get­ti­vi­tà dispo­ni­bi­le a gio­car­si inten­sa­men­te e pie­na­men­te sui nuo­vi per­cor­si del­la meta­mor­fo­si in atto avreb­be­ro potu­to aggre­ga­re altre for­ze, anche di diver­sa pro­ve­nien­za. Pie­ro dice che han­no soprav­va­lu­ta­to se stes­si. Pro­ba­bi­le. E che non sono sta­ti abba­stan­za radi­ca­li. In un cer­to sen­so, sì, ma non in quel­lo del­la scar­sa deter­mi­na­zio­ne. Dif­fi­ci­le incon­tra­re in que­gli anni qual­cu­no più deter­mi­na­to, dicia­mo così, dei Col­let­ti­vi… For­se l’insufficiente radi­ca­li­tà con­si­ste nell’aver cir­co­scrit­to l’analisi del­la nuo­va com­po­si­zio­ne socia­le ai suoi aspet­ti pre­va­len­te­men­te eco­no­mi­ci, di aver let­to l’operaio socia­le più come «ope­ra­io» anco­ra e un po’ meno nel suo lato «socia­le». Socia­le, poi, non signi­fi­ca­va nean­che allo­ra la mera esten­sio­ne del pro­fi­lo eco­no­mi­co al di fuo­ri del luo­go di lavo­ro clas­si­co. Signi­fi­ca­va tut­to il mon­do di cose e valo­ri, tra­di­zio­ni e mode, luo­ghi sto­ri­ci e luo­ghi nuo­vi, e non luo­ghi, con­su­mi e cre­den­ze, reli­gio­si­tà rimos­se e risor­gen­ti e iden­ti­tà poli­ti­che pre­gres­se, biso­gni e desi­de­ri, che tra il capan­no­ne, il cam­pa­ni­le, la disco­te­ca e il pub e la taver­na, e la caset­ta o la caso­na, e l’automobile, e la tv a colo­ri, e l’infinita serie di gene­ri di con­for­to e pro­dot­ti di con­su­mo più o meno intel­li­gen­te e più o meno volut­tua­rio, più o meno indot­to e più meno neces­sa­rio, defi­ni­va­no il mon­do rea­le, la vita quo­ti­dia­na, l’esperienza con­cre­ta e la sog­get­ti­vi­tà, il mon­do inte­rio­re stes­so – il pae­sag­gio del­la bio­po­li­ti­ca – di quel­le per­so­ne in car­ne e ossa, dei già con­ta­di­ni, già ope­rai, già e non più ope­rai socia­li e già e non anco­ra nuo­vi impren­di­to­ri (nel­la men­ta­li­tà, nell’auto per­ce­zio­ne, nel­le ambi­zio­ni se non già nel pre­ci­so pro­fi­lo socia­le). «Par­la­va­mo di clas­se ope­ra­ia e pro­le­ta­ria­to, di com­po­si­zio­ne tec­ni­ca e di com­po­si­zio­ne poli­ti­ca ricon­du­cen­do soprat­tut­to quest’ultima alle lot­te e ai biso­gni del momen­to men­tre igno­ra­va­mo quan­to la pro­ble­ma­ti­ca del­la lot­ta di clas­se per il comu­ni­smo sia male­det­ta­men­te più com­pli­ca­ta», riflet­te Gia­co­mo men­tre allar­ga lo sguar­do in sen­so sto­ri­co e geo­gra­fi­co (con­net­ten­do i muta­men­ti loca­li di allo­ra alle nuo­ve cri­si geo­po­li­ti­che, rivo­lu­zio­ne ira­nia­na e ritor­no dell’Islam e del­la que­stio­ne reli­gio­sa in pri­mis, su que­sto anche in «dia­lo­go» con Fou­cault, con il ritor­no sim­me­tri­co del­la que­stio­ne del­la lai­ci­tà, del­la lezio­ne illu­mi­ni­sta, e gia­co­bi­na).
Per un bre­ve perio­do, tra la fab­bri­ca for­di­sta in via di supe­ra­men­to e il dif­fon­der­si del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta sul ter­ri­to­rio, tra l’operaio mas­sa, gene­ri­co o pro­fes­sio­na­le, e l’operaio socia­le, si è aper­to uno spa­zio. Lì pote­va cre­sce­re un’alternativa. Avreb­be avu­to neces­si­tà di una for­za gui­da mol­to più strut­tu­ra­ta sull’intero arco dell’esperienza dei sog­get­ti che vole­va orga­niz­za­re, quin­di capa­ce di reg­ge­re tem­pi più lun­ghi di accu­mu­la­zio­ne del man­da­to poli­ti­co e di clas­se, di un respi­ro da «par­ti­to» com­ples­so e cor­po­so, anche se nuo­vo. Va det­to che quel­la del par­ti­to emer­ge, in que­sto libro, esse­re sta­ta una pre­oc­cu­pa­zio­ne costan­te dei Col­let­ti­vi, come per­ce­pen­do l’insufficienza del­lo stru­men­to esi­sten­te (anche negli anni più rug­gen­ti). Un par­ti­to nazio­na­le e, insie­me, ter­ri­to­ria­le (l’ambito ter­ri­to­ria­le reste­rà comun­que sem­pre il luo­go pre­di­let­to dei Col­let­ti­vi). Non avran­no suc­ces­so, nel­lo sfor­zo di con­vin­ce­re e coin­vol­ge­re la più par­te del movi­men­to in que­sto pro­get­to. La pul­sio­ne a fram­men­tar­si, l’incapacità di un  respi­ro ampio, appun­to, han­no pre­val­so. Un agi­re col­let­ti­vo in gra­do di costi­tuir­si come sog­get­to uni­ta­rio non ha mai avu­to gran for­tu­na nel­la sini­stra rivo­lu­zio­na­ria ita­lia­na.
Così, disar­ti­co­la­ta, con la repres­sio­ne, l’organizzazione che più ave­va col­to, dal lato di clas­se, la muta­zio­ne in cor­so, ogni alter­na­ti­va, com­pre­se quel­le di natu­ra rifor­mi­sta, social­de­mo­cra­ti­ca, è diven­ta­ta nel Vene­to e nel nor­de­st imper­via, infi­ne impos­si­bi­le. Il mix di radi­ca­li­tà e con­cre­tez­za, di auto­re­fe­ren­zia­li­tà e voglia di cam­bia­re tut­to che quel­la nuo­va com­po­si­zio­ne socia­le (e sog­get­ti­va) pre­ten­de­va per offrir­si a un per­cor­so d’impegno e di cam­bia­men­to, anche radi­ca­le, è sta­ta rac­col­ta e stra­vol­ta dal­la Lega (dal­le sue paro­le d’ordine, dai suoi valo­ri, indi­pen­den­te­men­te dall’adesione al par­ti­to). «Ave­va­mo appe­na sco­per­chia­to una pen­to­la che in tut­ta fret­ta si sono pre­ci­pi­ta­ti a sigil­la­re. Per fare cosa e anda­re dove l’avremmo sco­per­to di lì a poco. È il ritor­no alla gran­de di quel mon­do che ha par­to­ri­to l’uomo del­la Lega».
Un mon­do oggi con­su­ma­to, inqui­na­to, per mol­ti ver­si sfi­bra­to, che la pan­de­mia ora per­cor­re este­nuan­do­lo ulte­rior­men­te. Un mon­do consegnato(si) all’individualismo e al pro­dut­ti­vi­smo, nel cul­to del far da sé e nel­la dif­fi­den­za per il «pub­bli­co» e per il «comu­ne» col­ti­va­ta per decen­ni, fin da quel bivio in cui, usci­to dai seco­li rura­li e dai lustri indu­stria­li, l’uomo poi diven­ta­to del­la Lega pote­va esse­re ten­ta­to di guar­da­re altro­ve, a un’altra stra­da, oppo­sta.
Ragio­na­re su que­sta sto­ria, con que­sto libro, è uti­le al pre­sen­te, a cer­ca­re i fili lun­ghi e i fili nuo­vi di una ricer­ca radi­ca­le, tut­to­ra pos­si­bi­le, quan­to mai necessaria.

Padova, Veneto, la lezione dell’Autonomia

di Gian­mar­co De Pieri

Deve esi­ste­re per for­za un infer­no,
per­ché in nes­sun altro posto voi potre­te rice­ve­re una puni­zio­ne ade­gua­ta ai vostri cri­mi­ni.
Fino a quan­do esi­ste­rà gen­te come voi, l’inferno sarà un’esigenza essen­zia­le del cosmo.
(J. Lon­don, Il tal­lo­ne di fer­ro)

Lo spi­ri­to è anco­ra in me; ma non ho più nien­te da pre­di­ca­re.
Sen­to piut­to­sto la voca­zio­ne di tra­sci­na­re le fol­le die­tro di me, di gui­dar­le. Ma dove non so.
(J. Stein­beck, Furo­re)

È un obbli­go ten­ta­re di fer­mar­vi per­ché fini­sca l’ingiustizia.
È un obbli­go dare voce ai fra­tel­li e sorel­le che in tut­to il pia­ne­ta sof­fro­no a cau­sa vostra.
È un obbli­go non cede­re alla pau­ra dei vostri eser­ci­ti e alza­re la testa.
È un obbli­go per­ché solo per obbli­go noi dichia­ria­mo le guer­re.
Ma se dob­bia­mo sce­glie­re tra lo scon­tro con le vostre trup­pe d’occupazione e la ras­se­gna­zio­ne, non abbia­mo dub­bi.
Ci scon­tre­re­mo.
(Tute Bian­che per l’umanità con­tro il neoliberismo)

