C’è una battuta, probabilmente circolante persino prima del ’68, che dice che in un partito marxista-leninista occorre essere almeno in tre, così la “linea rossa” può allearsi col “centro” ed espellere la “linea nera”… o viceversa. Oggi forse non fa più ridere nessuno, ma credo faccia ben capire alcuni clamorosi difetti di settarismo e dogmatismo di quell’esperienza dalla quale sia pur trasversalmente vengo. Per di più, avendo quasi sempre vissuto a Bologna, ma in epoca militante molto più tra Trento e Parigi, ci si può chiedere che c’entro io con i Collettivi politici veneti per il potere operaio. Ebbene, oltre all’amicizia e agli impegni condivisi da anni con alcuni promotori di questo testo, mi sento di c’entrarci anzitutto come lettore appassionato. Questa raccolta di memorie e riflessioni l’ho trovata infatti costituire un raro e prezioso documento di ripensamento delle esperienze militanti degli anni ’70 che è e resterà estremamente importante. Tra l’altro, e per quel poco o tanto che possa interessare, sto scrivendo da tempo un libro – si spera non troppo ponderoso – sulle due epoche politiche del secondo dopoguerra che precedono l’attuale. Per inquadrare la conclusione della prima tra gli anni ’70 e ’80, la lettura di questo testo mi ha acceso non poche ispirazioni. Ma qui preferisco parlare d’altro, di qualcosa direi persino di più intimo, di meditatamente sincero, almeno quanto mi sono parsi i diversi autori di questo libro. Accennerò quindi a uno strano paradosso la cui spiegazione esaustiva richiederebbe un’analisi forse interminabile e che quindi mi limiterò a segnalare. Si tratta dello strano paradosso che ha sempre fatto sì che in non poche delle mie esperienze di impegno militante o intellettuale mi sia trovato accanto, vicino, spalla a spalla, con operaisti o “autonomi” come Mimmo, Piero e Giacomo, Elisabetta e gli altri autori di questo libro, ma anche decisamente distante. E ciò nonostante mi sia ben chiaro che quella che si può oramai considerare la tradizione del pensiero operaista è di fatto non solo la più longeva e consistente in Italia, ma anche una delle più accademicamente prestigiose a livello mondiale, riconosciuta componente decisiva del successo planetario dell’“Italian Theory”. Un fatto questo che fa ben sperare, specie se si ricordano quei tempi orrendi nei quali, a seguito della maledetta inquisizione del 7 aprile 1979 (tanto suggestivamente rievocata in questo libro), molti colleghi, in disparte sperticati ammiratori di Toni Negri, erano così impauriti da non osare neanche minimamente di manifestare il loro sdegno per quanto stava accadendo a lui e i suoi compagni. Cedendo alla tentazione dell’amarcord, fu proprio allora che lo contattai per la prima volta inviandogli il mio primo libro in carcere e invitandolo a un convegno organizzato a all’Università di Trento proprio sulle trasformazioni in atto dello Stato italiano. Tornando al paradosso del “così vicino, così lontano” parto allora da una delle cose che più ha colpito del racconto e delle riflessioni di Piero e Giacomo. Il riferimento a Mao. Non che non sapessi che gli autonomi ne fossero interessati. Ma non così tanto. Questo è per me un’ulteriore conferma, sia pure a posteriori, di una estrema prossimità nel modo di pensare. Non sto a raccontare perché tutt’ora il maoismo continua a essere un mio punto di riferimento. Mi basta dire che a farmelo apprezzare come si deve è contata molto più la mia frequentazione di compagni francesi a Parigi e Nizza, a partire dalla metà degli anni ’70, piuttosto che l’esperienza italiana m‑l (nonostante che – curiosità che non posso tralasciare – un nostro leader nel ’68 avesse incontrato personalmente Mao e da allora si vociferava non si fosse più lavato la mano!). Riflettendo su questa sia pur lontana affinità elettiva rappresentata dal maoismo, mi viene dunque da porre due dilemmi che in parte mi avvicinano, ma anche in parte mi distanziano da quanto si racconta in questo libro. Ma prima di accennarvi ancora qualche preliminare. Credo infatti sia importante ribadire quanto d’abitudine sia refrattario a ogni nostalgia: al punto che oggi mi spingo in una rottura col passato tale che forse può non piacere né agli autori né ai lettori di questo libro. Non mi risparmio infatti i dubbi persino sul “comunismo” e continuo a chiedermi se non ci sia un modo migliore per parlare del desiderio di una maggior giustizia sociale universale. Ciò non toglie però, sia chiaro, che per rinnovare questo desiderio continuo a pensare che non ci si possa esimere dal tornare a ridiscutere anche degli stessi temi e degli stessi anni rievocati da Mimmo, Piero, Giacomo e gli altri autori. Le epoche che ne sono seguite, quella neoliberale e quella in corso (sempre più dominata com’è da quello che credo meriti di essere chiamato “sovranismo immunitario” se non bio-fascismo) non hanno infatti rappresentato che una discesa agli inferi, dal male al peggio, per la causa della giustizia sociale universale. Per essere sintetico ecco allora espressi in formule telegrafiche due dilemmi per così dire di metodo politico, che credo in fondo even green. 1) “Dall’esterno” o “dentro e contro”? 2) “Conricerca sull’antagonismo” o “inchiesta sul pensiero dei non esperti”? 1) Con la formula “dall’esterno” alludo all’arcinoto tema leninista del Che fare? “La coscienza politica di classe può essere portata solo dal di fuori, vale a dire dall’esterno della lotta economica, al di fuori dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro…”. Ora, certo non posso biasimare il lettore che a questo punto, specie se della mia età, cessi la lettura, per noia, nausea, allergia o altre reazioni più complicate, ma se non lo fa, potrà facilmente riconoscere in questo enunciato la frase simbolo di qualcosa che comunque sarebbe sempre da meditare: la supposizione da parte dei marxisti di essere gli esperti detentori e dunque anche educatori di un sapere scientifico garante della buona riuscita della rivoluzione proletaria nonché della definitiva emancipazione umana. Una supposizione che in origine aveva i suoi perché, ma che nel corso della storia è sempre più divenuta una supponenza velleitaria. Ed è questa che in fondo ha fatto la sostanza di tutte quelle esperienze che dagli anni ’60 si sono dette marxiste-leniniste nel tentativo di schierarsi col Pcc di allora e rigettare il “revisionismo” dei sovietici e dei comunisti dalla loro parte. Evocando la formula “dentro e contro” alludo invece all’approccio col quale la tradizione dell’operaismo e degli autonomi ha contrastato la summenzionata esteriorità leninista, ossia quella presunzione del militante di arrivare in ogni situazione per far calare la linea politica elaborata in chissà quale sede separata. Per il militante operaista o autonomo essere “dentro” significa infatti, tutto al contrario, – come bene si racconta in Gli Autonomi… – porsi alla pari, all’interno della stessa situazione dei lavoratori, degli sfruttati o della moltitudine – che voler si dica. Dunque nell’essere pienamente partecipe della stessa condizione e della stessa lotta. Un desiderio, questo, più che mai generoso e comprensibile, ma che mi ha sempre suscitato perplessità, dunque distanza. Il problema è che per dimostrare questa pari condizione con gli ultimi, cogli sfruttati, con la moltitudine, il militante non può non essersi costruito prima e per conto suo un’idea di sistema abbastanza negativa da implicare la conseguenza di dovere essergli contro. Una consequenzialità tutta logica questa, derogante ogni dubbio che da un punto di vista semplicemente laico dovrebbe insorgere ogni qualvolta una certa rappresentazione sistematica del reale pretende di essere il reale stesso. È proprio per spiegarmi meglio su questo punto che prendo ad esempio il metodo della “conricerca” che è il metodo di inchiesta prediletto dalla tradizione operaista. 