21 Ott, 2021 | Analisi e Riflessioni, Pragma
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Vilma MazzaNon si può rimettere il dentifricio nel tubetto
Pubblichiamo la trascrizione di un intervento svolto in occasione di un incontro organizzato dalle realtà di Labas e Tpo che ha avuto luogo l’11 e 12 settembre 2021 a Bologna. Vilma Mazza è coautrice con Gianmarco De Pieri, Piero Despali e Massimiliano Gallob del libro di recente pubblicazione Gli autonomi. I «padovani». Dagli anni Ottanta al G8 di Genova 2001, a cura di Mimmo Sersante, DeriveApprodi, 2021.Collabora inoltre con lo spazio «Pragma» dell’Archivio Autonomia. «Pragma» è uno spazio a disposizione per interventi, dibattiti e riflessioni sulla memoria delle progettualità teoriche, politiche e organizzative delle realtà dell’Autonomia operaia del secolo scorso (vedi anche l’intervista su Machina del 3 aprile scorso) ma è anche uno spazio che «guarda al futuro», che propone riflessioni, analisi e possibili ipotesi di scenari sulla e della realtà futura, sulle future «contraddizioni di classe». Parafrasando un vecchio compagno si può affermare che nel presente, «grande è la confusione sotto il cielo» ma non per questo si può concludere che «dunque, la situazione è eccellente». C’è quindi bisogno di una lettura non tanto e non solo dell’oggi, con tutte le sue realtà avvolte da «lacci e lacciuoli», ma di uno sguardo sulle «tendenze» dei conflitti di classe dei prossimi anni e decenni.
* * *
È tempo di riconoscere che stiamo vivendo una nuova era. Se siamo però in grado di riconoscere quali sono gli elementi nuovi che giustificano un cambiamento epocale, di fronte alla radicale novità non è mai possibile subito inquadrarne la complessità. Se ne vede un piccolo pezzo, su quello indugiano gli sguardi, lo riconoscono, risulta familiare, lo si interpreta con categorie di cui si è già padroni. Il resto, ancora sconosciuto e restio alle interpretazioni, si cerca spesso di evitarlo. Basta pensare, ad esempio, a quel che è successo all’arrivo della pandemia del Covid. La prima reazione è stata cercare di ancorarsi alle certezze conosciute. Catapultati da un giorno all’altro nella radicale novità è spuntata rapida la paura, un sentimento conservatore che ha portato a proteggerci e a proteggere, o si è restati a bocca aperta, basiti, stupiti, alle volte instupiditi, inermi di fronte a ciò che accadeva.
Quando Marx in giovane età ha cominciato a scrivere di capitalismo riusciva a intravedere quel che il mondo sarebbe diventato. Il capitalismo era ai suoi inizi, ma lui riusciva a cogliere che quella cosa era diversa dal solito sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Marx era un visionario.
Quando ci interfacciamo a un nuovo cambiamento d’epoca, non possiamo pretendere di riuscire a mettere tutti i pezzi assieme immediatamente. È complicato risolvere il problema di come cambiare il mondo mentre lo vediamo cambiare.
Noi stessi sentiamo che tutto sta mutando, ma non riusciamo ancora bene a incastrare tutti i pezzi nel puzzle. Dobbiamo quindi armarci di pazienza e al tempo stesso essere visionari, tentare di non appiattirci su ideologie che pretendono di aver già capito cosa sta succedendo, propongono un pacchetto interpretativo completo e spiegano il nuovo mondo con uno schema vecchio, un pensiero già chiuso, un nuovo «ismo». Finora diverse sono state le definizioni dell’era in cui siamo immersi.
C’è chi la definisce «antropocene», un’era che ha l’uomo al suo centro e sta ancora dibattendo se è iniziata 3000 anni fa con l’homo sapiens o con la centralità nel secolo scorso del sistema produttivo industriale.
C’è chi suggerisce che navighiamo oggi nel «capitalocene», un’era che ha nel capitale il suo principale fenomeno plasmante.
C’è chi inizia a usare la definizione «ibridocene», una fase che pone al centro l’ibridazione fra fisico e virtuale, un’era in cui le cose non sono ancora definite, l’era dei grandi cambiamenti in corso.
C’è chi come Donna Haraway, autrice vent’anni fa dell’anticipatorio testo Manifesto Cyborg, aggiunge a tutte queste definizioni anche «cthulhucene», per sottolineare la necessità di pensare a un’epoca al cui centro non c’è solo l’umano ma le varie specie che assieme al cyborg costruiscono la contemporaneità. Di certo una visionaria capace di stimolarci in maniera intrigante.
Per spingerci oltre non possiamo accontentarci di una sola di queste definizioni, perché tutte centrano un po’ il punto o meglio uno dei punti, dobbiamo anche cercare di andare oltre quei dualismi che siamo stati abituati a considerare fondamentali e che oggi ci sembrano inservibili.
Come poter parlare ancora oggi del dualismo uomo/natura? Siamo ancora convinti che possiamo auspicare un ritorno alla natura selvaggia e all’uomo «buon selvaggio» quando siamo nell’epoca delle clonazioni e della natura che cambia mentre noi cambiamo? Possiamo ancora avere la pretesa di essere gli unici esseri senzienti della galassia? Può quindi il concetto di natura essere ancora relegato solo al nostro pianeta?
E poi, come possiamo ancora interpretare il presente con la dicotomia uomo/macchina, che è stata fondamentale per la nascita del capitalismo della catena di montaggio, ma viene resa oggi inutilizzabile da una produttività basata sul cyborg, sulla connettività, sul lavoro immateriale?
Come possiamo pensare che possa ancora essere servibile la dicotomia uomo/donna, da sempre usata per giustificare e spiegare una realtà di sfruttamento e sottomissione di genere, quando parliamo da anni ormai di superamento dei generi?
Il nostro sforzo deve andare oltre le definizioni, i dualismi, e anche ben oltre i post, che hanno caratterizzato e in parte continuano a caratterizzare la ricerca in questi anni.
Non è più sufficiente, ad esempio, parlare di postfordismo, utile a definire il passaggio della centralità dello sfruttamento dalla fabbrica a tutto il sociale, così come di postmoderno utilizzato per definire la nuova complessità epocale. C’è l’antico vizio di usare i post-qualcosa per ammettere che qualcosa è cambiato, ma nel definirlo ci riferiamo a un passato conosciuto e rassicurante. Un modo, in fondo, per non dover mettere tutto in discussione.
Oltre l’umano
Un tentativo oggi di definire il mondo in cui viviamo con tutti questi strumenti somiglia molto al tentativo di rimettere il dentifricio dentro il suo tubetto.
Dove siamo quindi? In che mondo viviamo? Siamo in un’epoca, un’era che forse possiamo iniziare a descrivere come «oltre l’umano».
Dove abitiamo?
Il nostro habitat, ambiente abitabile, è per lo meno tridimensionale: siamo nel territorio, siamo nel virtuale, siamo nell’universo.
Siamo nel territorio, dove il nostro piede calpesta il suolo.
Siamo nel 2021, siamo 7 miliardi e 800 milioni, dei quali il 66,6% utilizza un cellulare, il 59,5% ha un accesso a Internet e il 53% è utente di social network, trascorrendo mediamente 7 ore al giorno online. Questi dati bastano per renderci conto che la dimensione digitale è reale, siamo anche questo.
Siamo nell’universo, dimensione intrigante su cui vale la pena soffermarsi. La geopolitica spaziale non è fantascienza, dobbiamo cominciare a parlare di satelliti, di estrazione da asteroidi e di terraformazione, perché tutto questo, mentre ne discutiamo, sta già avvenendo.
I satelliti
Oggi ci sono circa 2700 satelliti in orbita, di cui si servono tutte le funzioni digitali che quotidianamente utilizziamo. Di queste macchine orbitanti 1300 sono americane, 300 sono cinesi, 280 di multinazionali, seguono quelle di altri vari Stati. Per immettere un satellite in atmosfera c’è bisogno di una piattaforma di lancio. Chiunque, avendo i capitali, può comprare un satellite ma per metterlo in funzione dovrà pagare qualcuno che può permettersi la tecnologia necessaria per lanciarlo. A oggi chi sono i «lanciatori nello spazio»? Sei paesi, potenze vecchie o emergenti, Usa, Cina, Russia, Francia (… e non l’Europa), Giappone e India. A questi si sono aggiunti tre privati, Space X con Elon Musk e Paypal, Blue Origin con Jeff Bezos e Amazon, Virgin Galactic con Richard Branson e Virgin Group. Perché vanno messi assieme logo e persona? Perché dobbiamo sempre pensare al potere non come una cosa astratta. I nemici, anche in questa nuova era, non ci mancano, hanno volti, luoghi e contesti ben definiti. Questi colossi stanno acquisendo infatti un tale potere tecnologico che gli stessi Stati Uniti per lanciare i satelliti usano più le piattaforme di lancio private che quelle statali. Tutto questo comincia a interessare anche il nostro piccolo, le nostre dimensioni locali. Nelle nostre università, come a Bologna, per esempio, c’è un corso universitario specifico in progettazione di satelliti.
Le nuove frontiere di ricerca nell’utilizzo dei satelliti riguardano anche lo stoccaggio dei dati attraverso la fisica quantistica. Sappiamo tutti che Google accumula big data, i nostri big data, e sappiamo che questi vanno a finire nelle big farm, strutture sempre più grandi, sempre più potenti, sempre meglio controllate e blindate. A breve, tramite la compressione dei dati con la fisica quantistica e il loro conseguente stoccaggio sui satelliti, vedremo aumentare a dismisura la militarizzazione dello spazio per difendere i dati dalla predazione altrui. La guerra nello spazio sta cambiando, è già un meccanismo molto complesso, non è più da tempo quella fra americani e russi come ai tempi di Laika e dell’uomo sulla Luna.
Estrazione sugli asteroidi
Se parliamo di spazio dobbiamo dirci che l’estrazione di materiali sugli asteroidi è già realtà. Materie prime rare, quelle che vengono chiamati «metalli rari», necessarie per il funzionamento dei dispositivi mobili e poco disponibili sulla Terra, sono presenti abbondantemente sugli asteroidi. L’utilizzo di robot e droni al fine di estrarre materiali e riportarli sulla Terra è già a tema. Questo comporta, per cominciare, un grandissimo problema giuridico. Così come gli oceani sono infatti considerati proprietà dell’umanità, cioè di tutti, a usufrutto di tutti, per cui chiunque con la sua barca può tranquillamente andarci a pescare, così l’unica legge internazionale sullo spazio del 1967 dichiara i corpi celesti proprietà dell’umanità. Se una corporation non può quindi giuridicamente prendere possesso di un asteroide, può però estrarne materiali e portarseli a casa, creando un enorme problema di concorrenza. Anche in questo caso le nuove frontiere dell’estrattivismo andranno protette militarmente.
Proviamo a non essere miopi. È impossibile che tutto questo non abbia ripercussioni immediate anche sul nostro pianeta, perché i robot che le corporation stanno progettando per portare avanti l’estrazione di materiali nello spazio saranno immediatamente utilizzabili per i progetti di fracking o estrazione sulla Terra.
Terraformazione
La terza grande frontiera della ricerca spaziale è la terraformazione. Ancora non sappiamo se alla fine l’umanità vivrà mai su Marte, fatto sta che tutta la tecnologia che viene utilizzata per terraformare il pianeta rosso è assolutamente già applicabile sulla terra. Stiamo parlando per esempio di nuove configurazioni antropiche. È noto l’esperimento che ha coinvolto due gemelli astronauti, Scott e Mark Kelly, uno dei quali restando un anno in orbita sulla ISS ha visto cambiare la sua struttura morfologica per rispondere all’adattamento ambientale spaziale, mentre l’altro, nella sua quotidianità terrestre, non ha subito alcuna modifica. Tutto questo apre nuovi scenari alla ricerca medica e non.
Terraformare Marte significa progettare nuove colture che possano resistere in quel suolo ma che saranno anche utilissime sulla terra per mettere a coltivazione ampie zone del nostro pianeta in via di desertificazione così come il cambiamento della nostra struttura antropica potrebbe servire alla nostra specie per continuare a vivere e sfruttare quelle zone del pianeta a noi già inaccessibili.
Tutti questi aspetti delle nuove frontiere spaziali comportano una necessità di controllo diretto per proteggere i propri investimenti, l’utilizzo di nuovi saperi per sperimentazioni militari, un’enorme quantità di capitale e la comparsa inevitabile di nuovi conflitti di potere, perché è sempre più chiaro, oggi come nel secolo scorso, che chi controlla lo spazio controlla anche la Terra.
I mattoni del nostro habitat
L’intelaiatura del nostro habitat tridimensionale (territorio, virtuale e spazio) è sorretta dalle sinergie di quelle che vengono definite tecnologie convergenti.
Parliamo di scienze come le biotecnologie, ovvero qualsiasi applicazione tecnologica che utilizzi sistemi biologici, esseri viventi o loro derivati per realizzare prodotti per un uso specifico. È di questi giorni la notizia dello sviluppo in campo agricolo delle cosiddette NGT, «nuove tecniche genetiche», in parte approvate anche dai Verdi, e che vanno oltre i «cattivi OGM», che abbiamo imparato a combattere, ma che si dice potrebbero essere utilissime per lo sviluppo dell’agricoltura e per contrastare la fame nel mondo.
Parliamo di nanotecnologie, quel ramo della scienza applicato alla tecnologia che comporta il controllo della materia su scala dimensionale di un nanometro, un miliardesimo di un metro, manipolazione della materia a livello atomico. Le sue applicazioni sono già tante, dall’energia alla pulizia dell’acqua, alla medicina.
Parliamo di tecnologie dell’informazione, l’insieme dei metodi e delle tecniche utilizzate nella trasmissione, ricezione e elaborazione dei dati.
Parliamo di scienze cognitive, discipline che hanno per oggetto lo studio dei pensieri cognitivi umani e artificiali come l’Intelligenza Artificiale, le neuroscienze, la psicologia cognitiva, l’antropologia.
Tutti questi rami delle scienze oggi sono forzati dal potere a pensarsi parcellizzati. Non è astrazione o pensiero futuribile, è la nostra realtà, per cui come un tempo era necessario conoscere attentamente il ciclo di produzione di fabbrica per sabotarlo e riappropriarsi del salario uscendo dal ricatto del lavoro, così oggi è necessario capire il funzionamento di scienze/tecnologie per estrarne il potenziale di liberazione. Dei piccoli esempi: forse con le nanotecnologie potremmo essere in grado di curare varie malattie? Forse gli esoscheletri saranno certamente utilizzati per i soldati cyborg, ma potrebbero aiutare a camminare tutti quelli oggi in carrozzina? E allora no agli esoscheletri armi di morte e sì agli esoscheletri per chi potrebbe averne bisogno per vivere meglio e non solo per chi può pagarseli.
Questo è il mondo in cui siamo, dove siamo situati come si usa dire oggi. Tocca a noi sviluppare un intreccio di saperi multidisciplinari liberi, che facciano interagire le scienze accompagnate, perché no, dalla capacità anticipatoria di altri linguaggi come quelli artistici.
Oltre l’umano
L’umano come lo intendono le religioni che mettono al centro l’uomo in quanto creato da un dio e anche l’umano come lo intende il pensiero progressista/laico che mette al centro l’homo sapiens, tappa ultima e immutabile dell’evoluzione e riferimento del Tutto.
Andare oltre l’umano per non restare schiacciati da visioni catastrofiche che non permettono di vedere oltre, come se la fine della storia fosse possibile. Siamo abituati a pensare la specie umana come il Tutto e non invece come una parzialità dentro un insieme più ampio di Tutto, fatto di Terra, cosmo, specie…
Insomma, in poche parole, relativizziamoci, siamo in compagnia del T‑Rex, di ET e di Roy Batty.
Comando finanziario
Con queste premesse proviamo a dare un nome per inquadrare il potere contemporaneo: comando finanziario. Le parole che usiamo plasmano la nostra realtà e continuare a usare parole vecchie per interpretare fenomeni nuovi è un meccanismo regressivo. È tempo di rompere il nostro lessico e forzarlo per costruire un nuovo vocabolario.
Partiamo da alcune definizioni marxiste. In particolare dalle pagine dei Grundrisse quando Marx si sofferma sul fatto che il capitale non è il Soggetto a tutto tondo al quale ricondurre ogni cosa ma un rapporto sociale e di classe, un rapporto di forza, con i suoi alti e bassi, che si sviluppa nelle lotte di classe, in forme contradditorie e in perenne evoluzione. L’inarrestabile conflitto tra il capitale che guarda al profitto e il lavoro che vuole liberarsi.
Lasciamo perdere tutte le teorie che fanno del capitale un Moloch inattaccabile.
Il mondo in cui viviamo l’abbiamo costruito noi. Nella realtà, ancor oggi più pervasivamente, vediamo configurarsi la continua tensione ambivalente fra le possibilità di liberazione e le barbare brame di profitto.
Facciamo anche in questo caso dei piccoli esempi.
Pensiamo ai bitcoin. È il 2008, esplode la lunga fase di crisi economica. Primo gennaio 2009, vengono varati i bitcoin. All’inizio, il gruppo di informatici che ha inventato l’algoritmo dei bitcoin, noti con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, ha pensato a un meccanismo di rottura, perché le intenzioni erano quelle di strappare la moneta al monopolio degli Stati e delle banche. Nel corso degli anni, invece, il bitcoin è diventato una valuta usata per esempio da El Salvador come moneta statale, ultima spiaggia per attirare i grandi capitali. I bitcoin, partiti in un certo modo oggi sono diventate una valuta come tutte le altre.
Per continuare, quando per la prima volta nel ’57 fu mandato il primo segnale di dati tramite packet switching telefonico, i tipi che avevano le due cornette del telefono in mano sapevano che quel modo di comunicare era totalmente diverso dai precedenti, certo non potevano immaginare Internet. In realtà era uno dei primi passi di quello che sarebbe poi diventato Internet, qualcosa che aveva le potenzialità di liberare una nuova forma di comunicazione, ma anche in questo settore i rapporti di capitale hanno fatto valere la loro voracità di profitto.
Ovunque guardiamo troviamo sempre potenzialità di liberazione e capacità di sfruttamento al servizio delle logiche di profitto.
Un ultimo esempio: Google è sfruttamento, ma è costruito su delle potenzialità di liberazione comunicative e applicative immense.
Si è provato finora a definire in vari modi il capitalismo.
Capitalismo biopolitico (Foucault), ovvero un rapporto di capitale che non agisce più solo sulla relazione di lavoro ma entro cui gli stessi corpi sono messi a valore.