La let­tu­ra di Auto­no­mi VI di Gia­co­mo, Pie­ro e Mim­mo è sta­ta come gode­re di un buon bic­chie­re di vino ros­so, di una riser­va super­ba. Dif­fi­ci­le met­te­re per iscrit­to i flus­si di pen­sie­ro che sca­tu­ri­sco­no da que­sta pia­ce­vo­le emo­zio­ne, in par­te per­ché il movi­men­to del gusto, si sa, lavo­ra sul pas­sa­to e sul pre­sen­te, sul­la cir­co­la­zio­ne dei sapo­ri e sul­la ripro­po­si­zio­ne degli odo­ri. Par­lia­mo di oggi o di allo­ra? Dei tre­men­di 70 e dell’italiota pau­ra ad affron­ta­re la pro­pria sto­ria o del pre­sen­te? Devo par­la­re da pado­va­no o da bolo­gne­se, da Orga­niz­za­to tra Dif­fu­si?
Il testo dei com­pa­gni rimet­te al cen­tro del cam­po da gio­co poli­ti­co alcu­ni temi che sono sem­pli­ce­men­te non evi­ta­bi­li, come del resto la straor­di­na­ria sta­gio­ne degli Auto­no­mi ci per­met­te di ragio­na­re di oggi oltre il limi­ti del­la com­pa­ti­bi­li­tà con il capi­ta­li­smo.
Vedia­mo alcu­ni temi trat­ta­ti e che mi paio­no prio­ri­ta­ri.
Il rap­por­to con il ter­ri­to­rio. Il ter­ri­to­rio non è mai inte­so come spa­zio poli­ti­co neu­tro, ma come ope­ra­zio­ne poli­ti­ca fin dal­la sua iden­ti­fi­ca­zio­ne geo­gra­fi­ca. Il ter­ri­to­rio è – in par­te – ma sopra­tut­to si fa, e que­sto è il moti­vo per il qua­le la zoniz­za­zio­ne dei col­let­ti­vi è figlia di un’osservazione sapien­te del­la com­po­si­zio­ne tec­ni­ca di clas­se e si  tra­du­ce in pro­get­to poli­ti­co di omo­ge­neiz­za­zio­ne.
Lad­do­ve la com­po­si­zio­ne di clas­se si defi­ni­sce come clu­ster di pae­si, par­roc­chie, fab­bri­che, scuo­le, piaz­ze, lì «si pro­get­ta e si met­te in ope­ra» un pro­get­to poli­ti­co comu­ni­sta da costrui­re con un ampio spet­tro di lavo­ro orga­niz­za­ti­vo (dal comi­ta­to ope­ra­io al comi­ta­to di lot­ta sul­la casa, dai comi­ta­ti di linea dei pen­do­la­ri alla ron­da con­tro in lavo­ro nero nel­la fab­bri­ca dif­fu­sa).
Non si par­te dal­la socio­lo­gia dell’operaio socia­le, ma si vuo­le costrui­re l’operaio socia­le come sin­te­si poli­ti­ca tra la fine del ciclo di lot­te dell’operaio mas­sa, la sus­sun­zio­ne rea­le del ter­ri­to­rio al capi­ta­le e la poten­za d’attacco auto­no­ma dei con­tro­po­te­ri: il par­ti­to dell’operaio socia­le è un obiet­ti­vo stra­te­gi­co, non il lamen­to del ritor­no all’operaio mas­sa, e il ter­ri­to­rio non è solo un map­pa­le geo­gra­fi­co, ma è il tavo­lo da gio­co del go.
La fab­bri­ca degli Auto­no­mi è un’impresa-rete, che ha (solo) sul­lo sfon­do la Car­ra­ro o il Petrol­chi­mi­co e al cen­tro (soprat­tut­to) la filie­ra «post­for­di­sta» dei Benet­ton e le ope­ra­ie che sono rese ter­zi­ste, pre­lu­dio del­le par­ti­te iva. Per cer­ti ver­si l’operaio socia­le è l’infante del pre­ca­rio degli anni 2000, il cui pro­gram­ma ha nel sala­rio socia­le l’elemento stra­te­gi­co e poten­zial­men­te ricom­po­si­ti­vo.
Il sala­rio socia­le por­ta natu­ral­men­te al tema del pote­re poli­ti­co, ben pre­sen­te nel­le cir­co­la­ri dell’Organizzazione dei col­let­ti­vi, che infat­ti pon­go­no il pro­ble­ma dei prez­zi poli­ti­ci come sal­to di qua­li­tà dei con­tro­po­te­ri ter­ri­to­ria­li. Se il sala­rio era la misu­ra del pote­re ope­ra­io nel­la fab­bri­ca for­di­sta, il prez­zo poli­ti­co dei beni-ser­vi­zi, ovve­ro il sala­rio socia­le è la misu­ra del rap­por­to di for­za tra capi­ta­li­sta col­let­ti­vo e ope­ra­io socia­le ovve­ro del pre­ca­ria­to socia­le.
La scon­fit­ta degli Auto­no­mi non si è con­clu­sa con la vit­to­ria dei social­de­mo­cra­ti­ci fau­to­ri del com­pro­mes­so sto­ri­co, che in pochi anni sono pre­ci­pi­ta­ti in una cri­si sen­za fine, ma ha lie­vi­ta­to l’individualismo pro­prie­ta­rio, rias­sun­to nel­lo slo­gan «padro­ni a casa nostra»; dal­la ban­die­ra «ognu­no secon­do le sue capa­ci­tà, a ognu­no secon­do i suoi biso­gni» all’egoismo rapa­ce dell’Ombra Par­ty lega­io­lo.
Il rap­por­to tra ter­ri­to­ri. Tema da sem­pre e per sem­pre deci­si­vo, per­ché se è vero che con­ti solo se esi­sti sul cam­po – lezio­ne dell’autonomia orga­niz­za­ta vene­ta –, è altret­tan­to vero che il pro­ble­ma è come fede­ra­re ter­ri­to­ri, come costrui­re uni­tà nel­le dif­fe­ren­ze, come uni­fi­ca­re il coman­do. In buo­na sostan­za: come costruia­mo il comu­ne poli­ti­co sen­za «man­gia­re i risi in testa» alle basi ter­ri­to­ria­li?
Come non rinun­cia­re a espri­me­re fino in fon­do il biso­gno comu­ni­sta del par­ti­to e uni­re quel­lo che il capi­ta­le – e l’antropologia cul­tu­ra­le – ha divi­so?
Da sem­pre que­sto è il tema, fin dal Mani­fe­sto di Marx ed Engels, alme­no. Noi abbia­mo biso­gno del par­ti­to e – non ma – dei ter­ri­to­ri, lad­do­ve il par­ti­to non è l’astrazione del­la capa­ci­tà poli­ti­ca del­le zone omo­ge­nee ben­sì la loro con­ver­gen­za, fede­ra­zio­ne tra loro innan­zi­tut­to, e per loro.
Che fol­lia che da quarant’anni que­sto tema ven­ga bana­liz­za­to da noi stes­si o neu­tra­liz­za­to dal pote­re e dai revi­sio­ni­sti. Eli­mi­na­re il tema dell’organizzazione e del­la sua ten­sio­ne all’unità coo­pe­ra­ti­va e fede­ra­ti­va ha volu­to dire arre­tra­re la discus­sio­ne poli­ti­ca, se va bene, all’era del socia­li­smo uto­pi­sta, pre­scien­ti­fi­co, per il qua­le la fat­to­ria comu­ni­sta avreb­be con­vis­su­to con la fab­bri­ca tay­lo­ri­sta (Ottie­ri e Scel­ba, Fou­rier con quel­lo che osser­vò Engels in Inghil­ter­ra). Non fun­zio­na così.
Il pro­ble­ma del­la sog­get­ti­vi­tà. I com­pa­gni ci ricor­da­no che non si può fare fin­ta che le sor­ti del pro­get­to sia­no sospe­se al desti­no dei cicli del­le lot­te socia­li, del resto nem­me­no un’impresa sal­ta per aria in ragio­ne del­la sem­pli­ce flut­tua­zio­ne del valo­re di scam­bio del­la sua azio­ne.
La sog­get­ti­vi­tà è nell’organizzazione, è nel cor­po socia­le dif­fu­so, è arti­co­la­ta e inte­gra­ta, il qua­dro com­ples­si­vo non ha dele­ghe, ma assu­me con respon­sa­bi­li­tà e sen­za spac­co­ne­rie il ruo­lo, sta nel­le lot­te, ma pre-esi­ste e soprav­vi­ve a esse; insom­ma, si tor­na al con­tri­bu­to di Pan­zie­ri sul­la spon­ta­nei­tà e al suo rap­por­to con l’organizzazione.
Si può per­de­re un con­si­glio di fab­bri­ca, ma si deve tene­re nel comi­ta­to ope­ra­io, si può ave­re una cri­si nel grup­po socia­le ma la Com­mis­sio­ne deve pro­dur­re cir­co­la­zio­ne teo­ri­ca anche nei momen­ti di bas­sa. Non sto riat­tua­liz­zan­do l’adagio «alla clas­se la stra­te­gia, al par­ti­to la tat­ti­ca», ma pro­van­do a dire che, una vol­ta mes­so da par­te l’opportunismo del­la cat­ti­va let­tu­ra (cro­cia­na e para­cu­la) di Gram­sci, l’organizzazione assu­me su di sé la sin­te­si tra tat­ti­che con­ti­gen­ti e pen­sie­ro stra­te­gi­co, for­zan­do il pre­sen­te alla luce del futu­ro.
Qui si ritor­na alla rela­zio­ne tra Mao e Lenin (non tra mao-ismo e lenin-ismo), imma­gi­nan­do che il più gran­de rivo­lu­zio­na­rio del­la sto­ria ope­ra­ia a Capri gio­cas­se non a scac­chi, ma a go.
Mi pare che l’attraversamento del movi­men­to del ’77 sia esem­pio per­fet­to: inve­sti­men­to sen­za alcun com­por­ta­men­to spe­cu­la­ti­vo od oppor­tu­ni­sta sul movi­men­to, ma anche defi­ni­zio­ne di un pro­ces­sua­li­tà poli­ti­ca che ha un pri­ma e un dopo, sen­za rei­fi­car­ne la qua­li­tà car­si­ca.
Insom­ma, anche qui Lenin: ci sono i soviet tra gli ope­rai, viva i soviet!