2) Con questo termine si intende infatti l’idea che tra il ricercatore o il militante e le masse (se usiamo un termine alla Mao) o la moltitudine (se usiamo un termine alla Negri) su cui si fa inchiesta ci sia una parità di condizione, quella appunto di una condivisa opposizione al sistema, al capitalismo. Ciò comporta però un inconveniente non da poco: che il ricercatore pretende di sapere in partenza cosa deve trovare e di cui deve quindi solo riconoscere composizione e misura di espressione: ossia come si compone e in che misura si esprime il supposto soggetto (masse o moltitudine) cosciente dell’antagonismo di classe. Con “inchiesta sul pensiero dei non esperti” alludo invece a un metodo di ricerca (di cui tra l’altro discussi già tempo fa, nel 2003 a Montereale 1 ) in cui, rifacendosi, ma solo in parte, alla vecchia lezione leninista, si postula una netta differenza tra i militanti (o i ricercatori) e le masse (o la moltitudine) su cui si fa ricerca: differenza che consiste nel fatto che i primi sono degli esperti, che vogliono sapere, supponendo di sapere come, ciò che le masse pensano, anche se sono del tutto prive di qualsiasi particolare competenza da esperti. In altre parole qui i presupposti generali non sono: né un sistema a priori negativo, di sfruttamento, né una moltitudine più o meno cosciente di essere sfruttata. L’unico presupposto generale qui è che esistano delle masse sfruttate perché prive del sapere e quindi del potere di gestire la loro stessa vita, ma non per questo prive della capacità di pensare. Qui è cruciale la distinzione tra sapere e pensiero – grande eredità del maoismo: le masse pensano, anche quando non sono esperte in nulla! Ecco allora che le incognite al centro della ricerca diventano molto più ampie e ricche delle semplici modalità e misure della supposta coscienza antagonista. Da conoscere qui è tutto quello che possono pensare le masse della propria condizione: non solo, né principalmente l’odio classe, ma eventualmente, anche, specie di questi tempi, la disperazione, il rancore ed eventualmente i modi di farvi fronte. Diversamente dal leninismo, qui il militante o il ricercatore, lungi dal dovere educare le masse o la moltitudine, dovrà sapere farsi educare dal loro pensiero per elaborare proposte politiche adeguate. Altrimenti non saprei davvero come anche solo sperare di potere riproporre ipotesi politiche d’emancipazione in questa nostra epoca che pare proprio diventare sempre più oscura. La conclusione sarebbe dunque che tra quest’ultimo tipo di ricerca e quella in stile conricerca ci sarebbe un’incompatibilità irrimediabile? Nella mia esperienza, a pensarci bene, non è sempre stato così. Con tanti studenti che mi è capitato di seguire e che, ispirati dalla tradizione operaista, hanno voluto seguire l’approccio della con-ricerca, qualche apprezzabile risultato non è mancato. Tra la lontananza e la vicinanza, alle quali qui ho fatto cenno, per me l’ultima parola resta sempre da dire.
1. Gruppo d’inchiesta politica, Atti del seminario: fare inchiesta, Montereale, 19 gennaio, 203, Cooperativa sociale grafico, Padova, 2004.
Partire da quest’altro «luogo» della politica permette di interrogarsi sull’eclisse dei soggetti, teorie, organizzazioni che abbiano come progetto politico la rivoluzione. Le ragioni vanno sicuramente cercate negli anni di cui tratta il libro di Giacomo e Piero. Nella tradizione dei movimenti rivoluzionari, la sconfitta è sempre stata un mezzo utile per ridefinire la tattica e la strategia. La Comune di Parigi è stata anche una risposta ai limiti della rivoluzione francese e la forma del partito bolscevico nasce da una riflessione sul perché del massacro dei “communards”. La guerra e il potere erano gli scogli sui quali si infrangeva il sogno rivoluzionario, Lenin propone di trasformare la guerra in guerra civile rivoluzionaria per la presa del potere. Nessun vero bilancio è stato fatto della nostra sconfitta che la dice già lunga sulla sua profondità. A metà degli anni Sessanta, Hannah Arendt considerava ancora che le guerre e le rivoluzioni, dopo aver determinato la fisionomia del XX secolo, costituivano i “due problemi politici centrali”. La guerra è l’altra realtà che non sembra più far parte delle priorità teoriche e politiche, mentre tutti i rivoluzionari sono stati degli ottimi strateghi militari (gli asiatici su tutti!). La filosofa tedesca si lancia anche in una previsione che si verificherà fallace: “sembra più probabile che la rivoluzione separata dalla guerra, sussista in un avvenire prevedibile”. La storia degli ultimi cinquant’anni ha decretato che se le guerre continuano allegramente, la rivoluzione sembra scomparsa. Anche per una “liberale” come la Arendt la rivoluzione aveva costituito, per due secoli, la forma stessa della politica. L’iniziativa politica era tra le mani di quelli che organizzavano la rottura. Il secolo Ventesimo ci suggerirebbe di modificare lo slogan dell’operaismo “prima la classe e poi il capitale” con uno più adeguato “prima la rivoluzione e poi il capitale”, perché gli operai non sono stati il cuore delle rivoluzioni vittoriose del XX secolo. Cosa è successo negli anni Sessanta e Settanta che ci ha portato a questa situazione ? Nel marxismo europeo, che è sempre stato molto centrato sul Nord del mondo, come se il capitalismo vi fosse rinchiuso, Hans Junger Krahl costituisce un’eccezione. Il giovane e talentuoso filosofo tedesco conosciuto in Italia come un anticipatore delle teorie del lavoro cognitivo, ha in realtà elaborato una teoria della rivoluzione che mi sembra un buon punto di partenza. Alla fine degli anni Sessanta, Krahl dice che non esiste nessun esempio di rivoluzione vittoriosa nei paesi sviluppati, ma che invece le rivoluzioni continuano a scoppiare nei paesi del Terzo mondo. Ma ciò che sviluppa non è una teoria terzomondista. Cerca di capire cosa possa significare questo semplice dato di fatto che ha comunque determinato il corso del Ventesimo secolo (con l’Unione sovietica) e determinerà quello del Ventunesimo (con la Cina). Le rivoluzioni nelle colonie e semicolonie (come la Cina) hanno creato un fatto nuovo. Per la prima volta nella storia del capitalismo, la rivoluzione mondiale è una possibilità globalmente presente e visibile. Essa indica contemporaneamente «l’unità internazionale della protesta anticapitalista” e una nuova costellazione della storia mondiale che pone dei problemi inediti alla rivoluzione. Lo slogan del Manifesto, “proletari di tutti i paesi unitevi”, in realtà non implicava che qualche paese europeo. È la rivoluzione bolscevica che, verificata la sconfitta in Europa, apre, dal 1920, alla lotta dei “popoli oppressi” dal colonialismo e dall’imperialismo . La rivoluzione che sembrava segnare il passo, si espande e conosce una seconda giovinezza in Oriente producendo il fenomeno politico forse più importante del Ventesimo secolo, l’attacco, organizzato, teorizzato, cosciente, dopo quattro secoli di sfruttamento e oppressione, alla divisione centro/colonie che costituisce il segreto dell’accumulazione capitalista. Se Krahl registra l’attualità della rivoluzione mondiale, è sufficientemente lucido per affermare che la doppia territorialità economica e politica (centro/colonie) costituisce une difficoltà maggiore per l’imporsi della rivoluzione. La prassi rivoluzionaria in atto nel Sud del mondo non può costituire un paradigma per le lotte nel Nord e il Sud non potrà mai superare il capitalismo da solo. Il punto di forza del capitalismo è sempre stata la mondializzazione, ma attraversata da questa divisione che non ha solo motivazioni economiche, ma anche politiche. L’organizzazione degli Stati europei (lo jus publicum europaeum), la limitazione delle loro sete di conquista, della loro rivalità sul suolo europeo è resa possibile soltanto dal fatto che l’appropriazione senza limiti è autorizzata e incitata nelle colonie. Guerre regolate in Europa e guerre selvagge nel resto del mondo. Il colonialismo fa parte della costituzione materiale degli Stati europei, anche se questa verità è negata da tutta la filosofia e la filosofia politica. Mentre la possibilità di rivoluzioni sociali territorialmente limitate è cresciuta nei paesi coloniali, la possibilità di una prassi che sopprima il capitalismo in Occidente s’è ridotta. Se la rivoluzione ha delle chances differenti al di là e al di qua della linea di colore coloniale, si pone allora il problema del rapporto tra lotte che si sviluppano tra territori eterogenei. “Quale può essere la mediazione tra l’attualità della rivoluzione nella storia mondiale e le azioni quotidiane dei movimenti di protesta nelle metropoli del nord?”