4 Apr, 2020 | Pragma
Ci siamo chiesti fin da subito discutendo sul che fare, noi casa editrice e loro gli autori, del sesto volume Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio, della nostra serie Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, se aveva un senso, se era opportuno, se non era una perdita di tempo ovvero se era “fuori tempo massimo” proporre una discussione su questo libro, sulle questioni politiche, sulle riflessioni che gli autori e il curatore del volume hanno sollevato e offerto all’attenzione di un lettore curioso e attento. Se aveva senso farlo al “tempo del coronavirus”, quando in apparenza sembra che tutto si sia fermato, che il “principio di contraddizione”, che attraversa tutto il racconto del libro, sia a sua volta “in quarantena”. Perché altri sono oggi i problemi, gli interessi, perché anche quel lettore attento e curioso, che ha comprato e letto il libro, ha altro a cui pensare. Abbiamo concordato che sì, che ha un senso, che ne vale la pena. Per due ragioni. La prima: perché il libro fin dalla sua uscita ha destato attenzione e interesse, quasi trasversale, da chi “ha fatto le lotte, ha lottato per il comunismo” tanti anni fa, da chi oggi, molto più giovane, ha voglia di lottare “perché lo sfruttamento e il dominio capitalistici” erano la realtà di ieri e sono la realtà di oggi, da chi pur non essendo stato interno all’Autonomia operaia organizzata degli anni ’70 è interessato a parlare, a discutere, a capire quel tempo che il libro racconta per comprendere, è l’auspicio, con più lucidità il presente. La seconda: perché il “ tempo del coronavirus” che oggi stiamo vivendo finirà, consapevoli che è e sarà uno spartiacque tra un prima e un dopo, che nel “dopo” la contraddizione, le contraddizioni riemergeranno come lava vulcanica.
Quindi oggi, mentre siamo in “standby”, perché non utilizziamo questo tempo per leggere, discutere, intervenire, usare l’arma della critica e della riflessione, critica e riflessione propositive che speriamo continuino anche dopo il coronavirus?
Da decenni i cosiddetti “anni ’70” del secolo scorso sono stati coperti da uno strato di cenere, dall’oblio, da parte di istituzioni, giornali, ceto politico e intellettuale. Il Movimento comunista rivoluzionario, l’Autonomia operaia organizzata di quel decennio “maledetto” sono stati etichettati come “terrorismo”. Da quarant’anni questa è la vulgata: semplice, banale, falsa storicamente, comoda perché elimina, cancella dalla memoria collettiva un periodo importantissimo e decisivo nella storia del nostro paese. Con questa censura radicale è stata gestita e manipolata la “storia” italiana fino a oggi. Non fare i conti con la propria storia è una costante, un’abitudine, una forma mentale di questo paese. In questi anni ci sono stati pubblicazioni, saggi, memorialistica, raccolte documentali da parte dei protagonisti, dei militanti di quei lontani movimenti politici, di quelle realtà organizzate. Noi come casa editrice negli anni abbiamo cercato di supportare, nei limiti delle nostre forze, questi contributi, dar loro visibilità. Ma lo si è fatto in ordine sparso. Perché non provare a discutere collettivamente di quel periodo, con chi lo ha vissuto, con il giusto distacco dopo tanto tempo che permette di essere più lucidi e obiettivi su quelle esperienze? Perché non farlo confrontandosi con chi vuole discutere e capire l’oggi a partire dalla lettura che ha fatto del VI volume della nostra serie Gli autonomi? Perché non leggere e confrontarsi con chi non era interno all’Autonomia operaia organizzata di quel lontano periodo ma ha qualcosa di interessante e di intelligente da dire? Quindi vorremmo aprire un’assemblea, un’agorà di confronto e discussione a partire dal testo della Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio, dove chi vorrà intervenire sa che dopo un primo intervento potrà, se lo vorrà, intervenire ancora e ancora. Non quindi un’assemblearismo generico, falsamente democratico e di fatto reazionario, molto di moda in questi tempi, ma un momento organizzato che si sviluppa con metodo, che produca non una quantità di “blablabla” ma una qualità e una ricchezza di idee, spunti, indicazioni, utili soprattutto a una giovane lettrice, a un giovane lettore. Lo strumento che utilizziamo, la nostra pagina facebook, è una prova, un azzardo, mai usato con questi intenti. Vedremo. Noi ci proviamo. Quindi intervenite, leggete, condividete sui social il dibattito se vi sembrerà interessante
6 Apr, 2020 | Pragma
di Gianfranco Bettin
DeriveApprodi continua la pubblicazione di volumi dedicati alla ricostruzione di una delle esperienze principali del movimento italiano, l’Autonomia. Il sesto volume della serie, curato da Mimmo Sersante (militante e studioso, come un po’ tutti i curatori dei diversi volumi, il che rende l’opera nel suo insieme più intensa e plausibile), è un’intervista e un dialogo con e tra i fratelli Giacomo e Piero Despali, Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio (corredata di alcune altre interviste a ex militanti, di schede riassuntive e documenti dell’epoca). Intellettuale solido e fine (la sua prima citazione nel libro è per l’Ulisse dantesco) e a lungo militante, Giacomo; militante ancora più a lungo e intellettualmente curioso e impegnato Piero (cita subito Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, di Adorno, come testo formativo: «La vita offesa che si rivoltava e prendeva la parola»), i fratelli Despali sono stati i leader più influenti di quella lucida, furente e corale esperienza che è stata l’Autonomia padovana (e veneta, con propaggini nel più vasto nordest). La raccontano a Sersante, e ai lettori, con disincanto e franchezza.
I motivi per leggere questo libro sono molti, sia per chi intenda scavare in quegli anni sia per chi voglia coglierne i nessi, non pochi, con i nostri. In questo senso, è utile a storici e a militanti, e a chiunque abbia voglia di capire di più di una stagione cruciale della nostra storia. Il racconto, inevitabilmente anche autobiografico, restituisce inoltre il percorso di due leader di movimento dal profilo singolare. Dalmati, venuti in Italia da bambini non per motivi politici bensì economici, mantenendo un legame con la parte di famiglia rimasta a Zara, padre di sinistra e madre che, da casalinga, «scoprirà la politica dopo il 7 aprile», quando i figli, come molti altri militanti, verranno colpiti dalle note inchieste (finendo Giacomo per diversi anni in carcere e Piero a lungo latitante), sono anche fra i non molti leader di autentica origine proletaria che i movimenti italiani dell’epoca abbiano avuto. Una delle ragioni, questa loro leadership, che fondavano la capacità dei Collettivi padovani di spaziare egemonicamente dai giovani ribelli della borghesia veneta ai giovani del vecchio e nuovo proletariato sia nella provincia che in ambito metropolitano. Registrando, anche soggettivamente, le mutazioni sociali in corso in tempo reale: «Anche noi ne facevamo parte (della nuova composizione sociale, NdR) per età, percorsi scolastici, forme di vita… In più sentivamo di farne parte. Sì, c’era questo comune sentire difficile da spiegare, forse perché non c’era nulla da spiegare, era così e basta».
Qui Piero racconta della «scoperta» dell’operaio sociale, poi descritto e valorizzato nella sua nuova centralità anche politica da Negri («Possiamo dire di averlo anticipato sul terreno della politica pratica»). Ci arrivano attraverso l’autocoscienza di sé e anche attraverso l’inchiesta sul campo, a volte strutturata, sistematica (i cui materiali finiscono infine sulle riviste di area, ultima «Autonomia»), ma più spesso, nella quotidianità, la scoperta della nuova composizione sociale viene intuita, sperimentata. E su di essa viene modellata l’iniziativa politica che così, dai luoghi originari, dalle roccaforti dell’Università e delle superiori padovane e di alcune fabbriche (compreso il Petrolchimico di Porto Marghera, raccogliendo l’eredità dell’assemblea autonoma e dei suoi leggendari leader operai), si irradia sul territorio (con i «gruppi sociali» e con i «comitati» tematici e/o di zona), che rappresentano il tessuto di base su cui si innesta l’organizzazione politica vera e propria, in tutte le sue articolazioni. L’esperienza dei Collettivi veneti è di interesse anche su questo piano, per chi voglia confrontarsi con una versione originale e, per anni, particolarmente efficace della forma partito, un partito rivoluzionario e comunista per vocazione e prassi. Il libro contiene sia riflessioni retrospettive degli autori e del curatore sia documenti utili a completare il quadro (anche in rapporto a esperienze simili avvenute altrove, soprattutto nel confronto con Roma, con i Volsci in particolare, e con i tentativi di strutturare un soggetto nazionale a partire dalle visioni strategiche e di fase di intellettuali militanti di riferimento, Toni Negri in primis).