Capitalismo della sorveglianza (Zuboff), ovvero il controllo e la messa a valore da parte delle big companies di tutti i dati che produciamo accedendo all’infosfera.
Capitalismo finanziario, definizione che coglie il momento storico in cui siamo e dove, se prima secondo il dogma marxiano il denaro produceva merce e poi la merce produceva denaro, oggi viviamo invece in una dimensione in cui è lo stesso denaro a produrre altro denaro tramite la speculazione in borsa, una dimensione talmente pervasiva che è diventato uno dei meccanismi che regola il presente. E ancora, è denaro virtuale che produce denaro virtuale, rendendo ancor più manifesto come questo sia un’astrazione, una convenzione.
La nuova forma del potere capitalista oggi si esprime con il comando finanziario. Un integrato di meccanismi caratterizzati dalla voracità e dalla pervasività delle logiche di profitto, alimentato da nuove regole e codici che agiscono attraverso algoritmi, secondo regole proprie e oltre i meccanismi classici dell’economia.
Nelle precedenti fasi forse tutto sembrava più chiaro. Al tempo del fordismo tutto era più leggibile: il capitalismo si appoggiava agli Stati-nazione per far produrre la fabbrica perché questi avevano il monopolio dell’uso della forza e del controllo della società. Già negli anni del capitalismo biopolitico e della globalizzazione, i meccanismi diventano più fluidi e contradditori. Pensiamo solo alla funzione dello Stato-nazione profondamente modificata dalla spinta del potere verso le grandi istituzioni internazionali multilevel (Fmi, G8, Bce, Commissione europea, G2, G20…) a cui viene delegata, in parte e in maniera contradditoria, la tensione a governare il pianeta.
Il comando finanziario, per usare una metafora, è una «giostra a calci in culo» in cui tutti vogliono salire sui seggiolini per cercare di arrivare al premio, sgomitando e spingendo a più non posso, alleandosi provvisoriamente con chi ti dà una spinta salvo poi scalciarlo per arrivare per primi. Poi la giostra si ferma per ripartire poco dopo ancora con tutti i seggiolini pieni.
Nessuno vuole restare escluso dalla possibilità del premio. Un gioco a cui tutti vogliono partecipare, che siano i grandi capitali, i sottosistemi di potere o l’ultimo migrante sbarcato sulle nostre coste con la speranza di vivere una vita migliore.
Certo non tutti i potenziali giocatori hanno lo stesso peso e la stessa stazza. Soffermiamoci sui giocatori più forti, quelli che chiamiamo sottosistemi.
Premessa: quando parliamo di sottosistemi parliamo anche di una situazione in evoluzione, conflittuale e contradditoria al proprio interno.
Per sottosistemi oggi intendiamo sia le vecchie e nuove potenze statali come Stati Uniti, Cina, Russia, India e Giappone ecc., sia i grandi agglomerati di movimentazione di capitale come l’economia criminale, che muove a oggi il 7% del Pil mondiale.
Intendiamo le big corporation ma anche il sottosistema crescente dell’islam politico, una ideologia violentemente reazionaria che sta prendendo piede parallelamente ai nostri populismi e che è l’idea di un governo della società che metta al primo posto la religione.
Analizzare gli islam politici, tanti e spesso in diretta competizione bellica fra loro, è importante per rendersi conto di come quanto è successo, ad esempio, in Afghanistan non sia imputabile unicamente agli Usa, ma si inserisca dentro la complessità del comando finanziario, aiutandoci ad andare oltre il discorso post-coloniale. Quando parliamo di Afghanistan, certo è ancora fondamentale tenere ben presente il gioco di scacchi fra i vecchi sottosistemi nazionali di Usa, Russia e Cina per il controllo dei territori, ma è però anche necessario ricordare che è lì che l’80% dell’eroina mondiale viene prodotta. Se negli ultimi 20 anni la guerra in Afghanistan è costata agli americani 2300 miliardi di dollari, nello stesso periodo i talebani tramite il traffico d’oppio si stima abbiano guadagnato 120 miliardi di dollari, distribuendo redditi e controllando società e consenso. È così che il nuovo governo talebano entra a pieno nel sistema di comando finanziario. Questo anche grazie alle ipocrisie del proibizionismo imperante.
Come ultimo punto va anche tenuto presente che esiste un popolo afghano, al cui interno vi è una parte, non certo minoritaria, responsabile della situazione di terribile violenza e non solo un’innocente marionetta maneggiata da altri, un’altra parte, anche questa non minoritaria, che accetta la situazione e una minoranza in particolare le donne che resistono. A loro il nostro massimo rispetto.
Piccolo inciso: ricordiamoci che se parliamo di sottosistemi val la pena citare anche la grande azienda Chiesa Cattolica, con il suo manager Papa Francesco, che se anche al momento ha dei grossi problemi di solvibilità e contante continua a essere una struttura di potere non indifferente.
Analizzare i sottosistemi ci serve per non semplificare, per renderci conto che esistono ancora dei poteri fisici che si possono affrontare e colpire, senza continuare ad addossare la totalità delle responsabilità ai soliti noti, come gli Usa o le banche, che fra l’altro si caratterizzano oggi come delle istituzioni fortemente in ritardo sulle tecnologie di comando.
Anche qui un piccolo esempio: mentre i vertici della Bce dichiarano che nei prossimi cinque anni pensano di realizzare l’emissione di una moneta digitale, la Cina una moneta digitale già la possiede ed è una moneta a loro utilissima per commerciare con quei paesi come Iran o Corea del Nord che sono sottoposti a sanzioni, garantendo così il commercio libero dai vincoli degli Swift, i codici di protocollo che ognuno di noi ha sul proprio conto corrente.
Che fare?
Intanto capirci qualcosa.
Tutto quel che è l’assetto globale oggi abbisogna quindi di approfondimento, per conoscere le viscere del comando finanziario, i suoi ingranaggi. Abbiamo necessità di interloquire con esperti di diversi settori, dobbiamo cominciare a interpretare il presente attraverso un multipensiero, che faccia comunicare scienze e saperi differenti.
Abbiamo bisogno di un nuovo vocabolario che allontani vecchi lemmi come quei «beni comuni» definiti quasi come entità fissate e immobili in un mondo in cui invece tutto è in transito e in cui si può pulire e rendere potabile l’acqua con l’uso di nanotecnologie.
Un nuovo vocabolario che non si pieghi alle facili mode, come ad esempio la parola ormai diventata un mantra: resilienza. Che assomiglia più all’atteggiamento di Fantozzi davanti al padrone, ovvero l’adattamento privo di conflitto a ogni situazione in cui si è costretti a vivere.
Perché non provare a inserire nel nostro lessico parole come multidisciplinarietà, relazione, interdipendenza, contaminazione? Perché non provare ad ascoltare un fisico e insieme guardare un film che parla di donne afghane? Perché non sfidare la mescolanza di saperi? Forse riusciremmo così a costruire una conoscenza autonoma, una cooperazione delle conoscenze come atto di autonomia per avere una visione del futuro e praticare un presente di libertà.
Oltre a capirci qualcosa dovremmo anche porci nuove domande, mentre indaghiamo. Con/ricerca, inchiesta andrebbero illuminate da una nuova luce.
Anche nel fare dovremmo porci nuovi interrogativi: come ci organizziamo, come lottiamo, come agiamo il conflitto, come resistiamo, ma anche sabotiamo il potere?
Insomma come riannodiamo teoria e pratica dentro l’orizzonte del nostro tempo in cambiamento.
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser».
Dal film Blade runner
Immagine: Maurizio Cannavacciuolo, Claudio, 1995, olio su tela, 190 x 110 cm
13 Feb, 2022 | Analisi e Riflessioni, Pragma
Di 0‑V3 MZ.
Puntate precedenti
E’ tempo di riconoscere che viviamo in una nuova era ed abbiamo bisogno di un nuovo lessico. Il nostro habitat è tridimensionale (territorio, virtuale e spazio), sorretto dalla sinergia delle tecnologie convergenti. Il capitale è un rapporto sociale, di classe, di forza, terreno dello scontro tra profitto e liberazione. Il comando finanziario, guidato da algoritmi che vanno oltre le regole classiche dell’economia, in cui si muovono sottosistemi vecchi e nuovi di potere, non è un Moloch definitivamente vincente. Che fare:https://municipiozero.it/oltre-lumano-oltre-i-post-oltre-non-si-puo-rimettere-il-dentifricio-nel-tubetto/
Oltre l’umano #2
Il futuro inizia oggi non domani
* In transizione
Stiamo vivendo in tempo reale la transizione dal post all’oltre umano. Il nostro tempo storico, questi decenni di inizio millenio, sono un tempo pieno di non più e non ancora. Un tempo di transizione, in cui però possiamo vedere cose che ci possono essere molto utili per uscire dal passato e muoverci con maggiore libertà.
Non più solo il tempo dei post (post-fordismo, post-moderno …), caratterizzato dal rendere evidente la fine del ciclo precedente. Il tempo dei post è stato importante per dare valore e attraversare le differenze, non più riconducibili a uno (donna-uomo, uomo-macchina, uomo- natura.. ). E’ stato come aggiungere lettere al nostro alfabeto, per provare a scrivere un nuovo linguaggio della liberazione. Le differenze, divenute dicotomie inconciliabili, non si potevano certo ridurre a uno, forzandole ad unità con il vecchio alfabeto novecentesco, infilandole in teorie preconfezionate di lotta. Sarebbe stato come remare contro la realtà.
Non ancora appieno il tempo dell’oltre, ma un tempo in cui iniziano a darsi nuove possibili forme di ricomposizione intesa come possibile liberazione. Un tempo in cui agiscono forme di soggettivazione, come si dice oggi, ovvero soggetti con caratteristiche nuove a cui guardare e che possono alludere a nuove forme di ricomposizione.
Per affrontare questa visione ci serve il concetto di ibrido. La parola ibrido ha una etimologia incerta, per la maggiore va l’ipotesi che derivi dal latino hybrĭda «bastardo» o dalla parola greca
ὕβρις, quella di Promoteo per capirci. Bastardo, nella vulgata significa di origini dubbie, un qualcosa di nuovo, altro dalle sue origini. Non solo una sommatoria limpida di cose ma invece un mix innovativo. Insomma una qualità molto utile non solo per definire i nuovi soggetti del tempo della transizione dal post all’oltre ma anche le forme della realtà, del sistema in cui viviamo, perfino del potere.
* Tra sacro e profano.
Prima di avviarci lungo i cammini ibridi del nostro tempo storico in transizione tra i post e l’oltre, dobbiamo scegliere, una volta per tutte la bussola con cui intendiamo orientarci. Eh sì, perché senza bussola non definiamo il nostro nord e brancoliamo come ubriachi.
Come avanziamo nella transizione tra post e oltre, in questo tempo di cambiamenti, di spaesamento, di contraddizioni, di mancanza di riferimenti dati? Un tempo che è un gran casino?
Possiamo affrontare la realtà da un punto di vista spirituale ed assoluto oppure materialista e relativo. Si tratta di fare una scelta chiara, “tertium non datur”. O scegli un nord, o un altro, per orientare il tuo cammino, pena il fatto di perdere la strada per provare a cambiare radicalmente lo “stato di cose presenti”. Insomma la vecchia scelta tra sacro e profano.
La complessità del nostro tempo si può affrontare attraverso lo spirituale ed assoluto, come fanno tutte le religioni, i new age, le dinamiche ambientaliste portate all’estremo, che hanno certezze dogmatiche e di conseguenza un punto di vista conservativo del sempre uguale, come valore che va salvaguardato da ogni mutamento di tipo epocale.
Oppure si può affrontare il presente attraverso il materialismo e il relativo, sporcandosi, affondando nella realtà, pronti a confrontarsi con ciò che muta non avendo nessun assoluto da difendere ma anzi il cambiamento radicale da costruire. Una strada questa appartenuta alla vecchia storia del movimento operaio, alla storia comunista, oltre che a chi non ha mai avuto paura di scontrarsi con il sacro assoluto ed imperante in voga al momento.
C’è un piccolo problema però, oggi, un paradosso: sembra che il sacro vesta gli abiti della resistenza di fronte ai pesanti mutamenti epocali. Per capirci, le religioni e tutti gli assoluti analoghi sono osannati come baluardo contro quello che sembra l’unico profano possibile, quello dei mercati, del sistema capitalista, che di certo non è metafisico ma materiale. Papa Francesco, per citare una chiesa che conosciamo da vicino, è diventato il punto di riferimento contro le barbarie del sistema, con tutti gli annessi e connessi della sacralità della vita, dell’importanza della carità, dell’aiuto ai poveri, dell’importanza del proprio personale impegno e via dicendo.
E’ importante cercare di capire cosa è successo, storicizzare quanto è avvenuto per non essere banali.
Parliamo della chiesa cattolica perché noi qui viviamo, questo il territorio in cui siamo situati. Non che le altre religioni ed assoluti siano da meno (l’Islam ce lo dimostra …). Tra l’altro anche chi si dice ateo respira nel territorio che abita l’oppio dei popoli che affumica l’aria che respira, perché la grande capacità delle religioni è di avvolgere l’intero sistema sociale, plasmandone le relazioni tra individui, volenti o nolenti.
Restiamo perciò a casa nostra per capirci.
Nei decenni passati il sacro ha combattuto duramente il profano, in particolare la teoria e pratica del comunismo, visti come il Diavolo in terra. Certo, anche all’ora, nel campo profano c’era pure il capitalismo, che di certo non è spirituale ma una dinamica di rapporti di forza quanto mai materiali, ma il vero nemico da combattere senza esclusioni di colpi era qualsiasi alternativa credibile di liberazione materiale di altra natura. Con il capitalismo la chiesa poteva venire a patti ed andare a braccetto, con il comunismo, inteso come movimento che abolisce l’ordine di cose presenti, di certo no. Era lotta dura.
In questi ultimi vent’anni, il tempo tra il post e l’oltre, nel campo del profano, mancando la forza di un pensiero e di una pratica di liberazione e rottura rivoluzionaria, si è affermata l’egemonia capitalista. E’ come se il campo del profano fosse rimasto in totale appannaggio del capitalismo.
Per cui lo scontro sembra oggi tra il sacro, la chiesa che resiste e lotta contro il profano, il capitalismo. E’ un effetto distorto, forse sarebbe il caso di usare la parola distopico: pensare la chiesa come un’alternativa di sistema non solo è un abbaglio ma è qualcosa di cui liberarsi al più presto.
La chiesa affonda la sua genesi nell’assoluto e si prefigge un fine spirituale immutabile per questo è un baluardo del conservatorismo, garantito da Dio per quanto riguarda le grandi questioni di fondo. E’ nella sua natura combattere il senso profondo del profano, ovvero la scelta umana di prendere in mano le proprie sorti, superando spiritualismo ed assoluto, emancipandosi da Dio, costruendo la propria liberazione qui ed ora.
Per questo si tratta di scegliere il profano, il materialismo, la ricerca, la capacità di praticare il relativo di fronte all’assoluto, la curiosità delle scienze, dei saperi e delle tecnologie, di dire … che veniamo da un buco nero e lì torneremo. Senza per questo avere paura del futuro.
E’ come se in partenza per una corsa, il corridore A voglia arrivare nel caldo dei tropici e il corridore B voglia andare nel freddo dell’Antartide. Ognuno dei due ha cose diverse nel suo bagaglio perché ha un diverso obiettivo. Uno vuole arrivarci con le sue gambe, insieme ai suoi compagni, l’altro crede che qualcuno, un’entità superiore, lo aiuterà ad arrivare a destinazione. Per farla più breve, uno è convinto che la possibile felicità sta nella sua corsa, l’altro che la felicità stia in qualcosa di garantito che verrà solo dopo la corsa. Voi capite che sono due cose ben diverse.
Per cui iniziamo ad attraversare il tempo di transizione tra il post e l’oltre con la bussola, possibilmente tecnologica, orientata in modalità profano e l’ibrido come qualità da indagare.
* Nuovo potere capitalista: l’algoritmo del mercato/comando finanziario e i sottosistemi
Intendiamoci, quando parliamo di capitalismo non stiamo parlando di un Moloch indefinito e sempre presente (… abbiamo appena abbandonato la categoria di assoluto, non possiamo riprenderla …) ma la capacità capitalista di costruire egemonia economica-culturale-politica. Cosa che altre ideologie, narrazioni non sono, finora, riuscite a determinare. Il capitalismo, lo ripetiamo per non essere fraintesi, va inteso come un concetto fatto di relazioni, di contraddizioni, di capacità di attraversarle costruendo una propria egemonia di discorso sui diversi piani.
Quello che si tratta di indagare è la qualità del potere che si presenta oggi come un ibrido.
Un ibrido, governato dagli algoritmi della finanza, che fa interagire mercato (domanda a cui risponde una offerta) e comando (imposizione con la forza), attraversando sottosistemi vecchi e nuovi.
Una nuova forma di potere che appare come un groviglio difficile da comprendere, perché in movimento e pieno di tensioni, in cui la caratteristica ibrida è una costante.
Basta guardare ai sottosistemi vecchi e nuovi. Certo alcuni sono statali ma altri di sicuro no.
Ne è un esempio lo scontro sulle questioni dello spazio tra la Cina (entità statale) con Musk (imprenditore privato, oggi in testa tra i più ricchi al mondo) perché nei mesi scorsi i satelliti lanciati da Space X, la società spaziale del fondatore di Tesla e cofondatore di PayPal, per due volte sono quasi entrati in collisione con la stazione spaziale Tiangong. Vuol dire che in assoluto ogni riccone vale come uno stato? No, ma vuol dire che ci sono privati che incarnano imprese che oggi contano tanto quanto entità statali complesse. Ma al tempo stesso le entità statali interagiscono con questi nuovi sottosistemi, a volte considerandoli delle risorse a volte dei competitor. Vince il privato, vince lo stato? Nessuno dei due. Sono ambedue parte dell’ibrido delle nuove forme del potere. Ambedue si muovono, si alleano o si combattono dentro lo spazio degli algoritmi del mercato/comando finanziario, loro riferimento comune.