. Sono stato sorpreso dalla quantità di riferimenti alle rivoluzioni asiatiche che ci sono nel libro. Anche se, come diceva Krahl, quelle prassi contenevano paradigmi difficilmente applicabili in Occidente, portavano invece con sé molte verità valide anche per noi. Questa affermazione di Ho Chi Minh è ancora programmaticamente attuale: “Il capitalismo è una sanguisuga che ha una ventosa applicata sul proletariato della metropoli e un’altra sul proletariato delle colonie. Se si vuole uccidere la bestia bisogna tagliare le due ventose contemporaneamente. Altrimenti, tagliandone una soltanto, l’altra continuerà a succhiare il sangue del proletariato: la bestia continuerà a vivere e la ventosa tagliata rinascerà”. La capacità del capitalismo di superare la rottura rappresentata dalle rivoluzioni anti-imperialiste costruendo un modello di sfruttamento neocoloniale rende il punto di vista del compagno vietnamita ancora particolarmente lucido. Di questa storia del capitalismo come mercato (o meglio accumulazione) mondiale non c’è nessuna traccia nelle Bibbia dell’operaismo, Operai e capitale. Tronti racconta di un capitalismo che in realtà non è mai esistito, perché dalla sua nascita funziona articolando “isole di lavoro astratto”, analizzate perspicacemente, circondate da “oceani di lavoro gratuito o a buon mercato” erogato da schiavi, donne, servi, colonizzati indigeni e dalla Natura, la cui assenza testimonia di una visione mutilata del Capitale. L’accumulazione opera separando e facendo funzionare insieme un lavoro valorizzato (il lavoro “produttivo” del lavoratore “libero”) e un lavoro svalorizzato (il lavoro “improduttivo” del lavoratore/lavoratrice “non liberi” e la disponibilità gratuita delle risorse naturali). Valorizzate e svalorizzate sono anche le soggettività perché gli schiavi, le donne, i colonizzati sono inferiori all’uomo bianco e più prossimi alla natura . Il colore della pelle e il sesso sono i segni biologici della “differenza”. Valorizzazione e svalorizzazione sono solo delle armi politiche che non hanno nessun fondamento economico (produttivo e improduttivo sono un’ideologia che il marxismo ha purtroppo condiviso con l’economia politica !) Quello che Tronti non vedeva e non vede tuttora era chiaramente nella testa dei rivoluzionari del Terzo mondo . Durante il congresso costitutivo del Partito comunista francese Ho Chi Minh si disperava di come i comunisti europei non capissero la forma mondiale della produzione e l’esistenza dei due proletariati e di come venivano usati l’uno contro l’altro. Non ci si oppone alla caduta tendenziale del saggio del profitto soltanto con la mobilizzazione della scienza, della tecnica, della cooperazione del lavoro astratto. Più l’investimento in General Intellect è importante, più ampio e approfondito deve essere l’impiego del lavoro gratuito, di lavoro sottopagato, del lavoro, ancora oggi, servile, schiavistico. È stato dimostrato che anche l’intelligenza artificiale contemporanea si sviluppa a partire da questo modello, esasperandolo. Una piccolissima “isola” di lavoratori intellettuali (cognitivi?) e un oceano di milioni di lavoratori pagati qualche centesimo di dollaro per ogni clic prodotto dai loro computer, precari che vivono proprio nelle ex colonie. Mi sembra che questo modello coloniale, o meglio neocoloniale, invece di scomparire sotto l’avanzare della modernizzazione capitalista, si sia affermato anche nei paesi del centro: numero progressivamente ridotto di lavoratori “liberi”, assunti con contratto, difesi da diritti e leggi e una massa crescente di lavoro precario, al nero, non protetto da leggi e diritti. Le divisioni “coloniali” attraversano oggi i paesi del centro riproducendo una divisione etnica tra bianchi e non bianchi, nazionali e immigrati . Il razzismo ha una portata politica strategica nella gestione della forza lavoro e dell’ordine politico non solo a livello mondiale, ma anche locale. Razzismo e sessismo sono armi assolutamente moderne e non delle relazioni sociali pre capitaliste destinate a scomparire con lo sviluppo delle forze produttive (Engels pensava che il capitalismo avrebbe determinato la scomparsa del patriarcato e Lenin che il lavoro salariato soppresso il lavoro domestico). La socializzazione del capitale implicita in Operai e capitale è una socializzazione della classe operaia e della relazione salariale, mentre invece il capitale ha preferito una socializzazione contemporanea del lavoro astratto e del suo modello neocoloniale e del lavoro domestico . L’irruzione del movimento delle donne nelle lotte mondiali, dopo quello dei colonizzati, ha contribuito ad aggravare la crisi del marxismo perché, come per gli schiavi, servi, colonizzati, contadini ecc. si tratta di “lavoro improduttivo” che ha una grande capacità di mobilizzazione e organizzazione politica. La parte più interessante (per me) del movimento femminista, il femminismo materialista, critica contemporaneamente il concetto di lotta di classe e lo estende. Una volta dissolta l’esistenza politica della classe operaia (non la sua esistenza economica o sociologica che è anzi aumentata), il concetto di lotta di classe sembra aver perso ogni significato. La sola possibilità di farlo funzionare mi sembra contenuta in questa teoria dell’inizio degli anni Settanta: la relazione uomini/donne è una relazione di classe, perché uomini e donne sono istituiti, nella loro differenza gerarchica, dall’appropriazione violenta di una classe da parte di un’altra. Appropriazione che consiste nella costrizione al lavoro o meglio ai lavori (dal lavoro domestico al lavoro affettivo, sessuale, di cura ecc.) e costituisce un “modo di produzione” che non è riducibile al modo di produzione capitalista. Uno slogan potrebbe riassumere questo femminismo materialista: né differenza, né alterità, ma lotta di classe, che è una critica sia alle filosofie degli anni Settanta che a una parte dei movimenti femministi. Trasformare le “differenze” in opposizioni di classe e lavorare non per affermare la differenza delle “donne”, ma abolirle in quanto classe, è il compito politico e ambizioso che si danno (più difficile sarà trovare una politica che corrisponda a queste posizioni teoriche). L’obbligo alla eterosessualità è “una” della oppressioni. La gerarchia tra uomini e donne deve riprodursi in tutti gli ambiti della società e non solo nella sfera sessuale. L’invito implicito contenuto in questo femminismo è di passare dalla lotta di classe alle lotte di classe al plurale. La forza lavoro mondiale è allora costituita non soltanto da relazioni di classe nel senso marxiano (o trontiano), ma anche di relazioni di classe razziali e sessuali. Ora, se cinquant’anni fa era difficile (impossibile credo! L’“operaio sociale” coglieva solo alcuni aspetti di questa trasformazione, il femminismo altri, le rivoluzioni anti- imperialiste altri ancora ecc.) anticipare questa composizione tecnica e politica di forza lavoro mondiale e le sue modalità di organizzazione e di rottura rivoluzionaria, la cosa stupefacente è che cinquant’anni dopo si siano fatti pochissimi passi in avanti in questo senso. E tuttavia i problemi irrisolti all’epoca anticipavano molti degli attuali. Nei due cicli di lotte del 2011 e 2019, malgrado e forse anche a causa di un