Ciò che, tuttavia, mi sembra più attuale e foriero di riflessioni sul nostro presente riguarda proprio la scoperta della figura che verrà chiamata «operaio sociale» e che, nel racconto dei Despali, diventa poi, con una metamorfosi spiazzante e per certi versi agghiacciante, «l’uomo della Lega».
Il Veneto in cui nasce la rivolta studentesca e operaia è quello che sta uscendo dalla povertà, dalla condizione rurale, punteggiato di isole industriali (piccole o sgranate, salvo il grande polo di Marghera), segnato dall’egemonia clericale e democristiana, scossa ma non rovesciata dal ciclo di contestazioni e lotte, da mutamenti di mentalità e nuovi stili di vita. Ma dura poco. Il Veneto del tramonto della civiltà contadina e dell’avvento di un’epoca industriale diventa, presto, un’altra cosa ancora. È il nuovo mondo dell’operaio sociale, appunto, della produzione che esce dal recinto della fabbrica fordista e si sparpaglia sul territorio (più tardi, oggi, entrerà perfino nelle singole abitazioni, nel più personale ambito di ognuno di noi). I Collettivi sono, nel movimento, nella sinistra tutta, fra i più lucidi osservatori di questa metamorfosi e i più pronti, come si è detto, a riconfigurare la propria agenda di lavoro e la propria stessa organizzazione. L’operaio sociale, però, non si rivela affatto incarnare in maniera diffusa e lineare la forma nuova di una soggettività ribelle che nella fabbrica fordista si era manifestata (e ancora era presente, in molti luoghi). A grande distanza di tempo, anche con il suggestivo aiuto di un romanzo nella cui trama si possono ritrovare vicende per qualche verso analoghe, Pastorale Americana di Philip Roth, Piero ripensa a quella vicenda e conclude che quel Veneto, «laboratorio della nuova composizione di classe», invece che il luogo della rottura, «era diventato il luogo dell’identità leghista «mentre il rifiuto del lavoro salariato si era risolto nella completa identificazione col lavoro». Era diventato il mondo che un bravo attore e autore di queste parti, Andrea Pennacchi, fa ora esprimere con le parole e la postura orgogliose, grevi e ottuse del suo eroe, il Pojana.
Giacomo riprende il ragionamento a partire dal Petrolchimico, l’altro pianeta precipitato nel vecchio Veneto a sconvolgerlo: «Arriva la crisi e con la crisi i licenziamenti; la nostra avanguardia che fa? Deve pur campare; non può rifiutare il lavoro e andare a farsi le canne in piazza Ferretto a Mestre. Deve trovarsi un lavoro, inventarselo. Torna a casa e fa l’imprenditore perché altrimenti come cazzo campa la famiglia, come mangia? Poi c’è la provincia… Metti insieme queste due realtà e avrai l’uomo della Lega». Una lettura, ancorata al dato materiale crudo e condizionante, che si estende alla stessa generazione del ’77: «Non mi convince la tesi sostenuta a suo tempo secondo cui col ’77 sarebbe apparsa una nuova generazione di giovani che volontariamente preferisce le mille occupazioni al lavoro sotto padrone. Sono convinto invece che noi siamo i figli, i prodotti del capitalismo; è il padrone che ha creato questa figura. Nessuno, ne sono convinto, vuol fare il precario».
La questione, però, è che l’«operaio sociale», a un certo punto, sembra buttarsi anima e corpo, nel nuovo destino. Sembra farlo proprio. Sposarlo. Sembra decidere che la propria libertà e la propria emancipazione economica e politica, rivendicate dapprima in fabbrica con forza, con rabbia, spesso con intelligente dirompenza, ora dipendono da altro: dall’impegno sul lavoro, con sacrificio, fino all’auto sfruttamento (laddove si lavora da soli o nell’impresa di famiglia, ma a volte anche nell’impresa del padrone amico, del padrone compaesano). Essere liberi sembra ora significare provare a fare soldi, fatturare, quindi produrre, concorrere (trovare perciò i propri rivali non nell’avversario di classe bensì nel concorrente appunto), partecipare alla gara dell’accumulazione, chiedere nuove regole non per essere uguali, non per avere diritti sociali, bensì agevolazioni fiscali (o evasioni, elusioni, in conflitto con lo Stato esattore, con la sua burocrazia e il suo centralismo). Significa guardare agli orizzonti internazionali – non internazionalisti – come obiettivi di mercato e, contemporaneamente, guardare al locale come al cuore del proprio ambiente produttivo, economico, e bardarlo come se fosse una casamatta politica a tutela di queste priorità. Ecco l’uomo e il mondo della Lega.
Nel libro ci si chiede quali errori siano stati commessi, dal movimento, dai Collettivi stessi, per non riuscire a impedire questa deriva. E, giustamente, si sottolinea come l’abbattersi della repressione sui Collettivi e su tutto il movimento alla fine del decennio Settanta, abbia tolto di mezzo un soggetto che, colta la nuova dinamica, poteva mettere in campo una proposta radicale, alternativa a quella che poi sarebbe diventata la proposta leghista. La Lega nasce proprio allora: «Ripulito il Veneto dagli autonomi, tutto per lor signori è stato più facile».
Sarebbe potuta andare diversamente? Le forze che hanno creato il Pojanastan, per dirla ancora con Pennacchi, erano formidabili. Erano le forze stesse del capitalismo sbrigliato e prepotente, vorace di profitti e produttività, che si scatena in quegli anni e che fa del Veneto e del nordest italiano una delle locomotive, secondo l’abusata metafora, dello sviluppo nazionale ed europeo e una delle capitali della globalizzazione neoliberista a cavallo del millennio. Difficile contrastarne la dinamica. Tuttavia, una forza capace di stare in campo leggendo con tempestività le contraddizioni di quel tempo e di offrire un’alternativa politica e culturale e anche, per così dire, un’indicazione di possibile comunità diversa, avrebbe potuto giocarsi le sue carte, mostrare un’altra via all’emancipazione.
Non sarebbero bastati i Collettivi, ovviamente. Ma la loro precoce intelligenza delle cose e la soggettività disponibile a giocarsi intensamente e pienamente sui nuovi percorsi della metamorfosi in atto avrebbero potuto aggregare altre forze, anche di diversa provenienza. Piero dice che hanno sopravvalutato se stessi. Probabile. E che non sono stati abbastanza radicali. In un certo senso, sì, ma non in quello della scarsa determinazione. Difficile incontrare in quegli anni qualcuno più determinato, diciamo così, dei Collettivi… Forse l’insufficiente radicalità consiste nell’aver circoscritto l’analisi della nuova composizione sociale ai suoi aspetti prevalentemente economici, di aver letto l’operaio sociale più come «operaio» ancora e un po’ meno nel suo lato «sociale». Sociale, poi, non significava neanche allora la mera estensione del profilo economico al di fuori del luogo di lavoro classico. Significava tutto il mondo di cose e valori, tradizioni e mode, luoghi storici e luoghi nuovi, e non luoghi, consumi e credenze, religiosità rimosse e risorgenti e identità politiche pregresse, bisogni e desideri, che tra il capannone, il campanile, la discoteca e il pub e la taverna, e la casetta o la casona, e l’automobile, e la tv a colori, e l’infinita serie di generi di conforto e prodotti di consumo più o meno intelligente e più o meno voluttuario, più o meno indotto e più meno necessario, definivano il mondo reale, la vita quotidiana, l’esperienza concreta e la soggettività, il mondo interiore stesso – il paesaggio della biopolitica – di quelle persone in carne e ossa, dei già contadini, già operai, già e non più operai sociali e già e non ancora nuovi imprenditori (nella mentalità, nell’auto percezione, nelle ambizioni se non già nel preciso profilo sociale). «Parlavamo di classe operaia e proletariato, di composizione tecnica e di composizione politica riconducendo soprattutto quest’ultima alle lotte e ai bisogni del momento mentre ignoravamo quanto la problematica della lotta di classe per il comunismo sia maledettamente più complicata», riflette Giacomo mentre allarga lo sguardo in senso storico e geografico (connettendo i mutamenti locali di allora alle nuove crisi geopolitiche, rivoluzione iraniana e ritorno dell’Islam e della questione religiosa in primis, su questo anche in «dialogo» con Foucault, con il ritorno simmetrico della questione della laicità, della lezione illuminista, e giacobina).
