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Così vicino, così lontano

di Vale­rio Romitelli

C’è una bat­tu­ta, pro­ba­bil­men­te cir­co­lan­te per­si­no pri­ma del ’68, che dice che in un par­ti­to mar­xi­sta-leni­ni­sta occor­re esse­re alme­no in tre, così la “linea ros­sa” può allear­si col “cen­tro” ed espel­le­re la “linea nera”… o vice­ver­sa.
Oggi for­se non fa più ride­re nes­su­no, ma cre­do fac­cia ben capi­re alcu­ni cla­mo­ro­si difet­ti di set­ta­ri­smo e dog­ma­ti­smo di quell’esperienza dal­la qua­le sia pur tra­sver­sal­men­te ven­go.
Per di più, aven­do qua­si sem­pre vis­su­to a Bolo­gna, ma in epo­ca mili­tan­te mol­to più tra Tren­to e Pari­gi, ci si può chie­de­re che c’entro io con i Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io. Ebbe­ne, oltre all’amicizia e agli impe­gni con­di­vi­si da anni con alcu­ni pro­mo­to­ri di que­sto testo, mi sen­to di c’entrarci anzi­tut­to come let­to­re appas­sio­na­to. Que­sta rac­col­ta di memo­rie e rifles­sio­ni l’ho tro­va­ta infat­ti costi­tui­re un raro e pre­zio­so docu­men­to di ripen­sa­men­to del­le espe­rien­ze mili­tan­ti degli anni ’70 che è e reste­rà estre­ma­men­te impor­tan­te. Tra l’altro, e per quel poco o tan­to che pos­sa inte­res­sa­re, sto scri­ven­do da tem­po un libro – si spe­ra non trop­po pon­de­ro­so – sul­le due epo­che poli­ti­che del secon­do dopo­guer­ra che pre­ce­do­no l’attuale. Per inqua­dra­re la con­clu­sio­ne del­la pri­ma tra gli anni ’70 e ’80, la let­tu­ra di que­sto testo mi ha acce­so non poche ispi­ra­zio­ni.
Ma qui pre­fe­ri­sco par­la­re d’altro, di qual­co­sa direi per­si­no di più inti­mo, di medi­ta­ta­men­te sin­ce­ro, alme­no quan­to mi sono par­si i diver­si auto­ri di que­sto libro. Accen­ne­rò quin­di a uno stra­no para­dos­so la cui spie­ga­zio­ne esau­sti­va richie­de­reb­be un’analisi for­se inter­mi­na­bi­le e che quin­di mi limi­te­rò a segna­la­re. Si trat­ta del­lo stra­no para­dos­so che ha sem­pre fat­to sì che in non poche del­le mie espe­rien­ze di impe­gno mili­tan­te o intel­let­tua­le mi sia tro­va­to accan­to, vici­no, spal­la a spal­la, con ope­rai­sti o “auto­no­mi” come Mim­mo, Pie­ro e Gia­co­mo, Eli­sa­bet­ta e gli altri auto­ri di que­sto libro, ma anche deci­sa­men­te distan­te. E ciò nono­stan­te mi sia ben chia­ro che quel­la che si può ora­mai con­si­de­ra­re la tra­di­zio­ne del pen­sie­ro ope­rai­sta è di fat­to non solo la più lon­ge­va e con­si­sten­te in Ita­lia, ma anche una del­le più acca­de­mi­ca­men­te pre­sti­gio­se a livel­lo mon­dia­le, rico­no­sciu­ta com­po­nen­te deci­si­va del suc­ces­so pla­ne­ta­rio dell’“Italian Theo­ry”. Un fat­to que­sto che fa ben spe­ra­re, spe­cie se si ricor­da­no quei tem­pi orren­di nei qua­li, a segui­to del­la male­det­ta inqui­si­zio­ne del 7 apri­le 1979 (tan­to sug­ge­sti­va­men­te rie­vo­ca­ta in que­sto libro), mol­ti col­le­ghi, in dispar­te sper­ti­ca­ti ammi­ra­to­ri di Toni Negri, era­no così impau­ri­ti da non osa­re nean­che mini­ma­men­te di mani­fe­sta­re il loro sde­gno per quan­to sta­va acca­den­do a lui e i suoi com­pa­gni. Ceden­do alla ten­ta­zio­ne dell’amar­cord, fu pro­prio allo­ra che lo con­tat­tai per la pri­ma vol­ta invian­do­gli il mio pri­mo libro in car­ce­re e invi­tan­do­lo a un con­ve­gno orga­niz­za­to a all’Università di Tren­to pro­prio sul­le tra­sfor­ma­zio­ni in atto del­lo Sta­to ita­lia­no.
Tor­nan­do al para­dos­so del “così vici­no, così lon­ta­no” par­to allo­ra da una del­le cose che più ha col­pi­to del rac­con­to e del­le rifles­sio­ni di Pie­ro e Gia­co­mo. Il rife­ri­men­to a Mao. Non che non sapes­si che gli auto­no­mi ne fos­se­ro inte­res­sa­ti. Ma non così tan­to. Que­sto è per me un’ulteriore con­fer­ma, sia pure a poste­rio­ri, di una estre­ma pros­si­mi­tà nel modo di pen­sa­re. Non sto a rac­con­ta­re per­ché tutt’ora il maoi­smo con­ti­nua a esse­re un mio pun­to di rife­ri­men­to. Mi basta dire che a far­me­lo apprez­za­re come si deve è con­ta­ta mol­to più la mia fre­quen­ta­zio­ne di com­pa­gni fran­ce­si a Pari­gi e Niz­za, a par­ti­re dal­la metà degli anni ’70, piut­to­sto che l’esperienza ita­lia­na m‑l (nono­stan­te che – curio­si­tà che non pos­so tra­la­scia­re – un nostro lea­der nel ’68 aves­se incon­tra­to per­so­nal­men­te Mao e da allo­ra si voci­fe­ra­va non si fos­se più lava­to la mano!). Riflet­ten­do su que­sta sia pur lon­ta­na affi­ni­tà elet­ti­va rap­pre­sen­ta­ta dal maoi­smo, mi vie­ne dun­que da por­re due dilem­mi che in par­te mi avvi­ci­na­no, ma anche in par­te mi distan­zia­no da quan­to si rac­con­ta in que­sto libro. Ma pri­ma di accen­nar­vi anco­ra qual­che pre­li­mi­na­re.
Cre­do infat­ti sia impor­tan­te riba­di­re quan­to d’abitudine sia refrat­ta­rio a ogni nostal­gia: al pun­to che oggi mi spin­go in una rot­tu­ra col pas­sa­to tale che for­se può non pia­ce­re né agli auto­ri né ai let­to­ri di que­sto libro. Non mi rispar­mio infat­ti i dub­bi per­si­no sul “comu­ni­smo” e con­ti­nuo a chie­der­mi se non ci sia un modo miglio­re per par­la­re del desi­de­rio di una mag­gior giu­sti­zia socia­le uni­ver­sa­le. Ciò non toglie però, sia chia­ro, che per rin­no­va­re que­sto desi­de­rio con­ti­nuo a pen­sa­re che non ci si pos­sa esi­me­re dal tor­na­re a ridi­scu­te­re anche degli stes­si temi e degli stes­si anni rie­vo­ca­ti da Mim­mo, Pie­ro, Gia­co­mo e gli altri auto­ri. Le epo­che che ne sono segui­te, quel­la neo­li­be­ra­le e quel­la in cor­so (sem­pre più domi­na­ta com’è da quel­lo che cre­do meri­ti di esse­re chia­ma­to “sovra­ni­smo immu­ni­ta­rio” se non bio-fasci­smo) non han­no infat­ti rap­pre­sen­ta­to che una disce­sa agli infe­ri, dal male al peg­gio, per la cau­sa del­la giu­sti­zia socia­le uni­ver­sa­le.
Per esse­re sin­te­ti­co ecco allo­ra espres­si in for­mu­le tele­gra­fi­che due dilem­mi per così dire di meto­do poli­ti­co, che cre­do in fon­do even green.
1) “Dall’esterno” o “den­tro e con­tro”?
2) “Con­ri­cer­ca sull’antagonismo” o “inchie­sta sul pen­sie­ro dei non esper­ti”?
1) Con la for­mu­la “dall’esterno” allu­do all’arcinoto tema leni­ni­sta del Che fare? “La coscien­za poli­ti­ca di clas­se può esse­re por­ta­ta solo dal di fuo­ri, vale a dire dall’esterno
