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Argo­men­ti: 2023

di Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra

Come dare, e orga­niz­za­re, per­cor­si di rot­tu­ra al cuo­re del­lo svi­lup­po capi­ta­li­sti­co? Qua­li i com­por­ta­men­ti poten­zial­men­te sov­ver­si­vi su cui costruir­li, oggi? Qua­li pun­ti di meto­do anco­ra inat­tua­li trar­re dall’esperienza mili­tan­te di quel­la gene­ra­zio­ne poli­ti­ca che per ulti­ma ha ten­ta­to l’“assalto al cielo”?

Sono le doman­de impli­ci­te che han­no mos­so il ter­zo incon­tro del ciclo MILITANTI, tenu­to a Mode­na saba­to 13 mag­gio. Una bel­la, inten­sa, arric­chen­te chiac­chie­ra­ta con Vale­rio Guiz­zar­di e Dona­to Taglia­pie­tra, mili­tan­ti auto­no­mi degli anni Set­tan­ta – di Ros­so, la pri­ma e più ori­gi­na­le for­ma­zio­ne dell’Autonomia ope­ra­ia, e dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io, la più lar­ga, radi­ca­ta e dura­tu­ra orga­niz­za­zio­ne poli­ti­ca dell’Autonomia – auto­ri dei due libri che tro­ve­re­te in fon­do a que­sta pri­ma par­te del loro intervento.

Una chiac­chie­ra­ta che fin da subi­to non ha volu­to esse­re sul pas­sa­to, per “redu­ci” o “nostal­gi­ci” fuo­ri tem­po mas­si­mo, ma imme­dia­ta­men­te sul pre­sen­te, per ragio­na­re su alcu­ni dei nodi che chiun­que abbia l’ambizione di con­qui­sta­re una pras­si mili­tan­te ade­gua­ta ed effi­ca­ce den­tro e con­tro il pro­prio tem­po si tro­va ine­vi­ta­bil­men­te a dover affrontare.

I com­por­ta­men­ti di rifiu­to e il sala­rio sgan­cia­to dal­la pro­dut­ti­vi­tà. La socie­tà che diven­ta fab­bri­ca e la ricer­ca del­la sog­get­ti­vi­tà ope­ra­ia. Il radi­ca­men­to nel ter­ri­to­rio e nel­la com­po­si­zio­ne di clas­se, e l’esercizio del con­tro­po­te­re. La spon­ta­nei­tà di movi­men­to e la disci­pli­na di pro­get­to poli­ti­co. L’organizzazione auto­no­ma e l’autonomia di clas­se. L’uso mate­ria­le del­la for­za e la for­za mate­ria­le del signi­fi­ca­to vivo dell’essere “com­pa­gni”.

Que­sti sono alcu­ni nodi cru­cia­li su cui il “cer­vel­lo col­let­ti­vo” degli auto­no­mi ha scom­mes­so e costrui­to la sua pras­si, tra avan­za­men­ti, con­trad­di­zio­ni e vico­li ciechi.

Con­sa­pe­vo­li che l’autonomia non è mai data una vol­ta per tut­te, ma la si con­qui­sta e rein­ven­ta di con­ti­nuo, sia­mo tor­na­ti alla sta­gio­ne degli anni Set­tan­ta, quan­do l’Italia è sta­ta attra­ver­sa­ta da un con­flit­to socia­le di dura­ta, dif­fu­sio­ne e inten­si­tà che non han­no egua­li nel­la sto­ria recen­te, e di cui oggi le nuo­ve gene­ra­zio­ni sten­ta­no a cre­de­re, o solo imma­gi­na­re. La que­stio­ne del­la rivo­lu­zio­ne in un pae­se a capi­ta­li­smo avan­za­to, nel cuo­re dell’Occidente, è pre­ci­pi­ta­ta e si è ria­per­ta allo­ra, a livel­lo di mas­sa – non a caso, anco­ra oggi, quel decen­nio tor­men­ta gli incu­bi di comanda.

Gli auto­no­mi, in quel tumul­tuo­so pas­sag­gio d’epoca – non solo di cri­si capi­ta­li­sti­ca, anco­ra nel­le sue matri­ci irri­sol­ta, ma anche di cri­si di quel­le sog­get­ti­vi­tà e for­me di orga­niz­za­zio­ne poli­ti­che sca­tu­ri­te dal pre­ce­den­te ciclo sto­ri­co di lot­te –, sep­pe­ro incar­na­re più di ogni altro, con for­za e intel­li­gen­za, la sua attua­li­tà. L’attualità del­la rivo­lu­zio­ne, del comu­ni­smo, qui e ora: nel­le lot­te nei quar­tie­ri, sui luo­ghi di lavo­ro, nel­le scuo­le, nel­le uni­ver­si­tà, ma anche nel­le stra­de, nel­le rela­zio­ni socia­li, nel sape­re e nel­le for­me di vita. Attra­ver­so un meto­do, quel­lo dell’autonomia, che par­la di anti­ci­pa­zio­ne dei pro­ces­si, di let­tu­ra del­la com­po­si­zio­ne di clas­se, di scom­mes­sa sul­le sog­get­ti­vi­tà, di ricer­ca del­le pos­si­bi­li­tà di attac­co, di rot­tu­ra con l’esistente e con quel­lo che si è.

Soprat­tut­to quan­do i vec­chi sche­mi, come oggi, all’infuori di ogni logi­ca di testi­mo­nian­za iden­ti­ta­ria e di pre­te­sa ideo­lo­gi­ca, appa­io­no non fun­zio­na­re più. Se quel­la degli auto­no­mi è una sto­ria irri­sol­ta, occor­re allo­ra tor­nar­ci con le spal­le al futu­ro, per pre­pa­ra­re il pros­si­mo assal­to al cielo.

Buo­na lettura.

Dona­to

lo pen­sa­vo che sare­ste sta­ti voi a spie­gar­ci cos’è l’Autonomia oggi! è un po’ dif­fi­ci­le che la rispo­sta a una doman­da del gene­re ven­ga da me o da Vale­rio. Al limi­te noi pos­sia­mo rico­strui­re un perio­do sto­ri­co che ormai data mez­zo seco­lo. Ma a ogni modo vole­vo ini­zia­re con i King Crim­son. L’intuizione di usa­re 21st Cen­tu­ry Schi­zoid Man dei King Crim­son per pub­bli­ciz­za­re un even­to del gene­re è azzec­ca­ta tan­to quan­to la scel­ta del­le paro­le che ave­te ripor­ta­to in quel video, per­ché sono le uni­che cal­zan­ti. Io, infat­ti, in que­sti gior­ni con­ti­nua­vo a chie­der­mi: “Ma di cosa par­lo saba­to? Come fai a defi­ni­re la mili­tan­za negli anni Set­tan­ta?” Per­ché o par­li di tut­to, oppu­re devi in un qual­che modo tron­car­la con l’accetta. Per cui, se mi chie­de­ste di rias­su­me­re in una for­mu­la edi­fi­can­te cos’è sta­ta per me, vi direi che la mili­tan­za è sta­ta una cor­sa velo­cis­si­ma di una gene­ra­zio­ne den­tro la felicità.

Vole­va­mo tut­to, e lo vole­va­mo subi­to; ma que­sto tut­to e que­sto subi­to era l’insieme di enor­mi feli­ci­tà, che era­no con­te­nu­te in quel­lo che costrui­va­mo quo­ti­dia­na­men­te. Se inve­ce doves­si rispon­de­re in una manie­ra più pre­ci­sa, vi direi che la mili­tan­za auto­no­ma è sta­ta il fat­to di esse­re riu­sci­ti – in una fine­stra sto­ri­ca che è dura­ta poco, per­ché pur­trop­po così è sta­to – a vive­re un quo­ti­dia­no in pie­no con­flit­to con la costri­zio­ne lavo­ri­sta a cui pen­sa­va­no di sot­to­met­ter­ci, una quo­ti­dia­ni­tà che ave­va la sua cifra nei suoi aspet­ti di tota­le libe­ra­zio­ne. La gene­ra­zio­ne dell’Autonomia o anche quel­la del Set­tan­ta­set­te sono sta­te tali pro­prio poi­ché han­no tro­va­to que­sta chia­ve di vol­ta. Dopo­di­ché, den­tro que­sto spi­ri­to con­di­vi­so, ci sono le varie arti­co­la­zio­ni progettuali.

Ognu­no di noi ha una sto­ria pro­get­tua­le diver­sa: io e Vale­rio sia­mo entram­bi mili­tan­ti dell’Autonomia, ma tra Bolo­gna e il Vene­to già ci sono dif­fe­ren­ze, nono­stan­te ci fos­se un model­lo pro­dut­ti­vo con alcu­ne simi­li­tu­di­ni. Ovve­ro, sia da noi che in Emi­lia non c’era (e non c’è) la Fiat o l’Alfa, e quin­di nem­me­no l’operaio mas­sa alla cate­na – o meglio, da noi c’era, ma comun­que par­lia­mo di una situa­zio­ne mol­to diver­sa rispet­to a Tori­no. Insom­ma, Bolo­gna e il Vene­to con­di­vi­de­va­no un model­lo pro­dut­ti­vo che sarà quel­lo che vin­ce sto­ri­ca­men­te nel­la ristrut­tu­ra­zio­ne ope­ran­do il pas­sag­gio che supe­ra il for­di­smo; ma l’elemento che ren­de distin­ti e diver­si i due ter­ri­to­ri è la rap­pre­sen­tan­za poli­ti­ca. Il siste­ma dei par­ti­ti, per dir­la in soldoni.

Nel Vene­to si era sta­bi­liz­za­to un siste­ma a gover­no demo­cri­stia­no, men­tre nell’Emilia ros­sa (e para­noi­ca, come can­ta­no i Cccp), c’è il Pci. Può sem­bra­re una dif­fe­ren­za su un det­ta­glio secon­da­rio, “sovra­strut­tu­ra­le”, ma andan­do alla sostan­za del­le cose è una dif­fe­ren­za enor­me. Per­ché? Per­ché nel­la capa­ci­tà di coman­do e di con­trol­lo dei con­flit­ti auto­no­mi, il Pci rive­la una capa­ci­tà di disin­ne­sco di gran lun­ga mag­gio­re del­la Dc. Nel Vene­to, quan­do i ceti diri­gen­ti non rie­sco­no più a gover­nar­ne poli­ti­ca­men­te que­sto rap­por­to tra una nuo­va com­po­si­zio­ne di clas­se e nuo­ve lot­te (e ci pro­va­no in mil­le manie­re, ma per­do­no le assem­blee nel­le facol­tà, per­do­no le assem­blee nel­le fab­bri­che, per­do­no le assem­blee nei quar­tie­ri e via così), l’ultima istan­za che gli rima­ne è met­te­re in pie­di, attra­ver­so il teo­re­ma Calo­ge­ro, il “7 apri­le”. Diret­ta­men­te alla repres­sio­ne poli­zie­sca. Da noi era que­sto il mec­ca­ni­smo, per­ché il qua­dro di coman­do par­ti­ti­co del Pci non ave­va la capa­ci­tà di espri­me­re un con­trol­lo socia­le, che qui inve­ce ha sem­pre con­ser­va­to. Ci sono sta­te dif­fe­ren­ze anche negli svi­lup­pi del movi­men­to (per esem­pio, in Vene­to non c’è sta­to il Set­tan­ta­set­te), ma l’elemento che va inda­ga­to per pri­mo è il gover­no poli­ti­co del ter­ri­to­rio, per­ché è lì che si com­pren­de chi è il nemi­co e come si strut­tu­ra il ter­re­no di battaglia.

Ora, io non so nel 2023 come fun­zio­ni a Mode­na e nel­le ric­che pro­vin­cie del Nord (per­ché ricor­dia­mo­ce­lo, qui sia­mo in asso­lu­to nel­le zone più ric­che del pia­ne­ta, par­tia­mo da que­sta con­si­de­ra­zio­ne altri­men­ti entria­mo in chia­vi di let­tu­ra stra­ne). Come può dar­si un per­cor­so di rot­tu­ra? Bel­la doman­da. Quel­li del­la nostra gene­ra­zio­ne pos­so­no dire solo “noi abbia­mo pro­va­to a fare così”. Quin­di, se guar­dia­mo in pro­fon­di­tà, qual è sta­to l’elemento che ave­va mes­so in moto quel per­cor­so? È sta­to il fat­to che a diciot­to, ven­ti o ven­ti­due anni que­sta gene­ra­zio­ne si è sot­trat­ta in una manie­ra tota­le al fat­to di diven­ta­re mer­ce. Non vole­va­mo spen­de­re la vita per un salario.

Non vole­va­mo diven­ta­re mer­ce for­za-lavo­ro: e abbia­mo fat­to di tut­to, anche arman­do­ci, per sot­trar­ci a que­sto. Que­sta è l’eresia asso­lu­ta, uni­ca e fon­da­men­ta­le, che spie­ga il con­flit­to oltre che con il padro­ne anche con il Pci e con le ideo­lo­gie lavo­ri­ste del­la sini­stra. Ma bada­te bene, la gior­na­ta lavo­ra­ti­va è pre­ci­sa­men­te la cor­ni­ce che tie­ne insie­me e spie­ga il dopo­guer­ra fino agli anni Ses­san­ta. L’eresia par­te infat­ti pri­ma di noi, già alla Fiat con i sabo­tag­gi del­le linee e cer­to ci sono svi­lup­pi di non poco con­to, ma come un filo sot­to­trac­cia che esplo­de­rà dopo e che attra­ver­sa tut­ta la varie­ga­ta pro­get­tua­li­tà che chia­me­re­mo “auto­no­mia ope­ra­ia orga­niz­za­ta” negli anni Set­tan­ta. Il rifiu­to del lavo­ro è sta­ta la nostra stel­la pola­re. Tut­to quel­lo che ne è segui­to – pro­ces­si orga­niz­za­ti­vi, stru­men­ti di inter­ven­to, ecce­te­ra – par­te da que­sto presupposto.

Altro ele­men­to diri­men­te per la nostra sto­ria nel­la pro­vin­cia: nei nostri ter­ri­to­ri non c’è l’università. Io non so bene cosa stia suc­ce­den­do ades­so a Mode­na, ma di cer­to non è una cit­tà uni­ver­si­ta­ria come Bolo­gna o Pado­va; ovve­ro, non c’è il trai­no del­le lot­te stu­den­te­sche. Se non altro per il fat­to che sono uni­ver­si­tà pro­ba­bil­men­te più gio­va­ni, con una mas­sa di stu­den­ti mino­re e con un altro tipo di impat­to sul­la cit­tà. Anche in ciò secon­do me Mode­na asso­mi­glia mol­to di più a Vicen­za che non a Pado­va o a Bolo­gna, dove inve­ce l’università (uma­ni­sti­ca, si noti) ha un gros­so peso sui pro­ces­si socia­li e sui con­flit­ti. Ma per ora mi fer­mo dicen­do que­ste quat­tro cose, lascio la paro­la a Vale­rio e poi pro­via­mo ad apri­re la discus­sio­ne, anche per­ché, più che a par­la­re, sia io che lui sia­mo più inte­res­sa­ti a capi­re cosa signi­fi­ca ave­re oggi trent’anni.

Vale­rio

Dona­to ha intro­dot­to benis­si­mo la que­stio­ne. Le carat­te­ri­sti­che del­la gestio­ne poli­ti­co-ammi­ni­stra­ti­va di Bolo­gna e del­la pro­vin­cia vene­ta era­no com­ple­ta­men­te diver­se, dal momen­to che ognu­na del­le due si basa­va sul­la strut­tu­ra pro­dut­ti­va del ter­ri­to­rio. L’Emilia-Romagna, come si è det­to, non era ai tem­pi avvi­ci­na­bi­le al ciclo del tes­si­le e del chi­mi­co nel vicen­ti­no. Qui c’era sì la fab­bri­ca dif­fu­sa, ma di un tipo pro­fon­da­men­te diver­so: intan­to per­ché era più orien­ta­ta sul metal­mec­ca­ni­co, ma soprat­tut­to per­ché più che di fab­bri­ca dif­fu­sa si trat­ta­va di fab­bri­chet­te e labo­ra­to­ri dif­fu­si. La for­ma più pre­sen­te (se esclu­dia­mo alcu­ni gran­di impian­ti) era la pic­co­la fab­bri­ca a gestio­ne bene o male fami­li­sti­ca, dove un con­flit­to al suo inter­no non scop­pia­va mai, essen­do azien­de che con­ta­va­no otto-die­ci ope­rai massimo.

Inne­sca­re una ribel­lio­ne sui luo­ghi di lavo­ro diven­ta­va dif­fi­ci­le, quin­di, sia per la fisio­no­mia che assu­me­va­no le fab­bri­che, sia per il con­trol­lo dei com­por­ta­men­ti ope­rai da par­te del Par­ti­to comu­ni­sta e del­la Cgil (che, par­lan­do sim­bo­li­ca­men­te, era­no qua­si l’uno lo pseu­do­ni­mo dell’altro). Ora, con­ce­de­te­mi qual­che esem­pio con­cre­to per ren­de­re l’idea del pano­ra­ma. Nel bolo­gne­se cosa ave­va­mo quan­do abbia­mo ini­zia­to? C’erano alcu­ne fab­bri­che di gene­ro­se dimen­sio­ni, come la Duca­ti, nel­la qua­le i comi­ta­ti che face­va­no rife­ri­men­to a Pote­re Ope­ra­io era­no anche riu­sci­ti negli anni Set­tan­ta a orga­niz­za­re alcu­ne cam­pa­gne di lot­ta. Va det­to per inci­so che a quei tem­pi Potop, soprat­tut­to nei pri­mi anni Set­tan­ta, era parec­chio for­te aven­do col­let­ti­vi un po’ dap­per­tut­to: in pri­mo luo­go nel­le scuo­le medie (ora direm­mo supe­rio­ri) e nell’università, ma anche in qual­che fab­bri­ca, ognu­na con il suo comi­ta­to ope­ra­io che orga­niz­za­va le lot­te, i cor­tei inter­ni, i pic­chet­ti (e quin­di, come al soli­to repres­sio­ne, denun­ce, eccetera).

C’eravamo dun­que alla Duca­ti, ma soprat­tut­to in azien­de più pic­co­le come la Sabiem (che face­va ascen­so­ri), la Sasib (che face­va ingra­nag­gi e pez­zi per metal­mec­ca­ni­ca), la Cal­zo­ni (che face­va ingra­nag­gi, tra­smis­sio­ni di pre­ci­sio­ne e arma­men­ti, pro­du­cen­do con­ge­gni di pun­ta­men­to su com­mis­sio­ne dell’Esercito). Lì noi già da quel perio­do comin­ciam­mo a fare inter­ven­to poli­ti­co fuo­ri dai can­cel­li, ai tur­ni alle 4 del­la mat­ti­na (com­pre­so d’inverno, con la neve fino alle orec­chie). Nono­stan­te la nostra pre­sen­za in cit­tà, in quel perio­do è sta­ta parec­chio dura, per il mero fat­to che abbia­mo sem­pre rice­vu­to una gran­dis­si­ma ostilità.