Per un breve periodo, tra la fabbrica fordista in via di superamento e il diffondersi della produzione capitalista sul territorio, tra l’operaio massa, generico o professionale, e l’operaio sociale, si è aperto uno spazio. Lì poteva crescere un’alternativa. Avrebbe avuto necessità di una forza guida molto più strutturata sull’intero arco dell’esperienza dei soggetti che voleva organizzare, quindi capace di reggere tempi più lunghi di accumulazione del mandato politico e di classe, di un respiro da «partito» complesso e corposo, anche se nuovo. Va detto che quella del partito emerge, in questo libro, essere stata una preoccupazione costante dei Collettivi, come percependo l’insufficienza dello strumento esistente (anche negli anni più ruggenti). Un partito nazionale e, insieme, territoriale (l’ambito territoriale resterà comunque sempre il luogo prediletto dei Collettivi). Non avranno successo, nello sforzo di convincere e coinvolgere la più parte del movimento in questo progetto. La pulsione a frammentarsi, l’incapacità di un respiro ampio, appunto, hanno prevalso. Un agire collettivo in grado di costituirsi come soggetto unitario non ha mai avuto gran fortuna nella sinistra rivoluzionaria italiana.
Così, disarticolata, con la repressione, l’organizzazione che più aveva colto, dal lato di classe, la mutazione in corso, ogni alternativa, comprese quelle di natura riformista, socialdemocratica, è diventata nel Veneto e nel nordest impervia, infine impossibile. Il mix di radicalità e concretezza, di autoreferenzialità e voglia di cambiare tutto che quella nuova composizione sociale (e soggettiva) pretendeva per offrirsi a un percorso d’impegno e di cambiamento, anche radicale, è stata raccolta e stravolta dalla Lega (dalle sue parole d’ordine, dai suoi valori, indipendentemente dall’adesione al partito). «Avevamo appena scoperchiato una pentola che in tutta fretta si sono precipitati a sigillare. Per fare cosa e andare dove l’avremmo scoperto di lì a poco. È il ritorno alla grande di quel mondo che ha partorito l’uomo della Lega».
Un mondo oggi consumato, inquinato, per molti versi sfibrato, che la pandemia ora percorre estenuandolo ulteriormente. Un mondo consegnato(si) all’individualismo e al produttivismo, nel culto del far da sé e nella diffidenza per il «pubblico» e per il «comune» coltivata per decenni, fin da quel bivio in cui, uscito dai secoli rurali e dai lustri industriali, l’uomo poi diventato della Lega poteva essere tentato di guardare altrove, a un’altra strada, opposta.
Ragionare su questa storia, con questo libro, è utile al presente, a cercare i fili lunghi e i fili nuovi di una ricerca radicale, tuttora possibile, quanto mai necessaria.
8 Apr, 2020 | Pragma
di Gianmarco De Pieri
Deve esistere per forza un inferno,
perché in nessun altro posto voi potrete ricevere una punizione adeguata ai vostri crimini.
Fino a quando esisterà gente come voi, l’inferno sarà un’esigenza essenziale del cosmo.
(J. London, Il tallone di ferro)
Lo spirito è ancora in me; ma non ho più niente da predicare.
Sento piuttosto la vocazione di trascinare le folle dietro di me, di guidarle. Ma dove non so.
(J. Steinbeck, Furore)
È un obbligo tentare di fermarvi perché finisca l’ingiustizia.
È un obbligo dare voce ai fratelli e sorelle che in tutto il pianeta soffrono a causa vostra.
È un obbligo non cedere alla paura dei vostri eserciti e alzare la testa.
È un obbligo perché solo per obbligo noi dichiariamo le guerre.
Ma se dobbiamo scegliere tra lo scontro con le vostre truppe d’occupazione e la rassegnazione, non abbiamo dubbi.
Ci scontreremo.
(Tute Bianche per l’umanità contro il neoliberismo)
La lettura di Autonomi VI di Giacomo, Piero e Mimmo è stata come godere di un buon bicchiere di vino rosso, di una riserva superba. Difficile mettere per iscritto i flussi di pensiero che scaturiscono da questa piacevole emozione, in parte perché il movimento del gusto, si sa, lavora sul passato e sul presente, sulla circolazione dei sapori e sulla riproposizione degli odori. Parliamo di oggi o di allora? Dei tremendi 70 e dell’italiota paura ad affrontare la propria storia o del presente? Devo parlare da padovano o da bolognese, da Organizzato tra Diffusi?
Il testo dei compagni rimette al centro del campo da gioco politico alcuni temi che sono semplicemente non evitabili, come del resto la straordinaria stagione degli Autonomi ci permette di ragionare di oggi oltre il limiti della compatibilità con il capitalismo.
Vediamo alcuni temi trattati e che mi paiono prioritari.
Il rapporto con il territorio. Il territorio non è mai inteso come spazio politico neutro, ma come operazione politica fin dalla sua identificazione geografica. Il territorio è – in parte – ma sopratutto si fa, e questo è il motivo per il quale la zonizzazione dei collettivi è figlia di un’osservazione sapiente della composizione tecnica di classe e si traduce in progetto politico di omogeneizzazione.
Laddove la composizione di classe si definisce come cluster di paesi, parrocchie, fabbriche, scuole, piazze, lì «si progetta e si mette in opera» un progetto politico comunista da costruire con un ampio spettro di lavoro organizzativo (dal comitato operaio al comitato di lotta sulla casa, dai comitati di linea dei pendolari alla ronda contro in lavoro nero nella fabbrica diffusa).
Non si parte dalla sociologia dell’operaio sociale, ma si vuole costruire l’operaio sociale come sintesi politica tra la fine del ciclo di lotte dell’operaio massa, la sussunzione reale del territorio al capitale e la potenza d’attacco autonoma dei contropoteri: il partito dell’operaio sociale è un obiettivo strategico, non il lamento del ritorno all’operaio massa, e il territorio non è solo un mappale geografico, ma è il tavolo da gioco del go.
La fabbrica degli Autonomi è un’impresa-rete, che ha (solo) sullo sfondo la Carraro o il Petrolchimico e al centro (soprattutto) la filiera «postfordista» dei Benetton e le operaie che sono rese terziste, preludio delle partite iva. Per certi versi l’operaio sociale è l’infante del precario degli anni 2000, il cui programma ha nel salario sociale l’elemento strategico e potenzialmente ricompositivo.
Il salario sociale porta naturalmente al tema del potere politico, ben presente nelle circolari dell’Organizzazione dei collettivi, che infatti pongono il problema dei prezzi politici come salto di qualità dei contropoteri territoriali. Se il salario era la misura del potere operaio nella fabbrica fordista, il prezzo politico dei beni-servizi, ovvero il salario sociale è la misura del rapporto di forza tra capitalista collettivo e operaio sociale ovvero del precariato sociale.
La sconfitta degli Autonomi non si è conclusa con la vittoria dei socialdemocratici fautori del compromesso storico, che in pochi anni sono precipitati in una crisi senza fine, ma ha lievitato l’individualismo proprietario, riassunto nello slogan «padroni a casa nostra»; dalla bandiera «ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» all’egoismo rapace dell’Ombra Party legaiolo.
Il rapporto tra territori. Tema da sempre e per sempre decisivo, perché se è vero che conti solo se esisti sul campo – lezione dell’autonomia organizzata veneta –, è altrettanto vero che il problema è come federare territori, come costruire unità nelle differenze, come unificare il comando. In buona sostanza: come costruiamo il comune politico senza «mangiare i risi in testa» alle basi territoriali?
Come non rinunciare a esprimere fino in fondo il bisogno comunista del partito e unire quello che il capitale – e l’antropologia culturale – ha diviso?
Da sempre questo è il tema, fin dal Manifesto di Marx ed Engels, almeno. Noi abbiamo bisogno del partito e – non ma – dei territori, laddove il partito non è l’astrazione della capacità politica delle zone omogenee bensì la loro convergenza, federazione tra loro innanzitutto, e per loro.