ulteriore sviluppo della mondializzazione imposta alle rivoluzioni del Ventesimo secolo, il problema della “rivoluzione mondiale” e le differenze tra lotte nel Sud e nel Nord si ripropongono. Nelle insurrezioni del 2019 i movimenti delle donne giocano un ruolo centrale (soprattutto in America Latina). Se le indicazioni politiche più innovatrici e radicali provengono dal Sud che rapporto esse possono avere con le lotte possibili e eventuali del Nord? La difficoltà, all’epoca, di costruire modalità di organizzazione generalizzabili, difficoltà che il libro di Giacomo e Piero esprime con l’“agire da partito senza il supporto del partito”, ci inviterebbe a pensarne delle nuove, trasversali alle divisioni di classe contemporanee. Quali? Non lo so, ma se non si avanza su questo terreno lo scenario più probabile potrebbe essere tratteggiato dall’ultima cosa che vorrei dire. La nostra tradizione teorica ha trascurato il ruolo delle guerre nel Ventesimo secolo. Noi datiamo la nascita della “sociétà fabbrica” nel dopoguerra. In realtà la prima grande socializzazione del lavoro è stata organizzata dalla Prima guerra mondiale e dalla sua “economia di guerra”. Tutta la società, tutte le attività, senza distinzione tra produttivo e improduttivo, sono state finalizzate alla produzione di distruzione. La Seconda guerra mondiale ha ancora accentuato la funzione distruttiva del lavoro, della tecnica e della scienza. Le forze produttive che dovevano realizzare il socialismo o il progresso, hanno invece prodotto la più grande distruzione, di uomini, di beni e di natura che l’umanità abbia mai conosciuto. Non sono sicuro che i concetti di “lavoro” e di “forze produttive” ne siano usciti indenni, che siano ancora gli stessi di cui parlava Marx. Visto lo stato del pianeta e delle specie che lo abitano, sembrerebbe che, da allora, ogni atto di produzione sia contemporaneamente un atto di distruzione. La cosiddetta “crisi ecologica” è il frutto di questo nuova caratteristica della produzione. Il capitalismo non è più solo un susseguirsi di “crisi” economico-politiche le cui caratteristiche conosciamo da secoli, ma anche “catastrofi” come quella “sanitaria” che stiamo vivendo e quella ecologica che è già in corso, che non conosciamo affatto. Se mai il capitalismo è stato progressivo (nelle colonie questa storia non è mai passata!) oggi è la sua funzione distruttiva che sale alla ribalta. Quello che si è capito dopo le guerre totali è che il capitalismo ha una tendenza generale non al progresso, ma all’autodistruzione, al suicidio. Se nelle crisi ha forse potuto funzionare la “distruzione creativa” di Schumpeter (dico forse perché senza guerre, guerre di conquista, fascismi, repressione non sarebbe uscito da nessuna crisi), nelle catastrofi si tratta solo di distruzione distruttiva. Se non si sviluppano delle forze rivoluzionarie, la previsione del Manifesto potrebbe avverarsi: la guerra di classe si conclude o con la trasformazione rivoluzionaria della società o con il tramonto delle classi (al plurale) in conflitto. Magari è questa la natura delle catastrofi in corso ! La rivoluzione è più necessaria che cinquant’anni fa, l’uscita da questa macchina mortifera ancora più urgente!
Accostandomi alla lettura del VI volume sull’Autonomia dei fratelli Despali credevo di trovare un ampliamento/arricchimento della storia dei ‘mitici’ collettivi veneti iniziata con il bel libro di Donato Tagliapietra sui collettivi vicentini.
Confesso inoltre che trovavo contraddittorio che la storia di un collettivo che non riconosceva ‘capi’ al suo interno venisse raccontata in prima persona da due ‘leader’! Non mi convinceva! Mi sono ricreduta, ovviamente. La forma biografica è memoria/storia plausibile. Il più bel libro sull’anarchia, la breve estate dell’anarchia di Enzesberger, non è forse una biografia?
La lettura di questo testo, invece, mi ha dato la sensazione di trovarmi di fronte a un’epica, a un romanzo la cui lettura ha cominciato ad emozionarmi da subito perché, come quando ci si immerge nella buona letteratura, percepisci di trovarti insieme ad amici dalla cui compagnia non vorresti mai staccarti.
Ho rivissuto emozioni, rabbia, gioia, frustrazioni e poi… le letture condivise, testi che hanno formato una generazione accomunandola nel medesimo “sentire”. Gli scaffali delle nostre librerie potrebbero avere un unico catalogo!
Sì, un bildungsroman, un romanzo di formazione, ma anche un esempio moderno di vite parallele (fine primo secolo quelle di Plutarco, fine primo millennio queste) ma al rovescio: quelle non volevano essere storia ma per noi posteri lo sono; queste volevano essere, immagino, una “ricostruzione storica dal di dentro” ma sono anche altro.
Vite parallele quella dei due fratelli, vite parallele le altre voci/interviste, vite parallele anche le nostre in Abruzzo che, pur senza il radicamento e la radicalità registrate altrove, sicuramente furono risospinte dallo stesso “vento di passioni” che ha soffiato in tutta la penisola.
Da subito mi sono sentita “lector in fabula”, immediatamente coinvolta nel farsi del testo, “catturata” dalla narrazione che riempiva i buchi della mia memoria e contemporaneamente ne chiariva alcuni passaggi e, sull’onda del racconto, ho ripreso in mano alcuni dei testi citati per capire il diverso modo in cui li avevamo recepiti e di conseguenza come essi avevano differentemente “agito” nella nostra formazione.
Nel libro di Snow, per esempio, io cercai allora, all’inseguimento del “mito”, il personaggio Mao, gli aneddoti biografici; loro invece ne avevano colto la cosa utile: il modello organizzativo, le basi rosse!
Una mia debolezza? Forse, ma non mi sento di sconfessarla. Considerando che gli autori concludono con un invito/appello al lettore, è da lettrice curiosa che vorrei intervenire nel dibattito di Pragma. Diversamente dal recensore di professione, attento ai passaggi storici, alla corretta ricostruzione degli eventi, interessato a discutere su operaio massa vs operaio sociale o a discettare sulla validità delle scelte operate o sui motivi della sconfitta, il lettore/trice nella lettura è alla ricerca del piacere che può trovare solo nelle parole che legge, nelle metafore e nelle mitonimie escogitate da chi scrive, nell’abbandono alla fluidità e alla leggerezza della conversazione e del confronto. Per me questa storia è una storia d’amore e una storia di “philia” che tutti stringe in un abbraccio circolare: tra i due fratelli che scopro essersi ritrovati dopo qualche decennio, e col curatore che non nasconde la sua complicità e la voglia di stare al gioco. Ma il lettore, proprio perché destinatario naturale del racconto, ha da avanzare una sua pretesa che è anche un suo diritto: che sia non solo accettato ma rispettato il suo punto di vista, sia pure il più eccentrico. Eccomi allora al dunque.
Volendo sintetizzare questa biografia politica dei due fratelli sceglierei, ereticamente, l’immagine dell’arcano XX, «Le Jugement» (il giudizio) dei tarocchi di Marsiglia. Capisco le perplessità che un simile approccio può suscitare. All’apparenza niente di più distante dall’impostazione operaista dei ricercatori scalzi ricordati nell’Introduzione. Cartomanzia? Stregoneria? Già immagino il lungo elenco delle parole sprezzanti: bizzarrie e superstizioni. E chi più ne ha più ne metta. Ma i tarocchi non dicono la ventura, spingono piuttosto all’avventura! Non sono predittivi e non potrebbero esserlo perché, come insegna il pensiero “primitivo”, noi camminiamo sul sentiero dei padri e il futuro rischia di essere uguale al passato se non si diventa ciò che si è, padroni della propria materia per l’appunto. Ecco allora la mia curiosità gustando questa storia dei Collettivi veneti: sono riusciti i nostri eroi? Per la risposta mi soccorre la carta del Tarocco. In essa sono concentrate tutte le energie materiali, intellettuali e – perché no? – spirituali di noi mortali. Sogni e bisogni!
Guardiamo la carta.