Vor­rei che fos­se chia­ro: era­no gli ope­rai stes­si che ci fron­teg­gia­va­no, e par­ti­va­no anche le mani. E accan­to a que­sto c’era il ser­vi­zio d’ordine del Par­ti­to e quel­lo del­la Cgil che ren­de­va­no impos­si­bi­le che un discor­so ope­rai­sta, o comun­que di con­flit­to, potes­se per­mea­re la fab­bri­ca dall’interno. Noi su quel pun­to abbia­mo sem­pre avu­to pro­ble­mi, le fab­bri­che era­no ine­spu­gna­bi­li. Ogni fab­bri­ca a Bolo­gna e nell’hinterland era­no roc­ca­for­ti, bastio­ni del Par­ti­to. Lì non si entra­va, punto.

Poi, con il pas­sa­re del tem­po, sia­mo riu­sci­ti a pene­tra­re dal­la por­ta di ser­vi­zio, quan­do il capi­ta­li­smo loca­le anda­va indi­riz­zan­do­si ver­so l’operaio socia­le. Incon­tram­mo gio­va­ni pro­le­ta­ri dei quar­tie­ri e del­la pro­vin­cia che per loro sfi­ga (così dice­va­no) per gua­da­gnar­si qual­co­sa entra­va­no in fab­bri­ca. E così que­sti gio­va­ni di diciot­to-dician­no­ve anni, al loro pri­mo lavo­ro, ten­ta­ro­no di fare qual­co­sa dall’interno, ma rima­ne­va estre­ma­men­te dif­fi­ci­le. La svol­ta fon­da­men­ta­le è sta­ta che que­ste esat­te per­so­ne le ritro­ve­re­mo più avan­ti nel movi­men­to, cioè fuo­ri dal­la fab­bri­ca. Ini­ziam­mo insie­me a loro a capi­re che si trat­ta­va di “ope­rai socia­li” che cer­ca­va­no sì di gua­da­gnar­si qual­co­sa in fab­bri­ca, ma sapen­do che sta­va­no seguen­do una pro­du­zio­ne di valo­re che ecce­de­va da lì, che si socia­liz­za­va. Ma pri­ma di pro­ce­de­re, meglio met­te­re in chia­ro alcu­ni ter­mi­ni che for­se per noi sono ovvi, ma per chi ha avu­to una for­ma­zio­ne diver­sa no.

Per quel che con­cer­ne l’operaio mas­sa, pen­sa­te l’addetto alla cate­na di mon­tag­gio, col­lo­ca­to in una spe­ci­fi­ca orga­niz­za­zio­ne capi­ta­li­sti­ca del lavo­ro e chiu­so in una fab­bri­ca con una disci­pli­na da caser­ma. È lo sce­na­rio nel qua­le, dopo il famo­so autun­no cal­do del ’69, ini­zia a fare emer­ge­re den­tro di sé la famo­sa “rude raz­za paga­na” descrit­ta da Tron­ti, la qua­le ini­zia ad ope­ra­re nei repar­ti con for­me di lot­ta per noi ine­di­te: gli scio­pe­ri a gat­to sel­vag­gio, i sabo­tag­gi e i cor­tei inter­ni, dove si spaz­za­va­no le linee e si puni­va­no i capi. Dun­que, per rispon­de­re a que­ste nuo­ve for­me di insu­bor­di­na­zio­ne il capi­ta­le si ristrut­tu­ra, spal­man­do la pro­du­zio­ne di mas­sa sul territorio.

Si mol­ti­pli­ca­no le pic­co­le fab­bri­chet­te e i labo­ra­to­ri, ma ini­zia­no anche ad appa­ri­re i pri­mi lavo­ri vir­tua­li: nuo­vi mestie­ri che crea­va­no una nuo­va com­po­si­zio­ne di clas­se, i cosid­det­ti “non garan­ti­ti”, che altro non era­no se non l’antecedente dei pre­ca­ri di oggi. Entra nel lavo­ro una nuo­va gene­ra­zio­ne di gio­va­ni, costret­ti a entra­re in un nuo­vo sche­ma pro­dut­ti­vo che sog­get­ti­va­men­te rifiu­ta­va­no, e che di pari pas­so inven­ta­va­no nuo­vi lin­guag­gi e nuo­ve for­me di comu­ni­ca­zio­ne. Ecco, è pro­prio su que­sto tes­su­to che a Bolo­gna e in pro­vin­cia abbia­mo lavo­ra­to for­te. Ma non per scel­ta teo­ri­ca, ma per­ché banal­men­te c’era poco altro da fare. Da noi, l’unica real­tà socia­le con del poten­zia­le era quel­la studentesca.

La Fiat di Bolo­gna era l’Università, ed era attor­no ad essa che gira­va la nuo­va pro­du­zio­ne e il nuo­vo sfrut­ta­men­to; e non a caso anco­ra oggi, in Piaz­za Ver­di, vedia­mo le ten­de pian­ta­te per denun­cia­re quell’iper-sfruttamento su cui l’intera bor­ghe­sia bolo­gne­se ha vis­su­to (cer­to, come osser­va­va un com­pa­gno qual­che gior­no fa, noi le ten­de le usa­va­mo per anda­re in vacan­za e le case le occu­pa­va­mo, ma chis­sà, vedre­mo come andrà a fini­re). Tor­nan­do a noi, i pro­ces­si pro­dut­ti­vi orbi­ta­va­no intor­no all’Università in quan­to polo di sfrut­ta­men­to e cen­tro di gra­vi­tà per una nuo­va com­po­si­zio­ne, desti­na­ta alla disoc­cu­pa­zio­ne e sen­za un doma­ni. Tut­to ciò lo ave­va­no già capi­to pro­prio i non garan­ti­ti di allo­ra. A dician­no­ve anni ave­va­no capi­to benis­si­mo che non avreb­be­ro mai avu­to la vita che gli era sta­ta pro­mes­sa; ma la loro novi­tà sta­va nel dire “ma bene, per for­tu­na! Noi quel­la vita bor­ghe­se non la voglia­mo”. E fu così che noi mili­tan­ti riu­scim­mo a rac­co­glie­re l’ipotesi del rifiu­to del lavo­ro come cor­ni­ce poli­ti­ca per lan­cia­re i per­cor­si di lot­ta che vedre­mo negli anni Set­ta­ta. Tut­ta l’Autonomia bolo­gne­se era dun­que inter­na a una nuo­va com­po­si­zio­ne, nel vivo dei pro­ces­si di cam­bia­men­to, par­ten­do dal rifiu­to del desti­no assegnato.

Ciò si river­be­ra­va anche nel­la mili­tan­za e nei suoi lin­guag­gi. In defi­ni­ti­va, non era­va­mo più Pote­re Ope­ra­io – nono­stan­te l’Autonomia orga­niz­za­ta altro non fos­se che il risul­ta­to del tra­sfe­ri­men­to in bloc­co dei mili­tan­ti di Pote­re Ope­ra­io, e segna­ta­men­te del ser­vi­zio d’ordine, nel­la nuo­va com­po­si­zio­ne subi­to dopo Roso­li­na. A quel pun­to però non adot­tia­mo più le for­me di pras­si allo­ra più usua­li, cioè la figu­ra del mili­tan­te rigi­do e ope­rai­sta. Ci accor­gia­mo, insom­ma, del­la neces­si­tà di cam­bia­re atteg­gia­men­to davan­ti all’apertura di una fase nuo­va. Sic­ché i mili­tan­ti di Pote­re Ope­ra­io, incon­tran­do l’operaio socia­le e tra­sfor­man­do­si in Auto­no­mia, una vol­ta rico­no­sciu­to che gli stru­men­ti che si usa­va­no pri­ma non era­no più effi­ca­ci ai fini del con­flit­to e del­la rot­tu­ra, li abban­do­na­no, spe­ri­men­tan­do nuo­vi lin­guag­gi, nuo­ve tat­ti­che e nuo­vi ter­re­ni di scontro.

Quel­lo che inve­ce tenia­mo stret­to è quel­lo che per noi ope­rai­sti è il prin­ci­pio car­di­ne del movi­men­to di clas­se fin dall’alba dei tem­pi: la que­stio­ne del­la for­za. La que­stio­ne del­la for­za è diri­men­te, indi­spen­sa­bi­le per l’Autonomia, oggi com­pre­so. Alla fine dei con­ti, non riu­scia­mo anco­ra ad abi­tuar­ci alla lega­li­tà bor­ghe­se e cose del gene­re. E il moti­vo è chia­ro, ovve­ro che per noi la poli­ti­ca deve sem­pre sta­re accan­to all’“esercizio legit­ti­mo del­la for­za” secon­do una del­le pri­me for­mu­let­te, o come dire­mo dopo all’“illegalità di massa”.

Ma ripe­to, per noi non è una novi­tà. Come ci ha spie­ga­to Vale­rio Evan­ge­li­sti in quel suo bel­lis­si­mo libret­to, Il Gal­let­to ros­so, dal 1892–1896 in poi, in quel gran­de movi­men­to ope­ra­io (socia­li­sta, tra l’altro, non anco­ra rivo­lu­zio­na­rio, ma solo “ten­den­te a”), duran­te gli scio­pe­ri dei brac­cian­ti e degli scar­rio­lan­ti si atti­va­va­no all’interno del­le mas­se degli ope­rai autor­ga­niz­za­ti attra­ver­so azio­ni di for­za. Ma non è che ci andas­se­ro tan­to per il sot­ti­le, eh? Incen­di, distru­zio­ni dei frut­te­ti, seque­stri dei padro­ni e dei loro fami­glia­ri, qual­cu­no lo han­no anche fat­to fuo­ri… Quel che con­ta osser­va­re di quei feno­me­ni è la dimo­stra­zio­ne di come si fos­se sem­pre pen­sa­to che la poli­ti­ca e la for­za non pos­sa­no fare a meno l’una dell’altra. La poli­ti­ca sen­za la for­za è rifor­mi­smo, un arra­bat­tar­si asso­lu­ta­men­te inef­fi­ca­ce davan­ti ai mez­zi di cui dispon­go­no i padro­ni (fino alla coop­ta­zio­ne: abbia­mo visto che fine ha fat­to Andrea Costa, no?); dall’altra, la for­za sen­za la poli­ti­ca non ha sen­so. Sarà sem­pli­ce, ma era un pun­to di par­ten­za indi­scus­so, cer­to, cri­stal­li­no. Quin­di, quan­do l’Autonomia, nei nuo­vi lin­guag­gi, lan­cia il tema dell’uso del­la for­za, non inven­ta asso­lu­ta­men­te nien­te. Por­ta avan­ti un pro­gram­ma (pro­le­ta­rio, ope­ra­io, chia­ma­te­lo come vi pare) che non pote­va esse­re diverso.

Ne con­se­gui­va quin­di che le nuo­ve teo­rie e i nuo­vi lin­guag­gi era­no sem­pre den­tro le lot­te, den­tro il con­flit­to, ma anche den­tro il ter­ri­to­rio. Per esem­pio, con un com­pa­gno pri­ma si par­la­va di con­tro­po­te­re. Be’, cosa signi­fi­ca­va “con­tro­po­te­re” e “uso legit­ti­mo del­la for­za”? Che in cer­ti quar­tie­ri la poli­zia non entra­va per­ché c’erano dei ser­vi­zi d’ordine di pro­le­ta­ri che sem­pli­ce­men­te non glie­lo per­met­te­va­no. La “que­stio­ne del red­di­to”? Signi­fi­ca­va che se noi non voglia­mo lavo­ra­re, se non ci inte­res­sa il lavo­ro ma il red­di­to e voi bor­ghe­si non ce lo date, benis­si­mo, noi lo venia­mo a pren­de­re, non c’è pro­ble­ma. Ecco in che sen­so par­la­va­mo di “uso legit­ti­mo del­la for­za”, per­ché ti ser­vi­va sia per cam­pa­re che per por­ta­re avan­ti i tuoi pro­get­ti di rot­tu­ra. Ovve­ro per comin­cia­re (ed è sta­to un nostro trat­to distin­ti­vo) a pra­ti­ca­re fin da subi­to degli ele­men­ti di comu­ni­smo. L’esproprio è uno di que­sti: ti orga­niz­zi con i pro­le­ta­ri di quar­tie­re, entri al super­mer­ca­to e fai in modo di usci­re sen­za ave­re dan­ni. Poi, che fuo­ri ci fos­se una coper­tu­ra arma­ta lo sape­va­mo sol­tan­to noi e gli sbir­ri, che non a caso non veni­va­no a rom­pe­re i coglio­ni o al limi­te, sem­pre per il prin­ci­pio “ten­go fami­glia”, arri­va­va­no a cose fat­te [godi­men­to e risa­te in sala]. Ma è com­pren­si­bi­le eh! Ognu­no fa il suo mestiere…

Dona­to

Anche lì, tra l’altro, non c’era un uni­co modello.

Vale­rio

Veris­si­mo, ogni ter­ri­to­rio ave­va il suo. Io me lo ricor­do anco­ra, all’Esselunga di Mila­no ci sia­mo diver­ti­ti un casi­no, una roba impres­sio­nan­te… [risa­te] Comun­que, que­sto giu­sto per dire che le cose fun­zio­na­va­no per­ché c’era die­tro un’organizzazione che le face­va fun­zio­na­re e le orga­niz­za­va. Que­sto è il sen­so di “uso legit­ti­mo del­la for­za”. Ma capia­mo­ci, mica riguar­da­va solo il pol­lo da man­gia­re la sera tu e i tuoi bam­bi­ni, ‘ste robe reto­ri­che da fine Otto­cen­to non ci inte­res­sa­va­no mini­ma­men­te; ma piut­to­sto la cul­tu­ra, il diver­ti­men­to. Tut­to que­sto costa­va? Lo si anda­va a pren­de­re. E quin­di si entra­va gra­tis al cine­ma, gra­tis al tea­tro, nei loca­li, dei con­cer­ti non ne par­lia­mo nean­che… [qual­cu­no dal pub­bli­co chie­de “L’autobus si paga­va?”] No, mac­ché, ma chi paga­va l’autobus? Ma figu­ra­ti! Ma nean­che il tre­no! Dico, per il tre­no si stam­pa­va­no i bigliet­ti fal­si e si anda­va fino a Pari­gi così, ne abbia­mo fat­ti a migliaia…

Dona­to

C’era un tale quan­ti­tà di sape­re su come recu­pe­ra­re red­di­to che oggi ha dell’incredibile. Fac­cio un esem­pio: il bol­lo del moto­ri­no costa­va 1505 lire. Tu con la sco­lo­ri­na lo can­cel­la­vi, met­te­vi la tar­ga del­la mac­chi­na e con 1505 lire gira­vi con il bol­lo del­la mac­chi­na paga­to. Voi­là. Oggi que­sto non è più pos­si­bi­le, ma è ovvio che ci saran­no altri sape­ri che pos­sa­no per­met­te­re situa­zio­ni del gene­re e che dovre­te met­te­re in cam­po. Non vi nascon­do che mi sono spes­so doman­da­to: “Ma caz­za­ro­la, ma è for­se pos­si­bi­le che non ci sia una cul­tu­ra del sabo­tag­gio attra­ver­so l’online, con l’hackeraggio o che ne so, che in un qual­che modo rie­sce a por­ta­re a casa red­di­to?” O comun­que a por­si que­sto pro­ble­ma. Que­ste sì sareb­be­ro cose inte­res­san­ti che la vostra gene­ra­zio­ne dovreb­be met­te­re a dispo­si­zio­ne, aggiun­gen­do un nuo­vo capi­to­lo a tut­to quel­lo che la nostra ave­va a suo tem­po esco­gi­ta­to per con­qui­star­si la pos­si­bi­li­tà di vive­re ridu­cen­do il cari­co di lavoro.

Ah, Vale­rio e io ci sia­mo dimen­ti­ca­ti di una cosa: con l’Autonomia sia­mo ben pri­ma del­la rivo­lu­zio­ne infor­ma­ti­ca. Comin­cia­va a intro­dur­si, e nono­stan­te già all’epoca qual­cu­no stra­par­las­se dispe­ra­to sul­la tec­ni­ca, noi non la demo­niz­za­va­mo a prio­ri. Per­ché? Per­ché la vede­va­mo come una par­ti­ta aper­ta, dove era­no i rap­por­ti di for­za che a deci­de­re se la rivo­lu­zio­ne infor­ma­ti­ca e la ristrut­tu­ra­zio­ne del capi­ta­le sareb­be­ro anda­ti a libe­ra­re dal­lo sfrut­ta­men­to o ver­so l’accumulazione di pro­fit­ti. Ma sia­mo sem­pre lì! Oggi come allo­ra – non ci stan­che­re­mo mai di ripe­ter­lo – sono i rap­por­ti di for­za che deci­do­no dove pen­de que­sto pro­ble­ma. Oggi cer­to, ci sono sicu­ra­men­te mol­ti più stru­men­ti di con­trol­lo socia­le, su que­sto non ci sono dub­bi, ma biso­gna comun­que sco­va­re da una qual­che par­te un anel­lo debo­le che ti per­met­ta di attra­ver­sa­re a tuo favo­re le dina­mi­che che incon­tri. Ed è pre­ci­sa­men­te su que­sto pun­to che agi­sce la sog­get­ti­vi­tà, è per que­sto che la mili­tan­za pren­de la for­ma del sog­get­to.

Per­ché capia­mo­ci, quan­do noi par­lia­mo di ope­ra­io mas­sa o ope­ra­io socia­le, par­lia­mo di con­cet­ti di lot­ta, altri­men­ti que­sti non esi­sto­no. L’operaio mas­sa è tale per­ché pra­ti­ca un par­ti­co­la­re ter­re­no di lot­ta, altri­men­ti è sol­tan­to for­za lavo­ro, una mer­ce pie­ga­ta, sot­to­mes­sa, bru­ta­liz­za­ta. Pun­to. L’operaio socia­le, rispet­to all’operaio mas­sa, com­pie un pro­ces­so ulte­rio­re: men­tre l’operaio mas­sa è ricom­po­sto in fab­bri­ca nel­la cate­na o nel repar­to, l’operaio socia­le devi ricom­por­lo ter­ri­to­rial­men­te. Ma il discor­so di fon­do resta il mede­si­mo: se al pro­ble­ma gli dia­mo una let­tu­ra di carat­te­re socio­lo­gi­co, allo­ra l’operaio socia­le è una figu­ra indi­stin­ta, gros­so modo atti­va nel ter­zia­rio, pro­dot­ta dal­la ristrut­tu­ra­zio­ne; ma que­sto non è un con­cet­to di lot­ta! A noi non inte­res­sa­no gli “effet­ti” del­la ristrut­tu­ra­zio­ne in quan­to tali, a noi inte­res­sa inter­cet­ta­re la sog­get­ti­vi­tà capa­ce di costrui­re per­cor­si e pro­get­to di rot­tu­ra di clas­se. E allo­ra l’operaio socia­le, deve dar­si stru­men­ti ricom­po­si­ti­vi rivol­ti a un pro­gram­ma di rottura.