Che follia che da quarant’anni questo tema venga banalizzato da noi stessi o neutralizzato dal potere e dai revisionisti. Eliminare il tema dell’organizzazione e della sua tensione all’unità cooperativa e federativa ha voluto dire arretrare la discussione politica, se va bene, all’era del socialismo utopista, prescientifico, per il quale la fattoria comunista avrebbe convissuto con la fabbrica taylorista (Ottieri e Scelba, Fourier con quello che osservò Engels in Inghilterra). Non funziona così.
Il problema della soggettività. I compagni ci ricordano che non si può fare finta che le sorti del progetto siano sospese al destino dei cicli delle lotte sociali, del resto nemmeno un’impresa salta per aria in ragione della semplice fluttuazione del valore di scambio della sua azione.
La soggettività è nell’organizzazione, è nel corpo sociale diffuso, è articolata e integrata, il quadro complessivo non ha deleghe, ma assume con responsabilità e senza spacconerie il ruolo, sta nelle lotte, ma pre-esiste e sopravvive a esse; insomma, si torna al contributo di Panzieri sulla spontaneità e al suo rapporto con l’organizzazione.
Si può perdere un consiglio di fabbrica, ma si deve tenere nel comitato operaio, si può avere una crisi nel gruppo sociale ma la Commissione deve produrre circolazione teorica anche nei momenti di bassa. Non sto riattualizzando l’adagio «alla classe la strategia, al partito la tattica», ma provando a dire che, una volta messo da parte l’opportunismo della cattiva lettura (crociana e paracula) di Gramsci, l’organizzazione assume su di sé la sintesi tra tattiche contigenti e pensiero strategico, forzando il presente alla luce del futuro.
Qui si ritorna alla relazione tra Mao e Lenin (non tra mao-ismo e lenin-ismo), immaginando che il più grande rivoluzionario della storia operaia a Capri giocasse non a scacchi, ma a go.
Mi pare che l’attraversamento del movimento del ’77 sia esempio perfetto: investimento senza alcun comportamento speculativo od opportunista sul movimento, ma anche definizione di un processualità politica che ha un prima e un dopo, senza reificarne la qualità carsica.
Insomma, anche qui Lenin: ci sono i soviet tra gli operai, viva i soviet!
Cosa significa questo nell’era della movimentazione sociale leader-less? Vuol dire azzerare la soggettività? No, esattamente il contrario. La metodologia processuale delle lotte è campo di lievitazione naturale di nuovi comportamenti politici del «quadro complessivo» contemporaneo, che si deve interrogare su come praticare discorso politico specifico, ma anche lavorare in modo interstiziale nelle e tra le lotte. Vale ancora per i quadri, quello che ripetevano i compagni docenti di Scienze politiche di Padova: «studiate compagni, siate preparati!».
Il problema della lotta armata. Problema che va affrontato, come ben scrive Autonomia, come una scelta di campo strategica cui segue una discussione tattica ed etica. Il problema fu quello del «partito armato» che sbagliò ripetutamente, i danni del cui schianto hanno danneggiato anche quanti in proposito aveva una strategia diversa. Forse avrebbero dovuto ascoltare di più Radio Sherwood.
Mi rimane la curiosità di sapere come si sarebbe risolta la discussione tra Movimento Comunista Organizzato e Lenin sull’«unità dei comunisti» negli anni ’80, chissà.
Abbiamo tutti acquisito, giustamente, che c’è un metodo operaista nella lettura delle trasformazioni della composizione tecnica di classe; forse dobbiamo riconoscere che c’è un metodo autonomo nella costruzione dell’intervento politico. Operaisti e autonomi si intrecciano, ma non sono la stessa cosa, come, ed è chiaro in Autonomi VI che i Collettivi non sono la continuazione di Potere operaio. E allora come potrebbe esserci utile qui e ora il metodo autonomo?
Il modo di produzione capitalista ha esteso la sussunzione reale all’intera vita, il general intellect è enormemente cresciuto, il capitale ha forzato la legge del valore, ha esteso all’inverosimile il lavoro produttivo e si è ristrutturato; dalle prime analisi sul post-fordismo abbiamo ormai un’intera letteratura sui movimenti di capitale globale e finanziarizzato, che ha studiato la sua qualità estrattivista e la nuova divisione internazionale del lavoro.
Mi viene da dire che, da un punto di vista astrattamente teorico, abbiamo avuto in proposito sviluppi intensi, ma che manca una prassi che rigeneri e risignifichi questa teoria.
Google e Facebook, ad esempio, sono «una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali solo di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli (Marx)». Le internet companies sono gli e‑robber barons di questo secolo nuovo, i rentier della produzione sociale, accumulano ricchezze straordinarie appropriandosi del surplus che produciamo nell’interazione digitale sulle piattaforme, abbracciati al nostro partner di vita smartphone, in una sessione di ricerca on line. «Siamo diventati oggetti dai quali vengono estratte le materie prime (…) per le proprie fabbriche di previsioni» (Zuboff), come Ford trasformava acciaio in T‑model, così Google si appropria della natura umana, sorvegliandola, per produrre le proprie merci, la più importante delle quali è la previsione dei comportamenti futuri.
Nella sussunzione reale e digitale della vita al capitale la riproduzione sociale è del tutto strategica per i processi di accumulazione.
L’estrazione di plus-valore è possibile perché il gigantesco sviluppo della capacità produttiva –immateriale e materiale, software e hardware – è soggiogata in una relazione di sfruttamento. Non è possibile un capitale scisso dal lavoro, non possono vivere senza di noi; è possibile – purtroppo – una relazione estrattivista tra capitale e lavoro nella quale gli algoritmi sono lo strumento attuativo.
Parafrasando Marx, «è produzione sociale senza il controllo della proprietà privata».
Il capitalismo «fonda mondi, organizza la società in modo nuovo», crea un nuovo corpus di leggi che certificano i rapporti di forza storicamente determinati tra le classi. I movimenti di capitale lo fecero cambiando le campagne inglesi come ci raccontarono i Levellers, colorando di grigio il cielo di Londra osservato da Dickens, dando un auto uguale e diversa a tutti, organizzando il territorio come una fabbrica diffusa.
Ora il capitalismo produce il nostro futuro archiviando i dati del nostro presente, in un circuito di valorizzazione non vincolato da limiti spaziali o da poteri statuali; pessimo ma eccellente nemico che rinasce dalle proprie crisi e dai nostri cicli di lotta.
Gli e‑robber barons sono in situazione analoga a quella vissuta nell’era della corsa all’oro, operano in una sostanziale assenza di leggi, nel deficit delle lotte del general intellect; non ci sorprenderebbe se nello shock della gestione emergenziale della crisi del corona virus, colpo definitivo al liberalismo democratico, fossero le stesse piattaforme digitali a occupare il ruolo della gestione della democrazia e della libertà, mettendo al servizio delle governance statuali la loro enorme capacità di calcolo e di conoscenza dei comportamenti individuali. Saremmo pertanto a un ennesima sovversione dall’alto: il capitale potrebbe esternalizzare le funzioni pubbliche del controllo e disciplinamento, inaugurando una nuova stagione del diritto, aggiornando la costituzione formale a quella materiale.
Immaginate che il monopolio della funzione del controllo nello stato d’emergenza passi dallo Stato e i suoi apparati agli algoritmi delle piattaforme, saremmo di fronte a un cambiamento epocale, paragonabile alla nomina diretta dello sceriffo da parte delle imprese di mining nella stagione del Wild West, con droni e il software nelle mani della nuova Pinkerton digitale. Erano furfanti estrattori di minerale pregiato allora, sono banditi estrattori di informazioni e di vita oggi.
Il metodo autonomo ci fornisce dei potenti utensili per operare, ci invita a conoscere questa nuova fabbrica integrale e globale della riproduzione sociale, a inchiestare questo lavoratore collettivo, a organizzare chi scrive gli algoritmi, ad abbracciare la pervasività della fabbrica, a organizzarne il sabotaggio delle linee produttive.
L’immaginario autonomo è il proletario bracciante Tom Joad di Furore, alla ricerca del lavoro in California, il dirigente rivoluzionario Big Bill del sindacato International Workers of the World, – anche se in Autonomi VI lo strumento sindacato non mi pare venga valorizzato –, e sarà il nuovo bolscevico e-Kamo, senza il cui operare illegale Lenin non avrebbe potuto pubblicare Iskra.
Sono debitore agli autori per avermi indicato la strada di lotta: non il luddismo, ma la costruzione dell’algoritmo comunista, ovvero l’appropriazione comune delle miliardi di righe di codice che ora organizzano lo sfruttamento e che possono, dipende anche da noi, essere una leva per avanzare verso il Nuovo Mondo.