Passiamo ad un altro apparente rompicapo, i bitcoin e le monete digitali. Nuove relazioni di moneta che vanno oltre la definizione dell’economia politica e che sono garantite non più da sovranità statali ma dall’algoritmo del mercato/comando finanziario. Insomma un bel cambiamento da quello che ci racconta la serie “Casa di carta” quando la stabilità di uno stato, la Spagna, si reggeva sulla riserva di lingotti d’oro. Ma in fondo anche nella serie, alla fine il tutto, è solo una convenzione (AAA da qui in poi spoiler….) perché il patto siglato tra il Professore e Tamayo è che la riserva aurea sia stata ritrovata e i rapinatori hanno fatto una brutta fine, ma nella realtà, di comune accordo tra tutti, al posto dei lingotti d’oro ci sono quelli di bronzo e i nostri eroi se ne vanno liberi e ricchi, in cambio del silenzio, mentre la Spagna è salva dalla bancarotta. Del resto “l’oro di un Paese è una illusione”, aveva detto il Professore a Palermo in un flashback. Certo un’illusione che però deve avere delle solide garanzie. Ora a garanzia dei Bitcoin c’è una formula, un algoritmo e questo pare bastare. Ormai le criptovalute sono uno degli asset funzionali al mondo finanziario.
Perfino le guerre oggi sono ibride. Non solo perché a combatterle sono un nuovo mix di tecnologie tra spazio e terra, di contractor armati di moderni sistemi militari, di milizie tribali, ma perché i sottosistemi si scontrano per contare in una sorta di caos da sovraffollamento, che non impedisce all’algoritmo del mercato/comando finanziario di prosperare.
Pensiamo alla cronaca di questi giorni.
Le tensioni in Kazakistan hanno tenuto banco per qualche settimana. Ma da dove nasce il problema in questo paese che è 9 volte l’Italia con una popolazione di 19 milioni di persone, raggruppate in clan che si sono trasformati in aggregazioni di interessi economici? Certo dal malcontento per l’aumento del prezzo dei carburanti, certo dall’insofferenza verso il nuovo governo, figliastro del vecchio regime. Ma quanto c’entra nella crisi energetica il fatto che negli ultimi mesi il paese fosse diventata l’Eldorado dei miners che, per estrarre i Bitcoin, assorbono quantità pazzesche di energia? Tanto. Quanto c’entra il fatto che il paese, da cui si estrae il 43% mondiale dell’uranio, tornato in auge con la bufala che l’energia nucleare di fusione sia green, faccia gola a molti? Tanto. Quanto c’entra la situazione geopolitica che vede la Russia, che non ha esitato a mandare i suoi soldati, sempre più preoccupata di quello che si sta muovendo nella cintura dei paesi cuscinetto verso la Nato ed anche ben intenzionata a non perdere il controllo sul Cosmodromo di Bajkonur, spazio porto fondamentale nei giochi militari nello spazio? Tanto. Quanto c’entra l’attenzione che la Cina rivolge al paese confinante con il Sinjan, regione di forti tensioni? Tanto. Quanto c’entra lo zampino americano nel mettere zizzania tra Cina e Russia, oggi vicine per comune nemico più che per affinità? Tanto. Insomma nessuna di queste motivazioni è l’unica causa di quello che è successo, ma tutte si mischiano, creando un mix esplosivo. Poi dopo qualche giorno di attenzione il Kazakistan è sparito dai radar della comunicazione, ma non è che le molteplici cause alla radice di quanto successo siano state risolte, covano tutte sotto le ceneri.
Negli ultimi giorni è ritornata in voga invece un’altra guerra, quella annunciata per l’Ucraina. Anche qui un mix di tensioni e pulsioni. Ma davvero c’è il pericolo di una guerra? La risposta è un ibrido, perché dietro a quello che sta succedendo ci sono le pulsioni che attraversano la Russia di Putin, alfiere della globalizzazione ma anche pronto a soffiare sui nazionalismi più arcaici, così come gli interessi americani, volti a mantenere un ruolo egemone da ridefinire negli scacchieri internazionali. Senza dimenticare le tensioni intra-europee, tra est e ovest, paesi forti come la Germania e più deboli, ma non disposti a farsi da parte, come quelli dell’est. Sì, perché un paradosso che attraversa i sottosistemi statali è che nessuno è disposto ad allontanarsi dalle filiere economiche globali, uniche in grado di garantire i profitti ma al tempo stesso, mai come in questi tempi, si sono alimentati nazionalismi e pruriti addirittura etnici. Per cui la guerra in Ucraina ci sarà? Di certo non sarà la temuta guerra nucleare che ha mantenuto la pace nel tempo della guerra fredda, con la paura della distruzione totale del pianeta. Se guerra ci sarà, avverrà sui piani ibridi tra militare ed economico, nella rete e nello spazio e comunque anche in questo caso le cause di tensioni resteranno ancora sotto la cenere.
Una guerra che invece è sparita dalla comunicazione mainstream se non per brevi laconici messaggi sul fatto che i bambini muoiono di fame e le donne sono eufemisticamente meno libere è quella in Afghanistan. Dopo essersi stracciati le vesti nei mesi scorsi in tutti i consessi internazionali deputati a difendere i diritti umani, i talebani sono felicemente al potere ed Amen o Inshallah.
D’altronde anche della guerra in Siria e dell’insopportabile questione che Assad sia ancora al potere, in un paese distrutto per essere diventato il campo della guerra per procura tra i diversi attori regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita) ed internazionali (Russia, Cina, Usa), non se ne parla più se non per le immagini, da dare in pasto al grande pubblico, del piccolo Mustafa senza braccia e gambe arrivato in Italia, come grande atto di generosità e carità.
Per non parlare dell’altro grande teatro di guerra, che da noi non viene neanche sussurrato, quello che si muove dal Mar Cinese verso il Pacifico, anche qui sotto l’occhio dei satelliti dallo spazio, nella contesa tra Cina e America.
Sottosistemi pronti a distruggersi a vicenda? Difficile, ma l’incidente, qualcosa di non previsto, può sempre succedere ed in ogni caso l’algoritmo del mercato/comando finanziario per il momento dorme sogni tranquilli viaggiando tra i vari fusi orari. Sembra più che i vari sottosistemi vecchi e nuovi, statali e no, legali ed illegali siano alle prese con la necessità di “avere un posto al sole”, di continuare ad esistere e resistere. Cosa resa ancora più difficile non solo per la generale aggressività esterna ma anche dalla necessità di far fronte al fattore umano, a quell’insieme di pulsioni che costituiscono le relazioni sociali, l’aggregarsi del bipede che siamo, portandosi dietro il proprio bagaglio di radici etniche, culturali e antropologiche, ancora come codice di aggregazione.
Il tutto pare un ibrido tra Risiko e Monopoli con una spruzzatina di videogame, dove però chi si contende il campo non ha l’ambizione di vincere tutto, di governare il mondo. A quello ci pensa l’algoritmo del mercato/comando finanziario. Al massimo i giocatori possono mirare a resistere, esistere e non sparire, guardandosi sempre le spalle e sapendo che le vecchie strategie basate su carrarmatini e carte sono anacronistiche, tanto più che nella globalizzazione, che tutto attraversa e connette, anche la Kamchatka può diventare importante e il gioco non avviene più nel piatto mappamondo ma nell’intero spazio, non solo nell’accumulo di beni fisici ma nel vortice del denaro che produce denaro.
* La composizione del lavoro
Dopo aver cercato di porre degli elementi iniziali per definire il capitale come nuovo potere capitalista, l’algoritmo del mercato/comando finanziario e i sottosistemi, tuffiamoci ad iniziare ad indagare la composizione del lavoro.
Prima però dobbiamo fermarci un attimo.
Ci siamo ben piantati nel campo del profano. L’abbiamo scelto. Profano fa rima con la scienza e la conoscenza, ovvero la tensione ad andare oltre l’assoluto indagando la materia. Ma quali scienze, quali conoscenze?
Non possiamo più accontentarci di dire che la scienza non è neutra ma al servizio del capitale, di continuare ad oscillare rispetto alle tecnologie tra la critica quasi luddista e l’accettazione supina di ogni cosa come nuovo spazio di libertà, di balbettare alla ricerca delle definizione sempre più aggettivate dei saperi (di parte, operaio, femminili, altrui, differenti etc etc …). Abbiamo bisogno, anche in questo caso dell’ibrido. Il concetto di ibrido, avendo scelto il campo del profano, ci aiuta a spingerci nella ricerca di un nuovo lessico ed allora forse potremo iniziare a parlare di STS ovvero Scienza/e Tecnologia/e Sapere/i, come il nuovo mix oggi centrale sia dal punto di vista capitalista, perché ne innerva la struttura, sia dal punto di vista delle potenzialità di liberazione.
Pensiamo un attimo a cosa è cambiato. Ogni settore anche quello più dannatamente materiale si valorizza dentro filiere tecnologiche e sempre più specializzate. In ogni campo i saperi, volutamente forzati ad essere separati, vengono fatti agire in sinergia per produrre quel quid in più che viene elaborato dagli algoritmi del mercato/comando finanziario. In ogni aspetto della nostra vita individuale e collettiva la scienza ha apportato cambiamenti veloci ed inimmaginabili. Internet delle cose, start-up innovative basate sulla robotica, intelligenza artificiale, nanomaterie, metaversi vari, questi sono il futuro. Ma tutto questo non è frutto di una bacchetta magica di cui è dotato il capitale. Dietro ad ogni invenzione, elaborazione, novità tecnologica, scientifica ci stanno corpi e cervelli che agiscono, che vengono forzati alla separazione e alla parcellizzazione sempre più specialistica di ogni branchia del STS.
Riflettere su questo ibrido ci aiuta a parlare di composizione del lavoro.
Anche qui torniamo un attimo al post prima di andare nell’oltre. Il tempo del post (post fordismo etc …) ci è stato utile per riconoscere e operare sulle nuove forme, differenze che si erano prodotte nel superamento del lavoro classico, che già avevamo iniziato a focalizzare con il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale. Abbiamo cominciato a prendere dimestichezza con la differenza tra lavoro materiale e immateriale, manuale e intellettuale. Anzi ne abbiamo fatto fior fiore di teorie (a volte fin troppo …) per cercare con il lumicino il settore trainante, centrale. E magari, quando pensavamo di averlo trovato la strada, per organizzarlo ci portava sui sentieri del conosciuto, ovvero la sindacalizzazione (ovviamente necessariamente aggettivata per dire che stavamo cercando qualcosa di nuovo).
Oggi se guardiamo alle forme del lavoro troviamo di fronte a noi un ibrido in cui vecchie e nuove caratteristiche delle forme del lavoro si mischiano, sovrappongono, plasmano.
Il facchino della logistica agisce in un contesto di informatizzazione dell’intera filiera, il super-esperto di energia quantica svolge un lavoro parcellizzato come in una vecchia fabbrica fordista. L’ibrido innerva la relazione tra capitale e lavoro. E’ la tendenza. Chiaro che ci sono lavori che incarnano maggiormente la qualità di ibrido ed altri meno. Ma l’acqua dove nuota il pesce è la stessa. Al tempo stesso appaiono nuove gerarchie che portano al fatto che i lavori con maggior qualità di ibrido innervano i settori che sono maggiormente ed immediatamente funzionali all’algoritmo del mercato/comando finanziario: sono i lavori che si sviluppano nell’insieme delle STS. Basti pensare a quei settori che, nonostante la pandemia, hanno visto i loro ricavi aumentare a dismisura come quelli collegati alla rete, alle tecnologie, alle scienze, ai saperi. Non stiamo dicendo che non ci sono milioni di esseri umani che lavorano in una situazione che assomiglia più alla schiavitù che al lavoro moderno, ma anche questi lavori si interfacciano con l’ibrido. Guardiamo un magazzino Amazon: il lavoratore A scarica e carica, guidato dai dati raccolti dal lavoratore B, elaborati dal lavoratore C, prodotti creati dal lavoratore D, su invenzione creativa del lavoratore E, dopo la campagna comunicativa del lavoratore F, che la ha creata a partire dai dati raccolti sul mercato del lavoratore G … e via così … il lavoratore A (magari pakistano) porta a casa i pasti delivery, scatta al segnale del dato raccolto dal lavoratore B (magari del call center in Albania), il pasto è elaborato sulla falsariga della ricetta del lavoratore C (magari uno chef stellato calabrese), accompagnato dal vino selezionato dal lavoratore D (magari un sommelier francese), il tutto accompagnato dal marchio creato dal lavoratore E (magari un creativo americano).
Insomma è chiaro che ci sono lavori e lavori, ma è altrettanto evidente che i lavori che si caratterizzano per una maggiore quota di ibrido, che agiscono nell’ibrido del STS sono potenzialmente quelli in cui la forma della ricomposizione tra vecchie e nuove forme del lavoro è più alta ed al tempo stesso hanno in potenza una capacità di ricomposizione innovativa più alta. Sì, perché quello che dobbiamo ricercare non è il punto di più alto del sistema capitalista ma i soggetti che possono incominciare a prefigurare nuove forme di ricomposizione, un ibrido nuovo capace di superare parcellizzazioni, frammentazioni, interessi solo di parte, insomma le caratteristiche che il potere vorrebbe come uniche nell’ibrido.
Non è una ricerca facile, proprio perché oggi più un lavoro è ibrido più è segnato dalla parcellizzazione, dalla separazione, dall’egoismo. Non è una ricerca che si può fare solo con le lenti del sindacalismo.
E’ una ricerca in cui entra in campo il bios. E’ una ricerca che guarda alla cooperazione. E’ una ricerca da agire, senza schemi preconcetti. Ma non provarci significa accettare nel lavoro politico di camminare come i gamberi, all’indietro, per paura di affrontare territori nuovi e contraddittori.
A volte bisogna avere il coraggio di muoversi a balzi, forzando l’orizzonte. Non possiamo basarci solo sulla estenuante ricerca di previsioni certe, fondate su dati inequivocabili. Rischiamo di restare fermi e vedere passare non solo il presente ma anche il futuro. Ci vuole una dose di anticipazione, visione e scommessa.
Detto questo, niente è facile. Ma perché non provarci?
Facciamo un esempio, che può sembrare un po’ stonato, ma che si cala nei tempi in cui viviamo. A fine estate scorsa non sarebbe stato forse il caso di creare piazze “Si vax e vaccini per tutti”, dove per tutti si intendeva tutti, in tutti i posti del mondo? Forse sarebbe stato il modo per attaccare il potere delle Big Farm direttamente invece di perderci tra mille sì ma .. però forse …, lasciando campo libero all’onda di melma che ci ha quasi sommersi tra “No vax – No green pass – No questo – No quello – No a questo ma non quel no ma l’altro … di ogni tipo”, dai terrapiattisti ai filosofi rincitrulliti (… per usare un eufemismo), ai nazi, agli ignoranti di ogni risma, insomma alla vandea insopportabile? Forse piazze “Si vax e vaccini per tutti” avrebbero messo in moto qualcosa di diverso, nuovi soggetti, nuove forme di ricomposizione e cooperazione, capaci di rivoluzionare il sistema dei vaccini stesso, basando la ricerca su valori diversi da quelli imposti dal mercato? Forse … Certo con il senno del poi non si costruisce mai niente. Però anche … chi non risica non rosica.
Prossime puntate
In via di discussione. Anzi se avete suggerimenti, critiche, fatevi vivi
PS solo per gli amanti della fantascienza.
Se abbiamo detto che i sottosistemi non sono più solo potenze statali, se un privato come Musk anima un sottosistema potente … allora perché non immaginare che si possano costruire sottosistemi altrettanto potenti, anzi più potenti ma radicalmente altri da sto ca … volo di algoritmo del mercato/comando finanziario. Un po’ come nella saga di The Expanse la Rocinante, che con il suo equipaggio ibrido di terrestri, marziani, cinturiani, è autonoma, potente e gioca un ruolo centrale fuori dagli schemi. Certo bisogna capire come finirà con la Protomolecola etc … etc … ma intanto la Rocinante è altro da tutti.
18 Set, 2023 | Analisi e Riflessioni, Pragma
di Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra
Come dare, e organizzare, percorsi di rottura al cuore dello sviluppo capitalistico? Quali i comportamenti potenzialmente sovversivi su cui costruirli, oggi? Quali punti di metodo ancora inattuali trarre dall’esperienza militante di quella generazione politica che per ultima ha tentato l’“assalto al cielo”?
Sono le domande implicite che hanno mosso il terzo incontro del ciclo MILITANTI, tenuto a Modena sabato 13 maggio. Una bella, intensa, arricchente chiacchierata con Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra, militanti autonomi degli anni Settanta – di Rosso, la prima e più originale formazione dell’Autonomia operaia, e dei Collettivi politici veneti per il potere operaio, la più larga, radicata e duratura organizzazione politica dell’Autonomia – autori dei due libri che troverete in fondo a questa prima parte del loro intervento.
Una chiacchierata che fin da subito non ha voluto essere sul passato, per “reduci” o “nostalgici” fuori tempo massimo, ma immediatamente sul presente, per ragionare su alcuni dei nodi che chiunque abbia l’ambizione di conquistare una prassi militante adeguata ed efficace dentro e contro il proprio tempo si trova inevitabilmente a dover affrontare.
I comportamenti di rifiuto e il salario sganciato dalla produttività. La società che diventa fabbrica e la ricerca della soggettività operaia. Il radicamento nel territorio e nella composizione di classe, e l’esercizio del contropotere. La spontaneità di movimento e la disciplina di progetto politico. L’organizzazione autonoma e l’autonomia di classe. L’uso materiale della forza e la forza materiale del significato vivo dell’essere “compagni”.
Questi sono alcuni nodi cruciali su cui il “cervello collettivo” degli autonomi ha scommesso e costruito la sua prassi, tra avanzamenti, contraddizioni e vicoli ciechi.
Consapevoli che l’autonomia non è mai data una volta per tutte, ma la si conquista e reinventa di continuo, siamo tornati alla stagione degli anni Settanta, quando l’Italia è stata attraversata da un conflitto sociale di durata, diffusione e intensità che non hanno eguali nella storia recente, e di cui oggi le nuove generazioni stentano a credere, o solo immaginare. La questione della rivoluzione in un paese a capitalismo avanzato, nel cuore dell’Occidente, è precipitata e si è riaperta allora, a livello di massa – non a caso, ancora oggi, quel decennio tormenta gli incubi di comanda.
Gli autonomi, in quel tumultuoso passaggio d’epoca – non solo di crisi capitalistica, ancora nelle sue matrici irrisolta, ma anche di crisi di quelle soggettività e forme di organizzazione politiche scaturite dal precedente ciclo storico di lotte –, seppero incarnare più di ogni altro, con forza e intelligenza, la sua attualità. L’attualità della rivoluzione, del comunismo, qui e ora: nelle lotte nei quartieri, sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, ma anche nelle strade, nelle relazioni sociali, nel sapere e nelle forme di vita. Attraverso un metodo, quello dell’autonomia, che parla di anticipazione dei processi, di lettura della composizione di classe, di scommessa sulle soggettività, di ricerca delle possibilità di attacco, di rottura con l’esistente e con quello che si è.