Noi, ad esem­pio, que­sto pas­sag­gio lo risol­via­mo costruen­do i Grup­pi socia­li ter­ri­to­ria­li (Gs), che pri­ma veni­va­no ricor­da­ti. E sia chia­ro, noi mica li abbia­mo costrui­ti a par­ti­re da una pro­spet­ti­va ideo­lo­gi­ca. Addi­rit­tu­ra, come appun­to veni­va sot­to­li­nea­to da uno di voi al bar pri­ma di ini­zia­re, quel­la di Grup­po socia­le era una sigla usa­ta in par­roc­chia! E per­ché la recu­pe­ria­mo così come la tro­via­mo sen­za inor­ri­dir­ci? Per il sem­pli­ce fat­to che que­sta sigla, che già era pre­sen­te, era diven­ta­ta un vola­no del­le lot­te sui tra­spor­ti. A noi que­sto inte­res­sa­va. Ci inte­res­sa­va usci­re dal­la cit­tà (in que­sto caso, tra Pado­va e l’alta pado­va­na) ed entra­re nei paesi.

Per­ché l’altro aspet­to domi­nan­te nel Vene­to è tut­ta quel­la ric­chez­za ter­ri­to­ria­le che va ben oltre la cit­tà uni­ver­si­ta­ria. Dal­la bas­sa e l’alta pado­va­na alla Rivie­ra Beri­ca, tut­to il vicen­ti­no, il bas­sa­ne­se, il rodi­gi­no, Chiog­gia e tut­ta la zona di San Donà e Por­to­grua­ro… la par­te poli­ti­ca­men­te più pro­met­ten­te era la pro­vin­cia – e ricol­le­gan­do­mi per inci­so a quan­to dice­va­mo pri­ma, imma­gi­no che tro­vas­si­mo la stes­sa com­po­si­zio­ne che incon­tra­te voi oggi nel mode­ne­se. E così lan­cia­mo una scom­mes­sa, dicen­do­ci: “Poi­ché sia­mo tut­ti nati e cre­sciu­ti nei pae­si, sarà pro­prio quel tipo di cono­scen­za e di rap­por­ti diret­ti che abbia­mo tra noi il vola­no fon­da­men­ta­le per costrui­re un pro­get­to”. Sia­mo ami­ci pri­ma di diven­ta­re mili­tan­ti. Que­sti lega­mi ce li por­tia­mo die­tro da sem­pre e arri­va­no all’oggi. È den­tro a que­sto con­te­sto che si costrui­sce tut­to il per­cor­so poli­ti­co, ed è nel suo svi­lup­po che pren­de for­ma il contropotere.

In paro­le pove­re, per come noi lo con­ce­pi­va­mo, il con­tro­po­te­re era l’insieme dei com­por­ta­men­ti auto­no­mi; dun­que ele­men­ti che anda­va­no mol­to oltre a quel­lo che noi rap­pre­sen­ta­va­mo a livel­lo orga­niz­za­ti­vo. Quan­do vai a fare un’assemblea in una fab­bri­ca di 500 ope­rai, non fai mica bat­ta­glia con loro; la fai con gli altri 490 rispet­to ai qua­li c’è un con­trol­lo del sin­da­ca­to, e i die­ci tuoi devo­no esse­re deter­mi­na­tis­si­mi a fare altret­tan­to. Solo così pote­va fun­zio­na­re. Ne con­se­gui­va che il rap­por­to che ave­vi con i com­pa­gni in fab­bri­ca lo costrui­vi fuo­ri da lì.

Per esem­pio, nel libro c’è un’intervista a un com­pa­gno caris­si­mo, Gian­ni. Be’, Gian­ni entra in fab­bri­ca a quin­di­ci anni. A quin­di­ci anni era così per tut­ti, non ci sono per­cor­si uni­ver­si­ta­ri nel libro (me com­pre­so: fac­cio le supe­rio­ri e appe­na fini­te sono già car­ne da macel­lo den­tro la pro­du­zio­ne). Ma oltre a con­di­vi­de­re un “cur­ri­cu­lum”, si par­te­ci­pa alle stes­se espe­rien­ze di vita, spe­cial­men­te quel­le che con­si­de­ra­va­mo (a ragio­ne) più den­se di signi­fi­ca­to. È su quel ter­re­no – pre­po­li­ti­co più che impo­li­ti­co – che si cemen­ta l’intesa e la fidu­cia. In ter­mi­ni poli­ti­ci, l’accumulo di for­za dei sin­go­li com­pa­gni, com­pre­si quel­li costret­ti a subi­re le otto ore quo­ti­dia­ne, pro­vie­ne pri­ma dal pae­se, si ripro­du­ce in fab­bri­ca e infi­ne diven­ta un ele­men­to di bat­ta­glia politica.

Lo stes­so mec­ca­ni­smo ope­ra­va sot­to­trac­cia, per esem­pio, in un’altra impor­tan­te vicen­da che ripor­to nel libro, dove noi pren­dia­mo una fab­bri­ca pic­co­la, l’Italsthul, di 400 ope­rai, e la scon­vol­gia­mo. Ven­go­no casti­ga­ti i capi, bloc­chia­mo le linee, vie­ne pra­ti­ca­to il sabo­tag­gio alle mac­chi­ne, si vin­ce la ver­ten­za… ma alla base c’era sem­pre il con­tro­po­te­re, cioè un modo ope­ra­io e di clas­se di attra­ver­sa­re tut­ta la com­ples­si­tà del­la contraddizione.

Con il sen­no di poi abbia­mo sco­per­to che il con­tro­po­te­re costrui­to, oltre a for­ni­re la bus­so­la orga­niz­za­ti­va, è la rispo­sta a un gros­so pro­ble­ma dell’Autonomia, gra­zie al qua­le c’è una tenu­ta così for­te nono­stan­te una repres­sio­ne giu­di­zia­ria così pesan­te. La chia­ve era sem­pre que­sta rete di rela­zio­ni inter­per­so­na­li (anche ami­ca­li) che pre­ce­de­va la poli­ti­ca e impe­di­va che par­tis­se­ro del­le “deri­ve indi­vi­dua­li­sti­che” – non so se ci sia­mo inte­si. La tenu­ta pog­gia­va sull’impostazione assun­ta in anti­ci­po, lo dimo­stra l’unica ecce­zio­ne, un ope­ra­io del­la Lane­ros­si che diven­ta “ammit­ten­te”, ma par­lia­mo appun­to di un tizio che non è mai sta­to mili­tan­te d’organizzazione come lui stes­so affer­ma: enne­si­ma pro­va di come i pro­ces­si giu­di­zia­ri che abbia­mo subi­to si muo­ves­se­ro a par­ti­re da sug­ge­stio­ni, accom­pa­gna­te da un enor­me bat­ta­ge pro­pa­gan­di­sti­co-pub­bli­ci­ta­rio pro­mos­so dai media. A distan­za di cinquant’anni è diven­ta­ta pale­se la fra­gi­li­tà dell’ipotesi dell’accusa, ma all’epoca pur­trop­po ha fun­zio­na­to, soprat­tut­to attra­ver­so il car­ce­re preventivo.

Quel che mi inte­res­sa riba­di­re è che la chia­ve di vol­ta per impe­di­re il “com­bat­ten­ti­smo” pri­ma e il “pen­ti­ti­smo” poi è sta­ta appun­to il con­tro­po­te­re, cioè un accu­mu­lo di for­ze che nasce­va dal­la quo­ti­dia­ni­tà nei quar­tie­ri, nel­la pro­vin­cia e nei nostri luo­ghi di vita. E nel frat­tem­po, que­sto accu­mu­lo di for­ze ha per­mes­so di fare cose oggi impen­sa­bi­li. Non so se ren­do l’idea, si entra­va in fab­bri­che come la Laver­da (mac­chi­ne agri­co­le, 1200 ope­rai) o la Zanon (del pre­si­den­te dei metal­mec­ca­ni­ci vicen­ti­ni) e spe­gne­va­mo le mac­chi­ne. Voglio dire, ades­so sem­bra incre­di­bi­le anche a me, ma lo abbia­mo fat­to! L’ho fatto!

Per­ché insi­sto tan­to su que­sti esem­pi? Io pure dete­sto il redu­ci­smo. Insi­sto solo per dare un’idea di come ragio­nas­si­mo. Non è che noi razio­nal­men­te ci sedes­si­mo a un tavo­li­no e dices­si­mo “dai, abbia­mo capi­to tut­to quin­di ora dob­bia­mo solo par­ti­re ed è fat­ta”, per­ché non sai mai come si svi­lup­pe­rà. Nes­su­no di noi, quan­do a dicias­set­te-diciot­to anni abbia­mo inco­min­cia­to ad affac­ciar­ci a que­sto mon­do, pote­va sape­re cosa ne sareb­be venu­to fuo­ri. E tut­ta­via quel tipo di pro­get­to met­te­va in moto un’intelligenza col­let­ti­va suf­fi­cien­te a cat­tu­ra­re il tuo slan­cio e a ren­der­ti dispo­ni­bi­le a osa­re, a supe­ra­re con­di­vi­den­do anche le pau­re. Que­sta è sta­ta la mia mili­tan­za, e imma­gi­no anche quel­la di Vale­rio. Un’intelligenza col­let­ti­va e con­di­vi­sa che ti ha cat­tu­ra­to, un’intelligenza rivo­lu­zio­na­ria e comu­ni­sta in tota­le rot­tu­ra con lo sta­to di cose pre­sen­te.

È qui che ce la sia­mo gio­ca­ta. E così non ci sia­mo fat­ti impri­gio­na­re il cer­vel­lo dagli oriz­zon­ti dell’arricchimento per­so­na­le né da solu­zio­ni indi­vi­dua­li, che è l’altro lato del­la meda­glia. Il capi­ta­li­smo fun­zio­na così: “Non vuoi fare l’operaio? Diven­ta un paròn!” Non c’è via di mez­zo! [applau­si com­mos­siLa nostra ere­sia sta­va tut­ta lì: noi non voglia­mo fare gli ope­rai, e non voglia­mo fare i padro­ni: e quin­di pen­sia­mo che l’unica solu­zio­ne sia la rivo­lu­zio­ne comu­ni­sta, pun­to. Que­sta è sta­ta la bestem­mia che ha scon­vol­to tut­ti, in pri­mis il Pci. Figu­ra­ti caz­zo! Que­sti che voglio­no fare la rivo­lu­zio­ne sen­za lavo­ra­re! Così è andata.

Ora, io ho settant’anni ormai. Ma se ne aves­si ven­ti o tren­ta mi por­rei le stes­se doman­de: qua­li sono i mec­ca­ni­smi atti­vi den­tro que­sta nostra voglia di rot­tu­ra? Per­ché sia­mo qua oggi a par­la­re degli anni Set­tan­ta? Qual è l’elemento che ci diver­si­fi­ca dall’accettazione un’altra con­di­zio­ne di vita? Il cuo­re del­la vita mili­tan­te sta lì. Dopo­di­ché in que­sto van­no aggiun­te dina­mi­che col­let­ti­ve, e non ho dub­bi che i ter­mi­ni oggi sia­no mol­to diver­si da cinquant’anni fa; ma resto con­vin­to che gli ele­men­ti di fon­do resta­no gli stes­si, altri­men­ti la sto­ria non avreb­be sen­so. O si risol­ve il nodo del sal­to di gra­do dal rifiu­to indi­vi­dua­le del pre­sen­te all’insubordinazione col­let­ti­va, o c’è poco da fare – ma que­sto, scu­sa­te­mi, è un pro­ble­ma vostro. Per cui al limi­te quel­lo che pos­sia­mo veni­re a dir­vi è: “Per noi ha fun­zio­na­to que­sto” (o “sono sta­ti que­sti gli ele­men­ti costi­tuen­ti”, per usa­re un lin­guag­gio dell’oggi), dopo­di­ché è un pro­ble­ma vostro e di ogni nuo­va generazione

Lo so che è oggi mol­to più dura, ma voglio dire, anche noi sia­mo par­ti­ti spac­can­do con i grup­pi e uscen­do. La sto­ria di Pote­re Ope­ra­io nel Vene­to è solo a Pado­va e Mar­ghe­ra; già a Vicen­za non ave­va quel­la rile­van­za. Nel nostro ter­ri­to­rio era ege­mo­ne Lot­ta Con­ti­nua, con qua­dri e avan­guar­die ope­ra­ie inse­ri­ti soprat­tut­to nel­le fab­bri­che di Schio. Quin­di, tut­to il per­cor­so vie­ne mes­so in moto supe­ran­do quel tipo di pro­get­tua­li­tà, quan­do capia­mo che nel con­tra­sta­re la ristrut­tu­ra­zio­ne in cor­so tra il ’74 e il ’75 la stru­men­ta­zio­ne dei grup­pi era insuf­fi­cien­te. E così uscia­mo, amen. Ma pro­prio qui sta la pre­mes­sa cru­cia­le per l’uso del­la forza.

Anche pri­ma c’erano sta­te espe­rien­ze che vede­va­no un ser­vi­zio d’ordine arma­to. La dif­fe­ren­za fon­da­men­ta­le del­la nuo­va fase sta­va nell’esplicita volon­tà di costrui­re un’organizzazione poli­ti­co-mili­ta­re. Atten­zio­ne: arma­ta, non clan­de­sti­na! Se io non ho mai fat­to un gior­no di clan­de­sti­ni­tà, non è sta­to un caso. È anda­ta così per­ché sia­mo sem­pre par­ti­ti dall’idea che ogni sin­go­lo com­pa­gno dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti che faces­se inter­ven­to poli­ti­co in fab­bri­ca, in men­sa, in facol­tà, nel quar­tie­re doves­se anche “andar sot­to”, come dice­va­mo allo­ra. Era pre­ci­sa­men­te su que­sto insie­me – inter­ven­to nel­la com­po­si­zio­ne e con­flit­to – che modu­la­va­mo le azio­ni, com­pre­se le azio­ni armate.

La rile­van­za di un’azione non era mai con­ce­pi­ta a par­ti­re dal­la sua cruen­za; l’importante era che cre­sces­se un “qua­dro col­let­ti­vo”, una rete di com­pa­gni che fos­se coor­di­na­ta e capa­ce di distri­car­si in un socia­le sem­pre più com­ples­so. Non abbia­mo mai pen­sa­to ad “alza­re il tiro” o di attac­ca­re “al cuo­re del­lo Sta­to”, di discor­si del gene­re non ce ne pote­va fre­ga­re di meno. Per noi era più impor­tan­te che il capo che rom­pe­va i coglio­ni in fab­bri­ca potes­se tro­va­re gen­te capa­ce di sfa­sciar­gli la mac­chi­na e far­la fran­ca, poi­ché era pro­prio que­sta rete a dimo­stra­re diret­ta­men­te i suoi frut­ti posi­ti­vi quan­do anda­vi al lavo­ro il gior­no dopo. Oh, ci sono com­pa­gni a cui per vent’anni (vent’anni!), dopo le loro vicen­de nell’Autonomia, non han­no più rot­to i coglio­ni in fab­bri­ca fin­ché non sono anda­ti in pen­sio­ne. Ma vi pare poco? Que­sta era la for­za del con­tro­po­te­re, cioè del­la for­za immer­sa, intrec­cia­ta ai tuoi luo­ghi di vita. La clan­de­sti­ni­tà era l’esatto contrario.

Vale­rio

Il discor­so di Dona­to, sull’applicazione nel ter­ri­to­rio dell’uso legit­ti­mo del­la vio­len­za, mi pare inte­res­san­tis­si­mo anche per­ché si nota­no le enor­mi dif­fe­ren­ze tra i cicli pro­dut­ti­vi nell’alto Vene­to e nell’Emilia; ma per quan­to con­cer­ne lo sti­le di mili­tan­za, le nostre espe­rien­ze sono iden­ti­che. Là si appli­ca­va su un con­te­sto di fab­bri­ca, cosa che non acca­de­va a Bolo­gna – e dico Bolo­gna per­ché in Roma­gna non c’era nien­te, c’era un cen­tro impor­tan­te di Pote­re Ope­ra­io a Fer­ra­ra (con Gui­do Bian­chi­ni, mica caz­zi) e a Mode­na, ma era un’altra fase. C’era una com­po­si­zio­ne socia­le com­ple­ta­men­te diver­sa, con gros­se fab­bri­che di “intoc­ca­bi­li” e pic­co­le offi­ci­ne a dire poco “son­no­len­te”. Però quel­lo che suc­ce­de­va da voi vene­ti in fab­bri­ca suc­ce­de­va anche qui, e sem­pre in rap­por­to a quel­lo che i “testi sacri” ci indi­ca­no come ope­ra­io socia­le. Cam­bia­va la posi­zio­ne nel ciclo pro­dut­ti­vo: i nuo­vi mestie­ri, l’informatica che avan­za, la disoc­cu­pa­zio­ne riven­di­ca­ta in sen­so cri­ti­co, eccetera.