Grazie Giacomo, Piero, Mimmo. La lotta continua.
11 Apr, 2020 | Pragma
di Gigi Roggero
Interrogarsi sul passato è un’operazione di cui il militante deve sempre chiarire metodo, forme, obiettivi. Interrogarsi sul passato quando il presente è tumultuosamente scombussolato dall’imprevisto richiede ulteriore specificazione. Ecco la premessa indispensabile per ricominciare a discutere dell’autonomia nel 2020, ai tempi del coronavirus.
La tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri: facciamo risolvere a Gustav Mahler la prima parte della premessa. Le celebrazioni non ci appartengono, le autocelebrazioni sono grottesche. Se parliamo del passato, allora, è per comprendere le nostre ricchezze e soprattutto i nostri limiti, come è andata e perché poteva andare in modo differente. Non per amore storiografico, ma per esigenza politica: volgere le spalle al futuro può allora diventare la posizione migliore per guardare avanti. Di un’eredità politica rivoluzionaria, infatti, ce ne appropriamo solo se siamo in grado di forzarla e piegarla al presente.
Veniamo alla seconda parte. Potremmo cavarcela dicendo che il tumultuoso scombussolamento che stiamo vivendo non è determinato dalle lotte, o da una crisi economica, comunque da qualcosa che rientri nei nostri schemi di lettura e interpretazione. Non servirebbe a nulla: non ci è dato di scegliere il tempo che viviamo, né d’altro canto le situazioni di crisi avvengono nel momento o nel modo che pensavamo. Quanto ai nostri schemi di lettura e interpretazione, dovremmo constatarne l’ampia inadeguatezza. Il punto non è aspettarsi l’imprevisto, ma farsi trovare pronti.
Ecco perché l’autonomia, oggi. Nella sua forma organizzata, con la maiuscola, come riflessione sul passato, come hanno fatto Piero, Giacomo e Mimmo nel libro, come sta facendo DeriveApprodi con la collana. E nel presente come metodo politico, come stile della militanza, come scommessa. No, non si tratta affatto di proclamare un’identità, un’etichetta, un logo: lasciamo queste cose agli studi notarili, o al merchandising antagonista. Ben più a fondo, si tratta di fare nostro un punto di vista.
Sia chiaro, dunque: nulla si dà mai nella stessa forma, la continuità di una storia di parte avviene sempre nella discontinuità e nei salti dei passaggi politici. Al contempo, non esiste l’immortalità di un progetto, gli stessi nomi – in quanto espressione di una prospettiva concreta – sono sempre legati a fasi o epoche storiche determinate. Ad esempio, a partire dalla metà dell’Ottocento la lotta di classe si è accompagnata con la prospettiva socialista; con la radicale trasformazione della Prima guerra mondiale, il socialismo è diventato forma di gestione dello sviluppo capitalistico. Una mancata rottura con la propria storia, ovvero un’identità statica che si perpetua indifferente ai salti imposti dalla lotta di classe e dalle risposte di cattura e innovazione capitalistica, significa quindi non solo giocare su un terreno arretrato, ma addirittura ritrovarsi inconsapevolmente all’interno del campo nemico.
Allora, ripensare l’autonomia oggi non vuol dire riproporre parole d’ordine, forme organizzative e interpretazioni situate in una fase specifica, bensì scommettere sulla possibilità della rottura: con il nemico ovviamente, e innanzitutto con noi stessi. I gruppi e i compagni di «movimento» (termine che ha da tempo perso il suo significato forte, legato all’anomalia del ciclo di lotte in Italia degli anni Sessanta e Settanta) si sono rintanati nella gestione dei propri – sempre più piccoli e marginali – spazi di sopravvivenza e autoriproduzione. La rottura rivoluzionaria è rimasta uno slogan da scrivere sulle felpe, non da perseguire nella prassi. Il senso della sconfitta si è impossessato di noi, anche quando lo esprimiamo con enfatici slogan di ribellione: la testimonianza impotente non ha niente a che vedere con la ricerca della forza. Il «there is no alternative» della resistenza ghettizzata ha cancellato la ricerca delle possibilità di attacco. E senza questa ricerca, semplicemente non c’è autonomia.
Sia chiaro, per possibilità di attacco non intendiamo l’avventurismo eroico di gruppi e individui, oppure l’esaltazione di fuochi fatui che illuminano solo la nostra incapacità di infiammare la prateria. Insomma, l’elogio estetico della rivolta ha la stessa utilità dell’affidamento teleologico allo sviluppo: nessuna. La tensione alla rottura deve incarnarsi nella scommessa sui potenziali soggetti collettivi, sui luoghi e sui tempi in cui essa diviene una concreta possibilità. E le scommesse vanno fatte prima, col rischio di sbagliare e fallire; perché a non sbagliare mai sono solo i cronisti delle lotte degli altri, che purtroppo oggi sono direttamente proporzionali alla crisi della soggettività autonoma. Insomma, meglio un rivoluzionario che fallisce là dove scommette piuttosto che un turista alla ricerca di selfie e consumo adrenalinico delle rivoluzioni altrui.
La tensione alla rottura deve dunque radicarsi dentro la composizione di classe. Se non vogliamo feticizzare il concetto è necessario approfondire, come tante volte abbiamo provato a fare nel corso degli anni. In un punto del dialogo con Piero, Giacomo offre delle riflessioni importanti: «Anche l’operaio è forza lavoro, merce, ma è anche un individuo che parla una lingua, che mangia, che viene da un determinato paese, che ragiona con le sue categorie, ha delle usanze, un modo di vestire, celebra il Natale e la Pasqua, va a messa la domenica; se tu non conosci bene quest’altra faccia, la faccia nascosta di quell’operaio, fai molta più fatica ad avvicinarti e a parlargli. In quel periodo mi resi conto che un comunista deve veramente essere padrone della materia se non vuole soccombere nella sua battaglia per un mondo migliore. Come può farsi capire? Utilizzando forse le sue categorie, il suo linguaggio marxista? A maggior ragione quando si è dentro una lotta; non dovrebbe mai dimenticare che la cosiddetta composizione politica è anche un impasto di queste cose». È il tema decisivo della soggettività, senza cui il rapporto tra composizione tecnica e politica diviene una semplice riproposizione del passaggio idealistico dalla classe in sé alla classe per sé, ovvero una relazione di necessità simmetrica tra la struttura oggettiva e l’organizzazione politica. Invece, come più volte sottolineato, la composizione tecnica non è il lineare rovesciamento della composizione politica. La soggettività, come Giacomo evidenzia, è un mescolarsi continuo di differenti elementi, collettivi e singolari, determinata dalla specificità capitalistica e dalla genericità di storie e tradizioni che la attraversano o addirittura la precedono, dalla collocazione nella gerarchia produttiva e dalle appartenenze territoriali o familiari, dalla potenza performante del sistema e dalle dinamiche di adattamento, resistenza o contrapposizione dei singoli e collettive. E la stessa composizione politica non va affatto intesa come la costituzione di un soggetto immediatamente antagonista. Questo rapporto, così come i due termini che lo formano, sono continuamente attraversati dal conflitto, dalla possibilità dell’interruzione e della deviazione, del rovesciamento e della reversibilità del processo. Non si tratta di riproporre la tradizionale dialettica tra spontaneità e organizzazione: potremmo dire che l’autonomia è la capacità processuale di alimentare di spontaneità l’organizzazione e condurre l’organizzazione dentro la spontaneità.