Soprattutto quando i vecchi schemi, come oggi, all’infuori di ogni logica di testimonianza identitaria e di pretesa ideologica, appaiono non funzionare più. Se quella degli autonomi è una storia irrisolta, occorre allora tornarci con le spalle al futuro, per preparare il prossimo assalto al cielo.
Buona lettura.
Donato
lo pensavo che sareste stati voi a spiegarci cos’è l’Autonomia oggi! è un po’ difficile che la risposta a una domanda del genere venga da me o da Valerio. Al limite noi possiamo ricostruire un periodo storico che ormai data mezzo secolo. Ma a ogni modo volevo iniziare con i King Crimson. L’intuizione di usare 21st Century Schizoid Man dei King Crimson per pubblicizzare un evento del genere è azzeccata tanto quanto la scelta delle parole che avete riportato in quel video, perché sono le uniche calzanti. Io, infatti, in questi giorni continuavo a chiedermi: “Ma di cosa parlo sabato? Come fai a definire la militanza negli anni Settanta?” Perché o parli di tutto, oppure devi in un qualche modo troncarla con l’accetta. Per cui, se mi chiedeste di riassumere in una formula edificante cos’è stata per me, vi direi che la militanza è stata una corsa velocissima di una generazione dentro la felicità.
Volevamo tutto, e lo volevamo subito; ma questo tutto e questo subito era l’insieme di enormi felicità, che erano contenute in quello che costruivamo quotidianamente. Se invece dovessi rispondere in una maniera più precisa, vi direi che la militanza autonoma è stata il fatto di essere riusciti – in una finestra storica che è durata poco, perché purtroppo così è stato – a vivere un quotidiano in pieno conflitto con la costrizione lavorista a cui pensavano di sottometterci, una quotidianità che aveva la sua cifra nei suoi aspetti di totale liberazione. La generazione dell’Autonomia o anche quella del Settantasette sono state tali proprio poiché hanno trovato questa chiave di volta. Dopodiché, dentro questo spirito condiviso, ci sono le varie articolazioni progettuali.
Ognuno di noi ha una storia progettuale diversa: io e Valerio siamo entrambi militanti dell’Autonomia, ma tra Bologna e il Veneto già ci sono differenze, nonostante ci fosse un modello produttivo con alcune similitudini. Ovvero, sia da noi che in Emilia non c’era (e non c’è) la Fiat o l’Alfa, e quindi nemmeno l’operaio massa alla catena – o meglio, da noi c’era, ma comunque parliamo di una situazione molto diversa rispetto a Torino. Insomma, Bologna e il Veneto condividevano un modello produttivo che sarà quello che vince storicamente nella ristrutturazione operando il passaggio che supera il fordismo; ma l’elemento che rende distinti e diversi i due territori è la rappresentanza politica. Il sistema dei partiti, per dirla in soldoni.
Nel Veneto si era stabilizzato un sistema a governo democristiano, mentre nell’Emilia rossa (e paranoica, come cantano i Cccp), c’è il Pci. Può sembrare una differenza su un dettaglio secondario, “sovrastrutturale”, ma andando alla sostanza delle cose è una differenza enorme. Perché? Perché nella capacità di comando e di controllo dei conflitti autonomi, il Pci rivela una capacità di disinnesco di gran lunga maggiore della Dc. Nel Veneto, quando i ceti dirigenti non riescono più a governarne politicamente questo rapporto tra una nuova composizione di classe e nuove lotte (e ci provano in mille maniere, ma perdono le assemblee nelle facoltà, perdono le assemblee nelle fabbriche, perdono le assemblee nei quartieri e via così), l’ultima istanza che gli rimane è mettere in piedi, attraverso il teorema Calogero, il “7 aprile”. Direttamente alla repressione poliziesca. Da noi era questo il meccanismo, perché il quadro di comando partitico del Pci non aveva la capacità di esprimere un controllo sociale, che qui invece ha sempre conservato. Ci sono state differenze anche negli sviluppi del movimento (per esempio, in Veneto non c’è stato il Settantasette), ma l’elemento che va indagato per primo è il governo politico del territorio, perché è lì che si comprende chi è il nemico e come si struttura il terreno di battaglia.
Ora, io non so nel 2023 come funzioni a Modena e nelle ricche provincie del Nord (perché ricordiamocelo, qui siamo in assoluto nelle zone più ricche del pianeta, partiamo da questa considerazione altrimenti entriamo in chiavi di lettura strane). Come può darsi un percorso di rottura? Bella domanda. Quelli della nostra generazione possono dire solo “noi abbiamo provato a fare così”. Quindi, se guardiamo in profondità, qual è stato l’elemento che aveva messo in moto quel percorso? È stato il fatto che a diciotto, venti o ventidue anni questa generazione si è sottratta in una maniera totale al fatto di diventare merce. Non volevamo spendere la vita per un salario.
Non volevamo diventare merce forza-lavoro: e abbiamo fatto di tutto, anche armandoci, per sottrarci a questo. Questa è l’eresia assoluta, unica e fondamentale, che spiega il conflitto oltre che con il padrone anche con il Pci e con le ideologie lavoriste della sinistra. Ma badate bene, la giornata lavorativa è precisamente la cornice che tiene insieme e spiega il dopoguerra fino agli anni Sessanta. L’eresia parte infatti prima di noi, già alla Fiat con i sabotaggi delle linee e certo ci sono sviluppi di non poco conto, ma come un filo sottotraccia che esploderà dopo e che attraversa tutta la variegata progettualità che chiameremo “autonomia operaia organizzata” negli anni Settanta. Il rifiuto del lavoro è stata la nostra stella polare. Tutto quello che ne è seguito – processi organizzativi, strumenti di intervento, eccetera – parte da questo presupposto.
Altro elemento dirimente per la nostra storia nella provincia: nei nostri territori non c’è l’università. Io non so bene cosa stia succedendo adesso a Modena, ma di certo non è una città universitaria come Bologna o Padova; ovvero, non c’è il traino delle lotte studentesche. Se non altro per il fatto che sono università probabilmente più giovani, con una massa di studenti minore e con un altro tipo di impatto sulla città. Anche in ciò secondo me Modena assomiglia molto di più a Vicenza che non a Padova o a Bologna, dove invece l’università (umanistica, si noti) ha un grosso peso sui processi sociali e sui conflitti. Ma per ora mi fermo dicendo queste quattro cose, lascio la parola a Valerio e poi proviamo ad aprire la discussione, anche perché, più che a parlare, sia io che lui siamo più interessati a capire cosa significa avere oggi trent’anni.
Valerio
Donato ha introdotto benissimo la questione. Le caratteristiche della gestione politico-amministrativa di Bologna e della provincia veneta erano completamente diverse, dal momento che ognuna delle due si basava sulla struttura produttiva del territorio. L’Emilia-Romagna, come si è detto, non era ai tempi avvicinabile al ciclo del tessile e del chimico nel vicentino. Qui c’era sì la fabbrica diffusa, ma di un tipo profondamente diverso: intanto perché era più orientata sul metalmeccanico, ma soprattutto perché più che di fabbrica diffusa si trattava di fabbrichette e laboratori diffusi. La forma più presente (se escludiamo alcuni grandi impianti) era la piccola fabbrica a gestione bene o male familistica, dove un conflitto al suo interno non scoppiava mai, essendo aziende che contavano otto-dieci operai massimo.
Innescare una ribellione sui luoghi di lavoro diventava difficile, quindi, sia per la fisionomia che assumevano le fabbriche, sia per il controllo dei comportamenti operai da parte del Partito comunista e della Cgil (che, parlando simbolicamente, erano quasi l’uno lo pseudonimo dell’altro). Ora, concedetemi qualche esempio concreto per rendere l’idea del panorama. Nel bolognese cosa avevamo quando abbiamo iniziato? C’erano alcune fabbriche di generose dimensioni, come la Ducati, nella quale i comitati che facevano riferimento a Potere Operaio erano anche riusciti negli anni Settanta a organizzare alcune campagne di lotta. Va detto per inciso che a quei tempi Potop, soprattutto nei primi anni Settanta, era parecchio forte avendo collettivi un po’ dappertutto: in primo luogo nelle scuole medie (ora diremmo superiori) e nell’università, ma anche in qualche fabbrica, ognuna con il suo comitato operaio che organizzava le lotte, i cortei interni, i picchetti (e quindi, come al solito repressione, denunce, eccetera).
C’eravamo dunque alla Ducati, ma soprattutto in aziende più piccole come la Sabiem (che faceva ascensori), la Sasib (che faceva ingranaggi e pezzi per metalmeccanica), la Calzoni (che faceva ingranaggi, trasmissioni di precisione e armamenti, producendo congegni di puntamento su commissione dell’Esercito). Lì noi già da quel periodo cominciammo a fare intervento politico fuori dai cancelli, ai turni alle 4 della mattina (compreso d’inverno, con la neve fino alle orecchie). Nonostante la nostra presenza in città, in quel periodo è stata parecchio dura, per il mero fatto che abbiamo sempre ricevuto una grandissima ostilità.
Vorrei che fosse chiaro: erano gli operai stessi che ci fronteggiavano, e partivano anche le mani. E accanto a questo c’era il servizio d’ordine del Partito e quello della Cgil che rendevano impossibile che un discorso operaista, o comunque di conflitto, potesse permeare la fabbrica dall’interno. Noi su quel punto abbiamo sempre avuto problemi, le fabbriche erano inespugnabili. Ogni fabbrica a Bologna e nell’hinterland erano roccaforti, bastioni del Partito. Lì non si entrava, punto.
Poi, con il passare del tempo, siamo riusciti a penetrare dalla porta di servizio, quando il capitalismo locale andava indirizzandosi verso l’operaio sociale. Incontrammo giovani proletari dei quartieri e della provincia che per loro sfiga (così dicevano) per guadagnarsi qualcosa entravano in fabbrica. E così questi giovani di diciotto-diciannove anni, al loro primo lavoro, tentarono di fare qualcosa dall’interno, ma rimaneva estremamente difficile. La svolta fondamentale è stata che queste esatte persone le ritroveremo più avanti nel movimento, cioè fuori dalla fabbrica. Iniziammo insieme a loro a capire che si trattava di “operai sociali” che cercavano sì di guadagnarsi qualcosa in fabbrica, ma sapendo che stavano seguendo una produzione di valore che eccedeva da lì, che si socializzava. Ma prima di procedere, meglio mettere in chiaro alcuni termini che forse per noi sono ovvi, ma per chi ha avuto una formazione diversa no.
Per quel che concerne l’operaio massa, pensate l’addetto alla catena di montaggio, collocato in una specifica organizzazione capitalistica del lavoro e chiuso in una fabbrica con una disciplina da caserma. È lo scenario nel quale, dopo il famoso autunno caldo del ’69, inizia a fare emergere dentro di sé la famosa “rude razza pagana” descritta da Tronti, la quale inizia ad operare nei reparti con forme di lotta per noi inedite: gli scioperi a gatto selvaggio, i sabotaggi e i cortei interni, dove si spazzavano le linee e si punivano i capi. Dunque, per rispondere a queste nuove forme di insubordinazione il capitale si ristruttura, spalmando la produzione di massa sul territorio.
Si moltiplicano le piccole fabbrichette e i laboratori, ma iniziano anche ad apparire i primi lavori virtuali: nuovi mestieri che creavano una nuova composizione di classe, i cosiddetti “non garantiti”, che altro non erano se non l’antecedente dei precari di oggi. Entra nel lavoro una nuova generazione di giovani, costretti a entrare in un nuovo schema produttivo che soggettivamente rifiutavano, e che di pari passo inventavano nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione. Ecco, è proprio su questo tessuto che a Bologna e in provincia abbiamo lavorato forte. Ma non per scelta teorica, ma perché banalmente c’era poco altro da fare. Da noi, l’unica realtà sociale con del potenziale era quella studentesca.
La Fiat di Bologna era l’Università, ed era attorno ad essa che girava la nuova produzione e il nuovo sfruttamento; e non a caso ancora oggi, in Piazza Verdi, vediamo le tende piantate per denunciare quell’iper-sfruttamento su cui l’intera borghesia bolognese ha vissuto (certo, come osservava un compagno qualche giorno fa, noi le tende le usavamo per andare in vacanza e le case le occupavamo, ma chissà, vedremo come andrà a finire). Tornando a noi, i processi produttivi orbitavano intorno all’Università in quanto polo di sfruttamento e centro di gravità per una nuova composizione, destinata alla disoccupazione e senza un domani. Tutto ciò lo avevano già capito proprio i non garantiti di allora. A diciannove anni avevano capito benissimo che non avrebbero mai avuto la vita che gli era stata promessa; ma la loro novità stava nel dire “ma bene, per fortuna! Noi quella vita borghese non la vogliamo”. E fu così che noi militanti riuscimmo a raccogliere l’ipotesi del rifiuto del lavoro come cornice politica per lanciare i percorsi di lotta che vedremo negli anni Settata. Tutta l’Autonomia bolognese era dunque interna a una nuova composizione, nel vivo dei processi di cambiamento, partendo dal rifiuto del destino assegnato.
Ciò si riverberava anche nella militanza e nei suoi linguaggi. In definitiva, non eravamo più Potere Operaio – nonostante l’Autonomia organizzata altro non fosse che il risultato del trasferimento in blocco dei militanti di Potere Operaio, e segnatamente del servizio d’ordine, nella nuova composizione subito dopo Rosolina. A quel punto però non adottiamo più le forme di prassi allora più usuali, cioè la figura del militante rigido e operaista. Ci accorgiamo, insomma, della necessità di cambiare atteggiamento davanti all’apertura di una fase nuova. Sicché i militanti di Potere Operaio, incontrando l’operaio sociale e trasformandosi in Autonomia, una volta riconosciuto che gli strumenti che si usavano prima non erano più efficaci ai fini del conflitto e della rottura, li abbandonano, sperimentando nuovi linguaggi, nuove tattiche e nuovi terreni di scontro.
Quello che invece teniamo stretto è quello che per noi operaisti è il principio cardine del movimento di classe fin dall’alba dei tempi: la questione della forza. La questione della forza è dirimente, indispensabile per l’Autonomia, oggi compreso. Alla fine dei conti, non riusciamo ancora ad abituarci alla legalità borghese e cose del genere. E il motivo è chiaro, ovvero che per noi la politica deve sempre stare accanto all’“esercizio legittimo della forza” secondo una delle prime formulette, o come diremo dopo all’“illegalità di massa”.
Ma ripeto, per noi non è una novità. Come ci ha spiegato Valerio Evangelisti in quel suo bellissimo libretto, Il Galletto rosso, dal 1892–1896 in poi, in quel grande movimento operaio (socialista, tra l’altro, non ancora rivoluzionario, ma solo “tendente a”), durante gli scioperi dei braccianti e degli scarriolanti si attivavano all’interno delle masse degli operai autorganizzati attraverso azioni di forza. Ma non è che ci andassero tanto per il sottile, eh? Incendi, distruzioni dei frutteti, sequestri dei padroni e dei loro famigliari, qualcuno lo hanno anche fatto fuori… Quel che conta osservare di quei fenomeni è la dimostrazione di come si fosse sempre pensato che la politica e la forza non possano fare a meno l’una dell’altra. La politica senza la forza è riformismo, un arrabattarsi assolutamente inefficace davanti ai mezzi di cui dispongono i padroni (fino alla cooptazione: abbiamo visto che fine ha fatto Andrea Costa, no?); dall’altra, la forza senza la politica non ha senso. Sarà semplice, ma era un punto di partenza indiscusso, certo, cristallino. Quindi, quando l’Autonomia, nei nuovi linguaggi, lancia il tema dell’uso della forza, non inventa assolutamente niente. Porta avanti un programma (proletario, operaio, chiamatelo come vi pare) che non poteva essere diverso.
Ne conseguiva quindi che le nuove teorie e i nuovi linguaggi erano sempre dentro le lotte, dentro il conflitto, ma anche dentro il territorio. Per esempio, con un compagno prima si parlava di contropotere. Be’, cosa significava “contropotere” e “uso legittimo della forza”? Che in certi quartieri la polizia non entrava perché c’erano dei servizi d’ordine di proletari che semplicemente non glielo permettevano. La “questione del reddito”? Significava che se noi non vogliamo lavorare, se non ci interessa il lavoro ma il reddito e voi borghesi non ce lo date, benissimo, noi lo veniamo a prendere, non c’è problema. Ecco in che senso parlavamo di “uso legittimo della forza”, perché ti serviva sia per campare che per portare avanti i tuoi progetti di rottura. Ovvero per cominciare (ed è stato un nostro tratto distintivo) a praticare fin da subito degli elementi di comunismo. L’esproprio è uno di questi: ti organizzi con i proletari di quartiere, entri al supermercato e fai in modo di uscire senza avere danni. Poi, che fuori ci fosse una copertura armata lo sapevamo soltanto noi e gli sbirri, che non a caso non venivano a rompere i coglioni o al limite, sempre per il principio “tengo famiglia”, arrivavano a cose fatte [godimento e risate in sala]. Ma è comprensibile eh! Ognuno fa il suo mestiere…
Donato
Anche lì, tra l’altro, non c’era un unico modello.
Valerio
Verissimo, ogni territorio aveva il suo. Io me lo ricordo ancora, all’Esselunga di Milano ci siamo divertiti un casino, una roba impressionante… [risate] Comunque, questo giusto per dire che le cose funzionavano perché c’era dietro un’organizzazione che le faceva funzionare e le organizzava. Questo è il senso di “uso legittimo della forza”. Ma capiamoci, mica riguardava solo il pollo da mangiare la sera tu e i tuoi bambini, ‘ste robe retoriche da fine Ottocento non ci interessavano minimamente; ma piuttosto la cultura, il divertimento. Tutto questo costava? Lo si andava a prendere. E quindi si entrava gratis al cinema, gratis al teatro, nei locali, dei concerti non ne parliamo neanche… [qualcuno dal pubblico chiede “L’autobus si pagava?”] No, macché, ma chi pagava l’autobus? Ma figurati! Ma neanche il treno! Dico, per il treno si stampavano i biglietti falsi e si andava fino a Parigi così, ne abbiamo fatti a migliaia…
Donato
C’era un tale quantità di sapere su come recuperare reddito che oggi ha dell’incredibile. Faccio un esempio: il bollo del motorino costava 1505 lire. Tu con la scolorina lo cancellavi, mettevi la targa della macchina e con 1505 lire giravi con il bollo della macchina pagato. Voilà. Oggi questo non è più possibile, ma è ovvio che ci saranno altri saperi che possano permettere situazioni del genere e che dovrete mettere in campo. Non vi nascondo che mi sono spesso domandato: “Ma cazzarola, ma è forse possibile che non ci sia una cultura del sabotaggio attraverso l’online, con l’hackeraggio o che ne so, che in un qualche modo riesce a portare a casa reddito?” O comunque a porsi questo problema. Queste sì sarebbero cose interessanti che la vostra generazione dovrebbe mettere a disposizione, aggiungendo un nuovo capitolo a tutto quello che la nostra aveva a suo tempo escogitato per conquistarsi la possibilità di vivere riducendo il carico di lavoro.