del­la lot­ta eco­no­mi­ca, al di fuo­ri dei rap­por­ti tra lavo­ra­to­ri e dato­ri di lavo­ro…”. Ora, cer­to non pos­so bia­si­ma­re il let­to­re che a que­sto pun­to, spe­cie se del­la mia età, ces­si la let­tu­ra, per noia, nau­sea, aller­gia o altre rea­zio­ni più com­pli­ca­te, ma se non lo fa, potrà facil­men­te rico­no­sce­re in que­sto enun­cia­to la fra­se sim­bo­lo di qual­co­sa che comun­que sareb­be sem­pre da medi­ta­re: la sup­po­si­zio­ne da par­te dei mar­xi­sti di esse­re gli esper­ti deten­to­ri e dun­que anche edu­ca­to­ri di un sape­re scien­ti­fi­co garan­te del­la buo­na riu­sci­ta del­la rivo­lu­zio­ne pro­le­ta­ria non­ché del­la defi­ni­ti­va eman­ci­pa­zio­ne uma­na.
Una sup­po­si­zio­ne che in ori­gi­ne ave­va i suoi per­ché, ma che nel cor­so del­la sto­ria è sem­pre più dive­nu­ta una sup­po­nen­za vel­lei­ta­ria. Ed è que­sta che in fon­do ha fat­to la sostan­za di tut­te quel­le espe­rien­ze che dagli anni ’60 si sono det­te mar­xi­ste-leni­ni­ste nel ten­ta­ti­vo di schie­rar­si col Pcc di allo­ra e riget­ta­re il “revi­sio­ni­smo” dei sovie­ti­ci e dei comu­ni­sti dal­la loro par­te.
Evo­can­do la for­mu­la “den­tro e con­tro” allu­do inve­ce all’approccio col qua­le la tra­di­zio­ne dell’operaismo e degli auto­no­mi ha con­tra­sta­to la sum­men­zio­na­ta este­rio­ri­tà leni­ni­sta, ossia quel­la pre­sun­zio­ne del mili­tan­te di arri­va­re in ogni situa­zio­ne per far cala­re la linea poli­ti­ca ela­bo­ra­ta in chis­sà qua­le sede sepa­ra­ta. Per il mili­tan­te ope­rai­sta o auto­no­mo esse­re “den­tro” signi­fi­ca infat­ti, tut­to al con­tra­rio, – come bene si rac­con­ta in Gli Auto­no­mi… – por­si alla pari, all’interno del­la stes­sa situa­zio­ne dei lavo­ra­to­ri, degli sfrut­ta­ti o del­la mol­ti­tu­di­ne – che voler si dica. Dun­que nell’essere pie­na­men­te par­te­ci­pe del­la stes­sa con­di­zio­ne e del­la stes­sa lot­ta.
Un desi­de­rio, que­sto, più che mai gene­ro­so e com­pren­si­bi­le, ma che mi ha sem­pre susci­ta­to per­ples­si­tà, dun­que distan­za. Il pro­ble­ma è che per dimo­stra­re que­sta pari con­di­zio­ne con gli ulti­mi, cogli sfrut­ta­ti, con la mol­ti­tu­di­ne, il mili­tan­te non può non esser­si costrui­to pri­ma e per con­to suo un’idea di siste­ma abba­stan­za nega­ti­va da impli­ca­re la con­se­guen­za di dove­re esser­gli con­tro. Una con­se­quen­zia­li­tà tut­ta logi­ca que­sta, dero­gan­te ogni dub­bio che da un pun­to di vista sem­pli­ce­men­te lai­co dovreb­be insor­ge­re ogni qual­vol­ta una cer­ta rap­pre­sen­ta­zio­ne siste­ma­ti­ca del rea­le pre­ten­de di esse­re il rea­le stes­so. È pro­prio per spie­gar­mi meglio su que­sto pun­to che pren­do ad esem­pio il meto­do del­la “con­ri­cer­ca” che è il meto­do di inchie­sta pre­di­let­to dal­la tra­di­zio­ne ope­rai­sta.
2) Con que­sto ter­mi­ne si inten­de infat­ti l’idea che tra il ricer­ca­to­re o il mili­tan­te e le mas­se (se usia­mo un ter­mi­ne alla Mao) o la mol­ti­tu­di­ne (se usia­mo un ter­mi­ne alla Negri) su cui si fa inchie­sta ci sia una pari­tà di con­di­zio­ne, quel­la appun­to di una con­di­vi­sa oppo­si­zio­ne al siste­ma, al capi­ta­li­smo. Ciò com­por­ta però un incon­ve­nien­te non da poco: che il ricer­ca­to­re pre­ten­de di sape­re in par­ten­za cosa deve tro­va­re e di cui deve quin­di solo rico­no­sce­re com­po­si­zio­ne e misu­ra di espres­sio­ne: ossia come si com­po­ne e in che misu­ra si espri­me il sup­po­sto sog­get­to (mas­se o mol­ti­tu­di­ne) coscien­te dell’antagonismo di clas­se.
Con “inchie­sta sul pen­sie­ro dei non esper­ti” allu­do inve­ce a un meto­do di ricer­ca (di cui tra l’altro discus­si già tem­po fa, nel 2003 a Mon­te­rea­le 1 ) in cui, rifa­cen­do­si, ma solo in par­te, alla vec­chia lezio­ne leni­ni­sta, si postu­la una net­ta dif­fe­ren­za tra i mili­tan­ti (o i ricer­ca­to­ri) e le mas­se (o la mol­ti­tu­di­ne) su cui si fa ricer­ca: dif­fe­ren­za che con­si­ste nel fat­to che i pri­mi sono degli esper­ti, che voglio­no sape­re, sup­po­nen­do di sape­re come, ciò che le mas­se pen­sa­no, anche se sono del tut­to pri­ve di qual­sia­si par­ti­co­la­re com­pe­ten­za da esper­ti.
In altre paro­le qui i pre­sup­po­sti gene­ra­li non sono: né un siste­ma a prio­ri nega­ti­vo, di sfrut­ta­men­to, né una mol­ti­tu­di­ne più o meno coscien­te di esse­re sfrut­ta­ta. L’unico pre­sup­po­sto gene­ra­le qui è che esi­sta­no del­le mas­se sfrut­ta­te per­ché pri­ve del sape­re e quin­di del pote­re di gesti­re la loro stes­sa vita, ma non per que­sto pri­ve del­la capa­ci­tà di pen­sa­re. Qui è cru­cia­le la distin­zio­ne tra sape­re e pen­sie­ro – gran­de ere­di­tà del maoi­smo: le mas­se pen­sa­no, anche quan­do non sono esper­te in nul­la! Ecco allo­ra che le inco­gni­te al cen­tro del­la ricer­ca diven­ta­no mol­to più ampie e ric­che del­le sem­pli­ci moda­li­tà e misu­re del­la sup­po­sta coscien­za anta­go­ni­sta. Da cono­sce­re qui è tut­to quel­lo che pos­so­no pen­sa­re le mas­se del­la pro­pria con­di­zio­ne: non solo, né prin­ci­pal­men­te l’odio clas­se, ma even­tual­men­te, anche, spe­cie di que­sti tem­pi, la dispe­ra­zio­ne, il ran­co­re ed even­tual­men­te i modi di far­vi fron­te. Diver­sa­men­te dal leni­ni­smo, qui il mili­tan­te o il ricer­ca­to­re, lun­gi dal dove­re edu­ca­re le mas­se o la mol­ti­tu­di­ne, dovrà sape­re far­si edu­ca­re dal loro pen­sie­ro per ela­bo­ra­re pro­po­ste poli­ti­che ade­gua­te.
Altri­men­ti non saprei dav­ve­ro come anche solo spe­ra­re di pote­re ripro­por­re ipo­te­si poli­ti­che d’emancipazione in que­sta nostra epo­ca che pare pro­prio diven­ta­re sem­pre più oscu­ra. La con­clu­sio­ne sareb­be dun­que che tra quest’ultimo tipo di ricer­ca e quel­la in sti­le con­ri­cer­ca ci sareb­be un’incompatibilità irri­me­dia­bi­le? Nel­la mia espe­rien­za, a pen­sar­ci bene, non è sem­pre sta­to così. Con tan­ti stu­den­ti che mi è capi­ta­to di segui­re e che, ispi­ra­ti dal­la tra­di­zio­ne ope­rai­sta, han­no volu­to segui­re l’approccio del­la con-ricer­ca, qual­che apprez­za­bi­le risul­ta­to non è man­ca­to.
Tra la lon­ta­nan­za e la vici­nan­za, alle qua­li qui ho fat­to cen­no, per me l’ultima paro­la resta sem­pre da dire.