L’Autonomia Ope­ra­ia bolo­gne­se lavo­ra­va su que­sto tes­su­to esat­ta­men­te come la com­pa­gi­ne vene­ta lavo­ra­va su chi indi­vi­dua­va come loro refe­ren­te. L’idea di par­ti­re non da scel­te ideo­lo­gi­che, ma da quel­lo che il tuo ter­ri­to­rio ti pone davan­ti, era per­fet­ta­men­te con­di­vi­sa. E c’erano anche ana­lo­gie nel­le pra­ti­che, come appun­to il con­trol­lo del quar­tie­re. Una cosa giu­stis­si­ma che sot­to­li­nea­va Dona­to pri­ma è che il rap­por­to mili­tan­te tra “avan­guar­die”, dicia­mo così, e base socia­le non si for­ma sul luo­go di lavo­ro (la fab­bri­ca da loro, l’università da noi), ma si crea fuo­ri, ed è pri­ma un rap­por­to di ami­ci­zia e poi diven­ta di mili­tan­za. La seria atten­zio­ne che dedi­ca­va­mo ai nuo­vi lin­guag­gi deri­va anche da que­sto con­fron­to con il tuo pre­sen­te. Sape­te no, a Bolo­gna in que­gli anni c’era di tut­to: gli india­ni metro­po­li­ta­ni, i buddisti…

Dona­to

Oddio, gli india­ni mi sareb­be­ro sta­ti anche sim­pa­ti­ci, i bud­di­sti non so eh… [rido­no]

Vale­rio

Guar­da, c’era vera­men­te di tut­to. Per esem­pio, c’erano anche diver­si grup­pi di fem­mi­ni­ste, tra cui quel­le che pro­ve­ni­va­no da Pote­re Ope­ra­io (quel­le del sala­rio al lavo­ro dome­sti­co, per capir­ci) con cui ave­va­mo un rap­por­to sto­ri­co e che fini­ran­no tut­te nell’Autonomia, tant’è vero che mol­te di loro tra il ‘77 e il ’79 fini­ran­no arre­sta­te per que­stio­ni di lot­ta arma­ta (il grup­po del Self Help ha avu­to due arre­sti e una lati­tan­te poi­ché asso­cia­to dal Pm a noi di Ros­so, per inten­der­ci). Insom­ma, si lavo­ra­va su que­sta com­po­si­zio­ne per­ché que­sta c’era. E non è un caso che, sul­la que­stio­ne del­la for­za, si par­las­se di “ille­ga­li­tà di mas­sa”. Ricor­de­re­te quel­la gran­de pagi­na di «Ros­so», no? Ecco, rias­sun­ta in due pen­nel­la­te l’illegalità di mas­sa era esat­ta­men­te quel­lo: l’uso legit­ti­mo e pro­por­zio­na­to del­la for­za in fun­zio­ne del con­se­gui­men­to di obiet­ti­vi pratici.

Dona­to

Che poi è sem­pre una defi­ni­zio­ne di par­te… per­ché secon­do l’altra era­va­mo solo delin­quen­ti, eh. Sono sem­pre, anche quel­li, rap­por­ti di forza.

Vale­rio

Esat­ta­men­te. Anche su quel pia­no c’era una rispo­sta del­lo Sta­to, ma nul­la toglie che ci fos­se un’enorme dif­fe­ren­za tra quan­to face­va­mo noi e le altre orga­niz­za­zio­ni. In pri­mo luo­go, ci distan­zia­va­mo riso­lu­ta­men­te dal model­lo del­le Bri­ga­te Ros­se e degli altri grup­pi comu­ni­sti com­bat­ten­ti che si auto­ri­fe­ri­va­no come “par­ti­to com­bat­ten­te”, ovve­ro cen­tra­ti sull’idea del “nucleo comu­ni­sta arma­to” che avreb­be atti­ra­to attor­no a sé la clas­se ope­ra­ia per poi muo­ve­re una rivo­lu­zio­ne diret­ta dal nucleo stes­so. Nien­te di più diver­so dall’Autonomia. E infat­ti anche noi a Bolo­gna, così come i com­pa­gni vene­ti, non abbia­mo mai pra­ti­ca­to la clan­de­sti­ni­tà – se non, for­se, per pro­ble­mi stret­ta­men­te emer­gen­zia­li, come quan­do veni­vi indi­vi­dua­to e par­ti­va­no i man­da­ti di cat­tu­ra e dove­vi sparire.

Dona­to

Però quel­la – lo dico per­ché maga­ri ai ragaz­zi non è chia­ro – quel­la non è clan­de­sti­ni­tà, è lati­tan­za. Anche io mi sono fat­to i miei anni di lati­tan­za, ma c’eri costret­to e amen.

Vale­rio

E infat­ti si lavo­ra­va anche quan­do si era via…

Dona­to

E come no! Appun­to per­ché era solo lati­tan­za, non clandestinità.

Vale­rio

Ricor­do anche che a un cer­to pun­to, con una for­mu­let­ta buf­fa e che a me face­va mol­to ride­re, a Bolo­gna si par­las­se di “mili­tan­te com­ples­si­vo”. Cosa s’intendeva? Quel­lo che dice­va Dona­to pri­ma: che sta­vi den­tro alla clas­se, den­tro a quel­la com­po­si­zio­ne che ave­vi davan­ti per dar­gli un vet­to­re orga­niz­za­ti­vo. Det­to altri­men­ti, signi­fi­ca­va che oltre agli scon­tri face­vi con­ri­cer­ca, stan­do atten­to a qual­sia­si cosa si muo­ves­se per com­pren­der­la dall’interno così da orien­ta­re una sua even­tua­le effer­ve­scen­za – o maga­ri capi­vi che, nono­stan­te le appa­ren­ze ini­zia­li, quei sog­get­ti non ti inte­res­sa­va­no e man­da­vi tut­to a fan­cu­lo, ma il pun­to è lo stes­so. Insom­ma, una ricer­ca con­ti­nua del con­flit­to. Lad­do­ve c’era una con­trad­di­zio­ne, tu entra­vi e cer­ca­vi di capi­re come riu­sci­re coglie­re quell’esuberanza e trar­ci una rivolta.

L’uso del­la for­za era pro­por­zio­na­to e fina­liz­za­to solo ed esclu­si­va­men­te a que­sto. “Una strut­tu­ra di ser­vi­zio alla clas­se”, come rias­su­me­va qual­cu­no, con cui anda­re dove la clas­se, da sola, non riu­sci­va. Ripe­to, ritor­nia­mo al Gal­let­to ros­so e alle pra­ti­che di sem­pre: il padro­ne non cede alle riven­di­ca­zio­ni? Be’ cede­rà, e cede ecco­me! Non voglio dilun­gar­mi, ci sia­mo capi­ti. Se que­ste era­no le pre­mes­se, ne deri­va che tu scom­pa­ri­vi dal tuo tes­su­to socia­le solo se veni­vi indi­vi­dua­to dal­la repres­sio­ne; ma que­sto era inter­pre­ta­to come un inci­den­te sul lavo­ro, a dif­fe­ren­za di altri grup­pi che anda­va­no in clan­de­sti­ni­tà sen­za esse­re mai ricer­ca­ti. Pen­sa­te a come le Bri­ga­te Ros­se distin­gue­va­no i loro qua­dri tra “irre­go­la­ri”, cioè il giro lar­go di sim­pa­tiz­zan­ti e col­la­bo­ra­to­ri, e “rego­la­ri”, cioè bri­ga­ti­sti veri e pro­pri che, pur non essen­do ricer­ca­ti, deci­do­no di costrui­re il par­ti­to arma­to del­la rivo­lu­zio­ne, e fan­no solo quello.

La nostra e la loro era­no quin­di due con­ce­zio­ni del­la lot­ta arma­ta com­ple­ta­men­te diver­se, e cer­te vol­te anta­go­ni­ste. Toc­ca ammet­te­re però che, soprat­tut­to dopo Moro, mol­te di que­ste espe­rien­ze si sono incro­cia­te. Per dina­mi­che dif­fe­ren­ti da momen­to a momen­to, da cit­tà a cit­tà, da sog­get­to a sog­get­to; non è faci­le rias­su­mer­lo in pochi cen­ni. Io pos­so par­la­re solo di Bolo­gna. Sono sta­to in Pote­re Ope­ra­io dal­la nasci­ta nel ’69 al suo scio­gli­men­to nel ’73, e poi nell’Autonomia dal ’73 fino al ’79 con il pro­ces­so “7 apri­le”; quin­di que­ste con­nes­sio­ni le cono­sco bene e pos­so dire che sì, qual­cu­no le ha ten­ta­te, ma non sono mai riuscite.

Bolo­gna poi ha avu­to un’altra carat­te­ri­sti­ca, in vir­tù di quel sen­ti­men­to ami­ca­le, di amo­re fra­ter­no di cui par­la­va­mo pri­ma e che da noi ha avu­to un signi­fi­ca­to poli­ti­co enor­me. Era­va­mo tut­ti ami­ci, era­va­mo dav­ve­ro com­pa­gni, si vive­va gior­no e not­te insie­me. Si face­va inter­ven­to in con­ti­nua­zio­ne, ma si dor­mi­va­no tre-quat­tro ore per not­te soprat­tut­to per­ché si era sem­pre per stra­da. C’erano le feste, i casi­ni, i cor­tei not­tur­ni, le cose fat­te alla caz­zo tra ami­ci… E que­sta fra­tel­lan­za ce la sia­mo ritro­va­ta anche in tri­bu­na­le. Quan­do par­tì un gros­so pro­ces­so, il cosid­det­to “Pri­ma Linea bis” (Pri­ma Linea non c’entrava un caz­zo, si chia­ma­va così solo per­ché alcu­ni infa­mi mila­ne­si e tori­ne­si ave­va­no coin­vol­to alcu­ni dei nostri e così sono sta­ti tira­ti den­tro; da noi c’erano le Fcc, che era­no un’altra roba, ma non diva­ghia­mo), ven­go­no pre­si in 23 tra com­pa­gni e com­pa­gne (sot­to­scrit­to com­pre­so). A Bolo­gna in quel pro­ces­so e sul suo segui­to non abbia­mo avu­to nes­sun pen­ti­to. Mai. Per­ché? For­se sba­glie­rò, ma sono con­vin­to che que­sta tenu­ta venis­se anche dal­la fra­tel­lan­za pro­fon­da tra com­pa­gni, da quell’impossibilità spon­ta­nea a fare del male ai tuoi.

Fac­cio un rapi­do esem­pio. Quan­do mi han­no arre­sta­to era­no le tre di not­te. Mi han­no por­ta­to nel­la caser­ma di via dei Ber­sa­glie­ri, per­ché il nucleo ope­ra­ti­vo anti­ter­ro­ri­smo era lì. Ci ho tro­va­to sì i cara­bi­nie­ri, ma soprat­tut­to il Pm lì che mi aspet­ta­va. Mi fece vede­re il man­da­to di cat­tu­ra, con l’associativo per ban­da arma­ta, ma anche altri 32 rea­ti spe­ci­fi­ci, con robe assur­de… A quel pun­to mi ha mes­so davan­ti a un’alternativa: “Trent’anni e pas­sa di gale­ra, oppu­re deci­di per un per­cor­so di col­la­bo­ra­zio­ne che comin­cia sta­not­te. Tu ini­zia a par­la­re e se con­ti­nui sta­se­ra tor­ni a casa”. Io l’ho man­da­to let­te­ral­men­te affan­cu­lo. Si è incaz­za­to, ha det­to che quel­lo non era lin­guag­gio con­so­no a un magi­stra­to, e mi sono fat­to la galera.

Ma pote­vo io, quan­do mi chie­de­va i nomi (e ci ha pro­va­to, il mer­da, “cono­sci que­sto, cono­sci quest’altro?”), pote­vo denun­cia­re mio fra­tel­lo, mia sorel­la? E bada­te che qui la poli­ti­ca e l’eroismo non c’entrano un caz­zo, c’entra il voler bene alle per­so­ne con cui hai con­di­vi­so gio­ie e peri­co­li. Dar­si alla lot­ta arma­ta e tro­var­si in scon­tri a fuo­co dove rischi di mori­re da un momen­to all’altro non sono baz­ze­co­le. Cer­to, qual­cu­no trent’anni pri­ma di noi ave­va pas­sa­to le stes­se cose, o alme­no mio padre, che è sta­to par­ti­gia­no, me le rac­con­ta­va così: il suc­co era lo stes­so. In que­gli anni è capi­ta­to più di una dela­zio­ne, ma sem­pre da altre par­ti, in orga­niz­za­zio­ni dove le cose anda­va­no a modo loro. Che devo dire, sia­mo sta­ti fortunati?

Dona­to

Eh no, non è mica que­stio­ne di fortuna!

Vale­rio

Non lo è per­ché per noi mili­tan­za non è sol­tan­to lo sta­re fian­co a fian­co in azio­ne, ma esser­ci anche fuo­ri. Esse­re ami­ci, affron­ta­re i pro­ble­mi, com­pre­si quel­li per­so­na­li, che ti tie­ni nel­la testa. Nono­stan­te l’attenzione e la disci­pli­na che ti dai, non puoi esse­re sem­pre sicu­ro di te. E allo­ra, se hai dei com­pa­gni veri ti vol­ti e chie­di con­fer­me, maga­ri a una tua com­pa­gna che è anche fem­mi­ni­sta. [Rivol­to a Dona­to] Ma quan­te not­ti abbia­mo pas­sa­to a par­la­re di dub­bi, di pro­ble­mi, del rap­por­to uomo-don­na o dei rap­por­ti di pote­re nei grup­pi? Il dub­bio ci ha sem­pre accom­pa­gna­to e l’unico modo per affron­tar­lo seria­men­te era discu­ter­ne con i tuoi, con quel­la gen­te con cui poi con­di­vi­de­vi anche le lot­te. Non sia­mo mai sta­ti supe­re­roi, abbia­mo sem­pre avu­to le nostre debo­lez­ze e le nostre fra­gi­li­tà; poi cer­to, in azio­ne era tut­ta un’altra cosa. Lì il cer­vel­lo fun­zio­na in un’altra manie­ra, ci sei tu e ci sono loro, “clas­se con­tro clas­se, for­za con­tro for­za”, pun­to. Con il nemi­co il rap­por­to è tec­ni­co, essen­zial­men­te tec­ni­co. Ma chi tu sei vera­men­te lo capi­sci e lo discu­ti fuori.

Dona­to

Giu­stis­si­mo, con­di­vi­do tut­to. Tor­no però un secon­do su una que­stio­ne impor­tan­te, visto che maga­ri è pas­sa­ta in sor­di­na. Noi non abbia­mo mai con­ce­pi­to l’omicidio poli­ti­co, biso­gna dir­lo chia­ro e ton­do. È anche que­sto che ha per­mes­so una tenu­ta poli­ti­ca. Ci sono sta­ti anche tra di noi casi di tor­tu­ra, ma è altret­tan­to ovvio che quan­do arri­va, in situa­zio­ni come la nostra si inne­sta­no dina­mi­che com­ple­ta­men­te diver­se nel momen­to del­la repres­sio­ne, e per vari moti­vi. Pri­mo, per­ché sei una figu­ra pub­bli­ca, e quin­di hai imme­dia­ta­men­te chi fuo­ri ti guar­da le spal­le. Vi fac­cio un esem­pio mol­to ter­ra ter­ra: io sono sta­to arre­sta­to da lati­tan­te, dopo un anno e mez­zo, per cui pote­va­no spac­car­mi. Vole­va­no sape­re cosa apris­se­ro le chia­vi che ave­vo in tasca visto che oltre al sot­to­scrit­to c’erano un’altra deci­na di com­pa­gni lati­tan­ti. Per cui io subi­to ho pen­sa­to: “Ecco, ora può met­ter­si male”. E inve­ce per­ché non è suc­ces­so? Per­ché non appe­na mi han­no arre­sta­to mi tro­va­no un docu­men­to che ave­vo con me, un docu­men­to di un com­pa­gno che ave­vo fal­si­fi­ca­to tal­men­te bene che non ci cre­de­va­no. I cara­bi­nie­ri van­no quin­di da lui e imme­dia­ta­men­te si avvia una cate­na di Sant’Antonio, una rete di pro­te­zio­ne fuo­ri dal­la cel­la che mi sal­va da ulte­rio­ri pro­ble­mi oltre all’arresto. Tut­to que­sto per­ché era­va­mo figu­re pub­bli­che, soste­nu­te fuo­ri dal movimento.

L’altro fat­to­re, appun­to, è che non abbia­mo mai con­ce­pi­to l’omicidio pre­me­di­ta­to come stru­men­to di cre­sci­ta del con­tro­po­te­re. Io non so se ci sarem­mo arri­va­ti, per­ché par­lia­mo di un perio­do sto­ri­co mol­to pre­ci­so, e chis­sà cosa sareb­be suc­ces­so se le cose fos­se­ro anda­te diver­sa­men­te; ma nel­la nostra espe­rien­za non è mai acca­du­to che quest’ipotesi potes­se esse­re discus­sa. Poi l’incidente pote­va sem­pre capi­ta­re, come quan­do vai a fare una rapi­na in ban­ca e fini­sce male; ma non si è mai pre­so in con­si­de­ra­zio­ne l’omicidio inten­zio­na­le, che è tutt’altra fac­cen­da. La tenu­ta dei com­pa­gni sta anche in que­ste coordinate.

Ave­te visto, Vale­rio fini­sce in un’inchiesta pilo­ta­ta per repri­me­re del­le aree auto­no­me e gli arri­va una bot­ta di accu­se di atten­ta­ti che nean­che sai dove girar­ti. È suc­ces­so anche a me, quan­do avvie­ne la tra­ge­dia a Thie­ne in rispo­sta agli arre­sti del “7 apri­le”, dove muo­io­no Ange­lo Dal San­to, Anto­niet­ta Ber­na e Alber­to Gra­zia­ni. Io ven­go imme­dia­ta­men­te coin­vol­to, spic­ca­no il man­da­to di cat­tu­ra la sera stes­sa e mi tira­no addos­so tut­to quel­lo che è sta­to riven­di­ca­to nel Vene­to. Quin­di, i man­da­ti di cat­tu­ra su cosa sono costrui­ti? Sono costrui­ti sul­la radi­ca­li­tà del con­flit­to, e usa­no que­sto gene­re di sug­ge­stio­ne cari­can­do il sin­go­lo accu­sa­to di tut­to quel­lo che è ricon­du­ci­bi­le al grup­po, e solo a que­sto pun­to imba­sti­sco­no l’indagine. L’indagine è costrui­ta sul­la pesan­tez­za del­le accu­se: più il man­da­to è pesan­te e più ti cer­ca­no, all’estero con l’Interpol o con Dal­la Chie­sa che rastrel­la i pae­si e via discor­ren­do. Quin­di la tenu­ta dell’Autonomia deri­va in par­te dal­la scel­ta del­le pra­ti­che e in par­te da un lato dal suo radi­ca­men­to, che per­mi­se che fin dal­la sera stes­sa degli arre­sti ci fos­se chi anda­va in piaz­za a riven­di­ca­re la “liber­tà per i comunisti”…

Vale­rio

E anche a Bolo­gna fun­zio­na­va così, il gior­no dopo c’era già un corteo.