Cosa signi­fi­ca que­sto nell’era del­la movi­men­ta­zio­ne socia­le lea­der-less? Vuol dire azze­ra­re la sog­get­ti­vi­tà? No, esat­ta­men­te il con­tra­rio. La meto­do­lo­gia pro­ces­sua­le del­le lot­te è cam­po di lie­vi­ta­zio­ne natu­ra­le di nuo­vi com­por­ta­men­ti poli­ti­ci del «qua­dro com­ples­si­vo» con­tem­po­ra­neo, che si deve inter­ro­ga­re su come pra­ti­ca­re discor­so poli­ti­co spe­ci­fi­co, ma anche lavo­ra­re in modo inter­sti­zia­le nel­le e tra le lot­te. Vale anco­ra per i qua­dri, quel­lo che ripe­te­va­no i com­pa­gni docen­ti di Scien­ze poli­ti­che di Pado­va: «stu­dia­te com­pa­gni, sia­te pre­pa­ra­ti!».
Il pro­ble­ma del­la lot­ta arma­ta. Pro­ble­ma che va affron­ta­to, come ben scri­ve Auto­no­mia, come una scel­ta di cam­po stra­te­gi­ca cui segue una discus­sio­ne tat­ti­ca ed eti­ca. Il pro­ble­ma fu quel­lo del «par­ti­to arma­to» che sba­gliò ripe­tu­ta­men­te, i dan­ni del cui schian­to han­no dan­neg­gia­to anche quan­ti in pro­po­si­to ave­va una stra­te­gia diver­sa. For­se avreb­be­ro dovu­to ascol­ta­re di più Radio Sher­wood.
Mi rima­ne la curio­si­tà di sape­re come si sareb­be risol­ta la discus­sio­ne tra Movi­men­to Comu­ni­sta Orga­niz­za­to e Lenin sull’«unità dei comu­ni­sti» negli anni ’80, chis­sà.
Abbia­mo tut­ti acqui­si­to, giu­sta­men­te, che c’è un meto­do ope­rai­sta nel­la let­tu­ra del­le tra­sfor­ma­zio­ni del­la com­po­si­zio­ne tec­ni­ca di clas­se; for­se dob­bia­mo rico­no­sce­re che c’è un meto­do auto­no­mo nel­la costru­zio­ne dell’intervento poli­ti­co. Ope­rai­sti e auto­no­mi si intrec­cia­no, ma non sono la stes­sa cosa, come, ed è chia­ro in Auto­no­mi VI che i Col­let­ti­vi non sono la con­ti­nua­zio­ne di Pote­re ope­ra­io. E allo­ra come potreb­be esser­ci uti­le qui e ora il meto­do auto­no­mo?
Il modo di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta ha este­so la sus­sun­zio­ne rea­le all’intera vita, il gene­ral intel­lect è enor­me­men­te cre­sciu­to, il capi­ta­le ha for­za­to la leg­ge del valo­re, ha este­so all’inverosimile il lavo­ro pro­dut­ti­vo e si è ristrut­tu­ra­to; dal­le pri­me ana­li­si sul post-for­di­smo abbia­mo ormai un’intera let­te­ra­tu­ra sui movi­men­ti di capi­ta­le glo­ba­le e finan­zia­riz­za­to, che ha stu­dia­to la sua qua­li­tà estrat­ti­vi­sta e la nuo­va divi­sio­ne inter­na­zio­na­le del lavo­ro.
Mi vie­ne da dire che, da un pun­to di vista astrat­ta­men­te teo­ri­co, abbia­mo avu­to in pro­po­si­to svi­lup­pi inten­si, ma che man­ca una pras­si che rige­ne­ri e risi­gni­fi­chi que­sta teo­ria.
Goo­gle e Face­book, ad esem­pio, sono «una nuo­va ari­sto­cra­zia finan­zia­ria, una nuo­va cate­go­ria di paras­si­ti nel­la for­ma di esco­gi­ta­to­ri di pro­get­ti, di fon­da­to­ri e di diret­to­ri che sono tali solo di nome; tut­to un siste­ma di fro­di e di imbro­gli (Marx)». Le inter­net com­pa­nies sono gli e‑robber barons di que­sto seco­lo nuo­vo, i ren­tier del­la pro­du­zio­ne socia­le, accu­mu­la­no ric­chez­ze straor­di­na­rie appro­prian­do­si del sur­plus che pro­du­cia­mo nell’interazione digi­ta­le sul­le piat­ta­for­me, abbrac­cia­ti al nostro part­ner di vita smart­pho­ne, in una ses­sio­ne di ricer­ca on line. «Sia­mo diven­ta­ti ogget­ti dai qua­li ven­go­no estrat­te le mate­rie pri­me (…) per le pro­prie fab­bri­che di pre­vi­sio­ni» (Zuboff), come Ford tra­sfor­ma­va accia­io in T‑model, così Goo­gle si appro­pria del­la natu­ra uma­na, sor­ve­glian­do­la, per pro­dur­re le pro­prie mer­ci, la più impor­tan­te del­le qua­li è la pre­vi­sio­ne dei com­por­ta­men­ti futu­ri.
Nel­la sus­sun­zio­ne rea­le e digi­ta­le del­la vita al capi­ta­le la ripro­du­zio­ne socia­le è del tut­to stra­te­gi­ca per i pro­ces­si di accu­mu­la­zio­ne.
L’estrazione di plus-valo­re è pos­si­bi­le per­ché il gigan­te­sco svi­lup­po del­la capa­ci­tà pro­dut­ti­va –imma­te­ria­le e mate­ria­le, soft­ware e hard­ware – è sog­gio­ga­ta in una  rela­zio­ne di sfrut­ta­men­to. Non è pos­si­bi­le un capi­ta­le scis­so dal lavo­ro, non pos­so­no vive­re sen­za di noi; è pos­si­bi­le – pur­trop­po – una rela­zio­ne estrat­ti­vi­sta tra capi­ta­le e lavo­ro nel­la qua­le gli algo­rit­mi sono lo stru­men­to attua­ti­vo.
Para­fra­san­do Marx, «è pro­du­zio­ne socia­le sen­za il con­trol­lo del­la pro­prie­tà pri­va­ta».
Il capi­ta­li­smo «fon­da mon­di, orga­niz­za la socie­tà in modo nuo­vo», crea un nuo­vo cor­pus di leg­gi che cer­ti­fi­ca­no i rap­por­ti di for­za sto­ri­ca­men­te deter­mi­na­ti tra le clas­si. I  movi­men­ti di capi­ta­le lo fece­ro cam­bian­do le cam­pa­gne ingle­si come ci rac­con­ta­ro­no i Level­lers, colo­ran­do di gri­gio il cie­lo di Lon­dra osser­va­to da Dic­kens, dan­do un auto ugua­le e diver­sa a tut­ti, orga­niz­zan­do il ter­ri­to­rio come una fab­bri­ca dif­fu­sa.
Ora il capi­ta­li­smo pro­du­ce il nostro futu­ro archi­vian­do i dati del nostro pre­sen­te, in un cir­cui­to di valo­riz­za­zio­ne non vin­co­la­to da limi­ti spa­zia­li o da pote­ri sta­tua­li; pes­si­mo ma eccel­len­te nemi­co che rina­sce dal­le pro­prie cri­si e dai nostri cicli di lot­ta.
Gli e‑robber barons sono in situa­zio­ne ana­lo­ga a quel­la vis­su­ta nell’era del­la cor­sa all’oro, ope­ra­no in una sostan­zia­le assen­za di leg­gi, nel defi­cit del­le lot­te del gene­ral intel­lect; non ci sor­pren­de­reb­be se nel­lo shock del­la gestio­ne emer­gen­zia­le del­la cri­si del coro­na virus, col­po defi­ni­ti­vo al libe­ra­li­smo demo­cra­ti­co, fos­se­ro le stes­se  piat­ta­for­me digi­ta­li a occu­pa­re il ruo­lo del­la gestio­ne del­la demo­cra­zia e del­la liber­tà, met­ten­do al ser­vi­zio del­le gover­nan­ce sta­tua­li la loro enor­me capa­ci­tà di cal­co­lo e di cono­scen­za dei com­por­ta­men­ti indi­vi­dua­li. Sarem­mo per­tan­to a un enne­si­ma sov­ver­sio­ne dall’alto: il capi­ta­le potreb­be ester­na­liz­za­re le fun­zio­ni pub­bli­che del con­trol­lo e disci­pli­na­men­to, inau­gu­ran­do una nuo­va sta­gio­ne del dirit­to, aggior­nan­do la costi­tu­zio­ne for­ma­le a quel­la mate­ria­le.
Imma­gi­na­te che il mono­po­lio del­la fun­zio­ne del con­trol­lo nel­lo sta­to d’emergenza pas­si dal­lo Sta­to e i suoi appa­ra­ti agli algo­rit­mi del­le piat­ta­for­me, sarem­mo di fron­te a un cam­bia­men­to epo­ca­le, para­go­na­bi­le alla nomi­na diret­ta del­lo sce­rif­fo da par­te del­le impre­se di mining nel­la sta­gio­ne del Wild West, con dro­ni e il soft­ware nel­le mani del­la nuo­va Pin­ker­ton digi­ta­le. Era­no fur­fan­ti estrat­to­ri di mine­ra­le pre­gia­to allo­ra, sono ban­di­ti estrat­to­ri di infor­ma­zio­ni e di vita oggi.
Il meto­do auto­no­mo ci for­ni­sce dei poten­ti uten­si­li per ope­ra­re, ci invi­ta a cono­sce­re que­sta nuo­va fab­bri­ca inte­gra­le e glo­ba­le del­la ripro­du­zio­ne socia­le, a inchie­sta­re que­sto lavo­ra­to­re col­let­ti­vo, a orga­niz­za­re chi scri­ve gli algo­rit­mi, ad abbrac­cia­re la per­va­si­vi­tà del­la fab­bri­ca, a orga­niz­zar­ne il sabo­tag­gio del­le linee pro­dut­ti­ve.
L’imma­gi­na­rio auto­no­mo è il pro­le­ta­rio brac­cian­te Tom Joad di Furo­re, alla ricer­ca del lavo­ro in Cali­for­nia, il diri­gen­te rivo­lu­zio­na­rio Big Bill del sin­da­ca­to Inter­na­tio­nal Wor­kers of the World, – anche se in Auto­no­mi VI lo stru­men­to sin­da­ca­to non mi pare ven­ga valo­riz­za­to –, e sarà il nuo­vo bol­sce­vi­co e-Kamo, sen­za il cui ope­ra­re ille­ga­le Lenin non avreb­be potu­to pub­bli­ca­re Iskra.
Sono debi­to­re agli auto­ri per aver­mi indi­ca­to la stra­da di lot­ta: non il lud­di­smo, ma la costru­zio­ne dell’algo­rit­mo comu­ni­sta, ovve­ro l’appropriazione comu­ne del­le miliar­di di righe di codi­ce che ora orga­niz­za­no lo sfrut­ta­men­to e che pos­so­no, dipen­de anche da noi, esse­re una leva per avan­za­re ver­so il Nuo­vo Mon­do.
Gra­zie Gia­co­mo, Pie­ro, Mim­mo. La lot­ta continua.