1. Grup­po d’inchiesta poli­ti­ca, Atti del semi­na­rio: fare inchie­sta, Mon­te­rea­le, 19 gen­na­io, 203, Coo­pe­ra­ti­va socia­le gra­fi­co, Pado­va, 2004.

Il Veneto e la “rivoluzione mondiale”

di Mau­ri­zio Lazzarato

Par­ti­re da quest’altro «luo­go» del­la poli­ti­ca per­met­te di inter­ro­gar­si sull’eclisse dei sog­get­ti, teo­rie, orga­niz­za­zio­ni che abbia­no come pro­get­to poli­ti­co la rivo­lu­zio­ne.
Le ragio­ni van­no sicu­ra­men­te cer­ca­te negli anni di cui trat­ta il libro di Gia­co­mo e Pie­ro. Nel­la tra­di­zio­ne dei movi­men­ti rivo­lu­zio­na­ri, la scon­fit­ta è sem­pre sta­ta un mez­zo uti­le per ride­fi­ni­re la tat­ti­ca e la stra­te­gia. La Comu­ne di Pari­gi è sta­ta anche una rispo­sta ai limi­ti del­la rivo­lu­zio­ne fran­ce­se e la for­ma del par­ti­to bol­sce­vi­co nasce da una rifles­sio­ne sul per­ché del mas­sa­cro dei “com­mu­nards”. La guer­ra e il pote­re era­no gli sco­gli sui qua­li si infran­ge­va il sogno rivo­lu­zio­na­rio, Lenin pro­po­ne di tra­sfor­ma­re la guer­ra in guer­ra civi­le rivo­lu­zio­na­ria per la pre­sa del pote­re.
Nes­sun vero bilan­cio è sta­to fat­to del­la nostra scon­fit­ta che la dice già lun­ga sul­la sua pro­fon­di­tà.
A metà degli anni Ses­san­ta, Han­nah Arendt con­si­de­ra­va anco­ra che le guer­re e le rivo­lu­zio­ni, dopo aver deter­mi­na­to la fisio­no­mia del XX seco­lo, costi­tui­va­no i “due pro­ble­mi poli­ti­ci cen­tra­li”. La guer­ra è l’altra real­tà che non sem­bra più far par­te del­le prio­ri­tà teo­ri­che e poli­ti­che, men­tre tut­ti i rivo­lu­zio­na­ri sono sta­ti degli otti­mi stra­te­ghi mili­ta­ri (gli asia­ti­ci su tut­ti!).
La filo­so­fa tede­sca si lan­cia anche in una pre­vi­sio­ne che si veri­fi­che­rà fal­la­ce: “sem­bra più pro­ba­bi­le che la rivo­lu­zio­ne sepa­ra­ta dal­la guer­ra, sus­si­sta in un avve­ni­re pre­ve­di­bi­le”. La sto­ria degli ulti­mi cinquant’anni ha decre­ta­to che se le guer­re con­ti­nua­no alle­gra­men­te, la rivo­lu­zio­ne sem­bra scom­par­sa.
Anche per una “libe­ra­le” come la Arendt la rivo­lu­zio­ne ave­va costi­tui­to, per due seco­li, la for­ma stes­sa del­la poli­ti­ca. L’iniziativa poli­ti­ca era tra le mani di quel­li che orga­niz­za­va­no la rot­tu­ra. Il seco­lo Ven­te­si­mo ci sug­ge­ri­reb­be di modi­fi­ca­re lo slo­gan dell’operaismo “pri­ma la clas­se e poi il capi­ta­le” con uno più ade­gua­to “pri­ma la rivo­lu­zio­ne e poi il capi­ta­le”, per­ché gli ope­rai non sono sta­ti il cuo­re del­le rivo­lu­zio­ni vit­to­rio­se del XX seco­lo.
Cosa è suc­ces­so negli anni Ses­san­ta e Set­tan­ta che ci ha por­ta­to a que­sta situa­zio­ne ?
Nel mar­xi­smo euro­peo, che è sem­pre sta­to mol­to cen­tra­to sul Nord del mon­do, come se il capi­ta­li­smo vi fos­se rin­chiu­so, Hans Jun­ger Kra­hl costi­tui­sce un’eccezione. Il gio­va­ne e talen­tuo­so filo­so­fo tede­sco cono­sciu­to in Ita­lia come un anti­ci­pa­to­re del­le teo­rie del lavo­ro cogni­ti­vo, ha in real­tà ela­bo­ra­to una teo­ria del­la rivo­lu­zio­ne che mi sem­bra un buon pun­to di par­ten­za.
Alla fine degli anni Ses­san­ta, Kra­hl dice che non esi­ste nes­sun esem­pio di rivo­lu­zio­ne vit­to­rio­sa nei pae­si svi­lup­pa­ti, ma che inve­ce le rivo­lu­zio­ni con­ti­nua­no a scop­pia­re nei pae­si del Ter­zo mon­do. Ma ciò che svi­lup­pa non è una teo­ria ter­zo­mon­di­sta. Cer­ca di capi­re cosa pos­sa signi­fi­ca­re que­sto sem­pli­ce dato di fat­to che ha comun­que  deter­mi­na­to il cor­so del Ven­te­si­mo seco­lo (con l’Unione sovie­ti­ca) e deter­mi­ne­rà quel­lo del Ven­tu­ne­si­mo (con la Cina).
Le rivo­lu­zio­ni nel­le colo­nie e semi­co­lo­nie (come la Cina) han­no crea­to un fat­to nuo­vo. Per la pri­ma vol­ta nel­la sto­ria del capi­ta­li­smo, la rivo­lu­zio­ne mon­dia­le è una pos­si­bi­li­tà glo­bal­men­te pre­sen­te e visi­bi­le. Essa indi­ca con­tem­po­ra­nea­men­te «l’unità inter­na­zio­na­le del­la pro­te­sta anti­ca­pi­ta­li­sta” e una nuo­va costel­la­zio­ne del­la sto­ria mon­dia­le che pone dei pro­ble­mi ine­di­ti alla rivo­lu­zio­ne.
Lo slo­gan del Mani­fe­sto, “pro­le­ta­ri di tut­ti i pae­si uni­te­vi”, in real­tà non impli­ca­va che qual­che pae­se euro­peo. È la rivo­lu­zio­ne bol­sce­vi­ca che, veri­fi­ca­ta la scon­fit­ta in Euro­pa, apre, dal 1920, alla lot­ta dei “popo­li oppres­si” dal colo­nia­li­smo e dall’imperialismo . La rivo­lu­zio­ne che sem­bra­va segna­re il pas­so, si espan­de e cono­sce una secon­da gio­vi­nez­za in Orien­te pro­du­cen­do il feno­me­no poli­ti­co for­se più impor­tan­te del Ven­te­si­mo seco­lo, l’attacco, orga­niz­za­to, teo­riz­za­to, coscien­te, dopo quat­tro seco­li di sfrut­ta­men­to e oppres­sio­ne, alla divi­sio­ne centro/​colonie che costi­tui­sce il segre­to dell’accumulazione capi­ta­li­sta.
Se Kra­hl regi­stra l’attualità del­la rivo­lu­zio­ne mon­dia­le, è suf­fi­cien­te­men­te luci­do per affer­ma­re che la dop­pia ter­ri­to­ria­li­tà eco­no­mi­ca e poli­ti­ca (centro/​colonie) costi­tui­sce une dif­fi­col­tà mag­gio­re per l’imporsi del­la rivo­lu­zio­ne. La pras­si rivo­lu­zio­na­ria in atto nel Sud del mon­do non può costi­tui­re un para­dig­ma per le lot­te nel Nord e il Sud non potrà mai supe­ra­re il capi­ta­li­smo da solo.
Il pun­to di for­za del capi­ta­li­smo è sem­pre sta­ta la mon­dia­liz­za­zio­ne, ma attra­ver­sa­ta da que­sta divi­sio­ne che non ha solo moti­va­zio­ni eco­no­mi­che, ma anche poli­ti­che.
L’organizzazione degli Sta­ti euro­pei (lo jus publi­cum euro­paeum), la limi­ta­zio­ne del­le loro sete di con­qui­sta, del­la loro riva­li­tà sul suo­lo euro­peo è resa pos­si­bi­le sol­tan­to dal fat­to che l’appropriazione sen­za limi­ti è auto­riz­za­ta e inci­ta­ta nel­le colo­nie.
Guer­re rego­la­te in Euro­pa e guer­re sel­vag­ge nel resto del mon­do. Il colo­nia­li­smo fa par­te del­la costi­tu­zio­ne mate­ria­le degli Sta­ti euro­pei, anche se que­sta veri­tà è nega­ta da tut­ta la filo­so­fia e la filo­so­fia poli­ti­ca.
Men­tre la pos­si­bi­li­tà di rivo­lu­zio­ni socia­li ter­ri­to­rial­men­te limi­ta­te è cre­sciu­ta nei pae­si colo­nia­li, la pos­si­bi­li­tà di una pras­si che sop­pri­ma il capi­ta­li­smo in Occi­den­te s’è ridot­ta. Se la rivo­lu­zio­ne ha del­le chan­ces dif­fe­ren­ti al di là e al di qua del­la linea di colo­re colo­nia­le, si pone allo­ra il pro­ble­ma del rap­por­to tra lot­te che si svi­lup­pa­no tra ter­ri­to­ri ete­ro­ge­nei.