Dona­to

E infat­ti di quel­lo si par­la­va nel palaz­zet­to al con­ve­gno del ’77, quel­lo in cui le Br si dico­no: “Toh, quan­to con­sen­so che abbia­mo!” Era una bat­ta­glia poli­ti­ca con la “destra” del movi­men­to sull’uso del­la for­za. Mica vole­va­mo entra­re nel­le Br, pen­sie­ro che non mi ha mai sfio­ra­to nean­che per sba­glio: riven­di­ca­re Cur­cio e la deten­zio­ne poli­ti­ca diven­ta­va un ele­men­to di bat­ta­glia poli­ti­ca. Que­sto per dire che l’estensione del­la soli­da­rie­tà per i dete­nu­ti era cen­tra­ta su quel­lo che sareb­be avve­nu­to fuo­ri dal car­ce­re una vol­ta che ci fini­vi tu.

Poi, vor­rei par­la­re di un altro ele­men­to e par­to anche qui da un esem­pio con­cre­to. Pri­ma­ve­ra del ’78, sia­mo in pie­no seque­stro Moro. A Mila­no all’Alfa il sin­da­ca­to con­trat­ta con il diret­to­re di sta­bi­li­men­to i famo­si “saba­ti lavo­ra­ti­vi”. Cioè fir­ma un accor­do dove si sta­bi­li­sce che, per come è orga­niz­za­ta, la fab­bri­ca pro­du­ce poco e si pos­so­no fare ven­ti Giu­liet­te di più al gior­no. Ripe­to, è il sin­da­ca­to che gesti­sce ‘sta por­ca­ta e che si met­te a fare il con­trol­lo­re del­la pro­du­zio­ne, e paral­le­la­men­te è su que­ste basi che il Pci si gio­ca l’ingresso nell’area di gover­no. Tut­to il nostro disprez­zo per il Pci par­te dal gover­no dei pro­ces­si pro­dut­ti­vi, mica dal­le seghe men­ta­li dell’ortodossia ideo­lo­gi­ca (det­to per inci­so, que­sto straor­di­na­rio non paga­to rien­tra in quel­la “teo­ria dei sacri­fi­ci” di Lama, giu­sto per dare un po’ di con­cre­tez­za ad altri discor­si che avre­te sen­ti­to par­la­re in una manie­ra fumo­sa). I com­pa­gni van­no per impe­di­re lo straor­di­na­rio, c’è una rea­zio­ne del ser­vi­zio d’ordine Cgil e picii­sta, posto a dife­sa del­la pro­dut­ti­vi­tà, che li cari­ca assie­me alle for­ze dell’ordine.

Tut­to que­sto avvie­ne in con­tem­po­ra­nea al seque­stro Moro. Quin­di, tu da un lato vedi l’Autonomia che vuo­le scar­di­na­re la gior­na­ta lavo­ra­ti­va socia­le, per­ché indi­vi­dua lì il noc­cio­lo del pro­ble­ma e del­la rigi­di­tà di gover­no che infor­ma le rela­zio­ni socia­li; e dall’altra par­te chi che cre­de che il pro­ble­ma sia rag­giun­ge­re un fan­to­ma­ti­co “cuo­re del­lo Stato”.

Vale­rio

Esat­to, per­fet­to. L’hai det­ta benissimo.

Dona­to

Que­sta è la con­trad­di­zio­ne che si gio­ca tra noi e i “com­bat­ten­ti”. L’elemento che vole­va­mo rom­pe­re era la rigi­di­tà del­le otto ore. Ed è così anco­ra oggi! Sono pas­sa­ti cinquant’anni e non sol­tan­to non riu­scia­mo a tro­va­re stru­men­ti per spac­ca­re su quel pun­to, ma anzi le ore stan­no aumen­tan­do! Quel­lo che a Vale­rio e me sem­bra incom­pren­si­bi­le, oggi, è che sia spa­ri­to il tema del­la ridu­zio­ne dell’orario di lavo­ro, che per noi era cen­tra­lis­si­mo e su cui ci sia­mo gio­ca­ti tut­to. Quan­do par­la­va­mo di “lavo­ra­re tut­ti per lavo­ra­re meno” ci cre­de­va­mo! Era­va­mo con­vin­ti che quel­la fos­se la stra­da del­la rot­tu­ra, la stra­da che ci avreb­be per­mes­so di usci­re da quel­la cri­si del capi­ta­le. Nel discu­te­re sul­la pre­sen­za o no di un pro­ces­so rivo­lu­zio­na­rio in quel­le espe­rien­ze, è a que­sto pun­to che dob­bia­mo guar­da­re, per­ché era per noi il modo per intro­dur­re nel­la cri­si di capi­ta­le la solu­zio­ne ver­so la rivo­lu­zio­ne comu­ni­sta. Così è andata.

E io sono anco­ra con­vin­to, dati alla mano, che nell’insistere sull’orario e sul­la frat­tu­ra del­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va ci aves­si­mo visto giu­sto. Pro­prio per­ché è esat­ta­men­te quel­lo che si è rea­liz­za­to: non come lo vole­va­mo – ovve­ro un con­trol­lo del­la cri­si attra­ver­so appun­to il con­tro­po­te­re, attra­ver­so cioè un accu­mu­lo di for­ze che ti per­met­tes­se di usa­re la fles­si­bi­li­tà nel­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va a tuo van­tag­gio – ma ribal­ta­ta nel­la scon­fit­ta – cioè il pre­ca­ria­to. Tut­ti gli aspet­ti peg­gio­ri del­la con­di­zio­ne lavo­ra­ti­va di oggi sono il risul­ta­to di quel­la scon­fit­ta.

Se io doves­si sug­ge­ri­re a chi oggi fa mili­tan­za una chia­ve di let­tu­ra, par­ti­rei chie­den­do­gli: ma tu come hai risol­to, anche sin­go­lar­men­te, que­sta con­trad­di­zio­ne nel lavo­ro vivo del­le otto ore e del­la rigi­di­tà? Come pen­si di affrontarla?

Par­te II

Pub­bli­chia­mo la secon­da e ulti­ma par­te dell’incontro con Vale­rio Guiz­zar­di e Dona­to Taglia­pie­tra – rispet­ti­va­men­te, negli anni Set­tan­ta, mili­tan­ti auto­no­mi di Ros­so (a Bolo­gna) e dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io (a Vicen­za) – avve­nu­to a Mode­na il 13 mag­gio 2023. La discus­sio­ne, dav­ve­ro ric­ca, ha avu­to il pre­gio di evi­ta­re il rischio dell’aneddotica fine a se stes­sa, riu­scen­do così a sot­to­li­nea­re qual­che pun­to di meto­do su cui for­se con­vie­ne ragio­na­re. Ecco­li di seguito.

Radi­ca­men­to

I mili­tan­ti auto­no­mi degli anni Set­tan­ta sono sta­ti chia­ri nel resti­tui­re l’idea di radi­ca­men­to nel­la com­po­si­zio­ne socia­le. Un radi­ca­men­to tale che por­te­reb­be ad annul­la­re (par­zial­men­te ma in una misu­ra impor­tan­te) il con­fi­ne tra mili­tan­ti e sog­get­ti socia­li. È come se dices­se­ro: “Ho potu­to orga­niz­za­re il rifiu­to del lavo­ro dif­fu­so nel­la com­po­si­zio­ne socia­le per­ché io stes­so ero espres­sio­ne di quel­la com­po­si­zio­ne e di quel rifiu­to”. Posto che oggi non si espri­mo­no for­me dif­fu­se e for­ti di rifiu­to del lavo­ro, ancor­ché laten­ti (si veda il feno­me­no “gran­di dimis­sio­ni”), per­ché si sten­ta a coglie­re, se c’è, quan­to­me­no una qual­che istan­za del­la com­po­si­zio­ne a cui noi stes­si appar­te­nia­mo? Cosa stia­mo sba­glian­do? For­se che quel con­fi­ne tra mili­tan­ti e com­po­si­zio­ne è ecces­si­va­men­te mar­ca­to? Nono­stan­te la cono­scen­za teo­ri­ca del­le tra­sfor­ma­zio­ni dei pro­ces­si pro­dut­ti­vi, nono­stan­te gli sfor­zi per pen­sa­re le tra­sfor­ma­zio­ni del­la sog­get­ti­vi­tà, si fati­ca a tro­va­re anche solo una pic­co­la solu­zio­ne. Oppu­re la com­po­si­zio­ne è tal­men­te fram­men­ta­ta, scom­po­sta in micro­bol­le auto­re­fe­ren­zia­li, da ren­de­re impos­si­bi­le un qual­sia­si radi­ca­men­to profondo?

Feli­ci­tà

Que­sto radi­ca­men­to, ci dico­no Vale­rio e Dona­to, pog­gia­va non solo su un dif­fu­so rifiu­to del lavo­ro sala­ria­to, ma pure su un’idea di feli­ci­tà. For­se una que­stio­ne da non sot­to­va­lu­ta­re. Qua­le può esse­re per noi oggi un’idea di feli­ci­tà con­cre­ta, com­pren­si­bi­le a livel­lo di mas­sa, attor­no a cui costrui­re del­le for­me orga­niz­za­ti­ve? Que­sta istan­za di feli­ci­tà è mol­to diver­sa dal­le istan­ze del biso­gno (un esem­pio su tut­ti, la casa): anche all’epoca c’erano for­me di sod­di­sfa­ci­men­to ille­ga­le dei biso­gni, ma era­no stru­men­ta­li a quell’istanza di feli­ci­tà e di rifiu­to. Oggi il rap­por­to pare invertito.

Orga­niz­za­zio­ne

Obiet­ti­vo e pras­si mili­tan­te degli auto­no­mi non è sta­ta la ricer­ca di “oppres­si”, ma di una sog­get­ti­vi­tà capa­ce di dare ricom­po­si­zio­ne e pro­get­to. Il tipo di mili­tan­za e il model­lo di orga­niz­za­zio­ne pre­se­ro la for­ma di quel sog­get­to: quin­di non ideo­lo­gi­che, non iden­ti­ta­rie. L’operaio socia­le, “con­cet­to di lot­ta”, lo dove­vi ricom­por­re ter­ri­to­rial­men­te, la sua for­za si ripro­du­ce­va nel ter­ri­to­rio e si river­sa­va nel­la fab­bri­ca (dal­la ron­da degli ope­rai-mas­sa nei repar­ti del­la fab­bri­ca for­di­sta alla ron­da ter­ri­to­ria­le dell’operaio socia­le nel­la fab­bri­ca dif­fu­sa: ogni fab­bri­ca un “repar­to” del­la fab­bri­ca socia­le). I model­li orga­niz­za­ti­vi sono fat­ti per cam­bia­re – ci dico­no gli auto­no­mi degli anni Set­tan­ta – van­no arti­co­la­ti su ciò che è effi­ca­ce, si strut­tu­ra­no per cat­tu­ra­re tut­ta la poten­zia­li­tà del con­flit­to e tut­ta l’intelligenza col­let­ti­va espres­sa dal­la com­po­si­zio­ne-ter­ri­to­rio, per met­ter­le in moto. Poli­ti­ca e for­za – o anco­ra meglio, pro­get­to poli­ti­co e uso del­la for­za – van­no arti­co­la­te insie­me. La poli­ti­ca sen­za la for­za diven­ta rifor­mi­smo, la for­za sen­za poli­ti­ca, ribel­li­smo adolescenziale. 

Ambi­va­len­za

Un pas­sag­gio impor­tan­te del­la discus­sio­ne ha toc­ca­to l’ambivalenza di quel­la sog­get­ti­vi­tà mili­tan­te. Gli auto­no­mi, osser­va­no Vale­rio e Dona­to, era­no per lo più gio­va­ni sco­la­riz­za­ti, istrui­ti, la mag­gior par­te pro­ve­nien­te dagli Isti­tu­ti Tec­ni­ci, for­ma­ti come peri­ti indu­stria­li, da met­te­re al lavo­ro come qua­dri inter­me­di del coman­do in fab­bri­ca. In quel fran­gen­te di tem­po, tale sog­get­ti­vi­tà rifiu­ta il pro­prio desti­no asse­gna­to: quei gio­va­ni non voglio­no di cer­to esse­re ope­rai come i pro­pri geni­to­ri, ma nean­che “i padro­ni”, colo­ro che li sfrut­ta­no. Rifiu­ta­no il loro desti­no di tec­ni­ci del pro­ces­so pro­dut­ti­vo, qua­dri di coman­do sul­la for­za-lavo­ro per il padro­ne, e que­sto rifiu­to con­du­ce la sog­get­ti­vi­tà a esse­re un qua­dro poli­ti­co con­tro il padro­ne, per il coman­do del­la clas­se ope­ra­ia. Né ope­rai né padro­ni: la “ter­za via” gli auto­no­mi la tro­va­no nel voler fare la rivo­lu­zio­ne comu­ni­sta.  

Ami­ci­zia politica

In sala, duran­te la discus­sio­ne, ha risuo­na­to mol­to la que­stio­ne dell’amicizia e del­la fra­tel­lan­za degli auto­no­mi. “Sia­mo ami­ci pri­ma di diven­ta­re mili­tan­ti”: ami­ci del pae­se, del quar­tie­re, del­la scuo­la. E si rima­ne ami­ci anche da mili­tan­ti, anzi la mili­tan­za raf­for­za que­sta ami­ci­zia fino a far­la diven­ta­re fra­tel­lan­za. La leal­tà, l’affetto, il “parar­si il culo” a vicen­da, lo sta­re insie­me sono par­te del­la vita mili­tan­te. Il sen­so da dare alla paro­la “com­pa­gno” si arric­chi­sce e appro­fon­di­sce. Per que­sto, dico­no Vale­rio e Dona­to, feno­me­ni come il pen­ti­ti­smo e gli infa­mi non han­no lace­ra­to le loro orga­niz­za­zio­ni come suc­ces­so inve­ce per altre espe­rien­ze poli­ti­che. “Come si fa a tra­di­re un pro­prio fra­tel­lo?”, si chie­do­no. “I nostri com­pa­gni”: chi ci sta spal­la a spal­la, affron­tan­do insie­me peri­co­li e gio­ia, disci­pli­na e con­qui­ste del pro­get­to poli­ti­co. Fac­cia­mo fati­ca a pen­sa­re una mili­tan­za fred­da, dove ci si incon­tra solo per la riu­nio­ne, l’assemblea, l’azione, l’iniziativa, e poi ognu­no per la sua stra­da, come a mar­ca­re un car­tel­li­no – un’esperienza pove­ris­si­ma. Que­sto tipo di rap­por­to mili­tan­te ha diver­si van­tag­gi, ma anche mol­ti limi­ti pra­ti­ci. Come tene­re insie­me l’essere ami­ci, fra­tel­li e sorel­le, con le neces­si­tà del fun­zio­na­men­to, dell’organizzazione, del pro­get­to politico?

Sui limi­ti dell’esperienza dell’Autonomia

Infi­ne occor­re­reb­be appro­fon­di­re i limi­ti di quell’esperienza. A sot­to­li­nea­re come quel con­fi­ne tra mili­tan­ti e com­po­si­zio­ne socia­le fos­se sfu­ma­to, la para­bo­la dell’Autonomia rispec­chia le tra­sfor­ma­zio­ni com­ples­si­ve a cui non si è riu­sci­ti a dare una rispo­sta orga­niz­za­ti­va. Quell’idea di feli­ci­tà che ali­men­ta­va le lot­te è sta­ta disa­stro­sa­men­te fago­ci­ta­ta dal mer­ca­to, l’ambivalenza del rifiu­to del pro­prio desti­no (“né ope­rai né padro­ni”) ha tro­va­to esi­to, negli anni Ottan­ta, nel­la dif­fu­sio­ne di for­me di lavo­ro auto­no­mo (con tut­to il loro por­ta­to di auto­sfrut­ta­men­to), e la poli­ti­ca si è indi­vi­dua­liz­za­ta – cer­can­do al mas­si­mo di esse­re dei buo­ni “padron­ci­ni”, di resi­ste­re indi­vi­dual­men­te alla sog­get­ti­va­zio­ne che ine­vi­ta­bil­men­te quel­la for­ma di vita e di lavo­ro com­por­ta­no. È da ragio­na­re il nodo irri­sol­to sul non esse­re riu­sci­ti a chiu­de­re il pas­sag­gio orga­niz­za­ti­vo sul “nazio­na­le” pri­ma dell’”appuntamento con la sto­ria”, in que­sto caso indi­ca­to come il rapi­men­to Moro. Radi­ca­men­to, ric­chez­za e for­za a livel­lo ter­ri­to­ria­le dell’Autonomia non han­no ret­to allo scar­to di fase poli­ti­ca e di ter­mi­ni del­lo scon­tro com­ples­si­vi, di fat­to dan­do come alter­na­ti­ve ai com­pa­gni: chi vole­va com­bat­te­re, con o come le BR; chi non rie­sce a star­ci den­tro, riflus­so nel pri­va­to e nell’edonismo, o eroi­na e auto­di­stru­zio­ne. Sta qui for­se il buco nero degli anni Ottanta.

Buo­na lettura.

Doman­da

All’inizio ave­te dato que­sta defi­ni­zio­ne di mili­tan­za come «una cor­sa velo­cis­si­ma di una gene­ra­zio­ne ver­so la feli­ci­tà» vis­su­ta come una costru­zio­ne quo­ti­dia­na, «lon­ta­na dal­la costri­zio­ne a cui pen­sa­va­no di sot­to­met­ter­ci». Mi chie­do quin­di: quan­to era arti­co­la­ta la con­sa­pe­vo­lez­za di cosa fos­se quel­la costri­zio­ne? E come nasce la sen­sa­zio­ne di esse­re desti­na­ti a un ruo­lo socia­le pre­scrit­to pro­prio nel momen­to in cui final­men­te ti sem­bra di poter­ti riap­pro­pria­re del­la vita? Con­si­de­ran­do que­sti aspet­ti del­la vita mili­tan­te, l’uscita dal­la fami­glia (una fami­glia che, non solo nel Vene­to ma anche in Emi­lia ha un cer­to peso), ha in qual­che modo inci­so sul­la mes­sa in comu­ne del rischio, sia poli­ti­co che biografico?

Duran­te il vostro discor­so, infat­ti, mi è tor­na­to in men­te una cosa che dis­se un com­pa­gno alcu­ni anni a un mili­tan­te del­la vostra gene­ra­zio­ne: «Voi ave­te ucci­so il padre» – l’Autonomia come i “figli di nes­su­no” – «ma a noi cosa ser­ve ucci­de­re il padre se il padre è depres­so?» Il pun­to diven­ta capi­re che peso ha avu­to lo scar­to gene­ra­zio­na­le degli anni Ottan­ta: dopo­tut­to, tan­ti di noi sono cre­sciu­ti solo come figli del­la cri­si. Cam­bia dal ter­ri­to­rio e nel tem­po, ma l’università comun­que ripro­du­ce for­za lavo­ro e nel far­lo ten­de a pro­dur­re una sog­get­ti­vi­tà pron­ta ad accet­ta­re quel­lo che c’è fuo­ri; di modo che, alla fin del­la fie­ra, l’effetto smo­bi­li­tan­te del “cavar­se­la da soli” rima­ne. E tut­ta­via mi pare che ci sia una dif­fe­ren­za impor­tan­te tra la com­po­si­zio­ne gio­va­ni­le di oggi e la vostra: oggi mi sem­bra che, per mol­ti gio­va­ni, ci sia l’impressione che comun­que un’alternativa in qual­che modo ce l’avrai. Così che non ini­zi da pri­ma a met­te­re in discus­sio­ne dove andrai, pro­prio per­ché pen­si che comun­que la svol­ti e te la risolvi.