Di primo acchito ci richiama la resurrezione dei corpi, un’idea, questa, non solo cristiana ma presente anche nell’immaginario del movimento operaio degli anni ’60. Ci ricordiamo di quel mestissimo canto di lotta in cui i morti di Reggio Emilia sono chiamati a uscire dalle fosse pronti a cantare Bandiera rossa? Un canto “cattocomunista”, nell’accezione nobile della parola. La nostra carta mostra altro, esattamente il “levantamento”. Chi risponde alla chiamata irresistibile, gioiosa e allegra, della tromba dell’angelo azzurro raffigurato nell’atto di fare uno sberleffo, una pernacchia? Forse il nuovo studente proletario di cui si parla nel libro nelle pagine 74–75 e in cui soprattutto Piero si identifica? O, forse, il sognatore di una vita riuscita di cui parla Paolo Virno nel numero 1 di «Metropoli»? Questo personaggio si leva dal sepolcro con l’energia e la forza della propria natura, del proprio voler diventare ciò che è. A dire di Giacomo, che vuole essere “padrone della materia”. Chi è sordo allo squillo di tromba, perderà l’occasione della sua vita, anche perché il contesto gli è favorevole. Non tacciono forse l’uomo e la donna ai suoi lati nel mentre sognano lo statu quo ante? Rappresentano tutte le declinazioni possibili della potestas: società, istituzioni, partiti, padroni. Ecco, mi piace immaginare che la tuba del nostro angelo sia una tromba di guerra e che intoni le note dell’inno di PotOp: Stato e padroni fate attenzione/nasce il partito dell’insurrezione… Una musica ben diversa dalla mestizia funerea dell’altra. Insomma, se c’è un arcano che descrive il profilo del militante politico dei Collettivi veneti nel suo assalto al cielo è questo della carta XX. Alla fine, sono riusciti i nostri eroi? La risposta è presto data: loro sono ancora qui a elaborare pensiero, a scrivere la loro storia, a suscitare discussioni. Scomparsi dal teatro del mondo gli altri personaggi della scena di allora: quei partiti, quella forma stato, quella società. Dissolti.
Torno, per concludere, allo sguardo dei posteri: questo libro troverà il suo lettore? Intendo un lettore che non sia un “reduce”, un lettore che riesca a immedesimarsi nelle vicende dei protagonisti, come succede quando, a volte, la letteratura è più vera della vita. Intanto ha trovato me!
È il dualismo che sembra serpeggiare più o meno implicitamente in alcuni interventi che si sono succeduti finora. Credo sia pericoloso contrapporre i due generi. Sottolineare la storia rispetto al racconto sembra tradire il bisogno di giustificare l’affidabilità e la veridicità del libro (non si tratta semplicemente di un racconto, per di più autobiografico, di due attori immersi nelle vicende; è storia a tutti gli effetti …). Sottolineare il racconto rispetto alla storia desta sospetto (dopotutto si tratta di un racconto, per di più autobiografico, come tale non si può pretendere che sia sullo stesso piano della storia “obiettiva”…). In ambedue i casi si rischia l’irrilevanza del racconto come storia.
Forse è il caso di non contrapporre le due dimensioni, ma piuttosto di metterle in nesso, senza fonderle: il racconto come storia e la storia come racconto. L’utilizzo della forma racconto è legittima “perché la fonte orale è di per sé narrativa”, dice Mimmo (p. 8). Certo, la parola “storia” deriva da “ἴστωρ colui cha ha visto (da una radice indeur. che significa ‘vedere’)” (M. Cortelazzo P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana). Ma è anche raccontare, narrare, posto che il vedere deve pur essere comunicato. Il sapere del vedere si realizza nel narrare. La dimensione del racconto non è eludibile nel riportare ciò che si è visto e pensato e fatto. Come sono ineludibili i rischi che questo comporta, in quanto il racconto autobiografico è legato alla memoria, e la memoria, si sa, altera, omette, approssima, a volte crea allucinazioni. Sembra banale ma non lo è, perché allora il narrare implica sempre un punto di vista.
Solo la fonte orale? Perché anche la storia è racconto. Vale la pena di notare che l’Iliade ci ricorda che ἴστωρ implicava la nozione di ‘giudice’; così la scrittura della storia avrebbe da sempre un carattere ‘giudiziario’, basato sulla lettura soprattutto delle ‘carte’, dei documenti, e poi, se ci sono, dei testimoni, come si fa in un processo. D’altra parte, non si dice di un fatto o di una serie di fatti che la “storia poi giudicherà”? E non può giudicare se non secondo una prospettiva già data.
Contro questa storia processuale è possibile una forma di storia che anche alcuni storici di professione – quelli ‘veri’ – chiamano ‘indisciplinata’, nel senso di non sottoposta alle regole che finora l’hanno costituita come disciplina autonoma, come un genere di scrittura che avrebbe la pretesa di essere non prospettica e senza coinvolgimenti emotivi, perché questi deformano, falsificano, sporcano la purezza della visione. Un racconto che emana da una sorta di occhio di Dio, l’unico al di sopra di tutto e tutti, legittimo e capace di cogliere il senso delle cose “così come sono state”.
A questa nozione si oppone la forma di dialogo che Piero, Giacomo e Mimmo ricostruiscono, e che non è affatto secondaria. Si badi bene: dialogo non nel senso comune di ricerca dell’accordo o del compromesso, di superamento e composizione delle differenze. Qui il dialogo ha l’impronta materialista e per niente accomodante della multiaccentuatività e della polifonia di Michail Bachtin. Non si esclude il dialogo dalla polemica né dalle dispute interminabili, che rendono possibile quello che Marx chiama la ‘pratica critica’ di sfida dell’inganno, poiché si parte dal presupposto che il linguaggio stesso è fondamentalmente eterogeneo, mezzo diviso e conflittuale. Non un sistema ma una pratica collettiva immersa nella realtà storico-sociale. La parola propria allude sempre, suo malgrado, lo sappia o no, alla parola altrui. Anche l’atto di parola più anodino, impersonale e neutro è, nello stesso tempo, la risposta a domande passate e una richiesta rivolta a possibili interlocutori, presenti o presunti. La forma stessa di dialogo a due del racconto assume questa multiaccentuatività costitutiva, è parte di un tessuto di atti di parola passati, di voci diverse, di intonazioni variabili secondo i luoghi e le posizioni nella catena. Gli altri interventi nel libro e sul libro non fanno altro che dare corpo a questa pluralità di accenti in principio inesauribile.
Non solo. Dialogo tra due, ma anche riferimento diretto a Mimmo, un terzo presente che sembra in una posizione di puro ascolto. Lo scarto rispetto alla narrazione del passato rinvia al momento presente del racconto, e la forma di domanda del riferimento (“Cosa ho pensato quel 16 marzo, Mimmo?”, p. 97) materializza, anche qui con un nome proprio, quello che Bachtin – ancora – chiama ‘responsività’: un composto di inevitabilità della risposta e di chiamata di responsabilità. Ogni atto di parola, ogni discorso, oltre che rispondere a domande passate, interpella, convoca, richiede e anticipa risposte, si proietta nel futuro. Passato, presente e futuro si implicano reciprocamente. E la valutazione, che permea ogni discorso passato, presente e futuro è interna alla catena di domande e risposte, non al di fuori o al di sopra.
Il racconto non vuole per forza insegnare, perché “ai giovani non può importargliene di meno di una lezioncina siffatta” (p. 11), ma interpellare sì, è inevitabile. Da chi ha visto secondo un punto di vista. Non nel senso banale e deformante ormai diffuso nei media e nei dibattiti televisivi, secondo cui ogni discorso è ‘narrazione’, nell’accezione liberal-individualistica: ognuno racconta, ognuno come la pensa, per cui la legittimità e il diritto al narrare di chiunque scivola nella neutralizzazione ed equivalenza di ogni discorso, perché, appunto, tutto è narrare e la ‘verità’ non esiste.