“Qua­le può esse­re la media­zio­ne tra l’attualità del­la rivo­lu­zio­ne nel­la sto­ria mon­dia­le e le azio­ni quo­ti­dia­ne dei movi­men­ti di pro­te­sta nel­le metro­po­li del nord?”.
Sono sta­to sor­pre­so dal­la quan­ti­tà di rife­ri­men­ti alle rivo­lu­zio­ni asia­ti­che che ci sono nel libro. Anche se, come dice­va Kra­hl, quel­le pras­si con­te­ne­va­no para­dig­mi dif­fi­cil­men­te appli­ca­bi­li in Occi­den­te, por­ta­va­no inve­ce con sé mol­te veri­tà vali­de anche per noi.
Que­sta affer­ma­zio­ne di Ho Chi Minh è anco­ra pro­gram­ma­ti­ca­men­te attua­le: “Il capi­ta­li­smo è una san­gui­su­ga che ha una ven­to­sa appli­ca­ta sul pro­le­ta­ria­to del­la metro­po­li e un’altra sul pro­le­ta­ria­to del­le colo­nie. Se si vuo­le ucci­de­re la bestia biso­gna taglia­re le due ven­to­se con­tem­po­ra­nea­men­te. Altri­men­ti, taglian­do­ne una sol­tan­to, l’altra con­ti­nue­rà a suc­chia­re il san­gue del pro­le­ta­ria­to: la bestia con­ti­nue­rà a vive­re e la ven­to­sa taglia­ta rina­sce­rà”.
La capa­ci­tà del capi­ta­li­smo di supe­ra­re la rot­tu­ra rap­pre­sen­ta­ta dal­le rivo­lu­zio­ni anti-impe­ria­li­ste costruen­do un model­lo di sfrut­ta­men­to neo­co­lo­nia­le ren­de il pun­to di vista del com­pa­gno viet­na­mi­ta anco­ra par­ti­co­lar­men­te luci­do.
Di que­sta sto­ria del capi­ta­li­smo come mer­ca­to (o meglio accu­mu­la­zio­ne) mon­dia­le non c’è nes­su­na trac­cia nel­le Bib­bia dell’operaismo, Ope­rai e capi­ta­le. Tron­ti rac­con­ta di un capi­ta­li­smo che in real­tà non è mai esi­sti­to, per­ché dal­la sua nasci­ta fun­zio­na arti­co­lan­do “iso­le di lavo­ro astrat­to”, ana­liz­za­te per­spi­ca­ce­men­te, cir­con­da­te da “ocea­ni di lavo­ro gra­tui­to o a buon mer­ca­to” ero­ga­to da schia­vi, don­ne, ser­vi, colo­niz­za­ti indi­ge­ni e dal­la Natu­ra, la cui assen­za testi­mo­nia di una visio­ne muti­la­ta del Capi­ta­le. L’accumulazione ope­ra sepa­ran­do e facen­do fun­zio­na­re insie­me un lavo­ro valo­riz­za­to (il lavo­ro “pro­dut­ti­vo” del lavo­ra­to­re “libe­ro”) e un lavo­ro sva­lo­riz­za­to (il lavo­ro “impro­dut­ti­vo” del lavoratore/​lavoratrice “non libe­ri” e la dispo­ni­bi­li­tà gra­tui­ta del­le risor­se natu­ra­li). Valo­riz­za­te e sva­lo­riz­za­te sono anche le sog­get­ti­vi­tà per­ché gli schia­vi, le don­ne, i colo­niz­za­ti sono infe­rio­ri all’uomo bian­co e più pros­si­mi alla natu­ra . Il colo­re del­la pel­le e il ses­so sono i segni bio­lo­gi­ci del­la “dif­fe­ren­za”.
Valo­riz­za­zio­ne e sva­lo­riz­za­zio­ne sono solo del­le armi poli­ti­che che non han­no nes­sun fon­da­men­to eco­no­mi­co (pro­dut­ti­vo e impro­dut­ti­vo sono un’ideologia che il mar­xi­smo ha pur­trop­po con­di­vi­so con l’economia poli­ti­ca !)
Quel­lo che Tron­ti non vede­va e non vede tut­to­ra era chia­ra­men­te nel­la testa dei rivo­lu­zio­na­ri del Ter­zo mon­do . Duran­te il con­gres­so costi­tu­ti­vo del Par­ti­to comu­ni­sta fran­ce­se Ho Chi Minh si dispe­ra­va di come i comu­ni­sti euro­pei non capis­se­ro la for­ma mon­dia­le del­la pro­du­zio­ne e l’esistenza dei due pro­le­ta­ria­ti e di come veni­va­no usa­ti l’uno con­tro l’altro.
Non ci si oppo­ne alla cadu­ta ten­den­zia­le del sag­gio del pro­fit­to sol­tan­to con la mobi­liz­za­zio­ne del­la scien­za, del­la tec­ni­ca, del­la coo­pe­ra­zio­ne del lavo­ro astrat­to.
Più l’investimento in Gene­ral Intel­lect è impor­tan­te, più ampio e appro­fon­di­to deve esse­re l’impiego del lavo­ro gra­tui­to, di lavo­ro sot­to­pa­ga­to, del lavo­ro, anco­ra oggi, ser­vi­le, schia­vi­sti­co.
È sta­to dimo­stra­to che anche l’intelligenza arti­fi­cia­le con­tem­po­ra­nea si svi­lup­pa a par­ti­re da que­sto model­lo, esa­spe­ran­do­lo. Una pic­co­lis­si­ma “iso­la” di lavo­ra­to­ri intel­let­tua­li (cogni­ti­vi?) e un ocea­no di milio­ni di lavo­ra­to­ri paga­ti qual­che cen­te­si­mo di dol­la­ro per ogni clic pro­dot­to dai loro com­pu­ter, pre­ca­ri che vivo­no pro­prio nel­le ex colo­nie.
Mi sem­bra che que­sto model­lo colo­nia­le, o meglio neo­co­lo­nia­le, inve­ce di scom­pa­ri­re sot­to l’avanzare del­la moder­niz­za­zio­ne capi­ta­li­sta, si sia affer­ma­to anche nei pae­si del cen­tro: nume­ro pro­gres­si­va­men­te ridot­to di lavo­ra­to­ri “libe­ri”, assun­ti con con­trat­to, dife­si da dirit­ti e leg­gi e una mas­sa cre­scen­te di lavo­ro pre­ca­rio, al nero, non pro­tet­to da leg­gi e dirit­ti.
Le divi­sio­ni “colo­nia­li” attra­ver­sa­no oggi i pae­si del cen­tro ripro­du­cen­do una divi­sio­ne etni­ca tra bian­chi e non bian­chi, nazio­na­li e immi­gra­ti . Il raz­zi­smo ha una por­ta­ta poli­ti­ca stra­te­gi­ca nel­la gestio­ne del­la for­za lavo­ro e dell’ordine poli­ti­co non solo a livel­lo mon­dia­le, ma anche loca­le. Raz­zi­smo e ses­si­smo sono armi asso­lu­ta­men­te moder­ne e non del­le rela­zio­ni socia­li pre capi­ta­li­ste desti­na­te a scom­pa­ri­re con lo svi­lup­po del­le for­ze pro­dut­ti­ve (Engels pen­sa­va che il capi­ta­li­smo avreb­be deter­mi­na­to la scom­par­sa del patriar­ca­to e Lenin che il lavo­ro sala­ria­to sop­pres­so il lavo­ro dome­sti­co).
La socia­liz­za­zio­ne del capi­ta­le impli­ci­ta in Ope­rai e capi­ta­le è una socia­liz­za­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia e del­la rela­zio­ne sala­ria­le, men­tre inve­ce il capi­ta­le ha pre­fe­ri­to una socia­liz­za­zio­ne con­tem­po­ra­nea del lavo­ro astrat­to e del suo model­lo neo­co­lo­nia­le e del lavo­ro dome­sti­co .
L’irruzione del movi­men­to del­le don­ne nel­le lot­te mon­dia­li, dopo quel­lo dei colo­niz­za­ti, ha con­tri­bui­to ad aggra­va­re la cri­si del mar­xi­smo per­ché, come per gli schia­vi, ser­vi, colo­niz­za­ti, con­ta­di­ni ecc. si trat­ta di “lavo­ro impro­dut­ti­vo” che ha una gran­de capa­ci­tà di mobi­liz­za­zio­ne e orga­niz­za­zio­ne poli­ti­ca.
La par­te più inte­res­san­te (per me) del movi­men­to fem­mi­ni­sta, il fem­mi­ni­smo mate­ria­li­sta, cri­ti­ca con­tem­po­ra­nea­men­te il con­cet­to di lot­ta di clas­se e lo esten­de.