La secon­da dif­fe­ren­za su cui biso­gne­reb­be inter­ro­gar­si riguar­da i ter­ri­to­ri in que­stio­ne. C’è anco­ra un’etica del lavo­ro impo­sta su di essi, o c’è un’etica dell’io? Infat­ti, gra­zie alla vostra pro­fon­da cono­scen­za dei ter­ri­to­ri, era­va­te riu­sci­ti a pro­ble­ma­tiz­za­re del­le dina­mi­che che esplo­de­ran­no suc­ces­si­va­men­te con i distret­ti, in pri­mo luo­go la mes­sa a valo­re dei sape­ri taci­ti; tut­ta­via, la rivo­lu­zio­ne digi­ta­le che è avve­nu­ta in mez­zo a voi e noi, ha por­ta­to a un cam­bia­men­to sia nel­la qua­li­tà del lavo­ro, sia nel­la sog­get­ti­vi­tà. Moti­vo per cui noi sia­mo cre­sciu­ti da una par­te con l’autoimprenditoria dei social, e dall’altra con la sfi­ga, la scon­fit­ta di que­sta sini­stra, che ha per­so qua­lun­que spin­ta ver­so il riscatto.

Ten­go a sot­to­li­nea­re che que­sto pun­to si con­net­te diret­ta­men­te a quan­to dice­vo pri­ma sul­la con­di­vi­sio­ne del rischio. Ave­te infat­ti par­la­to di mili­tan­za com­ples­si­va (direi anche esi­sten­zia­le), cioè un riget­to del­la scis­sio­ne tra “ades­so entro a lavo­ro”, “ades­so sono all’università” e “ades­so vado a fare mili­tan­za”. Se le cose stan­no così, quan­to pen­sa­te che sia sta­to rile­van­te e abbia rico­per­to un peso il fat­to che vi sia­te incon­tra­ti pri­ma di entra­re nel­la dimen­sio­ne lavo­ra­ti­va, che nel 2023 è sem­pre più indi­vi­dua­liz­zan­te e com­pe­ti­ti­va? Quan­to pen­sa­te abbia influi­to sull’originalità del­la scom­mes­sa auto­no­ma il vostro esse­re ami­ci pri­ma – ami­ci con­tro, per dir­la con la bel­la defi­ni­zio­ne di Tron­ti – e com­pa­gni poi? Mi pare di capi­re che si creas­se un lega­me di fidu­cia nel qua­le il dub­bio vie­ne risol­to insie­me; nel qua­le ogni bivio che si pre­sen­ta indi­vi­dual­men­te lo risol­vi col­let­ti­va­men­te; e allo stes­so tem­po l’individuo esi­ste, non essen­do appun­to una dimen­sio­ne di bas­sa, dove sie­te “omo­lo­ga­ti” e sce­mi (che maga­ri è quel­lo che abbia­mo cono­sciu­to noi nel­le orga­niz­za­zio­ni poli­ti­che, con quell’identitarismo in cui vie­ne a man­ca­re un’interpretazione e un ragio­na­men­to per­so­na­le per sal­va­re l’etichetta).

Vale­rio

Per quan­to riguar­da quest’ultima doman­da, direi ti sei rispo­sta da sola! Io non avrei nien­te da aggiun­ge­re, tan­to­me­no da inse­gna­re. L’hai ana­liz­za­ta per­fet­ta­men­te. Ma ora, oltre alle ana­li­si, ser­vo­no solu­zio­ni orga­niz­za­ti­ve, che nes­su­no di noi ha, che con­cor­ra­no nel­la dire­zio­ne – e sco­pro l’acqua cal­da – del con­flit­to e del­la rot­tu­ra rivo­lu­zio­na­ria. In paro­le pove­re: all’interno di un pro­get­to di que­sto gene­re, come pos­sia­mo ripro­dur­re i nostri com­por­ta­men­ti sov­ver­si­vi? Le inven­zio­ni da fare sono quel­le ormai. La nostra gene­ra­zio­ne fece quel­lo che abbia­mo rac­con­ta­to; oggi la situa­zio­ne è diver­sa, ma hai capi­to per­fet­ta­men­te qual è la stra­da, e non è mica poco.

Doman­da

Mi inte­res­sa chie­de­re a Dona­to un appro­fon­di­men­to sul­la cifra orga­niz­za­ti­va dell’Autonomia vene­ta. Abbia­mo par­la­to dei Grup­pi socia­li e del rap­por­to diret­to con il ter­ri­to­rio, ma vor­rei sape­re più nel det­ta­glio come fos­se strut­tu­ra­to. Men­tre da Guiz­zo mi sareb­be pia­ciu­to sen­ti­re qual­co­sa di più sul rap­por­to dell’Autonomia con il Pci. Sono tut­te doman­de che par­to­no dai pro­ble­mi che abbia­mo noi oggi, ovve­ro la sfi­da dell’organizzazione e la que­stio­ne del nemi­co, di chi coman­da, dove però que­sto veni­va visto come “il par­ti­to del­la clas­se ope­ra­ia”, “del popo­lo”, “del­la Resi­sten­za”. In chiu­su­ra, farei una doman­da a entram­bi: nel vostro per­cor­so mili­tan­te ave­te avu­to ispi­ra­zio­ne o richia­mi ad altre espe­rien­ze este­re? E infi­ne, qua­li sono sta­ti i limi­ti dell’Autonomia, che ne han­no fat­to, come qual­cu­no sostie­ne, «una magni­fi­ca rivo­lu­zio­ne fallita»?

Doman­da

Voi ave­te par­la­to del­le vostre espe­rien­ze, ma vole­vo chie­der­vi qual­che con­si­glio per la mia situa­zio­ne. Vado anco­ra alle supe­rio­ri, ho dicias­set­te anni, ma vedo una gene­ra­zio­ne ras­se­gna­ta. Maga­ri qual­cu­no tra noi capi­sce che la scuo­la è lo spec­chio del lavo­ro, ma comun­que si ripe­te che atti­var­si è inu­ti­le e che “tan­to non ser­ve a nien­te”. A vol­te mi pare di vede­re un muc­chio di mario­net­te. Vi chie­de­vo quin­di qual­che con­si­glio su come smuo­ve­re i nostri coe­ta­nei, che a vol­te sem­bra­no non voler vede­re il loro effet­ti­vo valo­re, il loro effet­ti­vo potenziale.

Dona­to

Be’, tu sei già la nega­zio­ne di que­sta ras­se­gna­zio­ne! Il fat­to che tu sia qui a dir­ce­lo dimo­stra e testi­mo­nia che quel tipo di con­trol­lo non fun­zio­na. Dopo­di­ché, con­si­gli da noi non far­te­ne dare, non ti con­vie­ne! [Risa­te in sala] Però ripe­to, sei tu la con­trad­di­zio­ne, sei tu a mani­fe­star­la anche “con­tro” i tuoi com­pa­gni di clas­se. E non pen­sa­re che sia così solo per il fat­to che ades­so sei alle supe­rio­ri; sarà così fin­tan­to che cam­pi, per­ché appun­to si trat­ta di rom­pe­re un desti­no già scrit­to. La scom­mes­sa è sem­pre que­sta, ora come ieri. Noi mica sape­va­mo cosa sareb­be suc­ces­so, ma era chia­ro che l’alternativa è la disci­pli­na lavo­ri­sta. Det­to que­sto, par­ti da te in quan­to incar­na­zio­ne del­la con­trad­di­zio­ne, cioè come coa­gu­lo di ten­sio­ni che si esten­do­no anche su altre per­so­ne. Per­ché vedi, nono­stan­te le sire­ne iden­ti­ta­rie dell’attivismo, può anche esse­re fuor­vian­te in nega­ti­vo il fat­to di sen­tir­si mosche bian­che (o ros­se), per­ché non è così. Sia per­ché ci sono for­ze e ten­sio­ni in te che riguar­da­no anche “gli altri”; sia per­ché ci sono acce­le­ra­zio­ni nel­la sto­ria che non ti spie­ghi razio­nal­men­te. Maga­ri tra sei mesi in clas­se da te il cli­ma è cam­bia­to com­ple­ta­men­te; ma per veri­fi­ca­re che è cam­bia­to, tu devi con­ser­va­re quel tipo di sog­get­ti­vi­tà che dimo­stri ades­so, non so se mi spiego.

Doman­da

Vor­rei fare due pun­tua­liz­za­zio­ni e una doman­da. Intan­to, anche per dia­lo­ga­re con quel­lo che dice­va pri­ma la com­pa­gna del­le scuo­le, i perio­di sto­ri­ci in cui non suc­ce­de un caz­zo sono mol­to più lun­ghi di quel­li in cui suc­ce­do­no del­le cose. Que­sto con­vie­ne sem­pre tener­lo a men­te. Cer­to, i rac­con­ti di Vale­rio e di Dona­to ci fan­no accap­po­na­re la pel­le, ma non dob­bia­mo mai dimen­ti­car­ci che pri­ma degli anni Ses­san­ta e Set­tan­ta ci sono sta­ti gli anni Cin­quan­ta [Vale­rio incal­za: «E anche tut­ta la pri­ma metà degli anni Ses­san­ta è sta­ta un disa­stro»], dove dicia­mo, l’opinione media dei mili­tan­ti era “la clas­se ope­ra­ia è com­ple­ta­men­te inte­gra­ta”, “qua non suc­ce­de­rà mai nien­te”, “coe­sio­ne nazio­nal­po­po­la­re”, “è impos­si­bi­le pen­sa­re alla rivo­lu­zio­ne in Occi­den­te” e così via. Pro­ba­bil­men­te il nostro perio­do è più simi­le a que­sto che a ciò che ci han­no rac­con­ta­to Guiz­zo e Dona­to. Eppu­re oggi vedia­mo sem­pre nuo­vi mili­tan­ti, e le cir­co­stan­ze sto­ri­che in cui sono pos­si­bi­li le lot­te di mas­sa, gli strap­pi, le rot­tu­re pos­so­no sem­pre ripro­por­si. Quin­di, secon­do me quel­lo che biso­gne­reb­be trat­te­ne­re dal loro rac­con­to sono del­le que­stio­ni di meto­do, cioè l’approccio con cui un mili­tan­te deve osser­va­re il mondo.

La pri­ma cosa è, come dice­va Vale­rio, nasa­re, fiu­ta­re dove sia­no pos­si­bi­li i con­flit­ti. Il mili­tan­te inter­vie­ne in quel pun­to, orga­niz­zan­do­li e inten­si­fi­can­do­li. La secon­da cosa da fare è por­re di nuo­vo una doman­da per me fon­da­men­ta­le, che rima­ne irri­sol­ta: chi sono i sog­get­ti di que­sto con­flit­to? Non lo sap­pia­mo anco­ra. Loro ci han­no con­se­gna­to le figu­re dell’operaio mas­sa, pri­ma anco­ra dell’operaio pro­fes­sio­na­le e poi dell’operaio socia­le; poi, tra gli anni Novan­ta e Due­mi­la si è scom­mes­so sui lavo­ra­to­ri cogni­ti­vi e i pre­ca­ri, ma que­sti ulti­mi espe­ri­men­ti non han­no por­ta­to a nul­la (se non pic­co­le fiam­ma­te, ed è già un paro­lo­ne). Resta comun­que una doman­da intor­no a cui dob­bia­mo ragio­na­re. Se ci ave­te fat­to caso, Dona­to e Guiz­zo ci han­no par­la­to a lun­go di come fos­se orga­niz­za­ta la pro­du­zio­ne e a par­ti­re da que­sto si sfor­za­va­no di indi­vi­dua­re lì den­tro i pos­si­bi­li sog­get­ti, soprat­tut­to per­ché loro stes­si era­no par­te, car­ne viva, di quel­la pro­du­zio­ne. Cre­do che dei pas­si avan­ti, rispet­to alla com­pren­sio­ne del­le tra­sfor­ma­zio­ni del lavo­ro, li dob­bia­mo anco­ra fare, e quin­di si deb­ba por­re all’ordine del gior­no l’approfondimento del­la ricer­ca in quel­la dire­zio­ne. L’altra pun­tua­liz­za­zio­ne di meto­do, secon­do me mol­to pre­zio­sa (che dal rac­con­to di Dona­to non emer­ge­va diret­ta­men­te, ma dal libro sì), è la capa­ci­tà mime­ti­ca del­le orga­niz­za­zio­ni rivo­lu­zio­na­rie. I grup­pi orga­niz­za­ti­vi li ave­va­te den­tro le parrocchie…

Dona­to

Non è pro­pria­men­te così, ma è comun­que quel­lo il pun­to. Il noc­cio­lo del­la que­stio­ne è un appa­ren­te para­dos­so: il mas­si­mo di “radi­ca­li­tà not­tur­na” avve­ni­va den­tro il mas­si­mo di espo­si­zio­ne pub­bli­ca. Sem­bra una con­trad­di­zio­ne, e inve­ce è un ele­men­to fon­da­men­ta­le. Per alcu­ni anni, in uno dei ter­ri­to­ri più ric­chi d’Italia, abbia­mo imba­sti­to un ter­re­no di pie­na offen­si­va rivo­lu­zio­na­ria – per un perio­do di tem­po che va dal con­ve­gno di Bolo­gna del set­tem­bre 1977 (ovvia­men­te ci sono degli ante­ce­den­ti, ma pren­dia­mo­lo per rias­su­me­re) fino all’aprile del 1979 –, un’avanzata affron­ta­ta sen­za ricor­re­re a nes­sun tipo di media­zio­ne ma piut­to­sto, come dice­va Vale­rio, impe­gnan­do­ci nel­la ricer­ca quo­ti­dia­na del con­flit­to. Den­tro que­sta offen­si­va tro­va cit­ta­di­nan­za anche l’uso del­la for­za; ed è in que­sta spin­ta dia­let­ti­ca che si ren­de qua­si impos­si­bi­le l’intervento repressivo.

Sem­bra stra­no, ma è anda­ta così. Det­to altri­men­ti: nes­su­no sape­va cosa aves­se per­so­nal­men­te fat­to Tizio e Caio, ma tut­ti sape­va­no che era­va­mo noi! Ma allo­ra, per­ché arri­via­mo a Calo­ge­ro? Cer­to, con il 7 apri­le, ci sono sta­te for­za­tu­re giu­ri­di­che impres­sio­nan­ti, un’evidente modi­fi­ca­zio­ne del­lo Sta­to di dirit­to, e vere infa­mie pro­ce­du­ra­li; ma comun­que, qua­li sono le ragio­ni intrin­se­che per cui la repres­sio­ne in pre­ce­den­za non ha fun­zio­na­to? Per­ché den­tro que­sta dia­let­ti­ca c’era sì la sog­get­ti­vi­tà arma­ta, ma c’era una com­po­si­zio­ne di clas­se socia­le e poli­ti­ca che anda­va enor­me­men­te oltre. Quan­do noi pra­ti­ca­va­mo le ron­de, par­lia­mo di set­tan­ta-cen­to com­pa­gni che alle 4 del mat­ti­no anda­va­no in fab­bri­ca; ma den­tro a que­sti cen­to, solo una par­te era dei Col­let­ti­vi, tut­ti gli altri era­no sog­get­ti­vi­tà che ti con­qui­sta­vi nel­le assem­blee di fab­bri­ca e nel­le assem­blee di ter­ri­to­rio. Non era­no stret­ta­men­te mili­tan­ti d’organizzazione, e nean­che ci inte­res­sa­va che lo diven­tas­se­ro! Non sia­mo mai par­ti­ti dall’idea che l’obiettivo fos­se bru­cia­re una mac­chi­na in più, ma che que­sta dina­mi­ca di cre­sci­ta inter­na alla com­po­si­zio­ne gover­nas­se tut­ti i pas­sag­gi del movi­men­to. In quel momen­to fun­zio­na­va, e la poli­zia è riu­sci­ta a inter­ve­ni­re nel vicen­ti­no solo dopo la tra­ge­dia di Thie­ne che costa la vita ad Anto­niet­ta, Ange­lo e Alber­to. Solo dopo l’11 apri­le la repres­sio­ne si sca­te­na come rap­pre­sa­glia nel ter­ri­to­rio con il ruo­lo prin­ci­pa­le svol­to da Dal­la Chie­sa e la sua strut­tu­ra arma­ta che tra arre­sti, per­qui­si­zio­ni, inti­mi­da­zio­ni ecce­te­ra, rima­ne nell’alto vicen­ti­no per più di un mese.

Quel­lo che, a quarant’anni di distan­za, mi sen­to di dire è che la nostra è sta­ta un’esperienza irri­sol­ta. Non è arri­va­ta cioè a com­pi­men­to, è sta­ta trop­po velo­ce e chiu­sa trop­po bru­tal­men­te. Tut­ta­via ave­va­mo indi­ca­to qua­li pro­ces­si sto­ri­ci si sta­va­no svi­lup­pan­do – e infat­ti, det­to tra paren­te­si, tut­to quel­lo che avver­rà con la Lega Nord e il cele­bra­to Nord-Est par­te da qui. Il Pci non li ave­va nean­che mai ipo­tiz­za­ti, non ha mai capi­to cosa stes­se suc­ce­den­do. C’è una simul­ta­nei­tà che ha dell’incredibile: il pri­mo con­ve­gno del­la Lega (allo­ra si chia­ma­va anco­ra Liga Vene­ta) a Recoa­ro Ter­me nel vicen­ti­no è del dicem­bre 1979, men­tre il secon­do con­ve­gno si svol­ge a Pado­va nell’ottanta. Quin­di dopo il 7 apri­le il pri­mo e dopo la diret­tis­si­ma il secondo.

Con il sen­no di poi si dise­gna con chia­rez­za uno sca­den­za­rio tra i pro­ces­si repres­si­vi e lo svi­lup­po del radi­ca­men­to leghi­sta. Ma per­ché? Per­ché entram­bi ave­va­mo col­to il pas­sag­gio dal­la fab­bri­ca alla fles­si­bi­li­tà – dove noi pen­sa­va­mo di risol­ver­la dal pun­to di vista di clas­se, e la Lega dal pun­to di vista individuale.