Ah, Valerio e io ci siamo dimenticati di una cosa: con l’Autonomia siamo ben prima della rivoluzione informatica. Cominciava a introdursi, e nonostante già all’epoca qualcuno straparlasse disperato sulla tecnica, noi non la demonizzavamo a priori. Perché? Perché la vedevamo come una partita aperta, dove erano i rapporti di forza che a decidere se la rivoluzione informatica e la ristrutturazione del capitale sarebbero andati a liberare dallo sfruttamento o verso l’accumulazione di profitti. Ma siamo sempre lì! Oggi come allora – non ci stancheremo mai di ripeterlo – sono i rapporti di forza che decidono dove pende questo problema. Oggi certo, ci sono sicuramente molti più strumenti di controllo sociale, su questo non ci sono dubbi, ma bisogna comunque scovare da una qualche parte un anello debole che ti permetta di attraversare a tuo favore le dinamiche che incontri. Ed è precisamente su questo punto che agisce la soggettività, è per questo che la militanza prende la forma del soggetto.
Perché capiamoci, quando noi parliamo di operaio massa o operaio sociale, parliamo di concetti di lotta, altrimenti questi non esistono. L’operaio massa è tale perché pratica un particolare terreno di lotta, altrimenti è soltanto forza lavoro, una merce piegata, sottomessa, brutalizzata. Punto. L’operaio sociale, rispetto all’operaio massa, compie un processo ulteriore: mentre l’operaio massa è ricomposto in fabbrica nella catena o nel reparto, l’operaio sociale devi ricomporlo territorialmente. Ma il discorso di fondo resta il medesimo: se al problema gli diamo una lettura di carattere sociologico, allora l’operaio sociale è una figura indistinta, grosso modo attiva nel terziario, prodotta dalla ristrutturazione; ma questo non è un concetto di lotta! A noi non interessano gli “effetti” della ristrutturazione in quanto tali, a noi interessa intercettare la soggettività capace di costruire percorsi e progetto di rottura di classe. E allora l’operaio sociale, deve darsi strumenti ricompositivi rivolti a un programma di rottura.
Noi, ad esempio, questo passaggio lo risolviamo costruendo i Gruppi sociali territoriali (Gs), che prima venivano ricordati. E sia chiaro, noi mica li abbiamo costruiti a partire da una prospettiva ideologica. Addirittura, come appunto veniva sottolineato da uno di voi al bar prima di iniziare, quella di Gruppo sociale era una sigla usata in parrocchia! E perché la recuperiamo così come la troviamo senza inorridirci? Per il semplice fatto che questa sigla, che già era presente, era diventata un volano delle lotte sui trasporti. A noi questo interessava. Ci interessava uscire dalla città (in questo caso, tra Padova e l’alta padovana) ed entrare nei paesi.
Perché l’altro aspetto dominante nel Veneto è tutta quella ricchezza territoriale che va ben oltre la città universitaria. Dalla bassa e l’alta padovana alla Riviera Berica, tutto il vicentino, il bassanese, il rodigino, Chioggia e tutta la zona di San Donà e Portogruaro… la parte politicamente più promettente era la provincia – e ricollegandomi per inciso a quanto dicevamo prima, immagino che trovassimo la stessa composizione che incontrate voi oggi nel modenese. E così lanciamo una scommessa, dicendoci: “Poiché siamo tutti nati e cresciuti nei paesi, sarà proprio quel tipo di conoscenza e di rapporti diretti che abbiamo tra noi il volano fondamentale per costruire un progetto”. Siamo amici prima di diventare militanti. Questi legami ce li portiamo dietro da sempre e arrivano all’oggi. È dentro a questo contesto che si costruisce tutto il percorso politico, ed è nel suo sviluppo che prende forma il contropotere.
In parole povere, per come noi lo concepivamo, il contropotere era l’insieme dei comportamenti autonomi; dunque elementi che andavano molto oltre a quello che noi rappresentavamo a livello organizzativo. Quando vai a fare un’assemblea in una fabbrica di 500 operai, non fai mica battaglia con loro; la fai con gli altri 490 rispetto ai quali c’è un controllo del sindacato, e i dieci tuoi devono essere determinatissimi a fare altrettanto. Solo così poteva funzionare. Ne conseguiva che il rapporto che avevi con i compagni in fabbrica lo costruivi fuori da lì.
Per esempio, nel libro c’è un’intervista a un compagno carissimo, Gianni. Be’, Gianni entra in fabbrica a quindici anni. A quindici anni era così per tutti, non ci sono percorsi universitari nel libro (me compreso: faccio le superiori e appena finite sono già carne da macello dentro la produzione). Ma oltre a condividere un “curriculum”, si partecipa alle stesse esperienze di vita, specialmente quelle che consideravamo (a ragione) più dense di significato. È su quel terreno – prepolitico più che impolitico – che si cementa l’intesa e la fiducia. In termini politici, l’accumulo di forza dei singoli compagni, compresi quelli costretti a subire le otto ore quotidiane, proviene prima dal paese, si riproduce in fabbrica e infine diventa un elemento di battaglia politica.
Lo stesso meccanismo operava sottotraccia, per esempio, in un’altra importante vicenda che riporto nel libro, dove noi prendiamo una fabbrica piccola, l’Italsthul, di 400 operai, e la sconvolgiamo. Vengono castigati i capi, blocchiamo le linee, viene praticato il sabotaggio alle macchine, si vince la vertenza… ma alla base c’era sempre il contropotere, cioè un modo operaio e di classe di attraversare tutta la complessità della contraddizione.
Con il senno di poi abbiamo scoperto che il contropotere costruito, oltre a fornire la bussola organizzativa, è la risposta a un grosso problema dell’Autonomia, grazie al quale c’è una tenuta così forte nonostante una repressione giudiziaria così pesante. La chiave era sempre questa rete di relazioni interpersonali (anche amicali) che precedeva la politica e impediva che partissero delle “derive individualistiche” – non so se ci siamo intesi. La tenuta poggiava sull’impostazione assunta in anticipo, lo dimostra l’unica eccezione, un operaio della Lanerossi che diventa “ammittente”, ma parliamo appunto di un tizio che non è mai stato militante d’organizzazione come lui stesso afferma: ennesima prova di come i processi giudiziari che abbiamo subito si muovessero a partire da suggestioni, accompagnate da un enorme battage propagandistico-pubblicitario promosso dai media. A distanza di cinquant’anni è diventata palese la fragilità dell’ipotesi dell’accusa, ma all’epoca purtroppo ha funzionato, soprattutto attraverso il carcere preventivo.
Quel che mi interessa ribadire è che la chiave di volta per impedire il “combattentismo” prima e il “pentitismo” poi è stata appunto il contropotere, cioè un accumulo di forze che nasceva dalla quotidianità nei quartieri, nella provincia e nei nostri luoghi di vita. E nel frattempo, questo accumulo di forze ha permesso di fare cose oggi impensabili. Non so se rendo l’idea, si entrava in fabbriche come la Laverda (macchine agricole, 1200 operai) o la Zanon (del presidente dei metalmeccanici vicentini) e spegnevamo le macchine. Voglio dire, adesso sembra incredibile anche a me, ma lo abbiamo fatto! L’ho fatto!
Perché insisto tanto su questi esempi? Io pure detesto il reducismo. Insisto solo per dare un’idea di come ragionassimo. Non è che noi razionalmente ci sedessimo a un tavolino e dicessimo “dai, abbiamo capito tutto quindi ora dobbiamo solo partire ed è fatta”, perché non sai mai come si svilupperà. Nessuno di noi, quando a diciassette-diciotto anni abbiamo incominciato ad affacciarci a questo mondo, poteva sapere cosa ne sarebbe venuto fuori. E tuttavia quel tipo di progetto metteva in moto un’intelligenza collettiva sufficiente a catturare il tuo slancio e a renderti disponibile a osare, a superare condividendo anche le paure. Questa è stata la mia militanza, e immagino anche quella di Valerio. Un’intelligenza collettiva e condivisa che ti ha catturato, un’intelligenza rivoluzionaria e comunista in totale rottura con lo stato di cose presente.
È qui che ce la siamo giocata. E così non ci siamo fatti imprigionare il cervello dagli orizzonti dell’arricchimento personale né da soluzioni individuali, che è l’altro lato della medaglia. Il capitalismo funziona così: “Non vuoi fare l’operaio? Diventa un paròn!” Non c’è via di mezzo! [applausi commossi] La nostra eresia stava tutta lì: noi non vogliamo fare gli operai, e non vogliamo fare i padroni: e quindi pensiamo che l’unica soluzione sia la rivoluzione comunista, punto. Questa è stata la bestemmia che ha sconvolto tutti, in primis il Pci. Figurati cazzo! Questi che vogliono fare la rivoluzione senza lavorare! Così è andata.
Ora, io ho settant’anni ormai. Ma se ne avessi venti o trenta mi porrei le stesse domande: quali sono i meccanismi attivi dentro questa nostra voglia di rottura? Perché siamo qua oggi a parlare degli anni Settanta? Qual è l’elemento che ci diversifica dall’accettazione un’altra condizione di vita? Il cuore della vita militante sta lì. Dopodiché in questo vanno aggiunte dinamiche collettive, e non ho dubbi che i termini oggi siano molto diversi da cinquant’anni fa; ma resto convinto che gli elementi di fondo restano gli stessi, altrimenti la storia non avrebbe senso. O si risolve il nodo del salto di grado dal rifiuto individuale del presente all’insubordinazione collettiva, o c’è poco da fare – ma questo, scusatemi, è un problema vostro. Per cui al limite quello che possiamo venire a dirvi è: “Per noi ha funzionato questo” (o “sono stati questi gli elementi costituenti”, per usare un linguaggio dell’oggi), dopodiché è un problema vostro e di ogni nuova generazione
Lo so che è oggi molto più dura, ma voglio dire, anche noi siamo partiti spaccando con i gruppi e uscendo. La storia di Potere Operaio nel Veneto è solo a Padova e Marghera; già a Vicenza non aveva quella rilevanza. Nel nostro territorio era egemone Lotta Continua, con quadri e avanguardie operaie inseriti soprattutto nelle fabbriche di Schio. Quindi, tutto il percorso viene messo in moto superando quel tipo di progettualità, quando capiamo che nel contrastare la ristrutturazione in corso tra il ’74 e il ’75 la strumentazione dei gruppi era insufficiente. E così usciamo, amen. Ma proprio qui sta la premessa cruciale per l’uso della forza.
Anche prima c’erano state esperienze che vedevano un servizio d’ordine armato. La differenza fondamentale della nuova fase stava nell’esplicita volontà di costruire un’organizzazione politico-militare. Attenzione: armata, non clandestina! Se io non ho mai fatto un giorno di clandestinità, non è stato un caso. È andata così perché siamo sempre partiti dall’idea che ogni singolo compagno dei Collettivi politici veneti che facesse intervento politico in fabbrica, in mensa, in facoltà, nel quartiere dovesse anche “andar sotto”, come dicevamo allora. Era precisamente su questo insieme – intervento nella composizione e conflitto – che modulavamo le azioni, comprese le azioni armate.
La rilevanza di un’azione non era mai concepita a partire dalla sua cruenza; l’importante era che crescesse un “quadro collettivo”, una rete di compagni che fosse coordinata e capace di districarsi in un sociale sempre più complesso. Non abbiamo mai pensato ad “alzare il tiro” o di attaccare “al cuore dello Stato”, di discorsi del genere non ce ne poteva fregare di meno. Per noi era più importante che il capo che rompeva i coglioni in fabbrica potesse trovare gente capace di sfasciargli la macchina e farla franca, poiché era proprio questa rete a dimostrare direttamente i suoi frutti positivi quando andavi al lavoro il giorno dopo. Oh, ci sono compagni a cui per vent’anni (vent’anni!), dopo le loro vicende nell’Autonomia, non hanno più rotto i coglioni in fabbrica finché non sono andati in pensione. Ma vi pare poco? Questa era la forza del contropotere, cioè della forza immersa, intrecciata ai tuoi luoghi di vita. La clandestinità era l’esatto contrario.
Valerio
Il discorso di Donato, sull’applicazione nel territorio dell’uso legittimo della violenza, mi pare interessantissimo anche perché si notano le enormi differenze tra i cicli produttivi nell’alto Veneto e nell’Emilia; ma per quanto concerne lo stile di militanza, le nostre esperienze sono identiche. Là si applicava su un contesto di fabbrica, cosa che non accadeva a Bologna – e dico Bologna perché in Romagna non c’era niente, c’era un centro importante di Potere Operaio a Ferrara (con Guido Bianchini, mica cazzi) e a Modena, ma era un’altra fase. C’era una composizione sociale completamente diversa, con grosse fabbriche di “intoccabili” e piccole officine a dire poco “sonnolente”. Però quello che succedeva da voi veneti in fabbrica succedeva anche qui, e sempre in rapporto a quello che i “testi sacri” ci indicano come operaio sociale. Cambiava la posizione nel ciclo produttivo: i nuovi mestieri, l’informatica che avanza, la disoccupazione rivendicata in senso critico, eccetera.
L’Autonomia Operaia bolognese lavorava su questo tessuto esattamente come la compagine veneta lavorava su chi individuava come loro referente. L’idea di partire non da scelte ideologiche, ma da quello che il tuo territorio ti pone davanti, era perfettamente condivisa. E c’erano anche analogie nelle pratiche, come appunto il controllo del quartiere. Una cosa giustissima che sottolineava Donato prima è che il rapporto militante tra “avanguardie”, diciamo così, e base sociale non si forma sul luogo di lavoro (la fabbrica da loro, l’università da noi), ma si crea fuori, ed è prima un rapporto di amicizia e poi diventa di militanza. La seria attenzione che dedicavamo ai nuovi linguaggi deriva anche da questo confronto con il tuo presente. Sapete no, a Bologna in quegli anni c’era di tutto: gli indiani metropolitani, i buddisti…
Donato
Oddio, gli indiani mi sarebbero stati anche simpatici, i buddisti non so eh… [ridono]
Valerio
Guarda, c’era veramente di tutto. Per esempio, c’erano anche diversi gruppi di femministe, tra cui quelle che provenivano da Potere Operaio (quelle del salario al lavoro domestico, per capirci) con cui avevamo un rapporto storico e che finiranno tutte nell’Autonomia, tant’è vero che molte di loro tra il ‘77 e il ’79 finiranno arrestate per questioni di lotta armata (il gruppo del Self Help ha avuto due arresti e una latitante poiché associato dal Pm a noi di Rosso, per intenderci). Insomma, si lavorava su questa composizione perché questa c’era. E non è un caso che, sulla questione della forza, si parlasse di “illegalità di massa”. Ricorderete quella grande pagina di «Rosso», no? Ecco, riassunta in due pennellate l’illegalità di massa era esattamente quello: l’uso legittimo e proporzionato della forza in funzione del conseguimento di obiettivi pratici.
Donato
Che poi è sempre una definizione di parte… perché secondo l’altra eravamo solo delinquenti, eh. Sono sempre, anche quelli, rapporti di forza.
Valerio
Esattamente. Anche su quel piano c’era una risposta dello Stato, ma nulla toglie che ci fosse un’enorme differenza tra quanto facevamo noi e le altre organizzazioni. In primo luogo, ci distanziavamo risolutamente dal modello delle Brigate Rosse e degli altri gruppi comunisti combattenti che si autoriferivano come “partito combattente”, ovvero centrati sull’idea del “nucleo comunista armato” che avrebbe attirato attorno a sé la classe operaia per poi muovere una rivoluzione diretta dal nucleo stesso. Niente di più diverso dall’Autonomia. E infatti anche noi a Bologna, così come i compagni veneti, non abbiamo mai praticato la clandestinità – se non, forse, per problemi strettamente emergenziali, come quando venivi individuato e partivano i mandati di cattura e dovevi sparire.
Donato
Però quella – lo dico perché magari ai ragazzi non è chiaro – quella non è clandestinità, è latitanza. Anche io mi sono fatto i miei anni di latitanza, ma c’eri costretto e amen.
Valerio
E infatti si lavorava anche quando si era via…
Donato
E come no! Appunto perché era solo latitanza, non clandestinità.
Valerio
Ricordo anche che a un certo punto, con una formuletta buffa e che a me faceva molto ridere, a Bologna si parlasse di “militante complessivo”. Cosa s’intendeva? Quello che diceva Donato prima: che stavi dentro alla classe, dentro a quella composizione che avevi davanti per dargli un vettore organizzativo. Detto altrimenti, significava che oltre agli scontri facevi conricerca, stando attento a qualsiasi cosa si muovesse per comprenderla dall’interno così da orientare una sua eventuale effervescenza – o magari capivi che, nonostante le apparenze iniziali, quei soggetti non ti interessavano e mandavi tutto a fanculo, ma il punto è lo stesso. Insomma, una ricerca continua del conflitto. Laddove c’era una contraddizione, tu entravi e cercavi di capire come riuscire cogliere quell’esuberanza e trarci una rivolta.
L’uso della forza era proporzionato e finalizzato solo ed esclusivamente a questo. “Una struttura di servizio alla classe”, come riassumeva qualcuno, con cui andare dove la classe, da sola, non riusciva. Ripeto, ritorniamo al Galletto rosso e alle pratiche di sempre: il padrone non cede alle rivendicazioni? Be’ cederà, e cede eccome! Non voglio dilungarmi, ci siamo capiti. Se queste erano le premesse, ne deriva che tu scomparivi dal tuo tessuto sociale solo se venivi individuato dalla repressione; ma questo era interpretato come un incidente sul lavoro, a differenza di altri gruppi che andavano in clandestinità senza essere mai ricercati. Pensate a come le Brigate Rosse distinguevano i loro quadri tra “irregolari”, cioè il giro largo di simpatizzanti e collaboratori, e “regolari”, cioè brigatisti veri e propri che, pur non essendo ricercati, decidono di costruire il partito armato della rivoluzione, e fanno solo quello.