Guardare avanti con le spalle al futuro

di Gigi Roggero

Inter­ro­gar­si sul pas­sa­to è un’operazione di cui il mili­tan­te deve sem­pre chia­ri­re meto­do, for­me, obiet­ti­vi. Inter­ro­gar­si sul pas­sa­to quan­do il pre­sen­te è tumul­tuo­sa­men­te scom­bus­so­la­to dall’imprevisto richie­de ulte­rio­re spe­ci­fi­ca­zio­ne. Ecco la pre­mes­sa indi­spen­sa­bi­le per rico­min­cia­re a discu­te­re dell’auto­no­mia nel 2020, ai tem­pi del coro­na­vi­rus.
La tra­di­zio­ne è la sal­va­guar­dia del fuo­co, non l’adorazione del­le cene­ri: fac­cia­mo risol­ve­re a Gustav Mahler la pri­ma par­te del­la pre­mes­sa. Le cele­bra­zio­ni non ci appar­ten­go­no, le auto­ce­le­bra­zio­ni sono grot­te­sche. Se par­lia­mo del pas­sa­to, allo­ra, è per com­pren­de­re le nostre ric­chez­ze e soprat­tut­to i nostri limi­ti, come è anda­ta e per­ché pote­va anda­re in modo dif­fe­ren­te. Non per amo­re sto­rio­gra­fi­co, ma per esi­gen­za poli­ti­ca: vol­ge­re le spal­le al futu­ro può allo­ra diven­ta­re la posi­zio­ne miglio­re per guar­da­re avan­ti. Di un’eredità poli­ti­ca rivo­lu­zio­na­ria, infat­ti, ce ne appro­pria­mo solo se sia­mo in gra­do di for­zar­la e pie­gar­la al pre­sen­te.
Venia­mo alla secon­da par­te. Potrem­mo cavar­ce­la dicen­do che il tumul­tuo­so scom­bus­so­la­men­to che stia­mo viven­do non è deter­mi­na­to dal­le lot­te, o da una cri­si eco­no­mi­ca, comun­que da qual­co­sa che rien­tri nei nostri sche­mi di let­tu­ra e inter­pre­ta­zio­ne. Non ser­vi­reb­be a nul­la: non ci è dato di sce­glie­re il tem­po che vivia­mo, né d’altro can­to le situa­zio­ni di cri­si avven­go­no nel momen­to o nel modo che pen­sa­va­mo. Quan­to ai nostri sche­mi di let­tu­ra e inter­pre­ta­zio­ne, dovrem­mo con­sta­tar­ne l’ampia ina­de­gua­tez­za. Il pun­to non è aspet­tar­si l’imprevisto, ma far­si tro­va­re pron­ti.
Ecco per­ché l’autonomia, oggi. Nel­la sua for­ma orga­niz­za­ta, con la maiu­sco­la, come rifles­sio­ne sul pas­sa­to, come han­no fat­to Pie­ro, Gia­co­mo e Mim­mo nel libro, come sta facen­do Deri­veAp­pro­di con la col­la­na. E nel pre­sen­te come meto­do poli­ti­co, come sti­le del­la mili­tan­za, come scom­mes­sa. No, non si trat­ta affat­to di pro­cla­ma­re un’identità, un’etichetta, un logo: lascia­mo que­ste cose agli stu­di nota­ri­li, o al mer­chan­di­sing anta­go­ni­sta. Ben più a fon­do, si trat­ta di fare nostro un pun­to di vista.
Sia chia­ro, dun­que: nul­la si dà mai nel­la stes­sa for­ma, la con­ti­nui­tà di una sto­ria di par­te avvie­ne sem­pre nel­la discon­ti­nui­tà e nei sal­ti dei pas­sag­gi poli­ti­ci. Al con­tem­po, non esi­ste l’immortalità di un pro­get­to, gli stes­si nomi – in quan­to espres­sio­ne di una pro­spet­ti­va con­cre­ta – sono sem­pre lega­ti a fasi o epo­che sto­ri­che deter­mi­na­te. Ad esem­pio, a par­ti­re dal­la metà dell’Ottocento la lot­ta di clas­se si è accom­pa­gna­ta con la pro­spet­ti­va socia­li­sta; con la radi­ca­le tra­sfor­ma­zio­ne del­la Pri­ma guer­ra mon­dia­le, il socia­li­smo è diven­ta­to for­ma di gestio­ne del­lo svi­lup­po capi­ta­li­sti­co. Una man­ca­ta rot­tu­ra con la pro­pria sto­ria, ovve­ro un’identità sta­ti­ca che si per­pe­tua indif­fe­ren­te ai sal­ti impo­sti dal­la lot­ta di clas­se e dal­le rispo­ste di cat­tu­ra e inno­va­zio­ne capi­ta­li­sti­ca, signi­fi­ca quin­di non solo gio­ca­re su un ter­re­no arre­tra­to, ma addi­rit­tu­ra ritro­var­si incon­sa­pe­vol­men­te all’interno del cam­po nemi­co.
Allo­ra, ripen­sa­re l’autonomia oggi non vuol dire ripro­por­re paro­le d’ordine, for­me orga­niz­za­ti­ve e inter­pre­ta­zio­ni situa­te in una fase spe­ci­fi­ca, ben­sì scom­met­te­re sul­la pos­si­bi­li­tà del­la rot­tu­ra: con il nemi­co ovvia­men­te, e innan­zi­tut­to con noi stes­si. I grup­pi e i com­pa­gni di «movi­men­to» (ter­mi­ne che ha da tem­po per­so il suo signi­fi­ca­to for­te, lega­to all’anomalia del ciclo di lot­te in Ita­lia degli anni Ses­san­ta e Set­tan­ta) si sono rin­ta­na­ti nel­la gestio­ne dei pro­pri – sem­pre più pic­co­li e mar­gi­na­li – spa­zi di soprav­vi­ven­za e auto­ri­pro­du­zio­ne. La rot­tu­ra rivo­lu­zio­na­ria è rima­sta uno slo­gan da scri­ve­re sul­le fel­pe, non da per­se­gui­re nel­la pras­si. Il sen­so del­la scon­fit­ta si è impos­ses­sa­to di noi, anche quan­do lo espri­mia­mo con enfa­ti­ci slo­gan di ribel­lio­ne: la testi­mo­nian­za impo­ten­te non ha nien­te a che vede­re con la ricer­ca del­la for­za. Il «the­re is no alter­na­ti­ve» del­la resi­sten­za ghet­tiz­za­ta ha can­cel­la­to la ricer­ca del­le pos­si­bi­li­tà di attac­co. E sen­za que­sta ricer­ca, sem­pli­ce­men­te non c’è auto­no­mia.
Sia chia­ro, per pos­si­bi­li­tà di attac­co non inten­dia­mo l’avventurismo eroi­co di grup­pi e indi­vi­dui, oppu­re l’esaltazione di fuo­chi fatui che illu­mi­na­no solo la nostra inca­pa­ci­tà di infiam­ma­re la pra­te­ria. Insom­ma, l’elogio este­ti­co del­la rivol­ta ha la stes­sa uti­li­tà dell’affidamento teleo­lo­gi­co allo svi­lup­po: nes­su­na. La ten­sio­ne alla rot­tu­ra deve incar­nar­si nel­la scom­mes­sa sui poten­zia­li sog­get­ti col­let­ti­vi, sui luo­ghi e sui tem­pi in cui essa divie­ne una con­cre­ta pos­si­bi­li­tà. E le scom­mes­se van­no fat­te pri­ma, col rischio di sba­glia­re e fal­li­re; per­ché a non sba­glia­re mai sono solo i cro­ni­sti del­le lot­te degli altri, che pur­trop­po oggi sono diret­ta­men­te pro­por­zio­na­li alla cri­si del­la sog­get­ti­vi­tà auto­no­ma. Insom­ma, meglio un rivo­lu­zio­na­rio che fal­li­sce là dove scom­met­te piut­to­sto che un turi­sta alla ricer­ca di sel­fie e con­su­mo adre­na­li­ni­co del­le rivo­lu­zio­ni altrui.
La ten­sio­ne alla rot­tu­ra deve dun­que radi­car­si den­tro la com­po­si­zio­ne di clas­se. Se non voglia­mo feti­ciz­za­re il con­cet­to è neces­sa­rio appro­fon­di­re, come tan­te vol­te abbia­mo pro­va­to a fare nel cor­so degli anni. In un pun­to del dia­lo­go con Pie­ro, Gia­co­mo offre del­le rifles­sio­ni impor­tan­ti: «Anche l’operaio è for­za lavo­ro, mer­ce, ma è anche un indi­vi­duo che par­la una lin­gua, che man­gia, che vie­ne da un deter­mi­na­to pae­se, che ragio­na con le sue cate­go­rie, ha del­le usan­ze, un modo di vesti­re, cele­bra il Nata­le e la Pasqua, va a mes­sa la dome­ni­ca; se tu non cono­sci bene quest’altra fac­cia, la fac­cia nasco­sta di quell’operaio, fai mol­ta più fati­ca ad avvi­ci­nar­ti e a par­lar­gli. In quel perio­do mi resi con­to che un comu­ni­sta deve vera­men­te esse­re padro­ne del­la mate­ria se non vuo­le soc­com­be­re nel­la sua bat­ta­glia per un mon­do miglio­re. Come può far­si capi­re? Uti­liz­zan­do for­se le sue cate­go­rie, il suo lin­guag­gio mar­xi­sta? A mag­gior ragio­ne quan­do si è den­tro una lot­ta; non dovreb­be mai dimen­ti­ca­re che la cosid­det­ta com­po­si­zio­ne poli­ti­ca è anche un impa­sto di que­ste cose». È il tema deci­si­vo del­la sog­get­ti­vi­tà, sen­za cui il rap­por­to tra com­po­si­zio­ne tec­ni­ca e poli­ti­ca divie­ne una sem­pli­ce ripro­po­si­zio­ne del pas­sag­gio idea­li­sti­co dal­la clas­se in sé alla clas­se per sé, ovve­ro una rela­zio­ne di neces­si­tà sim­me­tri­ca tra la strut­tu­ra ogget­ti­va e l’organizzazione poli­ti­ca. Inve­ce, come più vol­te sot­to­li­nea­to, la com­po­si­zio­ne tec­ni­ca non è il linea­re rove­scia­men­to del­la com­po­si­zio­ne poli­ti­ca. La sog­get­ti­vi­tà, come Gia­co­mo evi­den­zia, è un mesco­lar­si con­ti­nuo di dif­fe­ren­ti ele­men­ti, col­let­ti­vi e sin­go­la­ri, deter­mi­na­ta dal­la spe­ci­fi­ci­tà capi­ta­li­sti­ca e dal­la gene­ri­ci­tà di sto­rie e tra­di­zio­ni  che la attra­ver­sa­no o addi­rit­tu­ra la pre­ce­do­no, dal­la col­lo­ca­zio­ne nel­la gerar­chia pro­dut­ti­va e dal­le appar­te­nen­ze ter­ri­to­ria­li o fami­lia­ri, dal­la poten­za per­for­man­te del siste­ma e dal­le dina­mi­che di adat­ta­men­to, resi­sten­za o con­trap­po­si­zio­ne dei sin­go­li e col­let­ti­ve. E la stes­sa com­po­si­zio­ne poli­ti­ca non va affat­to inte­sa come la costi­tu­zio­ne di un sog­get­to imme­dia­ta­men­te anta­go­ni­sta. Que­sto rap­por­to, così come i due ter­mi­ni che lo for­ma­no, sono con­ti­nua­men­te attra­ver­sa­ti dal con­flit­to, dal­la pos­si­bi­li­tà dell’interruzione e del­la devia­zio­ne, del rove­scia­men­to e del­la rever­si­bi­li­tà del pro­ces­so. Non si trat­ta di ripro­por­re la tra­di­zio­na­le dia­let­ti­ca tra spon­ta­nei­tà e orga­niz­za­zio­ne: potrem­mo dire che l’autonomia è la capa­ci­tà pro­ces­sua­le di ali­men­ta­re di spon­ta­nei­tà l’organizzazione e con­dur­re l’organizzazione den­tro la spon­ta­nei­tà.