Qual è sta­to il limi­te intrin­se­co allo­ra? Sicu­ra­men­te ci sono sta­te fal­le a livel­lo pro­get­tua­le su alcu­ni aspet­ti dell’uso del­la for­za, ma, se andia­mo a guar­da­re a dina­mi­che più gene­ra­li, vedia­mo che, per esem­pio, Radio Sher­wood non ha mai chiu­so un gior­no. È vero, abbia­mo fat­to la gale­ra –mol­to car­ce­re pre­ven­ti­vo – ma la si met­te sem­pre in con­to. Sareb­be più inte­res­san­te ragio­na­re sul fat­to che, quan­do io e i miei sia­mo usci­ti dal car­ce­re, c’era il Coor­di­na­men­to anti­nu­clea­re antim­pe­ria­li­sta già for­te, e quel­la bat­ta­glia con­tro il nuclea­re e il Pia­no ener­ge­ti­co nazio­na­le, volu­to sia dal­la Dc che dal Pci, l’abbiamo vin­ta. Poi sì, era un altro mon­do: ricor­do bene che quan­do mi ritro­va­vo davan­ti i punk anar­chi­ci tori­ne­si del col­let­ti­vo Ava­ria non ave­vo idea di dove sbu­cas­se­ro fuo­ri, e solo dopo capim­mo che anche loro era­no il risul­ta­to del­la cri­si nel­la metro­po­li tori­ne­se. Non era più inter­pre­ta­bi­le con le chia­vi di let­tu­ra nostre, per­ché figu­ra­ti se dal­la pro­vin­cia vene­ta puoi capi­re cosa suc­ce­de ristrut­tu­ran­do una fab­bri­ca come la Fiat; ma nel suo noc­cio­lo, l’autonomia era anco­ra un pro­get­to in pie­di, una scom­mes­sa aper­ta. Infi­ne, tene­te sem­pre pre­sen­te una cosa: nei pri­mi anni Ottan­ta, nel­le gale­re dell’“area com­bat­ten­ti”, sono suc­ces­si dei deli­ri ine­nar­ra­bi­li! Per cui lo ripe­to: l’Autonomia non è un grup­po, è un meto­do di attra­ver­sa­men­to del­la con­trad­di­zio­ne.

Per quan­to riguar­da i model­li orga­niz­za­ti­vi, par­tia­mo dal dire che tut­ti i model­li sono fat­ti per cam­bia­re. Quel­lo che fun­zio­na­va, face­va­mo, e se ser­vi­va, veni­va fat­to. Ciò det­to, è chia­ro che la fase ini­zia­le vicen­ti­na è diver­sis­si­ma da Pado­va o da Vene­zia Mestre, e già Vene­zia e Mestre dif­fe­ri­sco­no tra loro: una arri­va nel 1978, l’altra par­te fin da subi­to nel 1976, per dire. Vene­zia è sicu­ra­men­te quel­la che si met­te in moto più tar­di di tut­ti, non so per­ché; cer­to è che Mestre, con la sto­ria dell’Assemblea auto­no­ma e poi il ciclo del Petrol­chi­mi­co, vive­va una qua­li­tà di discus­sio­ne diver­sa da Vene­zia (dove, tra l’altro, l’università non è che abbia pro­dot­to chis­sà cosa).

In ogni caso, quel­lo che si met­te in moto è il pro­ta­go­ni­smo di que­sta com­po­si­zio­ne gio­va­ni­le che, come dice­vo pri­ma, si sot­trae alla con­di­zio­ne a cui era desti­na­ta. Rial­lac­cian­do­mi a quel­lo che evi­den­zia­va la com­pa­gna pri­ma, mi limi­to a dire che noi era­va­mo sco­la­riz­za­ti e dove­va­mo entra­re nel ciclo pro­dut­ti­vo, non alla cate­na, in una posi­zio­ne inter­me­dia di coman­do. All’epoca tira­va­no gli isti­tu­ti tec­ni­ci, per­ché alla con­giun­tu­ra ser­vi­va quel­lo, e tro­va­re gli ope­rai non era cer­to un pro­ble­ma: quel­la for­ma­zio­ne ne pro­du­ce­va una mon­ta­gna di gio­va­ni che non stu­dia­va­no, che abban­do­na­va­no, che veni­va­no espul­si dal ciclo sco­la­sti­co! Piut­to­sto, ave­va­no biso­gno di qua­dri inter­me­di. E così noi sarem­mo dovu­ti diven­ta­re i nuo­vi guar­dia­ni del­la pro­du­zio­ne. Que­sto era il com­pi­to pre­vi­sto per la nostra gene­ra­zio­ne set­tan­ta­set­ti­na, e a que­sto ci sia­mo sot­trat­ti, dicen­do chia­ra­men­te che “piut­to­sto che fare i capi o gli ope­rai, vi com­bat­tia­mo!” (bana­liz­zo eh, ma nean­che troppo).

Per quel che mi riguar­da, l’accelerazione è suc­ces­si­va al con­ve­gno di Bolo­gna. Allo­ra io face­vo già mili­tan­za, i Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti era­no atti­vi ormai da un anno e mez­zo, sep­pur in una for­ma anco­ra mol­to con­trad­dit­to­ria nel vicen­ti­no; a Bolo­gna però ci ren­dia­mo con­to che non ci sia­mo solo noi mili­tan­ti, ma c’è una for­te pre­sen­za di ter­ri­to­rio. Per cui la pri­ma cosa che fac­cia­mo appe­na tor­nia­mo a casa è redi­ge­re un docu­men­to e costrui­re un’assemblea di zona. Pur limi­tan­do­ci a discor­si anco­ra appros­si­ma­ti­vi, era già evi­den­te a tut­ti che la con­trad­di­zio­ne fon­da­men­ta­le era la costri­zio­ne al lavo­ro. Ciò indi­riz­zò la fase ini­zia­le e, con una velo­ci­tà sor­pren­den­te, nel giro di pochi mesi si inne­stò un pia­no incli­na­to che ha per­mes­so, appun­to, per due anni una tota­le offen­si­va politica.

I pro­ces­si orga­niz­za­ti­vi sono sta­ti inqua­dra­ti in que­sto con­te­sto: ovve­ro, non era­no pro­get­ta­ti per il fun­zio­na­men­to inter­no, ma soprat­tut­to per cat­tu­ra­re tut­ta la dispo­ni­bi­li­tà che un ter­ri­to­rio espri­me al con­flit­to. Per cui, con l’assemblea ter­ri­to­ria­le (che diven­te­rà poi il Grup­po socia­le) noi sta­bi­lia­mo que­sta chia­ve di let­tu­ra: voglia­mo ricom­por­re il più pos­si­bi­le, non ci inte­res­sa l’omogeneità ana­li­ti­ca, quel­lo che con­ta è con­qui­star­ci un ruo­lo di trai­no e dire­zio­ne poli­ti­ca lì den­tro, nel­la dispo­ni­bi­li­tà del ter­ri­to­rio alla rot­tu­ra. Com­pro­va­ta la sua effi­ca­cia, tenia­mo fer­mo il Grup­po socia­le come strut­tu­ra por­tan­te (che, per esem­pio a Thie­ne arri­va nei momen­ti alti a ottan­ta-cen­to per­so­ne, in una cit­tà di 20 mila abi­tan­ti), e la pri­ma cosa che abbia­mo volu­to impe­di­re è che diven­tas­se una strut­tu­ra iden­ti­ta­ria. In paro­le pove­re, non vole­va­mo che diven­tas­se l’ennesima strut­tu­ra chiu­sa. Dun­que chi mili­ta­va nel Grup­po socia­le imme­dia­ta­men­te dove­va inter­ve­ni­re: in fab­bri­ca se era lavo­ra­to­re, nel comi­ta­to d’agitazione se era a scuo­la, nei comi­ta­ti sul­la casa se abi­ta­va nei quar­tie­ri… ogni sin­go­lo com­pa­gno mili­tan­te ave­va un ambi­to di inter­ven­to. Ne con­se­gue che il Grup­po socia­le era la som­ma­to­ria di que­sta divi­sio­ne dei con­te­sti di atti­va­zio­ne, e la discus­sio­ne che si apri­va nel Grup­po socia­le pun­ta­va a estrar­re tut­ta la ric­chez­za deter­mi­na­ta dal radi­ca­men­to, rias­sun­ta dal­le pro­po­ste fat­te dai comi­ta­ti (sen­za par­la­re poi del­la discus­sio­ne degli stru­men­ti d’intervento come la radio, i gior­na­li e quant’altro).

Il Col­let­ti­vo poli­ti­co, inve­ce, era com­po­sto dai com­pa­gni che, a nostro giu­di­zio, era­no più capa­ci di giun­ge­re a una sin­te­si uni­ta­ria di que­sti pro­ces­si e gover­nar­li. Facen­do l’esempio del con­te­sto in cui ho mili­ta­to io, il Col­let­ti­vo poli­ti­co di Thie­ne è arri­va­to, al suo api­ce, a diciot­to com­pa­gni d’organizzazione, che era­no poi gli stes­si a fare le azio­ni arma­te. Den­tro al col­let­ti­vo si era poi ulte­rior­men­te strut­tu­ra­ti, distin­guen­do un “Atti­vo” e un “Nucleo”. Le armi da fuo­co non le abbia­mo mai fat­te usa­re all’Attivo. E que­sto per una scel­ta stra­te­gi­ca: vole­va­mo che ci fos­se un per­cor­so di cre­sci­ta non for­za­to, non era­va­mo in com­pe­ti­zio­ne con nes­su­no e non ave­va­mo biso­gno di dimo­stra­re nien­te; al con­tra­rio, il model­lo orga­niz­za­ti­vo mes­so in moto dove­va garan­ti­re un’assunzione di respon­sa­bi­li­tà su di sé da par­te del mili­tan­te. Ci ten­go a sot­to­li­nea­re bene che que­sto ele­men­to, per noi cru­cia­le, del­la respon­sa­bi­li­tà indi­vi­dua­le era cali­bra­to, anco­ra una vol­ta, dal con­tat­to pre­gres­so con il ter­ri­to­rio. Insom­ma, pro­prio per­ché ci si fre­quen­ta da una vita si riu­sci­va a sape­re subi­to se tale dei tali è sì tuo ami­co, ma ha una costru­zio­ne men­ta­le di un tipo o di un’altra, non so se ci sia­mo inte­si… e adot­tan­do que­sto pun­to di vista non abbia­mo mai sba­glia­to una vol­ta. A diri­ge­re poi i vari Col­let­ti­vi poli­ti­ci ter­ri­to­ria­li c’era la Com­mis­sio­ne poli­ti­ca pro­vin­cia­le men­tre su base regio­na­le fun­zio­na­va l’Esecutivo.

Sul pia­no del­la bat­ta­glia poli­ti­ca inter­na al movi­men­to rivo­lu­zio­na­rio a Pado­va si è data una strut­tu­ra – il Fron­te comu­ni­sta com­bat­ten­te, che ese­guì anche alcu­ni feri­men­ti inten­zio­na­li – con un dupli­ce inten­to. Da un lato, soste­ne­va le cosid­det­te cam­pa­gne d’organizzazione (diven­ta­te poi note come “not­ti dei fuo­chi”), ma dove­va anche esse­re pre­sen­te nel­le bat­ta­glie poli­ti­che sul pia­no nazio­na­le. Quest’ultimo è un tema su cui non si è par­la­to oggi, ma vale la pena dire che non esse­re riu­sci­ti a chiu­de­re il pas­sag­gio al nazio­na­le è sta­to il vero limi­te dell’Autonomia. Un limi­te inva­li­ca­bi­le, defi­ni­ti­vo, che ha reso pos­si­bi­li anche le cri­si suc­ces­si­ve. Con­si­de­ra­te che que­sto ten­ta­ti­vo par­te ben pri­ma del seque­stro di Moro, è già den­tro il con­ve­gno di Bolo­gna, ne discu­te­va­no Ros­so e i Vol­sci. Que­sto sal­to di livel­lo non avver­rà, per moti­vi che for­se meri­te­reb­be­ro di esse­re inda­ga­ti mag­gior­men­te. Ora, io non so dire se le cose sareb­be­ro anda­te diver­sa­men­te, o se que­sto si inse­ri­va posi­ti­va­men­te nell’emorragia dall’area auto­no­ma ver­so i com­bat­ten­ti di cui par­la­va pri­ma anche Vale­rio; però non esclu­do che se ci fos­si­mo dota­ti di una strut­tu­ra­zio­ne più defi­ni­ta anche nazio­nal­men­te, for­se avrem­mo tenu­to di più. In Vene­to (così come nel­le zone in cui c’era un’articolazione che fun­zio­na­va) non si è mai posto que­sto pro­ble­ma; le Br sono arri­va­te nel 1980 pog­gian­do­si sui nostri arre­sti, cose vol­ga­ris­si­me con i pri­mi mor­ti a Mestre con noi in pie­no pro­ces­so… robe che anche da un pun­to di vista eti­co dici “ma vaffanculo”.

Pas­san­do inve­ce a par­la­re del­la ron­da, par­tia­mo dal dire che sto­ri­ca­men­te è l’icona dell’Autonomia. È la mani­fe­sta­zio­ne e l’esercizio più alto di con­tro­po­te­re, per­ché con­tie­ne tut­to quel­lo di cui abbia­mo par­la­to: il radi­ca­men­to ter­ri­to­ria­le, la capa­ci­tà orga­niz­za­ti­va, la con­qui­sta di intel­li­gen­ze nuo­ve, la bat­ta­glia poli­ti­ca con il sin­da­ca­to, la rivol­ta con­tro il siste­ma dei par­ti­ti e infi­ne con­tro il pia­no pro­dut­ti­vo. La cosa real­men­te poten­te è sta­to riu­sci­re a indi­vi­dua­re nel­lo straor­di­na­rio non solo l’allungamento del­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va (di per sé è bana­le), ma anche la con­trad­di­zio­ne con cui scar­di­nar­la. Ave­va­mo capi­to per­fet­ta­men­te che attra­ver­so l’uso poli­ti­co del­lo straor­di­na­rio i padro­ni ripren­de­va­no il con­trol­lo sul­la pro­du­zio­ne e sul con­flit­to in fab­bri­ca, noi inve­ce pen­sa­va­mo che rom­pen­do sul­la gior­na­ta lavo­ra­ti­va avrem­mo costrui­to con­tro­po­te­re. Guar­da­te che quel­lo che sarà uno dei luo­ghi più ric­chi del pia­ne­ta, non c’era una fab­bri­ca che faces­se lo straor­di­na­rio, o il saba­to! Natu­ral­men­te, accan­to a noi c’era anche quel­lo che face­va la con­tro­par­te: pen­sa­te alle poli­ti­che dei sin­da­ca­ti o alla sta­gio­ne dei con­trat­ti del 1979. Pro­prio per­ciò nel­le fab­bri­che scat­ta una lot­ta duris­si­ma, ed è in que­sta dina­mi­ca che la ron­da testi­mo­nia tut­ta la sua cen­tra­li­tà. Per por­la in altri ter­mi­ni, ritor­no al pun­to sul 7 apri­le che ave­va­mo intro­dot­to poco fa per­ché è indi­ca­ti­vo di que­sta dia­let­ti­ca: quan­do il Pci e il sin­da­ca­to non sono più in gra­do di gover­na­re l’insubordinazione per­ché vin­cia­mo su tut­to, si apre il 7 aprile.

Vale­rio

Sui limi­ti e sul­la dia­gno­si del fal­li­men­to, la pen­so esat­ta­men­te come Dona­to. Pas­so quin­di agli altri temi emer­si dal­le doman­de e dagli inter­ven­ti. Per quel che con­cer­ne il nazio­na­le, l’analisi dell’Autonomia sul­la natu­ra e la fun­zio­ne del Pci è sem­pre sta­ta espli­ci­ta: per noi era il nemi­co prin­ci­pa­le sin dai tem­pi di Pote­re Ope­ra­io. Il nostro pro­ble­ma era la social­de­mo­cra­zia: non era il libe­ri­smo, la Demo­cra­zia Cri­stia­na o quei quat­tro men­te­cat­ti, caz­zo ne so, dei repub­bli­ca­ni e dei socia­li­sti. Il nostro pro­ble­ma era il Pci, per­ché, ripe­ten­do un vec­chio e tri­to slo­gan di allo­ra, era “lo Sta­to nel­la clas­se ope­ra­ia”, pun­to. Nel ’77 lo ave­va­mo scrit­to a pen­nel­lo­ne ovun­que, su ogni muro che ci capi­ta­va sot­to mano, e pote­te ritro­va­re tut­ta la pubblicistica.

Con que­sto slo­gan non inten­de­va­mo fare del­le dichia­ra­zio­ni ideo­lo­gi­che di puri­smo, ma dichia­ra­re mol­to più sem­pli­ce­men­te che con il com­pro­mes­so sto­ri­co il Pci sta­va ten­dan­do di entra­re, con tut­te le pro­prie for­ze, al gover­no del Pae­se. Dopo­di­ché, a livel­lo nazio­na­le sap­pia­mo come è anda­ta; guar­dan­do inve­ce al loca­le, be’, Bolo­gna era la loro vetri­na, e noi l’abbiamo infran­ta. Non ce l’hanno mai per­do­na­to e anco­ra oggi per loro è una ven­det­ta infi­ni­ta. Nean­che dopo la Bolo­gni­na e i Pds se la sono mai scor­da­ta. Soprat­tut­to i vec­chi del par­ti­to, che si sono fat­ti tut­to ‘sto giro fino al Pd, anco­ra oggi stan­no lì a rom­per­ci i coglio­ni. E a noi pia­ce mol­to, devo dire. Ma il rap­por­to di fri­zio­ne, se pos­sia­mo chia­mar­lo così, ini­zia mol­to pri­ma dell’Autonomia, e addi­rit­tu­ra a Bolo­gna c’è già con quel­lo che si chia­ma­va allo­ra il Movi­men­to stu­den­te­sco (di cui una par­te evol­ve in Pote­re Ope­ra­io). Con­si­de­ra­te che aprim­mo la sede nel novem­bre 1969, e già allo­ra ave­va­mo il Par­ti­to comu­ni­sta che intra­ve­de­va alla sua sini­stra l’antagonismo che gli sfug­gi­va di mano. C’era già sta­to il Ses­san­tot­to e cose come il rifiu­to del­la fami­glia e quant’altro (che a noi inte­res­sa­va­no poco) gli pun­ge­va­no nel fian­co; ma con la nasci­ta dei grup­pi orga­niz­za­ti a Bolo­gna la con­trad­di­zio­ne è imme­dia­ta. Per­ché a Bolo­gna il Pci è il pote­re. Gover­na tut­to: l’economia, l’accademia, l’associazionismo, il sin­da­ca­to, la salute…

Dona­to

C’è qua­si più spa­zio con i demo­cri­stia­ni che con il PCI!