Nel senso invece di fedeltà e pratica di un “sapere situato e corporeo, parziale e partigiano, che si distende a partire da un luogo e un tempo specifico” (Tiziana Terranova). E soprattutto che si esplicita, dichiara i presupposti che motivano il punto di vista, chiama all’assunzione di responsabilità personale. Il brulicare di nomi propri di persone, di luoghi, di riferimenti ideologici, di date, che Giacomo e Piero spargono qua e là specificano i contesti spaziali e temporali, articolano e spiegano i punti di vista del racconto.
Corporeo significa che fanno parte di quel sapere anche le emozioni, sia quelle che originano gli avvenimenti sia quelle che spingono alla presa di parola, al racconto. Non è un caso che il dialogo inizia proprio con il ricordo di una passione vissuta al contatto con un libro di Adorno: “Era la vita offesa che si rivoltava e prendeva la parola” (p. 17). E anche le emozioni che la lettura provoca, perché il racconto è anche un’esperienza estetica, di godimento. Sottolineare troppo questa dimensione comporta dei rischi, potrebbe spingere impercettibilmente verso un appagamento puramente edonistico, a scapito della pregnanza storica e politica. Ma è comunque legittima, va recuperata e valorizzata.
Per questo è necessario insistere sulla polifonia, nel senso più ampio, che anima il racconto e il libro, che si rivolge, chiama, interpella, eventualmente richiede contestazione e contro-discorso, altre voci, altre intonazioni e valutazioni, e il sapore e il colore delle emozioni. E non si tratta di un movimento dialettico, per cui tutto si ricompone e si pacifica a un livello superiore dove tutto riceve significato e direzione. Al contrario, tutto si complica e si sviluppa. È indisciplinata e sporca, ma questa è la storia vera. Anzi, senza aggettivi.
Ho letto con interesse i diversi interventi fin qui pubblicati, quanto mai ricchi e articolati, ma leggendo ho avvertito che qualcosa mancava. Che cosa? Ecco, vorrei parlare di quest’assenza, in breve: dell’autonomia operaia con la lettera minuscola. Sì, perché c’è stata un’area dell’autonomia assai più grande e frastagliata dei coordinamenti o delle organizzazioni che hanno provato a orientare e, in certi casi, dirigere la rabbia e la gioia di tanti giovani in quegli anni. È stata un’area ricca di contraddizioni, senz’altro, ma non era certo una “palude”, bensì una mobile utopia concreta, caotica finché si vuole, ma che sapeva all’occorrenza esprimere, nella teoria e nella pratica, un’intelligenza molecolare, diffusa, praticando l’orizzontalità e sabotando le gerarchie. Forse è bene indagare e parlare anche seguendo quelle tracce restate per lo più silenziose. Per questo prendo la parola e quanto segue vuole essere solo – all’interno di un più ampio quadro polifonico – un soggettivo e parziale contributo in quella direzione.
Iniziai a leggere «Rosso» con vivo interesse all’indomani dello scioglimento del Gruppo Gramsci, di cui era fino a quel momento l’organo. «Giornale dentro il movimento», recitava il sottotitolo. I contenuti degli articoli (come la veste grafica che occhieggiava un po’ alla stampa underground dell’epoca) aprivano largamente ai temi della controcultura: non solo la fabbrica, la condizione operaia e le scadenze contrattuali, ma anche il tempo libero, la liberazione sessuale, la musica rock come elemento aggregante e via di questo passo (vale a dire tutti temi inerenti all’importanza dei processi di riproduzione, tanto riscoperti in questi ultimi anni). Proposi subito la costituzione di un collettivo autonomo nel liceo che frequentavo a Milano e aderimmo al Coordinamento dei collettivi autonomi studenteschi che s’incontrava periodicamente in via Disciplini, dove c’era anche la redazione di “Rosso”. Fu un’esperienza radicalmente differente da quella che si respirava nei gruppi della nuova sinistra (che, a vederla ora, di nuovo aveva davvero poco), nei contenuti, come nelle pratiche e nelle dinamiche interne. L’esperienza della politica fu davvero una politica dell’esperienza. Quando, poco prima del ’77, si passò dall’intervento settoriale a quello territoriale finii, più per legami amicali che strettamente politici, in uno dei collettivi in seguito divenuti più discussi: il Romana-Vittoria, da cui uscii alcuni mesi prima dei fatti di via De Amicis. Non era decisamente la mia storia, quella, e lo capii in tempo.
Mi ritrovavo in molte posizioni di «Rosso» (pur mal digerendo il leninismo – o neo-leninismo, che dir si voglia – che emergeva sempre più) senza mai far parte dell’organizzazione, verso cui mi sentivo a un tempo vicino e lontano; per semplificare, ero – e in fondo lo sono sempre stato – un movimentista, un «militante politico di base», per usare una limpida espressione di Danilo Montaldi. Le tematiche di ascendenza operaista (il rifiuto del lavoro, in primis, declinato da noi nei termini di rifiuto della scuola) le mescolavo con quegli aspetti riguardanti la «rivoluzione della vita quotidiana», che ritrovavo in Raoul Vaneigem e nella corrente situazionista. E – come si può immaginare – tenere insieme operaismo e situazionismo non fu un lavoro facile.
Il ’77 lo passai per le strade, come cane sciolto (ma Milano aveva anticipato di almeno un paio d’anni quello che poi è deflagrato nelle altre città proprio in quel fatidico anno). Non c’era corteo che non desse vita a una qualche forma di autovalorizzazione di massa (così si diceva all’epoca), in molti casi sorta spontaneamente e in forma gioiosa, per la quale nessuno poi finì sotto processo, a riprova di come quelle forme di lotta pagassero. Come cantava Janis Joplin: Freedom’s just another word for nothing left to lose. All’università finii per avvicinarmi per un po’ agli indiani metropolitani, un fenomeno decisamente minoritario nel movimento milanese, anche se bisognerà prima o poi far riemergere anche quelle esperienze (l’ha fatto di recente Gianfranco Sanguinetti, sodale di Debord, con il tono sentenzioso e antipatico che purtroppo caratterizza spesso la vulgata situazionista). La spinta alla centralizzazione organizzativa imposta da «Rosso» in quegli anni per contrastare l’emorragia militarista, come si sa, non ottenne i risultati attesi. Se si vuole, le tendenze centrifughe si amplificarono: nel frattempo il movimento delle donne e quello degli omosessuali decisero di proseguire per conto proprio, molti scelsero altre strade, chi optando per il lavoro su di sé, chi lasciando la città per la campagna e dare vita al movimento delle comuni e chi ancora più lontano, in India e oltre. Insomma di lì a poco quell’entità che ci ostinavamo a chiamare “movimento” – un termine di comprensione immediata, epidermica e intuitiva per chi era interno a esso, ma il cui significato risultava ostico e incomprensibile a chi stava fuori – sarebbe svaporato.
Se il 7 aprile ’79 segnò l’inizio della fine per me significò ricominciare a fare l’attivista. Nessuno me l’aveva chiesto, ma sentivo un debito morale e politico nei confronti dei compagni e delle compagne costretti/e alla latitanza o alla detenzione. Rimettere insieme i cocci di quello che rimaneva di un tessuto antagonista nei primi anni ’80 a Milano non fu facile. A tanti, scampati alle denunce dei pentiti, non sembrava vero di averla sfangata e preferirono defilarsi. Furono anni velati di tristezza. Si trattava, è bene dirlo, per lo più di garantire una prospettiva difensiva, nell’imminenza delle scadenze processuali (a Milano era il cosiddetto processo Rosso-Tobagi, come lo denominavano i media). In seguito, quando uscì da Rebibbia il documento sulla dissociazione politica, alla tristezza strisciante si affiancò la categoria del risentimento. Quando apparve su «Controinformazione» la nostra posizione (firmata come Radio Black-out), in cui era evidente la nostra critica nei confronti di quelle posizioni pur mantenendo una posizione dialogica con quei compagni, fummo accusati di fiancheggiare la dissociazione, da considerare quindi «traditori del movimento comunista» (come recitava allora il titolo sulla prima pagina di una testata autonoma). Ricordo ciò solo per provare a trasmettere le trame emotive e i vissuti che aleggiavano in quegli anni, non per sollevare vacue polemiche a tempi largamente scaduti.