Insom­ma, chi atten­de una sog­get­ti­vi­tà pura, dota­ta del­la mito­lo­gi­ca coscien­za di clas­se e vota­ta all’antagonismo, non la tro­ve­rà mai, o meglio giu­sti­fi­che­rà così la pro­pria inca­pa­ci­tà di com­pren­de­re, ricer­ca­re e agi­re. La com­po­si­zio­ne di clas­se è sem­pre ambi­gua, e vivad­dio! Per­ché l’ambiguità è il trat­to costi­tu­ti­vo del siste­ma capi­ta­li­sti­co: il nostro pro­ble­ma poli­ti­co è come e dove scom­met­te­re per tra­sfor­ma­re l’ambiguità in con­trad­di­zio­ne, dun­que in pos­si­bi­li­tà di con­flit­to e rot­tu­ra. Ça va sans dire, non pos­sia­mo imma­gi­nar­ci una mera ripre­sa o ripro­po­si­zio­ne del­le figu­re di clas­se che han­no dato vita al ciclo di lot­te auto­no­me degli anni Set­tan­ta. Ciò che inve­ce pos­sia­mo fare, oggi come allo­ra, è dire­zio­na­re il pun­to di vista, cioè dove guar­da­re e per­ché. Ricer­chia­mo la for­za oppu­re la debo­lez­za? Scom­met­tia­mo sul­le vit­ti­me del­lo svi­lup­po capi­ta­li­sti­co, dei suoi pro­ces­si di ristrut­tu­ra­zio­ne e di impo­ve­ri­men­to? L’attività poli­ti­ca deve diven­ta­re assi­sten­za per i biso­gno­si, all’inseguimento di un con­sen­so che – con il pro­gres­so dei buo­ni sen­ti­men­ti – por­te­rà alla tra­sfor­ma­zio­ne del mon­do? Quel­lo che abbia­mo visto è piut­to­sto il con­tra­rio, e anche di que­sto ci par­la­no Pie­ro e Gia­co­mo nel libro: si ripro­du­ce da un lato la sog­get­ti­vi­tà del­la vit­ti­ma e dell’assistito, dall’altro la sog­get­ti­vi­tà dell’illuminato coo­pe­ran­te che, tra l’altro con mez­zi ben più pove­ri del­le strut­tu­re cari­ta­te­vo­li uffi­cia­li, cer­ca di alle­via­re la sof­fe­ren­za indi­vi­dua­le. In que­sta sepa­ra­tez­za – il con­tra­rio del­la conricer­ca – non si dà mai tra­sfor­ma­zio­ne radi­ca­le del­la sog­get­ti­vi­tà, ovve­ro rot­tu­ra e auto­no­mia. Ovvia­men­te la for­za è sem­pre quan­to­me­no ambi­gua, per­ché può anda­re in mol­te dire­zio­ni dif­fe­ren­ti e per­fi­no con­trap­po­ste; ma di pura una c’è sola l’ideologia, che ras­si­cu­ra le ani­me bel­le tan­to quan­to ras­si­cu­ra il siste­ma domi­nan­te. E poi, la que­stio­ne resta sem­pre quel­la: per­ché dovrem­mo risol­ve­re le con­trad­di­zio­ni pro­dot­to dal capi­ta­le e non inve­ce esa­spe­rar­le?
Anche chi atten­de una situa­zio­ne pura non la tro­ve­rà mai. Oggi, per tor­na­re a bom­ba sull’attualità, dire che ci sareb­be pia­ciu­to che que­sta cri­si fos­se sta­ta deter­mi­na­ta da ben altri fat­to­ri è tan­to ovvio quan­to inu­ti­le: hic Rho­dus, hic sal­ta! La que­stio­ne che inve­ce ci dob­bia­mo por­re è: come usa­re que­sta cri­si? Affi­dar­ci a un’ipotesi crol­li­sta, imma­gi­na­re un capi­ta­li­smo in qua­ran­te­na o cre­der­ci libe­ra­ti dal­la socie­tà dei con­su­mi, signi­fi­ca non capi­re le capa­ci­tà di uso capi­ta­li­sti­co del­la cri­si e non ave­re la mini­ma idea di che cos’è la for­ma-mer­ce, come se la per­ce­pis­si­mo solo nei cen­tri com­mer­cia­li e non nel­la sua per­va­si­vi­tà tra le mura di casa, con gli ami­ci o nei cen­tri socia­li. Noi innan­zi­tut­to sia­mo mer­ce, e anche nel­la qua­ran­te­na ci ripro­du­cia­mo come mer­ce. Alla stes­sa incom­pren­sio­ne del fun­zio­na­men­to del­la civil­tà capi­ta­li­sti­ca si arri­va urlan­do all’incipiente sta­to di poli­zia o dipin­gen­do un nemi­co com­pat­to e omo­ge­neo, che ha sem­pre le idee chia­re, è pri­vo di con­trad­di­zio­ni e ha la situa­zio­ne ogget­ti­va­men­te sot­to con­trol­lo. E non si otter­ran­no risul­ta­ti miglio­ri se al cata­stro­fi­smo secu­ri­ta­rio sosti­tuia­mo il cata­stro­fi­smo sani­ta­rio, quel­lo per cui più si ampli­fi­ca il nume­ro dei mor­ti o l’apocalitticità del virus più si è anti­ca­pi­ta­li­sti. Il peri­co­lo mobi­li­ta solo nel­la misu­ra in cui può esse­re rove­scia­to con­tro il nemi­co; altri­men­ti, lad­do­ve divie­ne fon­te di una pau­ra mor­ta­le, non farà altro che con­dur­re alla para­li­si del­la sog­get­ti­vi­tà, ovve­ro all’affidamento alle isti­tu­zio­ni esi­sten­ti. Ponia­mo­ci allo­ra la doman­da: come si può ribal­ta­re la cri­si attua­le in uno spa­zio di pos­si­bi­li­tà? In che modo, con qua­li sog­get­ti, con qua­le tem­po­ra­li­tà?
C’è uno slo­gan che vie­ne dal Cile e va parec­chio di moda nei nostri ambi­ti: non voglia­mo tor­na­re alla nor­ma­li­tà per­ché la nor­ma­li­tà era il pro­ble­ma. Giu­sto, bene. Però dob­bia­mo por­tar­lo fino in fon­do: non solo non voglia­mo tor­na­re alla nor­ma­li­tà del­la quo­ti­dia­ni­tà capi­ta­li­sti­ca, ma nep­pu­re tor­na­re alla nostra nor­ma­li­tà, quel­la del­la gestio­ne fun­zio­na­ria­le dei nostri spa­zi e grup­pi, dell’amministrazione del­la nostra soprav­vi­ven­za. Con que­sta nor­ma­li­tà dob­bia­mo rom­pe­re, se voglia­mo pen­sa­re di rom­pe­re con quel­la. In Cile sono sta­te le lot­te a inter­rom­pe­re la nor­ma­li­tà, qua il virus. O se voglia­mo dir­la diver­sa­men­te: que­sto male­det­to virus sta facen­do quel­lo che noi non abbia­mo sapu­to fare. Si radi­ca nei gan­gli vita­li del siste­ma, col­pi­sce dura­men­te l’apparato respi­ra­to­rio, si mas­si­fi­ca e si mol­ti­pli­ca dove lui è più for­te e più debo­le il cor­po che aggre­di­sce.
Qual­che anno fa in un libret­to, Il tre­no con­tro la Sto­ria, abbia­mo ripre­so una cita­zio­ne di Chur­chill: «Fu con un sen­so di timo­re reve­ren­zia­le che i coman­dan­ti tede­schi sca­te­na­ro­no con­tro la Rus­sia la più atro­ce del­le armi. Tra­spor­ta­ro­no Lenin dal­la Sviz­ze­ra alla Rus­sia su un auto­car­ro sigil­la­to, come fos­se un bacil­lo del­la peste». Ripren­den­do dal pun­to di vista oppo­sto la defi­ni­zio­ne del­lo sta­ti­sta ingle­se, scri­ve­va­mo: «Dive­ni­re un mili­tan­te-bacil­lo nell’organismo del capi­ta­le, per spar­ge­re in modo orga­niz­za­to e nei pun­ti giu­sti la peste. Il mili­tan­te-bacil­lo inter­rom­pe e distrug­ge la pos­si­bi­li­tà di ripro­du­zio­ne del nemi­co e così facen­do si ali­men­ta, raf­for­za e tra­sfor­ma se stes­so, scom­po­nen­do e ricom­po­nen­do le cel­lu­le del cor­po den­tro cui è col­lo­ca­to. Ecco il nostro obiet­ti­vo, la nostra pras­si da ricer­ca­re, la nostra mate­ria di stu­dio».
È noto come la paro­la kri­sis indi­cas­se, in ori­gi­ne, la fase deci­si­va di una malat­tia. Era dun­que il momen­to del mas­si­mo rischio e, al con­tem­po, di una gran­de pos­si­bi­li­tà. Dob­bia­mo però sot­trar­re la cri­si a una con­ce­zio­ne ogget­ti­vi­sti­ca, come se da essa sca­tu­ris­se ine­vi­ta­bil­men­te la cata­stro­fe oppu­re la rivol­ta. Que­sta fase deci­si­va è uno spa­zio asim­me­tri­co però aper­to, in cui i pro­ces­si si acce­le­ra­no con rapi­di­tà impre­vi­sta, una costel­la­zio­ne di pos­si­bi­li­tà con dif­fe­ren­zia­ti gra­di di for­za. Il caro vec­chio Höl­der­lin ci ha indi­ca­to la stra­da attra­ver­so cui tro­va­re la sal­vez­za là dove mas­si­mo è il peri­co­lo. Però per segui­re que­sta stra­da, per affer­ra­re nel­la malat­tia que­sta pos­si­bi­li­tà con­tro il nostro nemi­co, dob­bia­mo innan­zi­tut­to vive­re fino in fon­do la nostra kri­sis come occa­sio­ne di ripen­sa­re da capo l’autonomia.
…to be continued…