La nostra e la loro erano quindi due concezioni della lotta armata completamente diverse, e certe volte antagoniste. Tocca ammettere però che, soprattutto dopo Moro, molte di queste esperienze si sono incrociate. Per dinamiche differenti da momento a momento, da città a città, da soggetto a soggetto; non è facile riassumerlo in pochi cenni. Io posso parlare solo di Bologna. Sono stato in Potere Operaio dalla nascita nel ’69 al suo scioglimento nel ’73, e poi nell’Autonomia dal ’73 fino al ’79 con il processo “7 aprile”; quindi queste connessioni le conosco bene e posso dire che sì, qualcuno le ha tentate, ma non sono mai riuscite.
Bologna poi ha avuto un’altra caratteristica, in virtù di quel sentimento amicale, di amore fraterno di cui parlavamo prima e che da noi ha avuto un significato politico enorme. Eravamo tutti amici, eravamo davvero compagni, si viveva giorno e notte insieme. Si faceva intervento in continuazione, ma si dormivano tre-quattro ore per notte soprattutto perché si era sempre per strada. C’erano le feste, i casini, i cortei notturni, le cose fatte alla cazzo tra amici… E questa fratellanza ce la siamo ritrovata anche in tribunale. Quando partì un grosso processo, il cosiddetto “Prima Linea bis” (Prima Linea non c’entrava un cazzo, si chiamava così solo perché alcuni infami milanesi e torinesi avevano coinvolto alcuni dei nostri e così sono stati tirati dentro; da noi c’erano le Fcc, che erano un’altra roba, ma non divaghiamo), vengono presi in 23 tra compagni e compagne (sottoscritto compreso). A Bologna in quel processo e sul suo seguito non abbiamo avuto nessun pentito. Mai. Perché? Forse sbaglierò, ma sono convinto che questa tenuta venisse anche dalla fratellanza profonda tra compagni, da quell’impossibilità spontanea a fare del male ai tuoi.
Faccio un rapido esempio. Quando mi hanno arrestato erano le tre di notte. Mi hanno portato nella caserma di via dei Bersaglieri, perché il nucleo operativo antiterrorismo era lì. Ci ho trovato sì i carabinieri, ma soprattutto il Pm lì che mi aspettava. Mi fece vedere il mandato di cattura, con l’associativo per banda armata, ma anche altri 32 reati specifici, con robe assurde… A quel punto mi ha messo davanti a un’alternativa: “Trent’anni e passa di galera, oppure decidi per un percorso di collaborazione che comincia stanotte. Tu inizia a parlare e se continui stasera torni a casa”. Io l’ho mandato letteralmente affanculo. Si è incazzato, ha detto che quello non era linguaggio consono a un magistrato, e mi sono fatto la galera.
Ma potevo io, quando mi chiedeva i nomi (e ci ha provato, il merda, “conosci questo, conosci quest’altro?”), potevo denunciare mio fratello, mia sorella? E badate che qui la politica e l’eroismo non c’entrano un cazzo, c’entra il voler bene alle persone con cui hai condiviso gioie e pericoli. Darsi alla lotta armata e trovarsi in scontri a fuoco dove rischi di morire da un momento all’altro non sono bazzecole. Certo, qualcuno trent’anni prima di noi aveva passato le stesse cose, o almeno mio padre, che è stato partigiano, me le raccontava così: il succo era lo stesso. In quegli anni è capitato più di una delazione, ma sempre da altre parti, in organizzazioni dove le cose andavano a modo loro. Che devo dire, siamo stati fortunati?
Donato
Eh no, non è mica questione di fortuna!
Valerio
Non lo è perché per noi militanza non è soltanto lo stare fianco a fianco in azione, ma esserci anche fuori. Essere amici, affrontare i problemi, compresi quelli personali, che ti tieni nella testa. Nonostante l’attenzione e la disciplina che ti dai, non puoi essere sempre sicuro di te. E allora, se hai dei compagni veri ti volti e chiedi conferme, magari a una tua compagna che è anche femminista. [Rivolto a Donato] Ma quante notti abbiamo passato a parlare di dubbi, di problemi, del rapporto uomo-donna o dei rapporti di potere nei gruppi? Il dubbio ci ha sempre accompagnato e l’unico modo per affrontarlo seriamente era discuterne con i tuoi, con quella gente con cui poi condividevi anche le lotte. Non siamo mai stati supereroi, abbiamo sempre avuto le nostre debolezze e le nostre fragilità; poi certo, in azione era tutta un’altra cosa. Lì il cervello funziona in un’altra maniera, ci sei tu e ci sono loro, “classe contro classe, forza contro forza”, punto. Con il nemico il rapporto è tecnico, essenzialmente tecnico. Ma chi tu sei veramente lo capisci e lo discuti fuori.
Donato
Giustissimo, condivido tutto. Torno però un secondo su una questione importante, visto che magari è passata in sordina. Noi non abbiamo mai concepito l’omicidio politico, bisogna dirlo chiaro e tondo. È anche questo che ha permesso una tenuta politica. Ci sono stati anche tra di noi casi di tortura, ma è altrettanto ovvio che quando arriva, in situazioni come la nostra si innestano dinamiche completamente diverse nel momento della repressione, e per vari motivi. Primo, perché sei una figura pubblica, e quindi hai immediatamente chi fuori ti guarda le spalle. Vi faccio un esempio molto terra terra: io sono stato arrestato da latitante, dopo un anno e mezzo, per cui potevano spaccarmi. Volevano sapere cosa aprissero le chiavi che avevo in tasca visto che oltre al sottoscritto c’erano un’altra decina di compagni latitanti. Per cui io subito ho pensato: “Ecco, ora può mettersi male”. E invece perché non è successo? Perché non appena mi hanno arrestato mi trovano un documento che avevo con me, un documento di un compagno che avevo falsificato talmente bene che non ci credevano. I carabinieri vanno quindi da lui e immediatamente si avvia una catena di Sant’Antonio, una rete di protezione fuori dalla cella che mi salva da ulteriori problemi oltre all’arresto. Tutto questo perché eravamo figure pubbliche, sostenute fuori dal movimento.
L’altro fattore, appunto, è che non abbiamo mai concepito l’omicidio premeditato come strumento di crescita del contropotere. Io non so se ci saremmo arrivati, perché parliamo di un periodo storico molto preciso, e chissà cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente; ma nella nostra esperienza non è mai accaduto che quest’ipotesi potesse essere discussa. Poi l’incidente poteva sempre capitare, come quando vai a fare una rapina in banca e finisce male; ma non si è mai preso in considerazione l’omicidio intenzionale, che è tutt’altra faccenda. La tenuta dei compagni sta anche in queste coordinate.
Avete visto, Valerio finisce in un’inchiesta pilotata per reprimere delle aree autonome e gli arriva una botta di accuse di attentati che neanche sai dove girarti. È successo anche a me, quando avviene la tragedia a Thiene in risposta agli arresti del “7 aprile”, dove muoiono Angelo Dal Santo, Antonietta Berna e Alberto Graziani. Io vengo immediatamente coinvolto, spiccano il mandato di cattura la sera stessa e mi tirano addosso tutto quello che è stato rivendicato nel Veneto. Quindi, i mandati di cattura su cosa sono costruiti? Sono costruiti sulla radicalità del conflitto, e usano questo genere di suggestione caricando il singolo accusato di tutto quello che è riconducibile al gruppo, e solo a questo punto imbastiscono l’indagine. L’indagine è costruita sulla pesantezza delle accuse: più il mandato è pesante e più ti cercano, all’estero con l’Interpol o con Dalla Chiesa che rastrella i paesi e via discorrendo. Quindi la tenuta dell’Autonomia deriva in parte dalla scelta delle pratiche e in parte da un lato dal suo radicamento, che permise che fin dalla sera stessa degli arresti ci fosse chi andava in piazza a rivendicare la “libertà per i comunisti”…
Valerio
E anche a Bologna funzionava così, il giorno dopo c’era già un corteo.
Donato
E infatti di quello si parlava nel palazzetto al convegno del ’77, quello in cui le Br si dicono: “Toh, quanto consenso che abbiamo!” Era una battaglia politica con la “destra” del movimento sull’uso della forza. Mica volevamo entrare nelle Br, pensiero che non mi ha mai sfiorato neanche per sbaglio: rivendicare Curcio e la detenzione politica diventava un elemento di battaglia politica. Questo per dire che l’estensione della solidarietà per i detenuti era centrata su quello che sarebbe avvenuto fuori dal carcere una volta che ci finivi tu.
Poi, vorrei parlare di un altro elemento e parto anche qui da un esempio concreto. Primavera del ’78, siamo in pieno sequestro Moro. A Milano all’Alfa il sindacato contratta con il direttore di stabilimento i famosi “sabati lavorativi”. Cioè firma un accordo dove si stabilisce che, per come è organizzata, la fabbrica produce poco e si possono fare venti Giuliette di più al giorno. Ripeto, è il sindacato che gestisce ‘sta porcata e che si mette a fare il controllore della produzione, e parallelamente è su queste basi che il Pci si gioca l’ingresso nell’area di governo. Tutto il nostro disprezzo per il Pci parte dal governo dei processi produttivi, mica dalle seghe mentali dell’ortodossia ideologica (detto per inciso, questo straordinario non pagato rientra in quella “teoria dei sacrifici” di Lama, giusto per dare un po’ di concretezza ad altri discorsi che avrete sentito parlare in una maniera fumosa). I compagni vanno per impedire lo straordinario, c’è una reazione del servizio d’ordine Cgil e piciista, posto a difesa della produttività, che li carica assieme alle forze dell’ordine.
Tutto questo avviene in contemporanea al sequestro Moro. Quindi, tu da un lato vedi l’Autonomia che vuole scardinare la giornata lavorativa sociale, perché individua lì il nocciolo del problema e della rigidità di governo che informa le relazioni sociali; e dall’altra parte chi che crede che il problema sia raggiungere un fantomatico “cuore dello Stato”.
Valerio
Esatto, perfetto. L’hai detta benissimo.
Donato
Questa è la contraddizione che si gioca tra noi e i “combattenti”. L’elemento che volevamo rompere era la rigidità delle otto ore. Ed è così ancora oggi! Sono passati cinquant’anni e non soltanto non riusciamo a trovare strumenti per spaccare su quel punto, ma anzi le ore stanno aumentando! Quello che a Valerio e me sembra incomprensibile, oggi, è che sia sparito il tema della riduzione dell’orario di lavoro, che per noi era centralissimo e su cui ci siamo giocati tutto. Quando parlavamo di “lavorare tutti per lavorare meno” ci credevamo! Eravamo convinti che quella fosse la strada della rottura, la strada che ci avrebbe permesso di uscire da quella crisi del capitale. Nel discutere sulla presenza o no di un processo rivoluzionario in quelle esperienze, è a questo punto che dobbiamo guardare, perché era per noi il modo per introdurre nella crisi di capitale la soluzione verso la rivoluzione comunista. Così è andata.
E io sono ancora convinto, dati alla mano, che nell’insistere sull’orario e sulla frattura della giornata lavorativa ci avessimo visto giusto. Proprio perché è esattamente quello che si è realizzato: non come lo volevamo – ovvero un controllo della crisi attraverso appunto il contropotere, attraverso cioè un accumulo di forze che ti permettesse di usare la flessibilità nella giornata lavorativa a tuo vantaggio – ma ribaltata nella sconfitta – cioè il precariato. Tutti gli aspetti peggiori della condizione lavorativa di oggi sono il risultato di quella sconfitta.
Se io dovessi suggerire a chi oggi fa militanza una chiave di lettura, partirei chiedendogli: ma tu come hai risolto, anche singolarmente, questa contraddizione nel lavoro vivo delle otto ore e della rigidità? Come pensi di affrontarla?
Parte II
Pubblichiamo la seconda e ultima parte dell’incontro con Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra – rispettivamente, negli anni Settanta, militanti autonomi di Rosso (a Bologna) e dei Collettivi politici veneti per il potere operaio (a Vicenza) – avvenuto a Modena il 13 maggio 2023. La discussione, davvero ricca, ha avuto il pregio di evitare il rischio dell’aneddotica fine a se stessa, riuscendo così a sottolineare qualche punto di metodo su cui forse conviene ragionare. Eccoli di seguito.
Radicamento
I militanti autonomi degli anni Settanta sono stati chiari nel restituire l’idea di radicamento nella composizione sociale. Un radicamento tale che porterebbe ad annullare (parzialmente ma in una misura importante) il confine tra militanti e soggetti sociali. È come se dicessero: “Ho potuto organizzare il rifiuto del lavoro diffuso nella composizione sociale perché io stesso ero espressione di quella composizione e di quel rifiuto”. Posto che oggi non si esprimono forme diffuse e forti di rifiuto del lavoro, ancorché latenti (si veda il fenomeno “grandi dimissioni”), perché si stenta a cogliere, se c’è, quantomeno una qualche istanza della composizione a cui noi stessi apparteniamo? Cosa stiamo sbagliando? Forse che quel confine tra militanti e composizione è eccessivamente marcato? Nonostante la conoscenza teorica delle trasformazioni dei processi produttivi, nonostante gli sforzi per pensare le trasformazioni della soggettività, si fatica a trovare anche solo una piccola soluzione. Oppure la composizione è talmente frammentata, scomposta in microbolle autoreferenziali, da rendere impossibile un qualsiasi radicamento profondo?
Felicità
Questo radicamento, ci dicono Valerio e Donato, poggiava non solo su un diffuso rifiuto del lavoro salariato, ma pure su un’idea di felicità. Forse una questione da non sottovalutare. Quale può essere per noi oggi un’idea di felicità concreta, comprensibile a livello di massa, attorno a cui costruire delle forme organizzative? Questa istanza di felicità è molto diversa dalle istanze del bisogno (un esempio su tutti, la casa): anche all’epoca c’erano forme di soddisfacimento illegale dei bisogni, ma erano strumentali a quell’istanza di felicità e di rifiuto. Oggi il rapporto pare invertito.
Organizzazione
Obiettivo e prassi militante degli autonomi non è stata la ricerca di “oppressi”, ma di una soggettività capace di dare ricomposizione e progetto. Il tipo di militanza e il modello di organizzazione presero la forma di quel soggetto: quindi non ideologiche, non identitarie. L’operaio sociale, “concetto di lotta”, lo dovevi ricomporre territorialmente, la sua forza si riproduceva nel territorio e si riversava nella fabbrica (dalla ronda degli operai-massa nei reparti della fabbrica fordista alla ronda territoriale dell’operaio sociale nella fabbrica diffusa: ogni fabbrica un “reparto” della fabbrica sociale). I modelli organizzativi sono fatti per cambiare – ci dicono gli autonomi degli anni Settanta – vanno articolati su ciò che è efficace, si strutturano per catturare tutta la potenzialità del conflitto e tutta l’intelligenza collettiva espressa dalla composizione-territorio, per metterle in moto. Politica e forza – o ancora meglio, progetto politico e uso della forza – vanno articolate insieme. La politica senza la forza diventa riformismo, la forza senza politica, ribellismo adolescenziale.
Ambivalenza
Un passaggio importante della discussione ha toccato l’ambivalenza di quella soggettività militante. Gli autonomi, osservano Valerio e Donato, erano per lo più giovani scolarizzati, istruiti, la maggior parte proveniente dagli Istituti Tecnici, formati come periti industriali, da mettere al lavoro come quadri intermedi del comando in fabbrica. In quel frangente di tempo, tale soggettività rifiuta il proprio destino assegnato: quei giovani non vogliono di certo essere operai come i propri genitori, ma neanche “i padroni”, coloro che li sfruttano. Rifiutano il loro destino di tecnici del processo produttivo, quadri di comando sulla forza-lavoro per il padrone, e questo rifiuto conduce la soggettività a essere un quadro politico contro il padrone, per il comando della classe operaia. Né operai né padroni: la “terza via” gli autonomi la trovano nel voler fare la rivoluzione comunista.
Amicizia politica
In sala, durante la discussione, ha risuonato molto la questione dell’amicizia e della fratellanza degli autonomi. “Siamo amici prima di diventare militanti”: amici del paese, del quartiere, della scuola. E si rimane amici anche da militanti, anzi la militanza rafforza questa amicizia fino a farla diventare fratellanza. La lealtà, l’affetto, il “pararsi il culo” a vicenda, lo stare insieme sono parte della vita militante. Il senso da dare alla parola “compagno” si arricchisce e approfondisce. Per questo, dicono Valerio e Donato, fenomeni come il pentitismo e gli infami non hanno lacerato le loro organizzazioni come successo invece per altre esperienze politiche. “Come si fa a tradire un proprio fratello?”, si chiedono. “I nostri compagni”: chi ci sta spalla a spalla, affrontando insieme pericoli e gioia, disciplina e conquiste del progetto politico. Facciamo fatica a pensare una militanza fredda, dove ci si incontra solo per la riunione, l’assemblea, l’azione, l’iniziativa, e poi ognuno per la sua strada, come a marcare un cartellino – un’esperienza poverissima. Questo tipo di rapporto militante ha diversi vantaggi, ma anche molti limiti pratici. Come tenere insieme l’essere amici, fratelli e sorelle, con le necessità del funzionamento, dell’organizzazione, del progetto politico?
Sui limiti dell’esperienza dell’Autonomia
Infine occorrerebbe approfondire i limiti di quell’esperienza. A sottolineare come quel confine tra militanti e composizione sociale fosse sfumato, la parabola dell’Autonomia rispecchia le trasformazioni complessive a cui non si è riusciti a dare una risposta organizzativa. Quell’idea di felicità che alimentava le lotte è stata disastrosamente fagocitata dal mercato, l’ambivalenza del rifiuto del proprio destino (“né operai né padroni”) ha trovato esito, negli anni Ottanta, nella diffusione di forme di lavoro autonomo (con tutto il loro portato di autosfruttamento), e la politica si è individualizzata – cercando al massimo di essere dei buoni “padroncini”, di resistere individualmente alla soggettivazione che inevitabilmente quella forma di vita e di lavoro comportano. È da ragionare il nodo irrisolto sul non essere riusciti a chiudere il passaggio organizzativo sul “nazionale” prima dell’”appuntamento con la storia”, in questo caso indicato come il rapimento Moro. Radicamento, ricchezza e forza a livello territoriale dell’Autonomia non hanno retto allo scarto di fase politica e di termini dello scontro complessivi, di fatto dando come alternative ai compagni: chi voleva combattere, con o come le BR; chi non riesce a starci dentro, riflusso nel privato e nell’edonismo, o eroina e autodistruzione. Sta qui forse il buco nero degli anni Ottanta.
Buona lettura.