Insomma, chi attende una soggettività pura, dotata della mitologica coscienza di classe e votata all’antagonismo, non la troverà mai, o meglio giustificherà così la propria incapacità di comprendere, ricercare e agire. La composizione di classe è sempre ambigua, e vivaddio! Perché l’ambiguità è il tratto costitutivo del sistema capitalistico: il nostro problema politico è come e dove scommettere per trasformare l’ambiguità in contraddizione, dunque in possibilità di conflitto e rottura. Ça va sans dire, non possiamo immaginarci una mera ripresa o riproposizione delle figure di classe che hanno dato vita al ciclo di lotte autonome degli anni Settanta. Ciò che invece possiamo fare, oggi come allora, è direzionare il punto di vista, cioè dove guardare e perché. Ricerchiamo la forza oppure la debolezza? Scommettiamo sulle vittime dello sviluppo capitalistico, dei suoi processi di ristrutturazione e di impoverimento? L’attività politica deve diventare assistenza per i bisognosi, all’inseguimento di un consenso che – con il progresso dei buoni sentimenti – porterà alla trasformazione del mondo? Quello che abbiamo visto è piuttosto il contrario, e anche di questo ci parlano Piero e Giacomo nel libro: si riproduce da un lato la soggettività della vittima e dell’assistito, dall’altro la soggettività dell’illuminato cooperante che, tra l’altro con mezzi ben più poveri delle strutture caritatevoli ufficiali, cerca di alleviare la sofferenza individuale. In questa separatezza – il contrario della conricerca – non si dà mai trasformazione radicale della soggettività, ovvero rottura e autonomia. Ovviamente la forza è sempre quantomeno ambigua, perché può andare in molte direzioni differenti e perfino contrapposte; ma di pura una c’è sola l’ideologia, che rassicura le anime belle tanto quanto rassicura il sistema dominante. E poi, la questione resta sempre quella: perché dovremmo risolvere le contraddizioni prodotto dal capitale e non invece esasperarle?
Anche chi attende una situazione pura non la troverà mai. Oggi, per tornare a bomba sull’attualità, dire che ci sarebbe piaciuto che questa crisi fosse stata determinata da ben altri fattori è tanto ovvio quanto inutile: hic Rhodus, hic salta! La questione che invece ci dobbiamo porre è: come usare questa crisi? Affidarci a un’ipotesi crollista, immaginare un capitalismo in quarantena o crederci liberati dalla società dei consumi, significa non capire le capacità di uso capitalistico della crisi e non avere la minima idea di che cos’è la forma-merce, come se la percepissimo solo nei centri commerciali e non nella sua pervasività tra le mura di casa, con gli amici o nei centri sociali. Noi innanzitutto siamo merce, e anche nella quarantena ci riproduciamo come merce. Alla stessa incomprensione del funzionamento della civiltà capitalistica si arriva urlando all’incipiente stato di polizia o dipingendo un nemico compatto e omogeneo, che ha sempre le idee chiare, è privo di contraddizioni e ha la situazione oggettivamente sotto controllo. E non si otterranno risultati migliori se al catastrofismo securitario sostituiamo il catastrofismo sanitario, quello per cui più si amplifica il numero dei morti o l’apocalitticità del virus più si è anticapitalisti. Il pericolo mobilita solo nella misura in cui può essere rovesciato contro il nemico; altrimenti, laddove diviene fonte di una paura mortale, non farà altro che condurre alla paralisi della soggettività, ovvero all’affidamento alle istituzioni esistenti. Poniamoci allora la domanda: come si può ribaltare la crisi attuale in uno spazio di possibilità? In che modo, con quali soggetti, con quale temporalità?
C’è uno slogan che viene dal Cile e va parecchio di moda nei nostri ambiti: non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema. Giusto, bene. Però dobbiamo portarlo fino in fondo: non solo non vogliamo tornare alla normalità della quotidianità capitalistica, ma neppure tornare alla nostra normalità, quella della gestione funzionariale dei nostri spazi e gruppi, dell’amministrazione della nostra sopravvivenza. Con questa normalità dobbiamo rompere, se vogliamo pensare di rompere con quella. In Cile sono state le lotte a interrompere la normalità, qua il virus. O se vogliamo dirla diversamente: questo maledetto virus sta facendo quello che noi non abbiamo saputo fare. Si radica nei gangli vitali del sistema, colpisce duramente l’apparato respiratorio, si massifica e si moltiplica dove lui è più forte e più debole il corpo che aggredisce.
Qualche anno fa in un libretto, Il treno contro la Storia, abbiamo ripreso una citazione di Churchill: «Fu con un senso di timore reverenziale che i comandanti tedeschi scatenarono contro la Russia la più atroce delle armi. Trasportarono Lenin dalla Svizzera alla Russia su un autocarro sigillato, come fosse un bacillo della peste». Riprendendo dal punto di vista opposto la definizione dello statista inglese, scrivevamo: «Divenire un militante-bacillo nell’organismo del capitale, per spargere in modo organizzato e nei punti giusti la peste. Il militante-bacillo interrompe e distrugge la possibilità di riproduzione del nemico e così facendo si alimenta, rafforza e trasforma se stesso, scomponendo e ricomponendo le cellule del corpo dentro cui è collocato. Ecco il nostro obiettivo, la nostra prassi da ricercare, la nostra materia di studio».
È noto come la parola krisis indicasse, in origine, la fase decisiva di una malattia. Era dunque il momento del massimo rischio e, al contempo, di una grande possibilità. Dobbiamo però sottrarre la crisi a una concezione oggettivistica, come se da essa scaturisse inevitabilmente la catastrofe oppure la rivolta. Questa fase decisiva è uno spazio asimmetrico però aperto, in cui i processi si accelerano con rapidità imprevista, una costellazione di possibilità con differenziati gradi di forza. Il caro vecchio Hölderlin ci ha indicato la strada attraverso cui trovare la salvezza là dove massimo è il pericolo. Però per seguire questa strada, per afferrare nella malattia questa possibilità contro il nostro nemico, dobbiamo innanzitutto vivere fino in fondo la nostra krisis come occasione di ripensare da capo l’autonomia.
…to be continued…
* Gigi Roggero ha recensito il libro al centro di questa trattazione (Gli autonomi. Storia dei collettivi politici per il potere operaio. Vol. VI, di Giacomo e Piero Despali, a cura di Mimmo Sersante) sul sito «Commonware» [qui l’articolo].
13 Apr, 2020 | Pragma
di Toni Negri
La “storia dei vinti” ci ha perseguitato. Da quando Benjamin ne aveva parlato su tutt’altra scena, acquisita e stravolta dalla cattiva coscienza dell’intellettualità di sinistra, la sciagurata immagine si era diffusa come un virus maligno, sicché, interiorizzata in gran parte di noi, la nostra storia non si riusciva neppure a raccontarla ma solo a lamentarla. Doppia pena per gli sconfitti: perdenti e dimenticati. Da qualche anno, un editore e molti compagni si sono messi al lavoro per strappare la storia degli anni Settanta a quel destino. Essa comincia a riconfigurarsi: meno distorta, non più sepolta sotto i mucchi delle scartoffie della repressione giudiziaria o sotto le mille pagine di mistificazione sociologica del “terrorismo”. Man mano la “storia dei vinti”, scritta dai vincitori, viene messa fuori mercato, mentre i vinti cominciano a dirla tutta, a raccontare cioè come dalle magliette a strisce dei giovani metalmeccanici e dockers che nel luglio ’60 gettarono fuori i fascisti da Genova ai proletari di Piazza Statuto del ’62, dai grandi scioperi e dalle lotte dell’autunno caldo alle occupazioni delle università nel lungo ’68 italiano e poi fino a quando nel ’77 gli studenti e gli autonomi buttarono fuori Lama dall’università di Roma e tennero quella di Bologna contro i tanks della polizia… – insomma, come in questo succedersi di anni che una lugubre fantasia chiama “di piombo”, visse invece una resistenza proletaria ricca di forza, di gioia, e d’immaginazione del comunismo.
Il libro sui Collettivi politici veneti (Giacomo e Piero Despali, Gli autonomi. Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio, a cura di Mimmo Sersante, DeriveApprodi, Roma, 2019), apparso subito dopo quello sui comitati politici del vicentino, la finisce con il lutto degli anni Sessanta-Settanta – è piuttosto un libro di vincitori che di vinti. Per così dire, è la goccia che fa traboccare il vaso. Provate a mettere questo libro dei due Despali accanto a quelli del duo Ventura-Calogero, eponimi della repressione: che cosa ne concluderete? Che di qua c’è la verità schietta e vivace della rivolta di una generazione di ragazzi che sognano la giustizia sociale e pensano che le condizioni storiche dello sviluppo economico e sociale permettano di conquistarla; dall’altra parte ci sono teoremi/fake news, cecità o disturbi dell’intelligenza storica, tristezza e disastro dell’anima di una élite socialista ormai in perdizione.
Il libro dei due Despali è un racconto conversato (con la mediazione di Mimmo Sersante) tra due dirigenti dei Cpv nel periodo che va dalla chiusura di Potere operaio (1973) all’inizio degli Ottanta, quando la repressione schiacciò l’espressione politica del movimento rivoluzionario. In questo intervento mi soffermerò solo su due punti centrali, prima di aprire la discussione su un paio di altri problemi ai quali alcune di queste pagine sollecitano. Il dibattito, naturalmente, continuerà.