Vale­rio

Asso­lu­ta­men­te sì. Si capi­sce quin­di come noi abbia­mo avu­to così tan­te dif­fi­col­tà, ben più che altre cit­tà. Maga­ri Bolo­gna fos­se sta­ta come Roma o Mila­no! Per non par­la­re poi del fat­to che anche “loro” ave­va­no del­le arti­co­la­zio­ni poli­ti­co-mili­ta­ri, è inu­ti­le che fac­cia­no i fur­bi e ce le andia­mo a rac­con­ta­re. Anche loro ave­va­no strut­tu­re di per­so­ne che veni­va­no dal­la lot­ta par­ti­gia­na e che non si era­no fat­te disar­ma­re dagli ame­ri­ca­ni. Come mi rac­con­ta­va mio padre e i suoi ami­ci, agli ame­ri­ca­ni ave­va­no rifi­la­to la cian­fru­sa­glia ormai logo­ra e inu­ti­liz­za­bi­le, armi mal­mes­se non più effi­cien­ti; la roba buo­na l’hanno sot­ter­ra­ta, tenu­ta lì ed è tor­na­ta fuo­ri più di una vol­ta. Per esem­pio quan­do ci sono sta­ti i gol­pe: io ricor­do bene una not­te in via Bar­be­ria, alla sede del Pci, era­no tut­ti par­ti­gia­ni ed era­no tut­ti arma­ti. L’hanno tira­ta fuo­ri anche duran­te il Con­ve­gno e lo sape­va­mo (il pae­se è pic­co­lo, la gen­te mor­mo­ra). C’era quin­di tra di noi un rap­por­to di guer­ra, sen­za nes­su­na media­zio­ne. Tut­to era affi­da­to alla for­za, alla fur­bi­zia e al reci­pro­co minac­ciar­si. Dicia­mo che a Bolo­gna, dopo “alcu­ni epi­so­di” – in cui loro dimo­stra­ro­no la for­za, noi la poten­zia­li­tà – si sono caga­ti addos­so e con l’Unità e i vari fogli ter­ri­to­ria­li han­no pre­so ad insul­tar­ci con la soli­ta pro­pa­gan­da: “i figli del­la bor­ghe­sia”, “ragaz­zi­ni che gio­ca­no a fare il guer­ri­glie­ro”, “chi li paga”, “cui prodest”…

Dona­to

Per non dimen­ti­ca­re Catalanotti.

Vale­rio

Sì, ma quel­lo vie­ne dopo. Per chi non lo sapes­se, Bru­no Cata­la­not­ti è sta­to il nostro Calo­ge­ro, che ha anti­ci­pa­to il suo meto­do su sca­la più ridot­ta. Insom­ma, il pro­ble­ma del rap­por­to con il Pci era serio soprat­tut­to per­ché ci costrin­ge­va a muo­ver­ci su più fron­ti, e ci sono parec­chi aned­do­ti che potreb­be­ro mostrar­lo. Ad esem­pio, ai tem­pi di Pote­re Ope­ra­io noi ave­va­mo un cen­tro stam­pa (di cui tra l’altro face­vo par­te, sape­te no, face­vo l’Istituto d’arte e que­sti: “ah vuoi fare l’artista? bene, lavo­ra”, e col cavo­lo che ave­va­mo mac­chi­ne tipo­gra­fi­che, tut­to a mani­na, in seri­gra­fia) e attac­ca­va­mo l’impossibile. Quan­do c’erano del­le sca­den­ze, la not­te pri­ma era dedi­ca­ta all’attacchinaggio. Si attac­ca­va di tut­to. A un cer­to pun­to ini­zia­mo a vede­re che la mat­ti­na i mani­fe­sti non c’erano più. Per met­ter­ci un atti­mo nell’ottica del­le dimen­sio­ni, fate con­to che in una not­te face­va­mo 1000–1200 mani­fe­sti. Ci infor­mia­mo in giro e sco­pria­mo che die­tro a ogni nostra mac­chi­na con cui si usci­va ad attac­chi­na­re, ce n’era una loro che ci segui­va e pas­so pas­so ce li stac­ca­va [dal pub­bli­co: “Poi i vigi­li urba­ni usa­ti come brac­cio arma­to del Par­ti­to…”]. A Bolo­gna sì, lo è sem­pre sta­to. E non solo: i dipen­den­ti del gas, l’Amga, gli ope­rai del­le offi­ci­ne comunali…

Comun­que, capia­mo che tut­ta ‘sta gen­te anda­va in giro a stac­car­ci i mani­fe­sti. E da lì ini­zia­mo a met­te­re nel­la col­la dei mani­fe­sti i vetri fran­tu­ma­ti del­le lam­pa­di­ne. È un vetro sot­ti­lis­si­mo, che così si incol­la­va. Quin­di quan­do al pron­to soc­cor­so del Sant’Orsola han­no comin­cia­to a pre­sen­tar­si per alcu­ne not­ti dei per­so­nag­gi stra­ni con le mani rico­per­te di san­gue, han­no pen­sa­to bene di lasciar­ce­li attac­ca­ti – ma non si sono dati per vin­ti, e gli ope­rai del­la net­tez­za urba­na (tut­ti mili­tan­ti del Par­ti­to) capi­ro­no come stac­car­li con le palet­te d’acciaio. E avan­ti così. La cosa poi si è risol­ta quan­do sia­mo anda­ti a “par­la­re” con alcu­ni di loro che cono­sce­va­mo. Sape­va­mo chi era­no i fur­bo­ni e soprat­tut­to chi era­no i capi che orga­niz­za­va­no le mac­chi­ne e que­sti, fin­ché han­no potu­to per­met­ter­se­lo, ave­va­no il via libe­ra. Ven­ne però il momen­to in cui alcu­ni di loro, sot­to la loro abi­ta­zio­ne, han­no tro­va­to per­so­ne che era­no dispo­ste a discu­te­re con argo­men­ti con­vin­cen­ti, argo­men­ti che loro cono­sce­va­no bene per­ché li ave­va­no usa­ti pri­ma con­tro di noi… Quan­do ti tro­vi dal lato sba­glia­to di una poten­zia­li­tà socia­le di quel livel­lo, non è una bel­la cosa. E infat­ti han­no smesso.

Con­si­de­ra­te che qui, pro­prio per­ché il Pci era vera­men­te il pote­re, ave­va­no la col­la­bo­ra­zio­ne del­le isti­tu­zio­ni. Il ser­vi­zio d’ordine del Pci (che appun­to era com­po­sto dagli ope­rai Amga e quel­li che dice­vo pri­ma) ai tem­pi di Pote­re Ope­ra­io cari­ca­va insie­me alla poli­zia, ci sono mil­le foto in giro. Il rap­por­to era quel­lo. Si è lavo­ra­to poli­ti­ca­men­te fin­ché si è potu­to, fin­ché la vetri­na non si è infran­ta sul serio: c’è sta­to il mor­to (il com­pa­gno Fran­ce­sco Lorus­so), c’è sta­ta la guer­ri­glia urba­na, ma già dal 1975 era­va­mo già atti­vi in sen­so poli­ti­co-mili­ta­re. Per esem­pio, anche noi face­va­mo le ron­de. A dif­fe­ren­za dai vene­ti, le nostre ron­de era­no orga­niz­za­te per cam­pa­gne. Che so, si bat­tez­za­va la cam­pa­gna sul lavo­ro nero. Rica­via­mo tut­te le infor­ma­zio­ni neces­sa­rie dai nostri mili­tan­ti e capia­mo dove si face­va lavo­ro nero – per inci­so, era­no qua­si sem­pre uffi­ci e pic­co­le dit­te, in cui si sfrut­ta­va­no soprat­tut­to gio­va­ni e don­ne per lavo­ri da impie­ga­te ecce­te­ra. Quin­di ci si pre­sen­ta­va vesti­ti bene, facen­do fin­ta di esse­re dei clien­ti; si entra­va negli uffi­ci, ovvia­men­te col fer­ro; si fer­ma­va tut­ti; si spac­ca­va la qua­lun­que, scrit­te a bom­bo­let­ta sui muri; si spie­ga­va ai lavo­ra­to­ri sfrut­ta­ti per­ché era­va­mo lì e se c’era il padro­ne, ecco, che si piglia­va anche il suo ave­re. Voi­là. Sen­za ucci­de­re nessuno.

Ecco, la ron­da tipo per una cam­pa­gna sul lavo­ro nero era que­sta. C’erano poi le cam­pa­gne, ad esem­pio, sui vigi­li urba­ni. Appun­to per­ché era­no quel­li che, col­la­bo­ran­do con i cara­bi­nie­ri, par­ten­do dal­le sezio­ni del Pci sul ter­ri­to­rio (che era­no l’occhio del Par­ti­to sul­la clas­se e sui quar­tie­ri) sape­va­no bene o male chi si muo­ve­va e chi no, sospet­ti e non sospet­ti. Quin­di si sce­glie­va una cen­tra­le, si entra­va, si pren­de­va tut­to il pos­si­bi­le e via. Ma atten­zio­ne, sem­pre riven­di­ca­to con la fir­ma di chi le face­va e poi sem­pre spie­ga­te in un pro­get­to di lavo­ro sul ter­ri­to­rio. Cer­to, c’era il Pci che pul­sa­va, ma tene­te pre­sen­te che a Bolo­gna non c’era solo l’Autonomia, era un casi­no. “Anni di piom­bo”? Per loro sicu­ra­men­te, e qual­cu­no pur­trop­po lo abbia­mo lascia­to sull’asfalto anche noi; ma se pre­dia­mo anche solo il Set­tan­ta­set­te e con­si­de­ria­mo quel­lo che si è mos­so e si è inno­va­to anche fuo­ri dal­la poli­ti­ca – l’arte, la musi­ca, i fumet­ti, la radio – vede un labo­ra­to­rio straor­di­na­rio. C’è sta­ta una cre­sci­ta e una crea­ti­vi­tà incre­di­bi­li non solo nel­la poli­ti­ca, ma anche nel­la socia­li­tà e nel­la cul­tu­ra. Sì, c’era il momen­to tri­ste e cupo del com­bat­ti­men­to, ma in un con­te­sto gene­ra­le a dire poco fantastico.

Dona­to

La feli­ci­tà sta lì.

Vale­rio

Esat­to! Per­ché oltre alla vita not­tur­na, c’era la tua quo­ti­dia­ni­tà di gior­no, la tua esi­sten­za libe­ra­ta in cit­tà. Anche per­ché par­lia­mo­ci chia­ro, non lavo­ra­va­mo mica tut­te le not­ti, non sia­mo mai sta­ti sta­ka­no­vi­sti del­la mili­tan­za. Per noi era fon­da­men­ta­le sele­zio­na­re bene gli inter­ven­ti per­ché era­no cose mol­to impe­gna­ti­ve, che chie­de­va­no non solo pia­ni­fi­ca­zio­ne, ma un’organicità con le pos­si­bi­li dira­ma­zio­ni. Le ron­de, per esem­pio, era­no fat­te da orga­ni­smi con una ragio­ne d’esistere, che si fir­ma­va­no e spie­ga­va­no la logi­ca che le muo­ve­va. Se si mira­va ad oppor­si a cer­te pre­se di posi­zio­ne di Con­fin­du­stria, pub­bli­ca­men­te ci espri­me­va­mo nel­le assem­blee auto­no­me, e accan­to a que­sto sal­ta­va in aria una sede. Solo indi­vi­duan­do le lot­te “giu­ste” diven­ta­va pos­si­bi­le tene­re insie­me l’elaborazione con­cet­tua­le, la ricom­po­si­zio­ne del­la clas­se e il sabo­tag­gio – sen­za fare mor­ti, e pos­si­bil­men­te sen­za fare feriti.

Poi sono arri­va­ti anche quel­li andan­do ver­so il 1979, quan­do que­ste arti­co­la­zio­ni poli­ti­co-mili­ta­ri si sono costi­tui­te in orga­niz­za­zio­ne d’apparato, stac­can­do­si (oggi pos­sia­mo dir­lo) con una for­za­tu­ra teo­ri­ca e poli­ti­ca. Per esem­pio, limi­tan­do­ci ai dibat­ti­ti inter­ni a Ros­so (mica si scri­ve­va e basta, capia­mo­ci) sul­la dif­fe­ren­za tra Bri­ga­te comu­ni­ste e For­ma­zio­ni comu­ni­ste com­bat­ten­ti, dovrei oggi rico­no­sce­re lì un erro­re cru­cia­le: quan­do da stru­men­to, da ser­vi­zio alla clas­se, ti fai tu stes­so appa­ra­to e vai a com­bat­te­re con­tro un altro appa­ra­to che è mol­to più poten­te di te, si com­pie un pas­sag­gio che oggi dovrem­mo ricon­si­de­ra­re pro­fon­da­men­te, sen­za limi­tar­ci allo scan­da­lo del san­gue. Allo­ra quel­la scel­ta la facem­mo e l’abbiamo paga­ta; ma quel­lo era il con­te­sto e quel­le ci sem­bra­va­no le deci­sio­ni neces­sa­rie. Pole­miz­za­re con il sen­no di poi è una scioc­chez­za che non por­ta a nul­la. Sol­tan­to sto­ri­ciz­zan­do, calan­do­si per quan­to pos­si­bi­le in quei momen­ti di incer­tez­za – cosa che sta facen­do l’Archivio auto­no­mia, anda­te­lo a vede­re, è una cosa mera­vi­glio­sa – si rie­sce a valu­ta­re la pro­spet­ti­va con cui ci si muo­ve­va, le intui­zio­ni indo­vi­na­te e i pas­si fal­si. Per quan­to riguar­da gli sti­mo­li dall’estero…

Da noi, sem­mai, aleg­gia­va una for­te ammi­ra­zio­ne per il fron­te pale­sti­ne­se di Habash, l’Fplp. Per quan­to riguar­da le arti­co­la­zio­ni mili­ta­ri di cui dice­vo pri­ma, ci sono sta­ti scam­bi e con­tat­ti. C’erano per­so­ne a cui era­va­mo mol­to lega­ti: per dire, io a San Gio­van­ni in Mon­te per un perio­do sono sta­to in cel­la con Abu Anzeh Saleh (quel­lo dei “mis­si­li di Pifa­no”) che era pra­ti­ca­men­te l’ambasciatore di Habash in Ita­lia, dal qua­le ho avu­to rag­gua­gli inte­res­san­tis­si­mi sul­le loro lot­te in Pale­sti­na. Oppu­re, par­lan­do sem­pre e sol­tan­to di risul­tan­ze pro­ces­sua­li, una vol­ta ci fu un cam­po di adde­stra­men­to mili­ta­re gesti­to dall’Eta con una par­te dell’Autonomia, segna­ta­men­te le For­ma­zio­ni comu­ni­ste com­bat­ten­ti (cioè noi e i mila­ne­si). Uno di noi ave­va con­tat­ti con i fran­ce­si e da lì, nel Pae­se basco fran­ce­se, si svol­se un cam­po, tra l’altro descrit­to in quei famo­si qua­der­net­ti ritro­va­ti nel­le inchieste.

Per capir­ci, nel fran­gen­te spe­ci­fi­co di quel cam­po, la col­la­bo­ra­zio­ne par­tì da uno scam­bio di favo­ri: armi cor­te (non tan­te, ma roba buo­na) con­tro due kit, uno per fare docu­men­ti fal­si e uno – inven­zio­ne degna del­la sapien­za ope­ra­ia – per fare tar­ghe fal­se. Inve­ce, quel­lo che ci inte­res­sa­va dei movi­men­ti dell’America Lati­na, sarà bana­le, era­no i loro otti­mi manua­li di guer­ri­glia e con­tro­guer­ri­glia. Loro infat­ti, non poten­do dispor­re di mate­ria­li di fab­bri­ca, dove­va­no improv­vi­sar­li con quel­lo che ave­va­no e in que­sti testi indi­ca­va­no come costrui­re le trap­po­le esplo­si­ve e quant’altro. Ci inte­res­sa­va quel­lo, quin­di Mari­ghel­la, i Tupamaros…

Dona­to

Lì si vede tut­ta la dif­fe­ren­za tra me e te. Io ero un cali­for­nia­no! [Risa­te] Cre­sciu­to con i Jef­fer­son e i Quicksilver…

Vale­rio

Ma que­sto è un fric­chet­to­ne! [Risa­te]

Dona­to

Per cui segui­vo le Black Pan­thers e i Weathermen…

Vale­rio

Man­nag­gia oh… Noi a fare i guer­ri­glie­ri, e que­sti in Cali­for­nia a sur­fa­re le onde!

Comun­que, pri­ma di chiu­de­re, direi una cosa sul sen­so di scon­fit­ta. Mol­ti dico­no “lì abbia­mo per­so”, non solo come auto­no­mi, ma in gene­ra­le il seco­lo si è con­clu­so con una disfat­ta, soprat­tut­to a livel­lo psi­co­lo­gi­co. Però, come una vol­ta dis­se Pao­lo Vir­no, è anda­ta così, ma intan­to per die­ci anni gli abbia­mo impe­di­to di gover­na­re, ma soprat­tut­to abbia­mo dimo­stra­to che “è pos­si­bi­le”. Non è suc­ces­so, ma abbia­mo dimo­stra­to che è pos­si­bi­le, usan­do un meto­do. Ma anche in sen­so più lar­go, io non ho mai pen­sa­to di esse­re uno scon­fit­to. Non c’è sta­ta nes­su­na scon­fit­ta. Si è con­clu­sa una fase, pun­to; una fase di una guer­ra di clas­se è fat­ta di vari momen­ti, di stra­te­gie e di tat­ti­che. Non è fini­to nien­te. È vero, ci sono sta­ti gli anni Ottan­ta, dove non era sta­ta rac­col­ta la memo­ria sto­ri­ca e si è dovu­to rico­min­cia­re dac­ca­po; ma si è solo chiu­sa una fase, e se ne ria­pri­ran­no del­le altre! La lot­ta di clas­se con­ti­nua, il con­flit­to con­ti­nua. E noi sia­mo anco­ra qui, a discu­te­re, a cer­ca­re, nel­la dia­let­ti­ca lavo­ro vivo-capi­ta­le, di indi­vi­dua­re, nel­la com­po­si­zio­ne data, altre sog­get­ti­vi­tà emer­gen­ti poten­zial­men­te auto­no­me e rivoluzionarie.