La farò facile, ma quello che penso, dopo tanti anni e tante parole, è che dentro l’area dell’autonomia, da una parte o dall’altra, abbiamo sbagliato un po’ tutti, ma mi consola pensare che, alla fine, tutti avevamo anche un po’ ragione. Fu un’esperienza con un piede dentro la grande tradizione rivoluzionaria del Novecento e l’altro già proiettato oltre. Questa fu in fondo la sua ricchezza e il suo limite. È come se quel grande movimento fosse andato troppo avanti nella realizzazione del “sogno di una cosa”, verso una diversa qualità delle relazioni e della vita degli uomini e delle donne. La speranza era troppo grande e alla fine l’impatto fu rovinoso. Così, dinanzi a tutto ciò posso dire di provare sì nostalgia, ma è una nostalgia ostinatamente coniugata al futuro. Con i versi di Paul Éluard: Supereremo in velocità l’alba e la primavera/E prepareremo giorni e stagioni/A misura dei nostri sogni”.
Dicembre, 2001. A un anno e mezzo dalla nascita del “collettivo di scienze politiche” avevamo deciso di occupare la Facoltà di scienze politiche di Padova, non succedeva da circa dieci anni, dai tempi della Pantera. Eravamo una cinquantina, mossi semplicemente dalla convinzione di fare la cosa giusta, “quello che devo fare” ripeteva Gert del Pozzo in “Q” e noi prendevamo quell’attitudine davvero sul serio, e con una giusta e sana dose di gioiosa incoscienza.
Ricordo che giravo con un paio di compagni per le aule vuote, ma “nostre”, con un senso di libertà e soddisfazione genuina, unita a una certa tensione, quasi reverenziale, perché seppur a grandi linee, sapevamo cosa avessero rappresentato quei luoghi negli anni ’70, era qualcosa che, credetemi, aleggiava nell’aria, ma non solo nell’aria.
Ad un certo punto consiglio di andare a fare un check nel mitico “giardinetto”, delimitato da un alto muro confinante con il Liceo Classico Tito Livio, e poi in Aula Magna, dove in tante e tanti avremmo passato la notte. Individuiamo le zone più “confortevoli” per mettere zaini e sacchi a pelo, ma prima di uscire succede qualcosa che mi e ci rimarrà impresso a lungo. Mentre scendo le ultime ripide scale, dove tante volte mi ero ritrovato seduto a terra a fare lezione causa sovraffollamento aule, noto una vaga e minuscola venatura color rosa affiorare sul bianco di una dalle pareti laterali. Con me c’era un compagno che ci sguazzava in queste cose, anche perché oggettivamente più consapevole della storia del luogo in cui ci trovavamo, e allora decidiamo di chiamare gli altri e cominciamo a grattare con delicatezza quella parte del muro, tipo archeologi, e con il passare dei secondi emerge in crescente color rosso la scritta “AUT.OP.”, con affianco la falce e il martello. Quando si dice: “se i muri potessero parlare”.
Per pochi attimi siamo rimasti in silenzio a fissare quella scritta, sorpresi e per certi versi affascinati. In quegli attimi passato e presente si sono furtivamente incontrati. Poi abbiamo sentito un grido, “correte compagni sono arrivati i digossini”, e siamo schizzati via. Sapevamo che ci avrebbero denunciato, lo avevamo messo in conto, il punto era tenere l’occupazione per fare gli incontri di autoformazione il giorno dopo. Il titolo dei seminari autogestiti era una cosa del tipo “la democrazia del sapere” ma questa è una storia lunga.
Leggendo il coinvolgente racconto e le considerazioni dei fratelli Despali su una fase cruciale della cosiddetta “anomalia italiana”, che coincide con la fine del lungo ’68 in questo paese, mi sono venute in mente numerosi ricordi ed istantanee legate a scienze politiche, ma anche ad alcuni luoghi strategici e a me molto famigliari che vengono ricordati, come le piazze, Capitaniato in particolare, le mense e le residenze studentesche di Padova. Sono tutti luoghi che, più di 30 anni dopo il ’77, ho avuto modo di attraversare in contesti di lotta.
Il libro, come già ricordato da alcuni ha, tra le varie, la forza di trasmetterci bene una delle caratteristiche più interessanti dell’esperienza dei Collettivi politici veneti per il potere operaio (CPV). Si tratta della centralità assegnata al territorio, ai suoi snodi strategici, alla logistica delle relazioni più vivaci che in esso si annidavano e muovevano, alla geografia variabile dei modi e delle zone di assembramento e “assemblaggio” delle soggettività ritenute in quel momento storico più “interessanti” per nuove forme di ricomposizione politica.
È vero, come ricorda Toni Negri, che ci vorrà molto per vedere una risposta matura alla crisi del modello fordista, e a un certo superamento delle dinamiche di classe che ne rappresentavano storicamente il paradigma di riferimento, e che questa risposta si manifesterà definitivamente proprio con la mia generazione, quella di Seattle e di Genova.
La lettura di queste pagine ci suggeriscono però che siamo debitori rispetto ai CPV, e in questo caso soprattutto sul piano pragmatico e metodologico della prassi, dell’azione e dell’organizzazione politica, per la loro capacità di intuire – posizionati sul solco lasciato dal pensiero operaista e ben supportati e ispirati dal pensiero critico elaborato in contemporanea proprio a Scienze politiche dai “cattivi maestri” – che il capitale tende a riorganizzarsi espandendo i confini della messa a valore e dunque gli spazi e i dispositivi del controllo della produzione e della riproduzione. E la consapevolezza di quella trasformazione in atto, ancora ibrida e sperimentale per quanto riguarda gli orientamenti del capitale, portava i Collettivi ad agire di conseguenza, prassi e conoscenza non sembrano conoscere nella loro esperienza soluzioni di continuità.
Certo il soggetto centrale rimaneva, e viene ricordato nel testo, l’operaio e il luogo di riferimento la fabbrica, quella in via di ristrutturazione. Ma diciamolo, chi prenderà in mano il libro pensando di leggere solo, o soprattutto, di picchetti ai cancelli delle fabbriche e delle modalità con cui i CPV interagivano con gli operai sotto il segno della “conricerca” di operaistica memoria rimarrà in qualche modo deluso.
Abbiamo piuttosto la possibilità di vedere attraverso la loro esperienza come la fabbrica si prolunga e tende ad abbracciare e incorporare il territorio e di osservare e registrare i contro-poteri che i CPV organizzano per cercare di togliere il terreno sotto i piedi dei padroni ed essere un dispositivo politico destabilizzante, per provare a rappresentare in definitiva un problema. Ogni tanto ce lo dimentichiamo, ma alla fine questo è il punto, essere per il potere non solo un fastidio, ma un problema, meglio se non facilmente sussumibile.
In questo senso gli “autonomi” si muovono a vari livelli, e stringono relazioni e “alleanze” con soggetti e gruppi sociali emergenti come alcuni lavoratori precari e “atipici” rispetto ai precedenti criteri, e parte della popolazione universitaria, individui la cui vita sociale eccede chiaramente le pareti materiali e simboliche della fabbrica, piccola o grande che sia.
Eccola allora una questione dirimente che traspare dalle parole di Piero e Giacomo, che rappresenta a mio avviso contemporaneamente un’asse di continuità con il precedente operaismo e una proiezione virtuosa con i giorni nostri, o meglio con le modalità con cui alcune/i militanti affrontano le sfide dei giorni nostri.
Si tratta del fatto di cercare di assettarsi sui punti più avanzati delle trasformazioni del capitale, una postura di matrice marxiana che trova rinnovata linfa teorica negli intellettuali operaisti e cosiddetti “postoperaisti” e, nel nostro caso, applicazione pratica in molte scelte e orientamenti dei CPV. Essere ed agire sui punti più avanzati dei mutamenti in atto, anche a costo di proiettarsi troppo in avanti ed esporsi al vuoto, risulta comunque opzione preferibile rispetto a quella diciamo conservatrice, di retroguardia, di “posizione” ed attendista.