Una vol­ta dis­sol­ta l’esistenza poli­ti­ca del­la clas­se ope­ra­ia (non la sua esi­sten­za eco­no­mi­ca o socio­lo­gi­ca che è anzi aumen­ta­ta), il con­cet­to di lot­ta di clas­se sem­bra aver per­so ogni signi­fi­ca­to. La sola pos­si­bi­li­tà di far­lo fun­zio­na­re mi sem­bra con­te­nu­ta in que­sta teo­ria dell’inizio degli anni Set­tan­ta: la rela­zio­ne uomini/​donne è una rela­zio­ne di clas­se, per­ché uomi­ni e don­ne sono isti­tui­ti, nel­la loro dif­fe­ren­za gerar­chi­ca, dall’appropriazione vio­len­ta di una clas­se da par­te di un’altra.
Appro­pria­zio­ne che con­si­ste nel­la costri­zio­ne al lavo­ro o meglio ai lavo­ri (dal lavo­ro dome­sti­co al lavo­ro affet­ti­vo, ses­sua­le, di cura ecc.) e costi­tui­sce un “modo di pro­du­zio­ne” che non è ridu­ci­bi­le al modo di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta.
Uno slo­gan potreb­be rias­su­me­re que­sto fem­mi­ni­smo mate­ria­li­sta: né dif­fe­ren­za, né alte­ri­tà, ma lot­ta di clas­se, che è una cri­ti­ca sia alle filo­so­fie degli anni Set­tan­ta che a una par­te dei movi­men­ti fem­mi­ni­sti. Tra­sfor­ma­re le “dif­fe­ren­ze” in oppo­si­zio­ni di clas­se e lavo­ra­re non per affer­ma­re la dif­fe­ren­za del­le “don­ne”, ma abo­lir­le in quan­to clas­se, è il com­pi­to poli­ti­co e ambi­zio­so che si dan­no (più dif­fi­ci­le sarà tro­va­re una poli­ti­ca che cor­ri­spon­da a que­ste posi­zio­ni teo­ri­che). L’obbligo alla ete­ro­ses­sua­li­tà è “una” del­la oppres­sio­ni. La gerar­chia tra uomi­ni e don­ne deve ripro­dur­si in tut­ti gli ambi­ti del­la socie­tà e non solo nel­la sfe­ra ses­sua­le. L’invito impli­ci­to con­te­nu­to in que­sto fem­mi­ni­smo è di pas­sa­re dal­la lot­ta di clas­se alle lot­te di clas­se al plu­ra­le.
La for­za lavo­ro mon­dia­le è allo­ra costi­tui­ta non sol­tan­to da rela­zio­ni di clas­se nel sen­so mar­xia­no (o tron­tia­no), ma anche di rela­zio­ni di clas­se raz­zia­li e ses­sua­li.
Ora, se cinquant’anni fa era dif­fi­ci­le (impos­si­bi­le cre­do! L’“operaio socia­le” coglie­va solo alcu­ni aspet­ti di que­sta tra­sfor­ma­zio­ne, il fem­mi­ni­smo altri, le rivo­lu­zio­ni anti- impe­ria­li­ste altri anco­ra ecc.) anti­ci­pa­re que­sta com­po­si­zio­ne tec­ni­ca e poli­ti­ca di for­za lavo­ro mon­dia­le e le sue moda­li­tà di orga­niz­za­zio­ne e di rot­tu­ra rivo­lu­zio­na­ria, la cosa stu­pe­fa­cen­te è che cinquant’anni dopo si sia­no fat­ti pochis­si­mi pas­si in avan­ti in que­sto sen­so. E tut­ta­via i pro­ble­mi irri­sol­ti all’epoca anti­ci­pa­va­no mol­ti degli attua­li.
Nei due cicli di lot­te del 2011 e 2019, mal­gra­do e for­se anche a cau­sa di un ulte­rio­re svi­lup­po del­la mon­dia­liz­za­zio­ne impo­sta alle rivo­lu­zio­ni del Ven­te­si­mo seco­lo, il pro­ble­ma del­la “rivo­lu­zio­ne mon­dia­le” e le dif­fe­ren­ze tra lot­te nel Sud e nel Nord si ripro­pon­go­no. Nel­le insur­re­zio­ni del 2019 i movi­men­ti del­le don­ne gio­ca­no un ruo­lo cen­tra­le (soprat­tut­to in Ame­ri­ca Lati­na).
Se le indi­ca­zio­ni poli­ti­che più inno­va­tri­ci e radi­ca­li pro­ven­go­no dal Sud che rap­por­to esse pos­so­no ave­re con le lot­te pos­si­bi­li e even­tua­li del Nord? La dif­fi­col­tà, all’epoca, di costrui­re moda­li­tà di orga­niz­za­zio­ne gene­ra­liz­za­bi­li, dif­fi­col­tà che il libro di Gia­co­mo e Pie­ro espri­me con l’“agire da par­ti­to sen­za il sup­por­to del par­ti­to”, ci invi­te­reb­be a pen­sar­ne del­le nuo­ve, tra­sver­sa­li alle divi­sio­ni di clas­se con­tem­po­ra­nee. Qua­li? Non lo so, ma se non si avan­za su que­sto ter­re­no lo sce­na­rio più pro­ba­bi­le potreb­be esse­re trat­teg­gia­to dall’ultima cosa che vor­rei dire.
La nostra tra­di­zio­ne teo­ri­ca ha tra­scu­ra­to il ruo­lo del­le guer­re nel Ven­te­si­mo seco­lo.
Noi datia­mo la nasci­ta del­la “socié­tà fab­bri­ca” nel dopo­guer­ra. In real­tà la pri­ma gran­de socia­liz­za­zio­ne del lavo­ro è sta­ta orga­niz­za­ta dal­la Pri­ma guer­ra mon­dia­le e dal­la sua “eco­no­mia di guer­ra”. Tut­ta la socie­tà, tut­te le atti­vi­tà, sen­za distin­zio­ne tra pro­dut­ti­vo e impro­dut­ti­vo, sono sta­te fina­liz­za­te alla pro­du­zio­ne di distru­zio­ne. La Secon­da guer­ra mon­dia­le ha anco­ra accen­tua­to la fun­zio­ne distrut­ti­va del lavo­ro, del­la tec­ni­ca e del­la scien­za. Le for­ze pro­dut­ti­ve che dove­va­no rea­liz­za­re il socia­li­smo o il pro­gres­so, han­no inve­ce pro­dot­to la più gran­de distru­zio­ne, di uomi­ni, di beni e di natu­ra che l’umanità abbia mai cono­sciu­to. Non sono sicu­ro che i con­cet­ti di “lavo­ro” e di “for­ze pro­dut­ti­ve” ne sia­no usci­ti inden­ni, che sia­no anco­ra gli stes­si di cui par­la­va Marx. Visto lo sta­to del pia­ne­ta e del­le spe­cie che lo abi­ta­no, sem­bre­reb­be che, da allo­ra, ogni atto di pro­du­zio­ne sia con­tem­po­ra­nea­men­te un atto di distru­zio­ne. La cosid­det­ta “cri­si eco­lo­gi­ca” è il frut­to di que­sto nuo­va carat­te­ri­sti­ca del­la pro­du­zio­ne. Il capi­ta­li­smo non è più solo un sus­se­guir­si di “cri­si” eco­no­mi­co-poli­ti­che le cui carat­te­ri­sti­che cono­scia­mo da seco­li, ma anche “cata­stro­fi” come quel­la “sani­ta­ria” che stia­mo viven­do e quel­la eco­lo­gi­ca che è già in cor­so, che non cono­scia­mo affat­to.
Se mai il capi­ta­li­smo è sta­to pro­gres­si­vo (nel­le colo­nie que­sta sto­ria non è mai pas­sa­ta!) oggi è la sua fun­zio­ne distrut­ti­va che sale alla ribal­ta. Quel­lo che si è capi­to dopo le guer­re tota­li è che il capi­ta­li­smo ha una ten­den­za gene­ra­le non al pro­gres­so, ma all’autodistruzione, al sui­ci­dio. Se nel­le cri­si ha for­se potu­to fun­zio­na­re la “distru­zio­ne crea­ti­va” di Schum­pe­ter (dico for­se per­ché sen­za guer­re, guer­re di con­qui­sta, fasci­smi, repres­sio­ne non sareb­be usci­to da nes­su­na cri­si), nel­le cata­stro­fi si trat­ta solo di distru­zio­ne distrut­ti­va.
Se non si svi­lup­pa­no del­le for­ze rivo­lu­zio­na­rie, la pre­vi­sio­ne del Mani­fe­sto potreb­be avve­rar­si: la guer­ra di clas­se si con­clu­de o con la tra­sfor­ma­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria del­la socie­tà o con il tra­mon­to del­le clas­si (al plu­ra­le) in con­flit­to. Maga­ri è que­sta la natu­ra del­le cata­stro­fi in cor­so !
La rivo­lu­zio­ne è più neces­sa­ria che cinquant’anni fa, l’uscita da que­sta mac­chi­na mor­ti­fe­ra anco­ra più urgente!