* Gigi Rog­ge­ro ha recen­si­to il libro al cen­tro di que­sta trat­ta­zio­ne (Gli auto­no­mi. Sto­ria dei col­let­ti­vi poli­ti­ci per il pote­re ope­ra­io. Vol. VI, di Gia­co­mo e Pie­ro Despa­li, a cura di Mim­mo Ser­san­te) sul sito «Com­mo­n­ware» [qui l’articolo].

“tous ensemble”… per il potere operaio

di Toni Negri

La “sto­ria dei vin­ti” ci ha per­se­gui­ta­to. Da quan­do Ben­ja­min ne ave­va par­la­to su tutt’altra sce­na, acqui­si­ta e stra­vol­ta dal­la cat­ti­va coscien­za dell’intellettualità di sini­stra, la scia­gu­ra­ta imma­gi­ne si era dif­fu­sa come un virus mali­gno, sic­ché, inte­rio­riz­za­ta in gran par­te di noi, la nostra sto­ria non si riu­sci­va nep­pu­re a rac­con­tar­la ma solo a lamen­tar­la. Dop­pia pena per gli scon­fit­ti: per­den­ti e dimen­ti­ca­ti. Da qual­che anno, un edi­to­re e mol­ti com­pa­gni si sono mes­si al lavo­ro per strap­pa­re la sto­ria degli anni Set­tan­ta a quel desti­no. Essa comin­cia a ricon­fi­gu­rar­si: meno distor­ta, non più sepol­ta sot­to i muc­chi del­le scar­tof­fie del­la repres­sio­ne giu­di­zia­ria o sot­to le mil­le pagi­ne di misti­fi­ca­zio­ne socio­lo­gi­ca del “ter­ro­ri­smo”. Man mano la “sto­ria dei vin­ti”, scrit­ta dai vin­ci­to­ri, vie­ne mes­sa fuo­ri mer­ca­to, men­tre i vin­ti comin­cia­no a dir­la tut­ta, a rac­con­ta­re cioè come dal­le magliet­te a stri­sce dei gio­va­ni metal­mec­ca­ni­ci e doc­kers che nel luglio ’60 get­ta­ro­no fuo­ri i fasci­sti da Geno­va ai pro­le­ta­ri di Piaz­za Sta­tu­to del ’62, dai gran­di scio­pe­ri e dal­le lot­te dell’autunno cal­do alle occu­pa­zio­ni del­le uni­ver­si­tà nel lun­go ’68 ita­lia­no e poi fino a quan­do nel ’77 gli stu­den­ti e gli auto­no­mi but­ta­ro­no fuo­ri Lama dall’università di Roma e ten­ne­ro quel­la di Bolo­gna con­tro i tanks del­la poli­zia… – insom­ma, come in que­sto suc­ce­der­si di anni che una lugu­bre fan­ta­sia chia­ma “di piom­bo”, vis­se inve­ce una resi­sten­za pro­le­ta­ria ric­ca di for­za, di gio­ia, e d’immaginazione del comu­ni­smo.
Il libro sui Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti (Gia­co­mo e Pie­ro Despa­li, Gli auto­no­mi. Sto­ria dei col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io, a cura di Mim­mo Ser­san­te, Deri­veAp­pro­di, Roma, 2019), appar­so subi­to dopo quel­lo sui comi­ta­ti poli­ti­ci del vicen­ti­no, la fini­sce con il lut­to degli anni Ses­san­ta-Set­tan­ta – è piut­to­sto un libro di vin­ci­to­ri che di vin­ti. Per così dire, è la goc­cia che fa tra­boc­ca­re il vaso. Pro­va­te a met­te­re que­sto libro dei due Despa­li accan­to a quel­li del duo Ven­tu­ra-Calo­ge­ro, epo­ni­mi del­la repres­sio­ne: che cosa ne con­clu­de­re­te? Che di qua c’è la veri­tà schiet­ta e viva­ce del­la rivol­ta di una gene­ra­zio­ne di ragaz­zi che sogna­no la giu­sti­zia socia­le e pen­sa­no che le con­di­zio­ni sto­ri­che del­lo svi­lup­po eco­no­mi­co e socia­le per­met­ta­no di con­qui­star­la; dall’altra par­te ci sono teoremi/​fake news, ceci­tà o distur­bi dell’intelligenza sto­ri­ca, tri­stez­za e disa­stro dell’anima di una éli­te socia­li­sta ormai in per­di­zio­ne.
Il libro dei due Despa­li è un rac­con­to con­ver­sa­to (con la media­zio­ne di Mim­mo Ser­san­te) tra due diri­gen­ti dei Cpv nel perio­do che va dal­la chiu­su­ra di Pote­re ope­ra­io (1973) all’inizio degli Ottan­ta, quan­do la repres­sio­ne schiac­ciò l’espressione poli­ti­ca del movi­men­to rivo­lu­zio­na­rio. In que­sto inter­ven­to mi sof­fer­me­rò solo su due pun­ti cen­tra­li, pri­ma di apri­re la discus­sio­ne su un paio di altri pro­ble­mi ai qua­li alcu­ne di que­ste pagi­ne sol­le­ci­ta­no. Il dibat­ti­to, natu­ral­men­te, con­ti­nue­rà.
Pri­mo tema: il Vene­to. L’insistenza degli auto­ri sul­le carat­te­ri­sti­che loca­li, vene­te, del movi­men­to che han­no con­tri­bui­to a costrui­re, è addi­rit­tu­ra ridon­dan­te. È per loro una que­stio­ne di prin­ci­pio: un’organizzazione auto­no­ma non può che esse­re radi­cal­men­te ter­ri­to­ria­le, il con­trol­lo del ter­ri­to­rio ne divie­ne il segno più pre­ci­so per un’esistenza dura­tu­ra ed un’azione effi­ca­ce. Ora, il rac­con­to dell’attività dei Cpv, fat­to in que­sto libro, risul­ta pro­ban­te. Si è trat­ta­to di un radi­ca­men­to asso­lu­ta­men­te deci­si­vo nel defi­ni­re che cosa pos­sa esse­re un con­tro­po­te­re ter­ri­to­ria­le nel socia­le. In que­ste con­di­zio­ni, una mino­ran­za intel­li­gen­te e atti­va ha sapu­to agi­re da mag­gio­ran­za, e comun­que da avan­guar­dia di mas­sa degli sfrut­ta­ti.
Resta da chie­der­si per­ché que­sta espe­rien­za sia a tal pun­to riu­sci­ta in que­gli anni, nel Vene­to.
Che non era un feu­do del­la sini­stra, anzi, cono­sce­va una scar­sa tra­di­zio­ne ope­ra­ia e comu­ni­sta. La rispo­sta è chia­ra: l’autonomia, negli anni Ses­san­ta in fab­bri­ca, nei Set­tan­ta sul ter­ri­to­rio, rap­pre­sen­tò nel Vene­to un vero e pro­prio shock poli­ti­co in quel­la che si rite­ne­va una “cat­to­li­cis­si­ma” regio­ne, che era allo­ra cer­ta­men­te fuo­ri dal trian­go­lo indu­stria­le, e dove non vive­va una mag­gio­ran­za ope­ra­ia. Fu un ful­mi­ne che incen­diò la pra­te­ria. Per­ché? Per­ché il Vene­to era allo­ra una regio­ne sot­to pres­sio­ne. In assen­za di migra­zio­ni inter­ne, si fug­gi­va dal­la cam­pa­gna men­tre l’emigrazione euro­pea rien­tra­va, la nuo­va fles­si­bi­li­tà ope­ra­ia e la pri­ma ter­zia­riz­za­zio­ne indu­stria­le met­te­va­no in col­le­ga­men­to vari stra­ti del lavo­ro vivo, la popo­la­zio­ne fem­mi­ni­le entra­va nel­le fab­bri­che e così con­qui­sta­va un ruo­lo auto­no­mo nel­la fami­glia, un pri­mo benes­se­re per­met­te­va ai figli e alle figlie degli ope­rai di entra­re nel­le uni­ver­si­tà, ecc. Que­sto – si obiet­ta – non avve­ni­va tut­ta­via solo nel Vene­to. Ma il Vene­to era una pen­to­la sot­to pres­sio­ne, con la Dc e il gran­de capi­ta­le che si eser­ci­ta­va­no nel tener­la com­pres­sa. E così il Vene­to esplo­de – meglio, sono le orga­niz­za­zio­ni auto­no­me che lo fan­no esplo­de­re. Il comi­ta­to di Por­to Mar­ghe­ra fin dal­la metà degli anni Ses­san­ta e i Cpv dall’inizio dei Set­tan­ta costrui­sco­no straor­di­na­ri poli di comu­ni­ca­zio­ne e di orga­niz­za­zio­ne pro­le­ta­ria, altro­ve assen­ti su un così lun­go perio­do e con una così soli­da con­si­sten­za, e rap­pre­sen­ta­no nuo­ve for­me di soli­da­rie­tà, di liber­tà e… di gio­ia nel­la lot­ta.