Primo tema: il Veneto. L’insistenza degli autori sulle caratteristiche locali, venete, del movimento che hanno contribuito a costruire, è addirittura ridondante. È per loro una questione di principio: un’organizzazione autonoma non può che essere radicalmente territoriale, il controllo del territorio ne diviene il segno più preciso per un’esistenza duratura ed un’azione efficace. Ora, il racconto dell’attività dei Cpv, fatto in questo libro, risulta probante. Si è trattato di un radicamento assolutamente decisivo nel definire che cosa possa essere un contropotere territoriale nel sociale. In queste condizioni, una minoranza intelligente e attiva ha saputo agire da maggioranza, e comunque da avanguardia di massa degli sfruttati.
Resta da chiedersi perché questa esperienza sia a tal punto riuscita in quegli anni, nel Veneto.
Che non era un feudo della sinistra, anzi, conosceva una scarsa tradizione operaia e comunista. La risposta è chiara: l’autonomia, negli anni Sessanta in fabbrica, nei Settanta sul territorio, rappresentò nel Veneto un vero e proprio shock politico in quella che si riteneva una “cattolicissima” regione, che era allora certamente fuori dal triangolo industriale, e dove non viveva una maggioranza operaia. Fu un fulmine che incendiò la prateria. Perché? Perché il Veneto era allora una regione sotto pressione. In assenza di migrazioni interne, si fuggiva dalla campagna mentre l’emigrazione europea rientrava, la nuova flessibilità operaia e la prima terziarizzazione industriale mettevano in collegamento vari strati del lavoro vivo, la popolazione femminile entrava nelle fabbriche e così conquistava un ruolo autonomo nella famiglia, un primo benessere permetteva ai figli e alle figlie degli operai di entrare nelle università, ecc. Questo – si obietta – non avveniva tuttavia solo nel Veneto. Ma il Veneto era una pentola sotto pressione, con la Dc e il grande capitale che si esercitavano nel tenerla compressa. E così il Veneto esplode – meglio, sono le organizzazioni autonome che lo fanno esplodere. Il comitato di Porto Marghera fin dalla metà degli anni Sessanta e i Cpv dall’inizio dei Settanta costruiscono straordinari poli di comunicazione e di organizzazione proletaria, altrove assenti su un così lungo periodo e con una così solida consistenza, e rappresentano nuove forme di solidarietà, di libertà e… di gioia nella lotta.
Il secondo elemento sul quale gli autori del libro insistono è il presentare i Cpv come organizzazione dell’operaio sociale. È del tutto vero. I collettivi veneti (e, al loro interno, su questo punto, l’esempio vicentino è ancor più esplicito) erano costituiti da una popolazione per molti versi intercambiabile, di operai, studenti, artigiani, impiegati… Ora, quasi tutte le nuove organizzazioni del proletariato (giovanile e non) nel nord Italia, in quel periodo, nel milanese come in Emilia, ed anche fra Torino e Genova, sono in qualche modo costituite dall’“operaio sociale” – esattamente come nel Veneto. Prime generazioni precarie si accompagnano alle ultime generazioni di “una vita al lavoro”. La presa di coscienza dell’automazione crescente dell’industria impone per la prima volta – anche a queste ultime – la consapevolezza che la precarietà, oltre ad essere un’eventuale forma del salario, sarà forma permanente di vita lavorativa. Gli autori insistono però sul fatto che i Cpv avrebbero anticipato le forme di organizzazione dell’operaio sociale. Il che è in parte vero. In quella fase i Cpv rappresentarono il meglio di quella nuova esperienza di classe. E tuttavia – e qui si apre la discussione – questa esperienza e quel modo di organizzazione stanno abbastanza strette all’operaio sociale. Non bastano infatti la crisi della fabbrica e l’uscita da questa di settori della forza-lavoro, l’apparire di forme molteplici di organizzazione del lavoro diffuso e dell’organizzazione della lotta in fabbrica e nel sociale, il lento movimento che vede la riproduzione privilegiata sulla produzione e quindi l’affermazione della tendenza all’integrazione del “genere” nella classe, per concludere alla soluzione del problema di organizzazione per l’operaio sociale e a localizzarla nella storia dei Cpv. L’operaio sociale corrisponde infatti, nella sua maturità, al consolidarsi della cooperazione produttiva sociale.
Quando il lavoro si è dematerializzato e si presenta come mobile nello spazio e flessibile nel tempo, e soprattutto quando la tecnologia egemone struttura e comanda il lavoro cognitivo – solo a quel livello e in quelle dimensioni, credo, verificheremo una nuova figura di organizzazione. Dobbiamo concludere che i Cpv non siano forme organizzative dell’operaio sociale? Lo sono, ma – esattamente come altre forme di lotta e militanza negli anni Settanta – sono esperienze del passaggio della centralità organizzativa dalla fabbrica al sociale, dall’operaio-massa all’operaio sociale. Pongono il problema del territorio e della molteplicità delle intersezioni di classe (e di genere) e pongono inoltre a questo livello, in questa situazione, il tema dell’uso della forza: ma anche questo è ancora un passaggio. Solo alla fine degli anni Novanta, uscendo dalla repressione, cominceremo a percorrere e a misurare interamente il terreno moltitudinario dell’operaio sociale. Le prime esperienze conseguenti su questo terreno le avremo nel ciclo di lotte che giunge a Genova e che è temporaneamente bloccato dall’11 settembre, per riaprirsi più tardi (Occupy, Indignados, ecc.).
A partire dal riconoscimento di questi punti forti del libro si possono ora porre alcune domande agli autori. La prima è perché non abbiano voluto aprire alla continuità della storia dei Collettivi dopo la fine degli anni Settanta. Una storia che avrebbe permesso di porre con maggior forza il tema dell’operaio sociale e della sua organizzazione su un terreno ormai qualificato da una fondamentale e generale conversione moltitudinaria del proletariato.
Questa trasformazione era stata d’altra parte ampiamente compresa dai compagni che in quegli anni avviarono quella continuità in una nuova storia.
[Incidentalmente, nel quadro di questa continuità, piuttosto che nel lamentoso ritorno alle diatribe carcerarie, sarebbe forse stato più facile per gli autori dare una risposta meno settaria alla tormentata quæstio della “dissociazione politica” (non giudiziale) dal terrorismo. Mi sia permesso proporre due elementi per approssimare una risposta che stia nella continuità della storia dei Cpv. In primo luogo: il radicale ripudio da parte dei Cpv dell’omicidio politico, praticato dalle organizzazioni combattenti, e la conseguente denuncia dell’uccisione di Moro da parte delle Brigate rosse. Non si tratta qui di una “dissociazione politica dal terrorismo”? In secondo luogo: appena ricomposti, alla fine degli anni Ottanta, i Cpv decidono di ristabilire il rapporto con gli esiliati e di lavorare con loro a Parigi e insieme producono una rivista. Non si trattava così di aderire, non solo pragmaticamente (in un periodo delicato e difficile di revisione generale della teoria e delle pratiche dell’autonomia) al programma di ricostruzione delineato nell’“Elogio di assenza di memoria”?]
La seconda questione riguarda il tema dell’esercizio della forza. È più che evidente che richiamarsi a questo proposito all’esperienza degli anni Settanta dei Cpv non può qui, oggi, essere particolarmente utile. Per ben che vada, richiamandola, ci prenderebbero per dei fastidiosi black bloc! Si tratta piuttosto di inventare del nuovo, convinti che nella società digitalizzata non siano possibili riprese o ripetizioni del vecchio. Risulta dunque assai dubbia ogni proposta legata ad esempi tratti dalla storia dei Cpv.
Così come risulta assai dubbio (altro punto di discussione) che, senza il 7 aprile, avrebbe potuto aprirsi nel Veneto (insisto, nel Veneto) un fronte politico antagonista che interpretasse le nuove figure del lavoro produttivo sul territorio della fabbrica diffusa. Comunque, a mio parere, se si fosse data questa possibilità, ne sarebbe risultata, alla meglio, un’appendice di processi irredentisti (senza avere la storia di quelli irlandesi o baschi) o, nel peggiore dei casi, la mano sinistra di processi di regionalizzazione nazionalista (come avvenne in Catalogna). In tal caso i Cpv avrebbero rinunciato a rappresentare l’autonomia proletaria, operaia, insomma le ragioni di fondo della storia dell’autonomia. Lasciate cadere queste illusioni, la questione che oggi piuttosto si pone è come la moltitudine (cioè quel proletariato sociale e precario che i Cpv avevano cominciato ad organizzare negli anni Settanta) possa di nuovo farsi classe politica.