Sarà questo un orientamento che mi accompagnerà tra la fine degli anni ’90 ad oggi in tutte le dimensioni politiche attraversate da me e da centinaia di compagne e compagni, una tendenza che spesso ci ha, direi felicemente, distanziati da altri gruppi o progetti.
Sul tema della violenza non mi pare il caso di soffermarsi come giustamente non fanno più di tanto gli autori del libro. Non servono troppi giri di parole per capirsi. Talvolta si scelgono campi di battaglia, obiettivi e vengono individuate poste in palio e affrontati scontri che raggiungono soglie a cui ci si prepara in un certo modo, soprattutto per un legittimo diritto di resistenza.
Vorrei chiudere ripartendo da alcune note personali.
Riprendendo nuovamente i commenti di Toni Negri, anch’io ho subito notato la decisione di concludere il racconto del libro con i fatti avvenuti alla fine degli anni ’70. Quando è comunemente noto che – dopo lunghi anni di complicata “resistenza” all’infame repressione, e soprattutto a ripartire dal ciclo Seattle/Genova – alcune tendenze e propensioni presenti nei CPV tornano in campo, certamente alla luce, e in contrattacco, della ristrutturazione “neoliberale” messa in atto dal capitale in quei 20 anni.
Ma soprattutto tornano in scena alcune/i compagne/i che l’esperienza raccontata in questo testo l’hanno vissuta e che ricominciano a misurarsi, senza timore reverenziale, con le sfide del nuovo millennio.
Questo è successo – nella “fase due” dei CPV si direbbe di questi tempi – in termini complessi come succede in tutte le esperienze ambiziose, con traiettorie ambivalenti, con scelte organizzative discutibili e con alterne fortune, di certo con importanti intuizioni sulle forme di lotta e con sperimentazioni virtuose che tuttora sono a mio avviso materiale da cui attingere. Quelle che riporto qui sono pensieri e impressioni sedimentate in 20 anni di militanza, da militante ostinatamente indipendente ed “esterno”, ma comunque spesso “prossimo” a questo percorsi e a queste/i compagne/i.
La mia familiarizzazione con l’“autonomia” passa per vie molteplici.
Ne sento parlare in casa da mio padre, figura decisiva per la mia prima politicizzazione, i primi anni del liceo, in termini tendenzialmente stigmatizzanti. È a suo modo più che comprensibile. Lui era un comunista ortodosso, veniva chiamato Majid “Soviet” tra i compagni, era un quadro del partito “Tudeh” fortemente legato al Pci, negli anni ’70 aveva vissuto diversi conflitti con i CPV e si era trincerato saldamente nella sua ortodossia fino al ritorno in Iran durante la rivoluzione e agli anni di carcere che avevano posto fine alla sua militanza. Tenermi alla larga dagli “autonomi”, definiti come “gruppettari” troppo radicali ecc., era uno degli obiettivi dei miei genitori negli anni del liceo e dell’Università.
C’era poi il piano delle rappresentazioni pubbliche e mediatiche. Fin dai primi passi della mia militanza, pure muovendomi in collettivi e percorsi indipendenti, mi sono trovato cucito addosso l’etichetta di “autonomo”. Ogni volta la solita storia, gli “autonomi” hanno fatto questo e quell’altro, che dal punto di vista comunicativo veniva inteso i “violenti” hanno fatto questo e quell’altro. Devo dire che questa etichettata, come ogni altra semplificazione, non mi ha mai entusiasmato, ma allo stesso tempo non ho mai sentito un particolare motivo per sforzarmi di rigettarla o perdere tempo in puntualizzazioni ecc. Negli anni, come altre/i della mia generazione ho nutrito, attraverso racconti e letture, una semplice e genuina fascinazione verso l’esperienza dei CPV. Non ho mai avuto dubbi, sono esercizi di fantasia che credo facciamo tutte/i, che se fossi vissuto in quell’epoca avrei scelto quello come contesto di riferimento.
Decisamente più complicato il rapporto diretto con le/i militanti che, reduci da quella fase storica, avevano appunto deciso di rilanciare nuovi percorsi politici individuando come base gravitazionale Radio Sherwood. Parlo di relazioni e cooperazioni segnate da elementi da cui ho imparato molto e che mi hanno fatto crescere, ma anche caratterizzate da attriti e conflittualità in alcuni casi piuttosto intense.
C’era poi, come per moltissime altre persone, l’idea che nel corso degli anni mi sono fatto di quell’esperienza attraverso i racconti dei compagni più grandi e attraverso le letture di riviste e libri. A proposito una parte del materiale della Libreria Calusca, decine di libri e riviste degli anni ’70, donateci da Radio Sherwood ai tempi del “Collettivo di Scienze Politiche”, si trova oggi al Bioslab di Padova, e alla fine di questa crisi sanitaria, sarà di nuovo a disposizione della città.
Detto questo la lettura del libro mi conferma l’idea che ci sia qualcosa dentro l’esperienza degli “autonomi” che trascende singoli episodi o scelte, una sorta di postura, di stile della militanza che a mio avviso ha la potenza, rara, della “riproducibilità”, quella di resistere negli anni.
Un’attitudine direi biopolitica, fortemente incarnata nelle pratiche, che proietta ad affrontare l’azione politica con ambizione nel senso di percepire e leggere ogni passaggio e ogni fase vissuta come terreno di ripartenza per spostare più in alto l’asticella del conflitto; con laicità nel senso di rifiutare ogni tentazione ad affrontare tattiche e strategie intorno a questioni morali o di principio, bensì agire con pragmatismo e giudicare l’opportunità di ogni scelta, relazione, alleanza, negoziazione o temporanea tregua o compromesso, alla luce di quanto esse siano o meno materialmente funzionali, nel presente o in prospettiva, al cambiamento radicale dell’esistente, al conflitto sociale e alla produzione di contro poteri. Non importa se stai organizzando barricate, occupando le Università, cacciando sindacalisti indesiderati, trattando con istituzioni, parlando con il Papa o intervenendo dentro il parlamento europeo. Importa il fatto che ogni cosa sia destabilizzante, che sappia irrompere nel piano del discorso e abbia effetti materiali di emancipazione e libertà; con una propensione direi strutturale a rappresentare “eccedenza”, il che non vuol dire in alcun modo marginalità, anzi. Si tratta di una irriducibilità a prendere stabilmente forma dentro partiti, sindacati o, ancor più, in quadri istituzionali, locali o nazionali, non certo per una questione di principio. Se deve succedere (e capita che succeda, vedi il punto precedente), avviene per uso strumentale e strategico, si interagisce con l’“alto” sempre e comunque per giungere a destabilizzare i piani e liberare nuove forze incontrollabili istituzionalmente nel “basso”. Vuol dire stare fino in fondo dentro le dinamiche costituenti e i processi sociali dinamici e in divenire e assegnare proprio a questi un ruolo da protagonisti nel progetto rivoluzionario.
C’è poi un ultimo punto, un ultimo tratto di “riconoscibilità”, direi un vero marchio di fabbrica sempre vivo e valido, ed è il rapporto con la repressione. Mai fare le vittime, mai lamentarsi della repressione, certo affrontarla razionalmente e con intelligenza, ma non lamentarsi. Il capitale, ci insegnano gli “autonomi”, sa essere, nel difendere i suoi interessi di classe, molto violento, feroce, allora mettersi contro vuol dire attirare le sue attenzioni, vuol dire che cercherà di neutralizzarti in ogni modo, spesso con la repressione, il carcere, a volte con l’assassinio. Se si tenta di rapinare una banca ci si organizza come si deve, se poi le cose vanno male, lo si mette in conto, è qualcosa di prevedibile da mettere in conto, al massimo si fa il possibile per fare sì che il conto non sia troppo salato, per tornare in azione prima possibile.
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