Il secon­do ele­men­to sul qua­le gli auto­ri del libro insi­sto­no è il pre­sen­ta­re i Cpv come orga­niz­za­zio­ne dell’ope­ra­io socia­le. È del tut­to vero. I col­let­ti­vi vene­ti (e, al loro inter­no, su que­sto pun­to, l’esempio vicen­ti­no è ancor più espli­ci­to) era­no costi­tui­ti da una popo­la­zio­ne per mol­ti ver­si inter­cam­bia­bi­le, di ope­rai, stu­den­ti, arti­gia­ni, impie­ga­ti… Ora, qua­si tut­te le nuo­ve orga­niz­za­zio­ni del pro­le­ta­ria­to (gio­va­ni­le e non) nel nord Ita­lia, in quel perio­do, nel mila­ne­se come in Emi­lia, ed anche fra Tori­no e Geno­va, sono in qual­che modo costi­tui­te dall’“operaio socia­le” – esat­ta­men­te come nel Vene­to. Pri­me gene­ra­zio­ni pre­ca­rie si accom­pa­gna­no alle ulti­me gene­ra­zio­ni di “una vita al lavo­ro”. La pre­sa di coscien­za dell’automazione cre­scen­te dell’industria impo­ne per la pri­ma vol­ta – anche a que­ste ulti­me – la con­sa­pe­vo­lez­za che la  pre­ca­rie­tà, oltre ad esse­re un’eventuale for­ma del sala­rio, sarà for­ma per­ma­nen­te di vita lavo­ra­ti­va. Gli auto­ri insi­sto­no però sul fat­to che i Cpv avreb­be­ro anti­ci­pa­to le for­me di orga­niz­za­zio­ne dell’operaio socia­le. Il che è in par­te vero. In quel­la fase i Cpv rap­pre­sen­ta­ro­no il meglio di quel­la nuo­va espe­rien­za di clas­se. E tut­ta­via – e qui si apre la discus­sio­ne – que­sta espe­rien­za e quel modo di orga­niz­za­zio­ne stan­no abba­stan­za stret­te all’operaio socia­le. Non basta­no infat­ti la cri­si del­la fab­bri­ca e l’uscita da que­sta di set­to­ri del­la for­za-lavo­ro, l’apparire di for­me mol­te­pli­ci di orga­niz­za­zio­ne del lavo­ro dif­fu­so e dell’organizzazione del­la lot­ta in fab­bri­ca e nel socia­le, il len­to movi­men­to che vede la ripro­du­zio­ne pri­vi­le­gia­ta sul­la pro­du­zio­ne e quin­di l’affermazione del­la ten­den­za all’integrazione del “gene­re” nel­la clas­se, per con­clu­de­re alla solu­zio­ne del pro­ble­ma di orga­niz­za­zio­ne per l’operaio socia­le e a loca­liz­zar­la nel­la sto­ria dei Cpv. L’operaio socia­le cor­ri­spon­de infat­ti, nel­la sua matu­ri­tà, al con­so­li­dar­si del­la coo­pe­ra­zio­ne pro­dut­ti­va socia­le.
Quan­do il lavo­ro si è dema­te­ria­liz­za­to e si pre­sen­ta come mobi­le nel­lo spa­zio e fles­si­bi­le nel tem­po, e soprat­tut­to quan­do la tec­no­lo­gia ege­mo­ne strut­tu­ra e coman­da il lavo­ro cogni­ti­vo – solo a quel livel­lo e in quel­le dimen­sio­ni, cre­do, veri­fi­che­re­mo una nuo­va figu­ra di orga­niz­za­zio­ne. Dob­bia­mo con­clu­de­re che i Cpv non sia­no for­me orga­niz­za­ti­ve dell’operaio socia­le? Lo sono, ma – esat­ta­men­te come altre for­me di lot­ta e mili­tan­za negli anni Set­tan­ta – sono espe­rien­ze del pas­sag­gio del­la cen­tra­li­tà orga­niz­za­ti­va dal­la fab­bri­ca al socia­le, dall’operaio-massa all’operaio socia­le. Pon­go­no il pro­ble­ma del ter­ri­to­rio e del­la mol­te­pli­ci­tà del­le inter­se­zio­ni di clas­se (e di gene­re) e pon­go­no inol­tre a que­sto livel­lo, in que­sta situa­zio­ne, il tema dell’uso del­la for­za: ma anche que­sto è anco­ra un pas­sag­gio. Solo alla fine degli anni Novan­ta, uscen­do dal­la repres­sio­ne, comin­ce­re­mo a per­cor­re­re e a misu­ra­re inte­ra­men­te il ter­re­no mol­ti­tu­di­na­rio dell’operaio socia­le. Le pri­me espe­rien­ze con­se­guen­ti su que­sto ter­re­no le avre­mo nel ciclo di lot­te che giun­ge a Geno­va e che è tem­po­ra­nea­men­te bloc­ca­to dall’11 set­tem­bre, per ria­prir­si più tar­di (Occu­pyIndi­gna­dos, ecc.).
A par­ti­re dal rico­no­sci­men­to di que­sti pun­ti for­ti del libro si pos­so­no ora por­re alcu­ne doman­de agli auto­ri. La pri­ma è per­ché non abbia­no volu­to apri­re alla con­ti­nui­tà  del­la sto­ria dei Col­let­ti­vi dopo la fine degli anni Set­tan­ta. Una sto­ria che avreb­be per­mes­so di por­re con mag­gior for­za il tema dell’operaio socia­le e del­la sua orga­niz­za­zio­ne su un ter­re­no ormai qua­li­fi­ca­to da una fon­da­men­ta­le e gene­ra­le con­ver­sio­ne mol­ti­tu­di­na­ria del pro­le­ta­ria­to.
Que­sta tra­sfor­ma­zio­ne era sta­ta d’altra par­te ampia­men­te com­pre­sa dai com­pa­gni che in que­gli anni avvia­ro­no quel­la con­ti­nui­tà in una nuo­va sto­ria.
[Inci­den­tal­men­te, nel qua­dro di que­sta con­ti­nui­tà, piut­to­sto che nel lamen­to­so ritor­no alle dia­tri­be car­ce­ra­rie, sareb­be for­se sta­to più faci­le per gli auto­ri dare una rispo­sta meno set­ta­ria alla tor­men­ta­ta quæ­stio del­la “dis­so­cia­zio­ne poli­ti­ca” (non giu­di­zia­le) dal ter­ro­ri­smo. Mi sia per­mes­so pro­por­re due ele­men­ti per appros­si­ma­re una rispo­sta che stia nel­la con­ti­nui­tà del­la sto­ria dei Cpv. In pri­mo luo­go: il radi­ca­le ripu­dio da par­te dei Cpv dell’omicidio poli­ti­co, pra­ti­ca­to dal­le orga­niz­za­zio­ni com­bat­ten­ti, e la con­se­guen­te denun­cia dell’uccisione di Moro da par­te del­le Bri­ga­te ros­se. Non si trat­ta qui di una “dis­so­cia­zio­ne poli­ti­ca dal ter­ro­ri­smo”? In secon­do luo­go: appe­na ricom­po­sti, alla fine degli anni Ottan­ta, i Cpv deci­do­no di rista­bi­li­re il rap­por­to con gli esi­lia­ti e di lavo­ra­re con loro a Pari­gi e insie­me pro­du­co­no una rivi­sta. Non si trat­ta­va così di ade­ri­re, non solo prag­ma­ti­ca­men­te (in un perio­do deli­ca­to e dif­fi­ci­le di revi­sio­ne gene­ra­le del­la teo­ria e del­le pra­ti­che dell’autonomia) al pro­gram­ma di rico­stru­zio­ne deli­nea­to nell’“Elogio di assen­za di memo­ria”?]
La secon­da que­stio­ne riguar­da il tema dell’esercizio del­la for­za. È più che evi­den­te che richia­mar­si a que­sto pro­po­si­to all’esperienza degli anni Set­tan­ta dei Cpv non può qui, oggi, esse­re par­ti­co­lar­men­te uti­le. Per ben che vada, richia­man­do­la, ci pren­de­reb­be­ro per dei fasti­dio­si black bloc! Si trat­ta piut­to­sto di inven­ta­re del nuo­vo, con­vin­ti che nel­la socie­tà digi­ta­liz­za­ta non sia­no pos­si­bi­li ripre­se o ripe­ti­zio­ni del vec­chio. Risul­ta dun­que assai dub­bia ogni pro­po­sta lega­ta ad esem­pi trat­ti dal­la sto­ria dei Cpv.
Così come risul­ta assai dub­bio (altro pun­to di discus­sio­ne) che, sen­za il 7 apri­le, avreb­be potu­to aprir­si nel Vene­to (insi­sto, nel Vene­to) un fron­te poli­ti­co anta­go­ni­sta che inter­pre­tas­se le nuo­ve figu­re del lavo­ro pro­dut­ti­vo sul ter­ri­to­rio del­la fab­bri­ca dif­fu­sa. Comun­que, a mio pare­re, se si fos­se data que­sta pos­si­bi­li­tà, ne sareb­be risul­ta­ta, alla meglio, un’appendice di pro­ces­si irre­den­ti­sti (sen­za ave­re la sto­ria di quel­li irlan­de­si o baschi) o, nel peg­gio­re dei casi, la mano sini­stra di pro­ces­si di regio­na­liz­za­zio­ne nazio­na­li­sta (come avven­ne in Cata­lo­gna). In tal caso i Cpv avreb­be­ro rinun­cia­to a rap­pre­sen­ta­re l’autonomia pro­le­ta­ria, ope­ra­ia, insom­ma le ragio­ni di fon­do del­la sto­ria dell’autonomia. Lascia­te cade­re que­ste illu­sio­ni, la que­stio­ne che oggi piut­to­sto si pone è come la mol­ti­tu­di­ne (cioè quel pro­le­ta­ria­to socia­le e pre­ca­rio che i Cpv ave­va­no comin­cia­to ad orga­niz­za­re negli anni Set­tan­ta) pos­sa di nuo­vo far­si clas­se poli­ti­ca.
A que­sto pro­po­si­to biso­gne­rà disten­de­re la sto­ria dell’autonomia al di là dei suoi limi­ti pas­sa­ti che in manie­ra assai limi­ta­ta si offri­va­no alla con­ver­gen­za orga­niz­za­ti­va sia del­le com­po­nen­ti che avan­za­va­no cri­ti­che e riven­di­ca­zio­ni di gene­re, sia di quel­le eco­lo­gi­che. Non man­ca­va cer­to una sen­si­bi­li­tà in pro­po­si­to – in par­ti­co­la­re la par­te­ci­pa­zio­ne alle lot­te con­tro il nuclea­re da par­te dei Cpv fu imme­dia­ta e vi agi­ro­no da pro­ta­go­ni­sti –, ma il suo risvol­to orga­niz­za­ti­vo ave­va anco­ra un pro­fi­lo “paci­fi­sta” piut­to­sto che eco­lo­gi­co.
È bene apri­re la discus­sio­ne sol­le­ci­ta­ti da que­sto bel libro pro­prio nel mez­zo del­la cri­si da coro­na­vi­rus – quan­do l’infezione neo­li­be­ra­le si è rove­scia­ta sul regi­me che l’ha pro­dot­ta. Di con­tro, esi­ste la pos­si­bi­li­tà di rea­gi­re, di lot­ta­re, di vin­ce­re. Qui, in que­sta cri­si (e spe­ro anche in que­sta recen­sio­ne) risuo­na quel gri­do di resi­sten­za che in Fran­cia i gile­ts jau­nes ci han­no di nuo­vo appre­so, a noi che tan­to abbia­mo impa­ra­to dai col­let­ti­vi vene­ti: “tous ensem­ble”… per il pote­re operaio.