A questo proposito bisognerà distendere la storia dell’autonomia al di là dei suoi limiti passati che in maniera assai limitata si offrivano alla convergenza organizzativa sia delle componenti che avanzavano critiche e rivendicazioni di genere, sia di quelle ecologiche. Non mancava certo una sensibilità in proposito – in particolare la partecipazione alle lotte contro il nucleare da parte dei Cpv fu immediata e vi agirono da protagonisti –, ma il suo risvolto organizzativo aveva ancora un profilo “pacifista” piuttosto che ecologico.
È bene aprire la discussione sollecitati da questo bel libro proprio nel mezzo della crisi da coronavirus – quando l’infezione neoliberale si è rovesciata sul regime che l’ha prodotta. Di contro, esiste la possibilità di reagire, di lottare, di vincere. Qui, in questa crisi (e spero anche in questa recensione) risuona quel grido di resistenza che in Francia i gilets jaunes ci hanno di nuovo appreso, a noi che tanto abbiamo imparato dai collettivi veneti: “tous ensemble”… per il potere operaio.
Parigi, Pasqua 2020
15 Apr, 2020 | Pragma
di Gianni Cavallini
La lettura del libro di Giacomo e Piero Despali, nel coinvolgermi inevitabilmente sul piano personale, mi ha consentito di confermare – meglio delineandone le motivazioni – alcuni giudizi che già al volgere tumultuoso del decennio ’70 mi ero formato.
Mi spiego: ai Collettivi politici veneti per il potere operaio spetta un merito, ben delineato nel testo dei fratelli Despali; il Congresso di Rosolina, decretando di fatto il superamento dell’esperienza di Potere operaio, apriva la strada a una nuova inedita fase politica, nella quale la composizione sociale di riferimento per un progetto di trasformazione comunista mutava radicalmente; dall’operaio massa, abitante egemone della grande fabbrica fordista, all’operaio sociale della produzione socialmente diffusa.
Ecco, io credo che i Collettivi – come tutti noi semplicemente li chiamavamo allora – fin da subito abbiano saputo cogliere questo passaggio, costruendo proprio su questo il loro progetto politico; a tale fine adeguarono la propria organizzazione e trasformarono la propria attività, scegliendo il radicamento nelle articolazioni territoriali, lì inseguendo, intercettando, organizzando la nuova figura produttiva, ben già presente nella metropoli diffusa del Veneto, centrata sulle piccole e medie imprese, con i propri laboratori produttivi anche a domicilio, con il lavoro di giovani, di donne che non avevano alcun legame con la precedente storia operaia.
Questa loro originale intuizione, con tutto il carico di pratiche ed esperienze condotte fino al termine del decennio, ha saputo proporre a quella composizione sociale una identità di classe, ha saputo offrire un incrocio e una contaminazione con la composizione proletaria dell’Università, che, per gran parte, proveniva dal Sud e che, a partire in particolare dal ’77, metteva in campo quella pratica nuova di autonomia dei saperi, di rifiuto della società disciplinare, del valore d’uso.
Tutto ciò si è sostanzialmente fermato con il passaggio di decennio; mi pare interessante proporre a una ulteriore riflessione collettiva la suggestione data dal fatto che questo territorio, questa composizione sociale sostanzialmente in pochi anni è divenuta la base di sostegno della Liga Veneta, in tal modo trasferendo il proprio carico di autonomia e di conflitto da una identità di classe a una identità di luogo (sarebbero nate le Leghe Veneta e Nord senza Calogero?).
A me piace ricordare – non solo perché rappresenta la mia personale esperienza in quegli anni – come nel Veneto coesistesse anche un’altra esperienza straordinaria, che il libro comunque incrocia: mi riferisco alla storia di Porto Marghera, che rappresentò fino almeno al 1976 (attraverso il passaggio prima del Comitato operaio poi dell’Assemblea autonoma) una delle principali esperienze di lotta e di organizzazione in Italia all’interno della grande fabbrica fordista.
Personalmente, insieme ad altri compagni e compagne, sostanzialmente studenti universitari di Padova, dopo Rosolina continuammo il percorso politico nell’ambito di quella esperienza.
Ecco, a una prima riflessione mi verrebbe da dire che ero sicuramente in ritardo nel comprendere la trasformazione in corso, essendo rimasto legato sostanzialmente al riferimento dell’operaio massa della grande concentrazione fordista; sicuramente così fu nei primi non brevi mesi dopo Rosolina, allorquando a Padova prendeva forma l’esperienza dei Collettivi politici.
Poi, però, mi piace rievocare l’evoluzione a Marghera attraverso la rivista «Lavoro Zero» verso una dimensione sociale, esterna ai recinti della grande fabbrica, che si avviava ai processi di ristrutturazione dei cicli produttivi. In quella esperienza si realizzò una straordinaria contaminazione con noi studenti, prevalentemente di Medicina, intorno alla tematica della «produzione di morte».
Quella strategia, a partire dalla fabbrica chimica, ma da subito interpretata al di fuori di essa, rappresentava in modo efficace un orientamento verso il territorio, in particolare nella declinazione della rivendicazione del diritto alla salute quale priorità rispetto al profitto e che andava tutelata tramite la lotta, così anche anticipando quei movimenti dei decenni successivi inerenti il rapporto fabbrica-ambiente-società.
In contemporanea, in quegli anni si andavano affermando alcune straordinarie esperienze che riuscirono a realizzare nella pratica radicali trasformazioni: alludo all’esperienza dell’antipsichiatria incentrata a Trieste, ma cui partecipavamo dalle facoltà di Medicina e Psicologia di Padova, delle donne (aborto, salute della donna), della salute in fabbrica. Tali movimenti – per riassorbire i quali la politica istituzionale lavorò allo sbocco politico delle riforme, quali l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, la Riforma Psichiatrica con la chiusura dei manicomi, l’istituzione dei Consultori Familiari e dei servizi territoriali di Medicina del Lavoro, la Legge di interruzione volontaria di gravidanza) – seppero mettere in crisi il modello allora dominante, riduzionistico, patriarcale, maschile che “governava” il rapporto non solo di genere, ma di cura medica e non solo.
Quella fu una stagione appassionata di “ricostruzione” dei percorsi terapeutici, incentrandoli intorno alla persona e al suo diritto di “governo” della propria salute («il corpo è mio e lo gestisco io», «la libertà è terapeutica»).
Contemporaneamente, in particolare negli ospedali (che già allora rappresentavano il core business in sanità) andava progredendo un salto epocale in termini tecnologici, organizzativi, di riassetto professionale; ricordo un’esperienza molto importante di inchiesta avviata con Guido Bianchini al Policlinico di Padova, che permise di cogliere le tendenze di fondo di tale mutazione, tra i cui esiti purtroppo si profilava la riaffermazione del potere espresso dal sapere medico tecnologizzato.
Proprio questo ci porta dritto alla situazione contemporanea, nel pieno della inedita esperienza del confinamento di massa per contrastare la diffusione del coronavirus.
Mi sia permesso di sottolineare che anche oggi – come nei meravigliosi anni ’70 – torna d’attualità non solo la necessità di un servizio sanitario pubblico, quanto che esso sia centrato sulla persona e i suoi bisogni e non sull’offerta di servizi e prestazioni: in particolare, la crisi profonda del modello lombardo nell’attuale emergenza (tutto centrato su ospedale, medicina altamente specialistica e tecnologizzata) è a testimoniare l’urgenza di rimodellare la relazione ospedale-territorio e professionista della salute-utente.
Si apre secondo me un fase inedita e interessante, nella quale è possibile la riapertura di movimenti sociali che mettano in discussione l’insostenibile modello capitalistico contemporaneo.
A questa prospettiva possibile può essere utile il riferimento alla storia del secondo decennio degli anni ’70, quando, ad esempio nel Veneto, fu possibile sperimentare organizzazione radicata nel territorio, con un preciso riferimento sociale e di classe, ma anche fu possibile sperimentare esperienze di riappropriazione della propria salute, oggi più che mai necessaria.