Domanda
All’inizio avete dato questa definizione di militanza come «una corsa velocissima di una generazione verso la felicità» vissuta come una costruzione quotidiana, «lontana dalla costrizione a cui pensavano di sottometterci». Mi chiedo quindi: quanto era articolata la consapevolezza di cosa fosse quella costrizione? E come nasce la sensazione di essere destinati a un ruolo sociale prescritto proprio nel momento in cui finalmente ti sembra di poterti riappropriare della vita? Considerando questi aspetti della vita militante, l’uscita dalla famiglia (una famiglia che, non solo nel Veneto ma anche in Emilia ha un certo peso), ha in qualche modo inciso sulla messa in comune del rischio, sia politico che biografico?
Durante il vostro discorso, infatti, mi è tornato in mente una cosa che disse un compagno alcuni anni a un militante della vostra generazione: «Voi avete ucciso il padre» – l’Autonomia come i “figli di nessuno” – «ma a noi cosa serve uccidere il padre se il padre è depresso?» Il punto diventa capire che peso ha avuto lo scarto generazionale degli anni Ottanta: dopotutto, tanti di noi sono cresciuti solo come figli della crisi. Cambia dal territorio e nel tempo, ma l’università comunque riproduce forza lavoro e nel farlo tende a produrre una soggettività pronta ad accettare quello che c’è fuori; di modo che, alla fin della fiera, l’effetto smobilitante del “cavarsela da soli” rimane. E tuttavia mi pare che ci sia una differenza importante tra la composizione giovanile di oggi e la vostra: oggi mi sembra che, per molti giovani, ci sia l’impressione che comunque un’alternativa in qualche modo ce l’avrai. Così che non inizi da prima a mettere in discussione dove andrai, proprio perché pensi che comunque la svolti e te la risolvi.
La seconda differenza su cui bisognerebbe interrogarsi riguarda i territori in questione. C’è ancora un’etica del lavoro imposta su di essi, o c’è un’etica dell’io? Infatti, grazie alla vostra profonda conoscenza dei territori, eravate riusciti a problematizzare delle dinamiche che esploderanno successivamente con i distretti, in primo luogo la messa a valore dei saperi taciti; tuttavia, la rivoluzione digitale che è avvenuta in mezzo a voi e noi, ha portato a un cambiamento sia nella qualità del lavoro, sia nella soggettività. Motivo per cui noi siamo cresciuti da una parte con l’autoimprenditoria dei social, e dall’altra con la sfiga, la sconfitta di questa sinistra, che ha perso qualunque spinta verso il riscatto.
Tengo a sottolineare che questo punto si connette direttamente a quanto dicevo prima sulla condivisione del rischio. Avete infatti parlato di militanza complessiva (direi anche esistenziale), cioè un rigetto della scissione tra “adesso entro a lavoro”, “adesso sono all’università” e “adesso vado a fare militanza”. Se le cose stanno così, quanto pensate che sia stato rilevante e abbia ricoperto un peso il fatto che vi siate incontrati prima di entrare nella dimensione lavorativa, che nel 2023 è sempre più individualizzante e competitiva? Quanto pensate abbia influito sull’originalità della scommessa autonoma il vostro essere amici prima – amici contro, per dirla con la bella definizione di Tronti – e compagni poi? Mi pare di capire che si creasse un legame di fiducia nel quale il dubbio viene risolto insieme; nel quale ogni bivio che si presenta individualmente lo risolvi collettivamente; e allo stesso tempo l’individuo esiste, non essendo appunto una dimensione di bassa, dove siete “omologati” e scemi (che magari è quello che abbiamo conosciuto noi nelle organizzazioni politiche, con quell’identitarismo in cui viene a mancare un’interpretazione e un ragionamento personale per salvare l’etichetta).
Valerio
Per quanto riguarda quest’ultima domanda, direi ti sei risposta da sola! Io non avrei niente da aggiungere, tantomeno da insegnare. L’hai analizzata perfettamente. Ma ora, oltre alle analisi, servono soluzioni organizzative, che nessuno di noi ha, che concorrano nella direzione – e scopro l’acqua calda – del conflitto e della rottura rivoluzionaria. In parole povere: all’interno di un progetto di questo genere, come possiamo riprodurre i nostri comportamenti sovversivi? Le invenzioni da fare sono quelle ormai. La nostra generazione fece quello che abbiamo raccontato; oggi la situazione è diversa, ma hai capito perfettamente qual è la strada, e non è mica poco.
Domanda
Mi interessa chiedere a Donato un approfondimento sulla cifra organizzativa dell’Autonomia veneta. Abbiamo parlato dei Gruppi sociali e del rapporto diretto con il territorio, ma vorrei sapere più nel dettaglio come fosse strutturato. Mentre da Guizzo mi sarebbe piaciuto sentire qualcosa di più sul rapporto dell’Autonomia con il Pci. Sono tutte domande che partono dai problemi che abbiamo noi oggi, ovvero la sfida dell’organizzazione e la questione del nemico, di chi comanda, dove però questo veniva visto come “il partito della classe operaia”, “del popolo”, “della Resistenza”. In chiusura, farei una domanda a entrambi: nel vostro percorso militante avete avuto ispirazione o richiami ad altre esperienze estere? E infine, quali sono stati i limiti dell’Autonomia, che ne hanno fatto, come qualcuno sostiene, «una magnifica rivoluzione fallita»?
Domanda
Voi avete parlato delle vostre esperienze, ma volevo chiedervi qualche consiglio per la mia situazione. Vado ancora alle superiori, ho diciassette anni, ma vedo una generazione rassegnata. Magari qualcuno tra noi capisce che la scuola è lo specchio del lavoro, ma comunque si ripete che attivarsi è inutile e che “tanto non serve a niente”. A volte mi pare di vedere un mucchio di marionette. Vi chiedevo quindi qualche consiglio su come smuovere i nostri coetanei, che a volte sembrano non voler vedere il loro effettivo valore, il loro effettivo potenziale.
Donato
Be’, tu sei già la negazione di questa rassegnazione! Il fatto che tu sia qui a dircelo dimostra e testimonia che quel tipo di controllo non funziona. Dopodiché, consigli da noi non fartene dare, non ti conviene! [Risate in sala] Però ripeto, sei tu la contraddizione, sei tu a manifestarla anche “contro” i tuoi compagni di classe. E non pensare che sia così solo per il fatto che adesso sei alle superiori; sarà così fintanto che campi, perché appunto si tratta di rompere un destino già scritto. La scommessa è sempre questa, ora come ieri. Noi mica sapevamo cosa sarebbe successo, ma era chiaro che l’alternativa è la disciplina lavorista. Detto questo, parti da te in quanto incarnazione della contraddizione, cioè come coagulo di tensioni che si estendono anche su altre persone. Perché vedi, nonostante le sirene identitarie dell’attivismo, può anche essere fuorviante in negativo il fatto di sentirsi mosche bianche (o rosse), perché non è così. Sia perché ci sono forze e tensioni in te che riguardano anche “gli altri”; sia perché ci sono accelerazioni nella storia che non ti spieghi razionalmente. Magari tra sei mesi in classe da te il clima è cambiato completamente; ma per verificare che è cambiato, tu devi conservare quel tipo di soggettività che dimostri adesso, non so se mi spiego.
Domanda
Vorrei fare due puntualizzazioni e una domanda. Intanto, anche per dialogare con quello che diceva prima la compagna delle scuole, i periodi storici in cui non succede un cazzo sono molto più lunghi di quelli in cui succedono delle cose. Questo conviene sempre tenerlo a mente. Certo, i racconti di Valerio e di Donato ci fanno accapponare la pelle, ma non dobbiamo mai dimenticarci che prima degli anni Sessanta e Settanta ci sono stati gli anni Cinquanta [Valerio incalza: «E anche tutta la prima metà degli anni Sessanta è stata un disastro»], dove diciamo, l’opinione media dei militanti era “la classe operaia è completamente integrata”, “qua non succederà mai niente”, “coesione nazionalpopolare”, “è impossibile pensare alla rivoluzione in Occidente” e così via. Probabilmente il nostro periodo è più simile a questo che a ciò che ci hanno raccontato Guizzo e Donato. Eppure oggi vediamo sempre nuovi militanti, e le circostanze storiche in cui sono possibili le lotte di massa, gli strappi, le rotture possono sempre riproporsi. Quindi, secondo me quello che bisognerebbe trattenere dal loro racconto sono delle questioni di metodo, cioè l’approccio con cui un militante deve osservare il mondo.
La prima cosa è, come diceva Valerio, nasare, fiutare dove siano possibili i conflitti. Il militante interviene in quel punto, organizzandoli e intensificandoli. La seconda cosa da fare è porre di nuovo una domanda per me fondamentale, che rimane irrisolta: chi sono i soggetti di questo conflitto? Non lo sappiamo ancora. Loro ci hanno consegnato le figure dell’operaio massa, prima ancora dell’operaio professionale e poi dell’operaio sociale; poi, tra gli anni Novanta e Duemila si è scommesso sui lavoratori cognitivi e i precari, ma questi ultimi esperimenti non hanno portato a nulla (se non piccole fiammate, ed è già un parolone). Resta comunque una domanda intorno a cui dobbiamo ragionare. Se ci avete fatto caso, Donato e Guizzo ci hanno parlato a lungo di come fosse organizzata la produzione e a partire da questo si sforzavano di individuare lì dentro i possibili soggetti, soprattutto perché loro stessi erano parte, carne viva, di quella produzione. Credo che dei passi avanti, rispetto alla comprensione delle trasformazioni del lavoro, li dobbiamo ancora fare, e quindi si debba porre all’ordine del giorno l’approfondimento della ricerca in quella direzione. L’altra puntualizzazione di metodo, secondo me molto preziosa (che dal racconto di Donato non emergeva direttamente, ma dal libro sì), è la capacità mimetica delle organizzazioni rivoluzionarie. I gruppi organizzativi li avevate dentro le parrocchie…
Donato
Non è propriamente così, ma è comunque quello il punto. Il nocciolo della questione è un apparente paradosso: il massimo di “radicalità notturna” avveniva dentro il massimo di esposizione pubblica. Sembra una contraddizione, e invece è un elemento fondamentale. Per alcuni anni, in uno dei territori più ricchi d’Italia, abbiamo imbastito un terreno di piena offensiva rivoluzionaria – per un periodo di tempo che va dal convegno di Bologna del settembre 1977 (ovviamente ci sono degli antecedenti, ma prendiamolo per riassumere) fino all’aprile del 1979 –, un’avanzata affrontata senza ricorrere a nessun tipo di mediazione ma piuttosto, come diceva Valerio, impegnandoci nella ricerca quotidiana del conflitto. Dentro questa offensiva trova cittadinanza anche l’uso della forza; ed è in questa spinta dialettica che si rende quasi impossibile l’intervento repressivo.
Sembra strano, ma è andata così. Detto altrimenti: nessuno sapeva cosa avesse personalmente fatto Tizio e Caio, ma tutti sapevano che eravamo noi! Ma allora, perché arriviamo a Calogero? Certo, con il 7 aprile, ci sono state forzature giuridiche impressionanti, un’evidente modificazione dello Stato di diritto, e vere infamie procedurali; ma comunque, quali sono le ragioni intrinseche per cui la repressione in precedenza non ha funzionato? Perché dentro questa dialettica c’era sì la soggettività armata, ma c’era una composizione di classe sociale e politica che andava enormemente oltre. Quando noi praticavamo le ronde, parliamo di settanta-cento compagni che alle 4 del mattino andavano in fabbrica; ma dentro a questi cento, solo una parte era dei Collettivi, tutti gli altri erano soggettività che ti conquistavi nelle assemblee di fabbrica e nelle assemblee di territorio. Non erano strettamente militanti d’organizzazione, e neanche ci interessava che lo diventassero! Non siamo mai partiti dall’idea che l’obiettivo fosse bruciare una macchina in più, ma che questa dinamica di crescita interna alla composizione governasse tutti i passaggi del movimento. In quel momento funzionava, e la polizia è riuscita a intervenire nel vicentino solo dopo la tragedia di Thiene che costa la vita ad Antonietta, Angelo e Alberto. Solo dopo l’11 aprile la repressione si scatena come rappresaglia nel territorio con il ruolo principale svolto da Dalla Chiesa e la sua struttura armata che tra arresti, perquisizioni, intimidazioni eccetera, rimane nell’alto vicentino per più di un mese.
Quello che, a quarant’anni di distanza, mi sento di dire è che la nostra è stata un’esperienza irrisolta. Non è arrivata cioè a compimento, è stata troppo veloce e chiusa troppo brutalmente. Tuttavia avevamo indicato quali processi storici si stavano sviluppando – e infatti, detto tra parentesi, tutto quello che avverrà con la Lega Nord e il celebrato Nord-Est parte da qui. Il Pci non li aveva neanche mai ipotizzati, non ha mai capito cosa stesse succedendo. C’è una simultaneità che ha dell’incredibile: il primo convegno della Lega (allora si chiamava ancora Liga Veneta) a Recoaro Terme nel vicentino è del dicembre 1979, mentre il secondo convegno si svolge a Padova nell’ottanta. Quindi dopo il 7 aprile il primo e dopo la direttissima il secondo.
Con il senno di poi si disegna con chiarezza uno scadenzario tra i processi repressivi e lo sviluppo del radicamento leghista. Ma perché? Perché entrambi avevamo colto il passaggio dalla fabbrica alla flessibilità – dove noi pensavamo di risolverla dal punto di vista di classe, e la Lega dal punto di vista individuale.
Qual è stato il limite intrinseco allora? Sicuramente ci sono state falle a livello progettuale su alcuni aspetti dell’uso della forza, ma, se andiamo a guardare a dinamiche più generali, vediamo che, per esempio, Radio Sherwood non ha mai chiuso un giorno. È vero, abbiamo fatto la galera –molto carcere preventivo – ma la si mette sempre in conto. Sarebbe più interessante ragionare sul fatto che, quando io e i miei siamo usciti dal carcere, c’era il Coordinamento antinucleare antimperialista già forte, e quella battaglia contro il nucleare e il Piano energetico nazionale, voluto sia dalla Dc che dal Pci, l’abbiamo vinta. Poi sì, era un altro mondo: ricordo bene che quando mi ritrovavo davanti i punk anarchici torinesi del collettivo Avaria non avevo idea di dove sbucassero fuori, e solo dopo capimmo che anche loro erano il risultato della crisi nella metropoli torinese. Non era più interpretabile con le chiavi di lettura nostre, perché figurati se dalla provincia veneta puoi capire cosa succede ristrutturando una fabbrica come la Fiat; ma nel suo nocciolo, l’autonomia era ancora un progetto in piedi, una scommessa aperta. Infine, tenete sempre presente una cosa: nei primi anni Ottanta, nelle galere dell’“area combattenti”, sono successi dei deliri inenarrabili! Per cui lo ripeto: l’Autonomia non è un gruppo, è un metodo di attraversamento della contraddizione.
Per quanto riguarda i modelli organizzativi, partiamo dal dire che tutti i modelli sono fatti per cambiare. Quello che funzionava, facevamo, e se serviva, veniva fatto. Ciò detto, è chiaro che la fase iniziale vicentina è diversissima da Padova o da Venezia Mestre, e già Venezia e Mestre differiscono tra loro: una arriva nel 1978, l’altra parte fin da subito nel 1976, per dire. Venezia è sicuramente quella che si mette in moto più tardi di tutti, non so perché; certo è che Mestre, con la storia dell’Assemblea autonoma e poi il ciclo del Petrolchimico, viveva una qualità di discussione diversa da Venezia (dove, tra l’altro, l’università non è che abbia prodotto chissà cosa).
In ogni caso, quello che si mette in moto è il protagonismo di questa composizione giovanile che, come dicevo prima, si sottrae alla condizione a cui era destinata. Riallacciandomi a quello che evidenziava la compagna prima, mi limito a dire che noi eravamo scolarizzati e dovevamo entrare nel ciclo produttivo, non alla catena, in una posizione intermedia di comando. All’epoca tiravano gli istituti tecnici, perché alla congiuntura serviva quello, e trovare gli operai non era certo un problema: quella formazione ne produceva una montagna di giovani che non studiavano, che abbandonavano, che venivano espulsi dal ciclo scolastico! Piuttosto, avevano bisogno di quadri intermedi. E così noi saremmo dovuti diventare i nuovi guardiani della produzione. Questo era il compito previsto per la nostra generazione settantasettina, e a questo ci siamo sottratti, dicendo chiaramente che “piuttosto che fare i capi o gli operai, vi combattiamo!” (banalizzo eh, ma neanche troppo).
Per quel che mi riguarda, l’accelerazione è successiva al convegno di Bologna. Allora io facevo già militanza, i Collettivi politici veneti erano attivi ormai da un anno e mezzo, seppur in una forma ancora molto contraddittoria nel vicentino; a Bologna però ci rendiamo conto che non ci siamo solo noi militanti, ma c’è una forte presenza di territorio. Per cui la prima cosa che facciamo appena torniamo a casa è redigere un documento e costruire un’assemblea di zona. Pur limitandoci a discorsi ancora approssimativi, era già evidente a tutti che la contraddizione fondamentale era la costrizione al lavoro. Ciò indirizzò la fase iniziale e, con una velocità sorprendente, nel giro di pochi mesi si innestò un piano inclinato che ha permesso, appunto, per due anni una totale offensiva politica.
I processi organizzativi sono stati inquadrati in questo contesto: ovvero, non erano progettati per il funzionamento interno, ma soprattutto per catturare tutta la disponibilità che un territorio esprime al conflitto. Per cui, con l’assemblea territoriale (che diventerà poi il Gruppo sociale) noi stabiliamo questa chiave di lettura: vogliamo ricomporre il più possibile, non ci interessa l’omogeneità analitica, quello che conta è conquistarci un ruolo di traino e direzione politica lì dentro, nella disponibilità del territorio alla rottura. Comprovata la sua efficacia, teniamo fermo il Gruppo sociale come struttura portante (che, per esempio a Thiene arriva nei momenti alti a ottanta-cento persone, in una città di 20 mila abitanti), e la prima cosa che abbiamo voluto impedire è che diventasse una struttura identitaria. In parole povere, non volevamo che diventasse l’ennesima struttura chiusa. Dunque chi militava nel Gruppo sociale immediatamente doveva intervenire: in fabbrica se era lavoratore, nel comitato d’agitazione se era a scuola, nei comitati sulla casa se abitava nei quartieri… ogni singolo compagno militante aveva un ambito di intervento. Ne consegue che il Gruppo sociale era la sommatoria di questa divisione dei contesti di attivazione, e la discussione che si apriva nel Gruppo sociale puntava a estrarre tutta la ricchezza determinata dal radicamento, riassunta dalle proposte fatte dai comitati (senza parlare poi della discussione degli strumenti d’intervento come la radio, i giornali e quant’altro).