Vite parallele

di Rache­le Colella

Acco­stan­do­mi alla let­tu­ra del VI volu­me sull’Autonomia dei fra­tel­li Despa­li cre­de­vo di tro­va­re un ampliamento/​arricchimento del­la sto­ria dei ‘miti­ci’ col­let­ti­vi vene­ti ini­zia­ta con il bel libro di Dona­to Taglia­pie­tra sui col­let­ti­vi vicentini.

Con­fes­so inol­tre che tro­va­vo con­trad­dit­to­rio che la sto­ria di un col­let­ti­vo che non rico­no­sce­va ‘capi’ al suo inter­no venis­se rac­con­ta­ta in pri­ma per­so­na da due ‘lea­der’! Non mi con­vin­ce­va! Mi sono ricre­du­ta, ovvia­men­te. La for­ma bio­gra­fi­ca è memoria/​storia plau­si­bi­le. Il più bel libro sull’anarchia, la bre­ve esta­te dell’anarchia di Enze­sber­ger, non è for­se una biografia?

La let­tu­ra di que­sto testo, inve­ce, mi ha dato la sen­sa­zio­ne di tro­var­mi di fron­te a un’epica, a un roman­zo la cui let­tu­ra ha comin­cia­to ad emo­zio­nar­mi da subi­to per­ché, come quan­do ci si immer­ge nel­la buo­na let­te­ra­tu­ra, per­ce­pi­sci di tro­var­ti insie­me ad ami­ci dal­la cui com­pa­gnia non vor­re­sti mai staccarti.

Ho rivis­su­to emo­zio­ni, rab­bia, gio­ia, fru­stra­zio­ni e poi… le let­tu­re con­di­vi­se, testi che han­no for­ma­to una gene­ra­zio­ne acco­mu­nan­do­la nel mede­si­mo “sen­ti­re”. Gli scaf­fa­li del­le nostre libre­rie potreb­be­ro ave­re un uni­co catalogo!

Sì, un bil­dung­sro­man, un roman­zo di for­ma­zio­ne, ma anche un esem­pio moder­no di vite paral­le­le (fine pri­mo seco­lo quel­le di Plu­tar­co, fine pri­mo mil­len­nio que­ste) ma al rove­scio: quel­le non vole­va­no esse­re sto­ria ma per noi poste­ri lo sono; que­ste vole­va­no esse­re, imma­gi­no, una “rico­stru­zio­ne sto­ri­ca dal di den­tro” ma sono anche altro.

Vite paral­le­le quel­la dei due fra­tel­li, vite paral­le­le le altre voci/​interviste, vite paral­le­le anche le nostre in Abruz­zo che, pur sen­za il radi­ca­men­to e la radi­ca­li­tà regi­stra­te altro­ve, sicu­ra­men­te furo­no riso­spin­te dal­lo stes­so “ven­to di pas­sio­ni” che ha sof­fia­to in tut­ta la penisola.

Da subi­to mi sono sen­ti­ta “lec­tor in fabu­la”, imme­dia­ta­men­te coin­vol­ta nel far­si del testo, “cat­tu­ra­ta” dal­la nar­ra­zio­ne che riem­pi­va i buchi del­la mia memo­ria e con­tem­po­ra­nea­men­te ne chia­ri­va alcu­ni pas­sag­gi e, sull’onda del rac­con­to, ho ripre­so in mano alcu­ni dei testi cita­ti per capi­re il diver­so modo in cui li ave­va­mo rece­pi­ti e di con­se­guen­za come essi ave­va­no dif­fe­ren­te­men­te “agi­to” nel­la nostra formazione.

Nel libro di Snow, per esem­pio, io cer­cai allo­ra, all’inseguimento del “mito”, il per­so­nag­gio Mao, gli aned­do­ti bio­gra­fi­ci; loro inve­ce ne ave­va­no col­to la cosa uti­le: il model­lo orga­niz­za­ti­vo, le basi rosse!