Pari­gi, Pasqua 2020

Le lotte territoriali venete sul tema della salute negli anni ’70

di Gian­ni Cavallini

La let­tu­ra del libro di Gia­co­mo e Pie­ro Despa­li, nel coin­vol­ger­mi ine­vi­ta­bil­men­te sul pia­no per­so­na­le, mi ha con­sen­ti­to di con­fer­ma­re – meglio deli­nean­do­ne le moti­va­zio­ni – alcu­ni giu­di­zi che già al vol­ge­re tumul­tuo­so del decen­nio ’70 mi ero for­ma­to.
Mi spie­go: ai Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io spet­ta un meri­to, ben deli­nea­to nel testo dei fra­tel­li Despa­li; il Con­gres­so di Roso­li­na, decre­tan­do di fat­to il supe­ra­men­to dell’esperienza di Pote­re ope­ra­io, apri­va la stra­da a una nuo­va ine­di­ta fase poli­ti­ca, nel­la qua­le la com­po­si­zio­ne socia­le di rife­ri­men­to per un pro­get­to di tra­sfor­ma­zio­ne comu­ni­sta muta­va radi­cal­men­te; dall’operaio mas­sa, abi­tan­te ege­mo­ne del­la gran­de fab­bri­ca for­di­sta, all’operaio socia­le del­la pro­du­zio­ne social­men­te dif­fu­sa.
Ecco, io cre­do che i Col­let­ti­vi – come tut­ti noi sem­pli­ce­men­te li chia­ma­va­mo allo­ra – fin da subi­to abbia­no sapu­to coglie­re que­sto pas­sag­gio, costruen­do pro­prio su que­sto il loro pro­get­to poli­ti­co; a tale fine ade­gua­ro­no la pro­pria orga­niz­za­zio­ne e tra­sfor­ma­ro­no la pro­pria atti­vi­tà, sce­glien­do il radi­ca­men­to nel­le arti­co­la­zio­ni ter­ri­to­ria­li, lì inse­guen­do, inter­cet­tan­do, orga­niz­zan­do la nuo­va figu­ra pro­dut­ti­va, ben già pre­sen­te nel­la metro­po­li dif­fu­sa del Vene­to, cen­tra­ta sul­le pic­co­le e medie impre­se, con i pro­pri labo­ra­to­ri pro­dut­ti­vi anche a domi­ci­lio, con il lavo­ro di gio­va­ni, di don­ne che non ave­va­no alcun lega­me con la pre­ce­den­te sto­ria ope­ra­ia.
Que­sta loro ori­gi­na­le intui­zio­ne, con tut­to il cari­co di pra­ti­che ed espe­rien­ze con­dot­te fino al ter­mi­ne del decen­nio, ha sapu­to pro­por­re a quel­la com­po­si­zio­ne socia­le una iden­ti­tà di clas­se, ha sapu­to offri­re un incro­cio e una con­ta­mi­na­zio­ne con la com­po­si­zio­ne pro­le­ta­ria dell’Università, che, per gran par­te, pro­ve­ni­va dal Sud e che, a par­ti­re in par­ti­co­la­re dal ’77, met­te­va in cam­po quel­la pra­ti­ca nuo­va di auto­no­mia dei sape­ri, di rifiu­to del­la socie­tà disci­pli­na­re, del valo­re d’uso.
Tut­to ciò si è sostan­zial­men­te fer­ma­to con il pas­sag­gio di decen­nio; mi pare inte­res­san­te pro­por­re a una ulte­rio­re rifles­sio­ne col­let­ti­va la sug­ge­stio­ne data dal fat­to che que­sto ter­ri­to­rio, que­sta com­po­si­zio­ne socia­le sostan­zial­men­te in pochi anni è dive­nu­ta la base di soste­gno del­la Liga Vene­ta, in tal modo tra­sfe­ren­do il pro­prio cari­co di auto­no­mia e di con­flit­to da una iden­ti­tà di clas­se a una iden­ti­tà di luo­go (sareb­be­ro nate le Leghe Vene­ta e Nord sen­za Calo­ge­ro?).
A me pia­ce ricor­da­re – non solo per­ché rap­pre­sen­ta la mia per­so­na­le espe­rien­za in que­gli anni – come nel Vene­to coe­si­stes­se anche un’altra espe­rien­za straor­di­na­ria, che il libro comun­que incro­cia: mi rife­ri­sco alla sto­ria di Por­to Mar­ghe­ra, che rap­pre­sen­tò fino alme­no al 1976 (attra­ver­so il pas­sag­gio pri­ma del Comi­ta­to ope­ra­io poi dell’Assemblea auto­no­ma) una del­le prin­ci­pa­li espe­rien­ze di lot­ta e di orga­niz­za­zio­ne in Ita­lia all’interno del­la gran­de fab­bri­ca for­di­sta.
Per­so­nal­men­te, insie­me ad altri com­pa­gni e com­pa­gne, sostan­zial­men­te stu­den­ti uni­ver­si­ta­ri di Pado­va, dopo Roso­li­na con­ti­nuam­mo il per­cor­so poli­ti­co nell’ambito di quel­la espe­rien­za.
Ecco, a una pri­ma rifles­sio­ne mi ver­reb­be da dire che ero sicu­ra­men­te in ritar­do nel com­pren­de­re la tra­sfor­ma­zio­ne in cor­so, essen­do rima­sto lega­to sostan­zial­men­te al rife­ri­men­to dell’operaio mas­sa del­la gran­de con­cen­tra­zio­ne for­di­sta; sicu­ra­men­te così fu nei pri­mi non bre­vi mesi dopo Roso­li­na, allor­quan­do a Pado­va pren­de­va for­ma  l’esperienza dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci.
Poi, però, mi pia­ce rie­vo­ca­re l’evoluzione a Mar­ghe­ra attra­ver­so la rivi­sta «Lavo­ro Zero» ver­so una dimen­sio­ne socia­le, ester­na ai recin­ti del­la gran­de fab­bri­ca, che si avvia­va ai pro­ces­si di ristrut­tu­ra­zio­ne dei cicli pro­dut­ti­vi. In quel­la espe­rien­za si rea­liz­zò una straor­di­na­ria con­ta­mi­na­zio­ne con noi stu­den­ti, pre­va­len­te­men­te di Medi­ci­na, intor­no alla tema­ti­ca del­la «pro­du­zio­ne di mor­te».
Quel­la stra­te­gia, a par­ti­re dal­la fab­bri­ca chi­mi­ca, ma da subi­to inter­pre­ta­ta al di fuo­ri di essa, rap­pre­sen­ta­va in modo effi­ca­ce un orien­ta­men­to ver­so il ter­ri­to­rio, in par­ti­co­la­re nel­la decli­na­zio­ne del­la riven­di­ca­zio­ne del dirit­to alla salu­te qua­le prio­ri­tà rispet­to al pro­fit­to e che anda­va tute­la­ta tra­mi­te la lot­ta, così anche anti­ci­pan­do quei movi­men­ti dei decen­ni suc­ces­si­vi ine­ren­ti il rap­por­to fab­bri­ca-ambien­te-socie­tà.
In con­tem­po­ra­nea, in que­gli anni si anda­va­no affer­man­do alcu­ne straor­di­na­rie espe­rien­ze che riu­sci­ro­no a rea­liz­za­re nel­la pra­ti­ca radi­ca­li tra­sfor­ma­zio­ni: allu­do  all’esperienza dell’antipsichiatria incen­tra­ta a Trie­ste, ma cui par­te­ci­pa­va­mo dal­le facol­tà di Medi­ci­na e Psi­co­lo­gia di Pado­va, del­le don­ne (abor­to, salu­te del­la don­na), del­la salu­te in fab­bri­ca. Tali movi­men­ti – per rias­sor­bi­re i qua­li la poli­ti­ca isti­tu­zio­na­le lavo­rò allo sboc­co poli­ti­co del­le rifor­me, qua­li l’istituzione del Ser­vi­zio Sani­ta­rio Nazio­na­le, la Rifor­ma Psi­chia­tri­ca con la chiu­su­ra dei mani­co­mi, l’istituzione dei Con­sul­to­ri Fami­lia­ri e dei ser­vi­zi ter­ri­to­ria­li di Medi­ci­na del Lavo­ro, la Leg­ge di inter­ru­zio­ne volon­ta­ria di gra­vi­dan­za) – sep­pe­ro met­te­re in cri­si il model­lo allo­ra domi­nan­te, ridu­zio­ni­sti­co, patriar­ca­le, maschi­le che “gover­na­va” il rap­por­to non solo di gene­re, ma di cura medi­ca e non solo.
Quel­la fu una sta­gio­ne appas­sio­na­ta di “rico­stru­zio­ne” dei per­cor­si tera­peu­ti­ci, incen­tran­do­li intor­no alla per­so­na e al suo dirit­to di “gover­no” del­la pro­pria salu­te («il cor­po è mio e lo gesti­sco io», «la liber­tà è tera­peu­ti­ca»).
Con­tem­po­ra­nea­men­te, in par­ti­co­la­re negli ospe­da­li (che già allo­ra rap­pre­sen­ta­va­no il core busi­ness in sani­tà) anda­va pro­gre­den­do un sal­to epo­ca­le in ter­mi­ni tec­no­lo­gi­ci, orga­niz­za­ti­vi, di rias­set­to pro­fes­sio­na­le; ricor­do un’esperienza mol­to impor­tan­te di inchie­sta avvia­ta con Gui­do Bian­chi­ni al Poli­cli­ni­co di Pado­va, che per­mi­se di coglie­re le ten­den­ze di fon­do di tale muta­zio­ne, tra i cui esi­ti pur­trop­po si pro­fi­la­va la riaf­fer­ma­zio­ne del pote­re espres­so dal sape­re medi­co tec­no­lo­giz­za­to.
Pro­prio que­sto ci por­ta drit­to alla situa­zio­ne con­tem­po­ra­nea, nel pie­no del­la ine­di­ta espe­rien­za del con­fi­na­men­to di mas­sa per con­tra­sta­re la dif­fu­sio­ne del coro­na­vi­rus.
Mi sia per­mes­so di sot­to­li­nea­re che anche oggi – come nei mera­vi­glio­si anni ’70 – tor­na d’attualità non solo la neces­si­tà di un ser­vi­zio sani­ta­rio pub­bli­co, quan­to che esso sia cen­tra­to sul­la per­so­na e i suoi biso­gni e non sull’offerta di ser­vi­zi e pre­sta­zio­ni: in par­ti­co­la­re, la cri­si pro­fon­da del model­lo lom­bar­do nell’attuale emer­gen­za (tut­to cen­tra­to su ospe­da­le, medi­ci­na alta­men­te spe­cia­li­sti­ca e tec­no­lo­giz­za­ta) è a testi­mo­nia­re l’urgenza di rimo­del­la­re la rela­zio­ne ospe­da­le-ter­ri­to­rio e pro­fes­sio­ni­sta del­la salu­te-uten­te.
Si apre secon­do me un fase ine­di­ta e inte­res­san­te, nel­la qua­le è pos­si­bi­le la ria­per­tu­ra di movi­men­ti socia­li che met­ta­no in discus­sio­ne l’insostenibile model­lo capi­ta­li­sti­co con­tem­po­ra­neo.
A que­sta pro­spet­ti­va pos­si­bi­le può esse­re uti­le il rife­ri­men­to alla sto­ria del secon­do decen­nio degli anni ’70, quan­do, ad esem­pio nel Vene­to, fu pos­si­bi­le spe­ri­men­ta­re orga­niz­za­zio­ne radi­ca­ta nel ter­ri­to­rio, con un pre­ci­so rife­ri­men­to socia­le e di clas­se, ma anche fu pos­si­bi­le spe­ri­men­ta­re espe­rien­ze di riap­pro­pria­zio­ne del­la pro­pria salu­te, oggi più che mai necessaria.