Il Collettivo politico, invece, era composto dai compagni che, a nostro giudizio, erano più capaci di giungere a una sintesi unitaria di questi processi e governarli. Facendo l’esempio del contesto in cui ho militato io, il Collettivo politico di Thiene è arrivato, al suo apice, a diciotto compagni d’organizzazione, che erano poi gli stessi a fare le azioni armate. Dentro al collettivo si era poi ulteriormente strutturati, distinguendo un “Attivo” e un “Nucleo”. Le armi da fuoco non le abbiamo mai fatte usare all’Attivo. E questo per una scelta strategica: volevamo che ci fosse un percorso di crescita non forzato, non eravamo in competizione con nessuno e non avevamo bisogno di dimostrare niente; al contrario, il modello organizzativo messo in moto doveva garantire un’assunzione di responsabilità su di sé da parte del militante. Ci tengo a sottolineare bene che questo elemento, per noi cruciale, della responsabilità individuale era calibrato, ancora una volta, dal contatto pregresso con il territorio. Insomma, proprio perché ci si frequenta da una vita si riusciva a sapere subito se tale dei tali è sì tuo amico, ma ha una costruzione mentale di un tipo o di un’altra, non so se ci siamo intesi… e adottando questo punto di vista non abbiamo mai sbagliato una volta. A dirigere poi i vari Collettivi politici territoriali c’era la Commissione politica provinciale mentre su base regionale funzionava l’Esecutivo.
Sul piano della battaglia politica interna al movimento rivoluzionario a Padova si è data una struttura – il Fronte comunista combattente, che eseguì anche alcuni ferimenti intenzionali – con un duplice intento. Da un lato, sosteneva le cosiddette campagne d’organizzazione (diventate poi note come “notti dei fuochi”), ma doveva anche essere presente nelle battaglie politiche sul piano nazionale. Quest’ultimo è un tema su cui non si è parlato oggi, ma vale la pena dire che non essere riusciti a chiudere il passaggio al nazionale è stato il vero limite dell’Autonomia. Un limite invalicabile, definitivo, che ha reso possibili anche le crisi successive. Considerate che questo tentativo parte ben prima del sequestro di Moro, è già dentro il convegno di Bologna, ne discutevano Rosso e i Volsci. Questo salto di livello non avverrà, per motivi che forse meriterebbero di essere indagati maggiormente. Ora, io non so dire se le cose sarebbero andate diversamente, o se questo si inseriva positivamente nell’emorragia dall’area autonoma verso i combattenti di cui parlava prima anche Valerio; però non escludo che se ci fossimo dotati di una strutturazione più definita anche nazionalmente, forse avremmo tenuto di più. In Veneto (così come nelle zone in cui c’era un’articolazione che funzionava) non si è mai posto questo problema; le Br sono arrivate nel 1980 poggiandosi sui nostri arresti, cose volgarissime con i primi morti a Mestre con noi in pieno processo… robe che anche da un punto di vista etico dici “ma vaffanculo”.
Passando invece a parlare della ronda, partiamo dal dire che storicamente è l’icona dell’Autonomia. È la manifestazione e l’esercizio più alto di contropotere, perché contiene tutto quello di cui abbiamo parlato: il radicamento territoriale, la capacità organizzativa, la conquista di intelligenze nuove, la battaglia politica con il sindacato, la rivolta contro il sistema dei partiti e infine contro il piano produttivo. La cosa realmente potente è stato riuscire a individuare nello straordinario non solo l’allungamento della giornata lavorativa (di per sé è banale), ma anche la contraddizione con cui scardinarla. Avevamo capito perfettamente che attraverso l’uso politico dello straordinario i padroni riprendevano il controllo sulla produzione e sul conflitto in fabbrica, noi invece pensavamo che rompendo sulla giornata lavorativa avremmo costruito contropotere. Guardate che quello che sarà uno dei luoghi più ricchi del pianeta, non c’era una fabbrica che facesse lo straordinario, o il sabato! Naturalmente, accanto a noi c’era anche quello che faceva la controparte: pensate alle politiche dei sindacati o alla stagione dei contratti del 1979. Proprio perciò nelle fabbriche scatta una lotta durissima, ed è in questa dinamica che la ronda testimonia tutta la sua centralità. Per porla in altri termini, ritorno al punto sul 7 aprile che avevamo introdotto poco fa perché è indicativo di questa dialettica: quando il Pci e il sindacato non sono più in grado di governare l’insubordinazione perché vinciamo su tutto, si apre il 7 aprile.
Valerio
Sui limiti e sulla diagnosi del fallimento, la penso esattamente come Donato. Passo quindi agli altri temi emersi dalle domande e dagli interventi. Per quel che concerne il nazionale, l’analisi dell’Autonomia sulla natura e la funzione del Pci è sempre stata esplicita: per noi era il nemico principale sin dai tempi di Potere Operaio. Il nostro problema era la socialdemocrazia: non era il liberismo, la Democrazia Cristiana o quei quattro mentecatti, cazzo ne so, dei repubblicani e dei socialisti. Il nostro problema era il Pci, perché, ripetendo un vecchio e trito slogan di allora, era “lo Stato nella classe operaia”, punto. Nel ’77 lo avevamo scritto a pennellone ovunque, su ogni muro che ci capitava sotto mano, e potete ritrovare tutta la pubblicistica.
Con questo slogan non intendevamo fare delle dichiarazioni ideologiche di purismo, ma dichiarare molto più semplicemente che con il compromesso storico il Pci stava tendando di entrare, con tutte le proprie forze, al governo del Paese. Dopodiché, a livello nazionale sappiamo come è andata; guardando invece al locale, be’, Bologna era la loro vetrina, e noi l’abbiamo infranta. Non ce l’hanno mai perdonato e ancora oggi per loro è una vendetta infinita. Neanche dopo la Bolognina e i Pds se la sono mai scordata. Soprattutto i vecchi del partito, che si sono fatti tutto ‘sto giro fino al Pd, ancora oggi stanno lì a romperci i coglioni. E a noi piace molto, devo dire. Ma il rapporto di frizione, se possiamo chiamarlo così, inizia molto prima dell’Autonomia, e addirittura a Bologna c’è già con quello che si chiamava allora il Movimento studentesco (di cui una parte evolve in Potere Operaio). Considerate che aprimmo la sede nel novembre 1969, e già allora avevamo il Partito comunista che intravedeva alla sua sinistra l’antagonismo che gli sfuggiva di mano. C’era già stato il Sessantotto e cose come il rifiuto della famiglia e quant’altro (che a noi interessavano poco) gli pungevano nel fianco; ma con la nascita dei gruppi organizzati a Bologna la contraddizione è immediata. Perché a Bologna il Pci è il potere. Governa tutto: l’economia, l’accademia, l’associazionismo, il sindacato, la salute…
Donato
C’è quasi più spazio con i democristiani che con il PCI!
Valerio
Assolutamente sì. Si capisce quindi come noi abbiamo avuto così tante difficoltà, ben più che altre città. Magari Bologna fosse stata come Roma o Milano! Per non parlare poi del fatto che anche “loro” avevano delle articolazioni politico-militari, è inutile che facciano i furbi e ce le andiamo a raccontare. Anche loro avevano strutture di persone che venivano dalla lotta partigiana e che non si erano fatte disarmare dagli americani. Come mi raccontava mio padre e i suoi amici, agli americani avevano rifilato la cianfrusaglia ormai logora e inutilizzabile, armi malmesse non più efficienti; la roba buona l’hanno sotterrata, tenuta lì ed è tornata fuori più di una volta. Per esempio quando ci sono stati i golpe: io ricordo bene una notte in via Barberia, alla sede del Pci, erano tutti partigiani ed erano tutti armati. L’hanno tirata fuori anche durante il Convegno e lo sapevamo (il paese è piccolo, la gente mormora). C’era quindi tra di noi un rapporto di guerra, senza nessuna mediazione. Tutto era affidato alla forza, alla furbizia e al reciproco minacciarsi. Diciamo che a Bologna, dopo “alcuni episodi” – in cui loro dimostrarono la forza, noi la potenzialità – si sono cagati addosso e con l’Unità e i vari fogli territoriali hanno preso ad insultarci con la solita propaganda: “i figli della borghesia”, “ragazzini che giocano a fare il guerrigliero”, “chi li paga”, “cui prodest”…
Donato
Per non dimenticare Catalanotti.
Valerio
Sì, ma quello viene dopo. Per chi non lo sapesse, Bruno Catalanotti è stato il nostro Calogero, che ha anticipato il suo metodo su scala più ridotta. Insomma, il problema del rapporto con il Pci era serio soprattutto perché ci costringeva a muoverci su più fronti, e ci sono parecchi aneddoti che potrebbero mostrarlo. Ad esempio, ai tempi di Potere Operaio noi avevamo un centro stampa (di cui tra l’altro facevo parte, sapete no, facevo l’Istituto d’arte e questi: “ah vuoi fare l’artista? bene, lavora”, e col cavolo che avevamo macchine tipografiche, tutto a manina, in serigrafia) e attaccavamo l’impossibile. Quando c’erano delle scadenze, la notte prima era dedicata all’attacchinaggio. Si attaccava di tutto. A un certo punto iniziamo a vedere che la mattina i manifesti non c’erano più. Per metterci un attimo nell’ottica delle dimensioni, fate conto che in una notte facevamo 1000–1200 manifesti. Ci informiamo in giro e scopriamo che dietro a ogni nostra macchina con cui si usciva ad attacchinare, ce n’era una loro che ci seguiva e passo passo ce li staccava [dal pubblico: “Poi i vigili urbani usati come braccio armato del Partito…”]. A Bologna sì, lo è sempre stato. E non solo: i dipendenti del gas, l’Amga, gli operai delle officine comunali…
Comunque, capiamo che tutta ‘sta gente andava in giro a staccarci i manifesti. E da lì iniziamo a mettere nella colla dei manifesti i vetri frantumati delle lampadine. È un vetro sottilissimo, che così si incollava. Quindi quando al pronto soccorso del Sant’Orsola hanno cominciato a presentarsi per alcune notti dei personaggi strani con le mani ricoperte di sangue, hanno pensato bene di lasciarceli attaccati – ma non si sono dati per vinti, e gli operai della nettezza urbana (tutti militanti del Partito) capirono come staccarli con le palette d’acciaio. E avanti così. La cosa poi si è risolta quando siamo andati a “parlare” con alcuni di loro che conoscevamo. Sapevamo chi erano i furboni e soprattutto chi erano i capi che organizzavano le macchine e questi, finché hanno potuto permetterselo, avevano il via libera. Venne però il momento in cui alcuni di loro, sotto la loro abitazione, hanno trovato persone che erano disposte a discutere con argomenti convincenti, argomenti che loro conoscevano bene perché li avevano usati prima contro di noi… Quando ti trovi dal lato sbagliato di una potenzialità sociale di quel livello, non è una bella cosa. E infatti hanno smesso.
Considerate che qui, proprio perché il Pci era veramente il potere, avevano la collaborazione delle istituzioni. Il servizio d’ordine del Pci (che appunto era composto dagli operai Amga e quelli che dicevo prima) ai tempi di Potere Operaio caricava insieme alla polizia, ci sono mille foto in giro. Il rapporto era quello. Si è lavorato politicamente finché si è potuto, finché la vetrina non si è infranta sul serio: c’è stato il morto (il compagno Francesco Lorusso), c’è stata la guerriglia urbana, ma già dal 1975 eravamo già attivi in senso politico-militare. Per esempio, anche noi facevamo le ronde. A differenza dai veneti, le nostre ronde erano organizzate per campagne. Che so, si battezzava la campagna sul lavoro nero. Ricaviamo tutte le informazioni necessarie dai nostri militanti e capiamo dove si faceva lavoro nero – per inciso, erano quasi sempre uffici e piccole ditte, in cui si sfruttavano soprattutto giovani e donne per lavori da impiegate eccetera. Quindi ci si presentava vestiti bene, facendo finta di essere dei clienti; si entrava negli uffici, ovviamente col ferro; si fermava tutti; si spaccava la qualunque, scritte a bomboletta sui muri; si spiegava ai lavoratori sfruttati perché eravamo lì e se c’era il padrone, ecco, che si pigliava anche il suo avere. Voilà. Senza uccidere nessuno.
Ecco, la ronda tipo per una campagna sul lavoro nero era questa. C’erano poi le campagne, ad esempio, sui vigili urbani. Appunto perché erano quelli che, collaborando con i carabinieri, partendo dalle sezioni del Pci sul territorio (che erano l’occhio del Partito sulla classe e sui quartieri) sapevano bene o male chi si muoveva e chi no, sospetti e non sospetti. Quindi si sceglieva una centrale, si entrava, si prendeva tutto il possibile e via. Ma attenzione, sempre rivendicato con la firma di chi le faceva e poi sempre spiegate in un progetto di lavoro sul territorio. Certo, c’era il Pci che pulsava, ma tenete presente che a Bologna non c’era solo l’Autonomia, era un casino. “Anni di piombo”? Per loro sicuramente, e qualcuno purtroppo lo abbiamo lasciato sull’asfalto anche noi; ma se prediamo anche solo il Settantasette e consideriamo quello che si è mosso e si è innovato anche fuori dalla politica – l’arte, la musica, i fumetti, la radio – vede un laboratorio straordinario. C’è stata una crescita e una creatività incredibili non solo nella politica, ma anche nella socialità e nella cultura. Sì, c’era il momento triste e cupo del combattimento, ma in un contesto generale a dire poco fantastico.
Donato
La felicità sta lì.
Valerio
Esatto! Perché oltre alla vita notturna, c’era la tua quotidianità di giorno, la tua esistenza liberata in città. Anche perché parliamoci chiaro, non lavoravamo mica tutte le notti, non siamo mai stati stakanovisti della militanza. Per noi era fondamentale selezionare bene gli interventi perché erano cose molto impegnative, che chiedevano non solo pianificazione, ma un’organicità con le possibili diramazioni. Le ronde, per esempio, erano fatte da organismi con una ragione d’esistere, che si firmavano e spiegavano la logica che le muoveva. Se si mirava ad opporsi a certe prese di posizione di Confindustria, pubblicamente ci esprimevamo nelle assemblee autonome, e accanto a questo saltava in aria una sede. Solo individuando le lotte “giuste” diventava possibile tenere insieme l’elaborazione concettuale, la ricomposizione della classe e il sabotaggio – senza fare morti, e possibilmente senza fare feriti.
Poi sono arrivati anche quelli andando verso il 1979, quando queste articolazioni politico-militari si sono costituite in organizzazione d’apparato, staccandosi (oggi possiamo dirlo) con una forzatura teorica e politica. Per esempio, limitandoci ai dibattiti interni a Rosso (mica si scriveva e basta, capiamoci) sulla differenza tra Brigate comuniste e Formazioni comuniste combattenti, dovrei oggi riconoscere lì un errore cruciale: quando da strumento, da servizio alla classe, ti fai tu stesso apparato e vai a combattere contro un altro apparato che è molto più potente di te, si compie un passaggio che oggi dovremmo riconsiderare profondamente, senza limitarci allo scandalo del sangue. Allora quella scelta la facemmo e l’abbiamo pagata; ma quello era il contesto e quelle ci sembravano le decisioni necessarie. Polemizzare con il senno di poi è una sciocchezza che non porta a nulla. Soltanto storicizzando, calandosi per quanto possibile in quei momenti di incertezza – cosa che sta facendo l’Archivio autonomia, andatelo a vedere, è una cosa meravigliosa – si riesce a valutare la prospettiva con cui ci si muoveva, le intuizioni indovinate e i passi falsi. Per quanto riguarda gli stimoli dall’estero…
Da noi, semmai, aleggiava una forte ammirazione per il fronte palestinese di Habash, l’Fplp. Per quanto riguarda le articolazioni militari di cui dicevo prima, ci sono stati scambi e contatti. C’erano persone a cui eravamo molto legati: per dire, io a San Giovanni in Monte per un periodo sono stato in cella con Abu Anzeh Saleh (quello dei “missili di Pifano”) che era praticamente l’ambasciatore di Habash in Italia, dal quale ho avuto ragguagli interessantissimi sulle loro lotte in Palestina. Oppure, parlando sempre e soltanto di risultanze processuali, una volta ci fu un campo di addestramento militare gestito dall’Eta con una parte dell’Autonomia, segnatamente le Formazioni comuniste combattenti (cioè noi e i milanesi). Uno di noi aveva contatti con i francesi e da lì, nel Paese basco francese, si svolse un campo, tra l’altro descritto in quei famosi quadernetti ritrovati nelle inchieste.
Per capirci, nel frangente specifico di quel campo, la collaborazione partì da uno scambio di favori: armi corte (non tante, ma roba buona) contro due kit, uno per fare documenti falsi e uno – invenzione degna della sapienza operaia – per fare targhe false. Invece, quello che ci interessava dei movimenti dell’America Latina, sarà banale, erano i loro ottimi manuali di guerriglia e controguerriglia. Loro infatti, non potendo disporre di materiali di fabbrica, dovevano improvvisarli con quello che avevano e in questi testi indicavano come costruire le trappole esplosive e quant’altro. Ci interessava quello, quindi Marighella, i Tupamaros…
Donato
Lì si vede tutta la differenza tra me e te. Io ero un californiano! [Risate] Cresciuto con i Jefferson e i Quicksilver…
Valerio
Ma questo è un fricchettone! [Risate]
Donato
Per cui seguivo le Black Panthers e i Weathermen…
Valerio
Mannaggia oh… Noi a fare i guerriglieri, e questi in California a surfare le onde!
Comunque, prima di chiudere, direi una cosa sul senso di sconfitta. Molti dicono “lì abbiamo perso”, non solo come autonomi, ma in generale il secolo si è concluso con una disfatta, soprattutto a livello psicologico. Però, come una volta disse Paolo Virno, è andata così, ma intanto per dieci anni gli abbiamo impedito di governare, ma soprattutto abbiamo dimostrato che “è possibile”. Non è successo, ma abbiamo dimostrato che è possibile, usando un metodo. Ma anche in senso più largo, io non ho mai pensato di essere uno sconfitto. Non c’è stata nessuna sconfitta. Si è conclusa una fase, punto; una fase di una guerra di classe è fatta di vari momenti, di strategie e di tattiche. Non è finito niente. È vero, ci sono stati gli anni Ottanta, dove non era stata raccolta la memoria storica e si è dovuto ricominciare daccapo; ma si è solo chiusa una fase, e se ne riapriranno delle altre! La lotta di classe continua, il conflitto continua. E noi siamo ancora qui, a discutere, a cercare, nella dialettica lavoro vivo-capitale, di individuare, nella composizione data, altre soggettività emergenti potenzialmente autonome e rivoluzionarie.