Una mia debo­lez­za? For­se, ma non mi sen­to di scon­fes­sar­la. Con­si­de­ran­do che gli auto­ri con­clu­do­no con un invito/​appello al let­to­re, è da let­tri­ce curio­sa che vor­rei inter­ve­ni­re nel dibat­ti­to di Prag­ma. Diver­sa­men­te dal recen­so­re di pro­fes­sio­ne, atten­to ai pas­sag­gi sto­ri­ci, alla cor­ret­ta rico­stru­zio­ne degli even­ti, inte­res­sa­to a discu­te­re su ope­ra­io mas­sa vs ope­ra­io socia­le o a discet­ta­re sul­la vali­di­tà del­le scel­te ope­ra­te o sui moti­vi del­la scon­fit­ta, il lettore/​trice nel­la let­tu­ra è alla ricer­ca del pia­ce­re che può tro­va­re solo nel­le paro­le che leg­ge, nel­le meta­fo­re e nel­le mito­ni­mie esco­gi­ta­te da chi scri­ve, nell’abbandono alla flui­di­tà e alla leg­ge­rez­za del­la con­ver­sa­zio­ne e del con­fron­to. Per me que­sta sto­ria è una sto­ria d’amore e una sto­ria di “phi­lia” che tut­ti strin­ge in un abbrac­cio cir­co­la­re: tra i due fra­tel­li che sco­pro esser­si ritro­va­ti dopo qual­che decen­nio, e col cura­to­re che non nascon­de la sua com­pli­ci­tà e la voglia di sta­re al gio­co. Ma il let­to­re, pro­prio per­ché desti­na­ta­rio natu­ra­le del rac­con­to, ha da avan­za­re una sua pre­te­sa che è anche un suo dirit­to: che sia non solo accet­ta­to ma rispet­ta­to il suo pun­to di vista, sia pure il più eccen­tri­co. Ecco­mi allo­ra al dunque.

Volen­do sin­te­tiz­za­re que­sta bio­gra­fia poli­ti­ca dei due fra­tel­li sce­glie­rei, ere­ti­ca­men­te, l’immagine dell’arcano XX, «Le Juge­ment» (il giu­di­zio) dei taroc­chi di Mar­si­glia. Capi­sco le per­ples­si­tà che un simi­le approc­cio può susci­ta­re. All’apparenza nien­te di più distan­te dall’impostazione ope­rai­sta dei ricer­ca­to­ri scal­zi ricor­da­ti nell’Introduzione. Car­to­man­zia? Stre­go­ne­ria? Già imma­gi­no il lun­go elen­co del­le paro­le sprez­zan­ti: biz­zar­rie e super­sti­zio­ni. E chi più ne ha più ne met­ta. Ma i taroc­chi non dico­no la ven­tu­ra, spin­go­no piut­to­sto all’avventura! Non sono pre­dit­ti­vi e non potreb­be­ro esser­lo per­ché, come inse­gna il pen­sie­ro “pri­mi­ti­vo”, noi cam­mi­nia­mo sul sen­tie­ro dei padri e il futu­ro rischia di esse­re ugua­le al pas­sa­to se non si diven­ta ciò che si è, padro­ni del­la pro­pria mate­ria per l’appunto. Ecco allo­ra la mia curio­si­tà gustan­do que­sta sto­ria dei Col­let­ti­vi vene­ti: sono riu­sci­ti i nostri eroi? Per la rispo­sta mi soc­cor­re la car­ta del Taroc­co. In essa sono con­cen­tra­te tut­te le ener­gie mate­ria­li, intel­let­tua­li e – per­ché no? – spi­ri­tua­li di noi mor­ta­li. Sogni e bisogni!

Guar­dia­mo la carta.

Di pri­mo acchi­to ci richia­ma la resur­re­zio­ne dei cor­pi, un’idea, que­sta, non solo cri­stia­na ma pre­sen­te anche nell’immaginario del movi­men­to ope­ra­io degli anni ’60. Ci ricor­dia­mo di quel mestis­si­mo can­to di lot­ta in cui i mor­ti di Reg­gio Emi­lia sono chia­ma­ti a usci­re dal­le fos­se pron­ti a can­ta­re Ban­die­ra ros­sa? Un can­to “cat­to­co­mu­ni­sta”, nell’accezione nobi­le del­la paro­la. La nostra car­ta mostra altro, esat­ta­men­te il “levan­ta­men­to”. Chi rispon­de alla chia­ma­ta irre­si­sti­bi­le, gio­io­sa e alle­gra, del­la trom­ba dell’angelo azzur­ro raf­fi­gu­ra­to nell’atto di fare uno sber­lef­fo, una per­nac­chia? For­se il nuo­vo stu­den­te pro­le­ta­rio di cui si par­la nel libro nel­le pagi­ne 74–75 e in cui soprat­tut­to Pie­ro si iden­ti­fi­ca? O, for­se, il sogna­to­re di una vita riu­sci­ta di cui par­la Pao­lo Vir­no nel nume­ro 1 di «Metro­po­li»? Que­sto per­so­nag­gio si leva dal sepol­cro con l’energia e la for­za del­la pro­pria natu­ra, del pro­prio voler diven­ta­re ciò che è. A dire di Gia­co­mo, che vuo­le esse­re “padro­ne del­la mate­ria”. Chi è sor­do allo squil­lo di trom­ba, per­de­rà l’occasione del­la sua vita, anche per­ché il con­te­sto gli è favo­re­vo­le. Non tac­cio­no for­se l’uomo e la don­na ai suoi lati nel men­tre sogna­no lo sta­tu quo ante? Rap­pre­sen­ta­no tut­te le decli­na­zio­ni pos­si­bi­li del­la pote­stas: socie­tà, isti­tu­zio­ni, par­ti­ti, padro­ni. Ecco, mi pia­ce imma­gi­na­re che la tuba del nostro ange­lo sia una trom­ba di guer­ra e che into­ni le note dell’inno di PotOp: Sta­to e padro­ni fate attenzione/​nasce il par­ti­to dell’insurrezione… Una musi­ca ben diver­sa dal­la mesti­zia fune­rea dell’altra. Insom­ma, se c’è un arca­no che descri­ve il pro­fi­lo del mili­tan­te poli­ti­co dei Col­let­ti­vi vene­ti nel suo assal­to al cie­lo è que­sto del­la car­ta XX. Alla fine, sono riu­sci­ti i nostri eroi? La rispo­sta è pre­sto data: loro sono anco­ra qui a ela­bo­ra­re pen­sie­ro, a scri­ve­re la loro sto­ria, a susci­ta­re discus­sio­ni. Scom­par­si dal tea­tro del mon­do gli altri per­so­nag­gi del­la sce­na di allo­ra: quei par­ti­ti, quel­la for­ma sta­to, quel­la socie­tà. Dissolti.

Tor­no, per con­clu­de­re, allo sguar­do dei poste­ri: que­sto libro tro­ve­rà il suo let­to­re? Inten­do un let­to­re che non sia un “redu­ce”, un let­to­re che rie­sca a imme­de­si­mar­si nel­le vicen­de dei pro­ta­go­ni­sti, come suc­ce­de quan­do, a vol­te, la let­te­ra­tu­ra è più vera del­la vita. Intan­to ha tro­va­to me!

Pragma. Storia o racconto?

di Wil­ler Montefusco

È il dua­li­smo che sem­bra ser­peg­gia­re più o meno impli­ci­ta­men­te in alcu­ni inter­ven­ti che si sono suc­ce­du­ti fino­ra. Cre­do sia peri­co­lo­so con­trap­por­re i due gene­ri. Sot­to­li­nea­re la sto­ria rispet­to al rac­con­to sem­bra tra­di­re il biso­gno di giu­sti­fi­ca­re l’affidabilità e la veri­di­ci­tà del libro (non si trat­ta sem­pli­ce­men­te di un rac­con­to, per di più auto­bio­gra­fi­co, di due atto­ri immer­si nel­le vicen­de; è sto­ria a tut­ti gli effet­ti …). Sot­to­li­nea­re il rac­con­to rispet­to alla sto­ria desta sospet­to (dopo­tut­to si trat­ta di un rac­con­to, per di più auto­bio­gra­fi­co, come tale non si può pre­ten­de­re che sia sul­lo stes­so pia­no del­la sto­ria “obiet­ti­va”…). In ambe­due i casi si rischia l’irrilevanza del rac­con­to come storia.

For­se è il caso di non con­trap­por­re le due dimen­sio­ni, ma piut­to­sto di met­ter­le in nes­so, sen­za fon­der­le: il rac­con­to come sto­ria e la sto­ria come rac­con­to. L’utilizzo del­la for­ma rac­con­to è legit­ti­ma “per­ché la fon­te ora­le è di per sé nar­ra­ti­va”, dice Mim­mo (p. 8). Cer­to, la paro­la “sto­ria” deri­va da “ἴστωρ colui cha ha visto (da una radi­ce indeur. che signi­fi­ca ‘vede­re’)” (M. Cor­te­laz­zo P. Zol­li, Dizio­na­rio eti­mo­lo­gi­co del­la lin­gua ita­lia­na). Ma è anche rac­con­ta­re, nar­ra­re, posto che il vede­re deve pur esse­re comu­ni­ca­to. Il sape­re del vede­re si rea­liz­za nel nar­ra­re. La dimen­sio­ne del rac­con­to non è elu­di­bi­le nel ripor­ta­re ciò che si è visto e pen­sa­to e fat­to. Come sono ine­lu­di­bi­li i rischi che que­sto com­por­ta, in quan­to il rac­con­to auto­bio­gra­fi­co è lega­to alla memo­ria, e la memo­ria, si sa, alte­ra, omet­te, appros­si­ma, a vol­te crea allu­ci­na­zio­ni. Sem­bra bana­le ma non lo è, per­ché allo­ra il nar­ra­re impli­ca sem­pre un pun­to di vista.

Solo la fon­te ora­le? Per­ché anche la sto­ria è rac­con­to. Vale la pena di nota­re che l’Ilia­de ci ricor­da che ἴστωρ impli­ca­va la nozio­ne di ‘giu­di­ce’; così la scrit­tu­ra del­la sto­ria avreb­be da sem­pre un carat­te­re ‘giu­di­zia­rio’, basa­to sul­la let­tu­ra soprat­tut­to del­le ‘car­te’, dei docu­men­ti, e poi, se ci sono, dei testi­mo­ni, come si fa in un pro­ces­so. D’altra par­te, non si dice di un fat­to o di una serie di fat­ti che la “sto­ria poi giu­di­che­rà”? E non può giu­di­ca­re se non secon­do una pro­spet­ti­va già data.

Con­tro que­sta sto­ria pro­ces­sua­le è pos­si­bi­le una for­ma di sto­ria che anche alcu­ni sto­ri­ci di pro­fes­sio­ne – quel­li ‘veri’ – chia­ma­no ‘indi­sci­pli­na­ta’, nel sen­so di non sot­to­po­sta alle rego­le che fino­ra l’hanno costi­tui­ta come disci­pli­na auto­no­ma, come un gene­re di scrit­tu­ra che avreb­be la pre­te­sa di esse­re non pro­spet­ti­ca e sen­za coin­vol­gi­men­ti emo­ti­vi, per­ché que­sti defor­ma­no, fal­si­fi­ca­no, spor­ca­no la purez­za del­la visio­ne. Un rac­con­to che ema­na da una sor­ta di occhio di Dio, l’unico al di sopra di tut­to e tut­ti, legit­ti­mo e capa­ce di coglie­re il sen­so del­le cose “così come sono state”.

A que­sta nozio­ne si oppo­ne la for­ma di dia­lo­go che Pie­ro, Gia­co­mo e Mim­mo rico­strui­sco­no, e che non è affat­to secon­da­ria. Si badi bene: dia­lo­go non nel sen­so comu­ne di ricer­ca dell’accordo o del com­pro­mes­so, di supe­ra­men­to e com­po­si­zio­ne del­le dif­fe­ren­ze. Qui il dia­lo­go ha l’impronta mate­ria­li­sta e per nien­te acco­mo­dan­te del­la mul­tiac­cen­tua­ti­vi­tà e del­la poli­fo­nia di Michail Bach­tin. Non si esclu­de il dia­lo­go dal­la pole­mi­ca né dal­le dispu­te inter­mi­na­bi­li, che ren­do­no pos­si­bi­le quel­lo che Marx chia­ma la ‘pra­ti­ca cri­ti­ca’ di sfi­da dell’inganno, poi­ché si par­te dal pre­sup­po­sto che il lin­guag­gio stes­so è fon­da­men­tal­men­te ete­ro­ge­neo, mez­zo divi­so e con­flit­tua­le. Non un siste­ma ma una pra­ti­ca col­let­ti­va immer­sa nel­la real­tà sto­ri­co-socia­le. La paro­la pro­pria allu­de sem­pre, suo mal­gra­do, lo sap­pia o no, alla paro­la altrui. Anche l’atto di paro­la più ano­di­no, imper­so­na­le e neu­tro è, nel­lo stes­so tem­po, la rispo­sta a doman­de pas­sa­te e una richie­sta rivol­ta a pos­si­bi­li inter­lo­cu­to­ri, pre­sen­ti o pre­sun­ti. La for­ma stes­sa di dia­lo­go a due del rac­con­to assu­me que­sta mul­tiac­cen­tua­ti­vi­tà costi­tu­ti­va, è par­te di un tes­su­to di atti di paro­la pas­sa­ti, di voci diver­se, di into­na­zio­ni varia­bi­li secon­do i luo­ghi e le posi­zio­ni nel­la cate­na. Gli altri inter­ven­ti nel libro e sul libro non fan­no altro che dare cor­po a que­sta plu­ra­li­tà di accen­ti in prin­ci­pio inesauribile.

Non solo. Dia­lo­go tra due, ma anche rife­ri­men­to diret­to a Mim­mo, un ter­zo pre­sen­te che sem­bra in una posi­zio­ne di puro ascol­to. Lo scar­to rispet­to alla nar­ra­zio­ne del pas­sa­to rin­via al momen­to pre­sen­te del rac­con­to, e la for­ma di doman­da del rife­ri­men­to (“Cosa ho pen­sa­to quel 16 mar­zo, Mim­mo?”, p. 97) mate­ria­liz­za, anche qui con un nome pro­prio, quel­lo che Bach­tin – anco­ra – chia­ma ‘respon­si­vi­tà’: un com­po­sto di ine­vi­ta­bi­li­tà del­la rispo­sta e di chia­ma­ta di respon­sa­bi­li­tà. Ogni atto di paro­la, ogni discor­so, oltre che rispon­de­re a doman­de pas­sa­te, inter­pel­la, con­vo­ca, richie­de e anti­ci­pa rispo­ste, si pro­iet­ta nel futu­ro. Pas­sa­to, pre­sen­te e futu­ro si impli­ca­no reci­pro­ca­men­te. E la valu­ta­zio­ne, che per­mea ogni discor­so pas­sa­to, pre­sen­te e futu­ro è inter­na alla cate­na di doman­de e rispo­ste, non al di fuo­ri o al di sopra.

Il rac­con­to non vuo­le per for­za inse­gna­re, per­ché “ai gio­va­ni non può impor­tar­glie­ne di meno di una lezion­ci­na sif­fat­ta” (p. 11), ma inter­pel­la­re sì, è ine­vi­ta­bi­le. Da chi ha visto secon­do un pun­to di vista. Non nel sen­so bana­le e defor­man­te ormai dif­fu­so nei media e nei dibat­ti­ti tele­vi­si­vi, secon­do cui ogni discor­so è ‘nar­ra­zio­ne’, nell’accezione libe­ral-indi­vi­dua­li­sti­ca: ognu­no rac­con­ta, ognu­no come la pen­sa, per cui la legit­ti­mi­tà e il dirit­to al nar­ra­re di chiun­que sci­vo­la nel­la neu­tra­liz­za­zio­ne ed equi­va­len­za di ogni discor­so, per­ché, appun­to, tut­to è nar­ra­re e la ‘veri­tà’ non esiste.

Nel sen­so inve­ce di fedel­tà e pra­ti­ca di un “sape­re situa­to e cor­po­reo, par­zia­le e par­ti­gia­no, che si disten­de a par­ti­re da un luo­go e un tem­po spe­ci­fi­co” (Tizia­na Ter­ra­no­va). E soprat­tut­to che si espli­ci­ta, dichia­ra i pre­sup­po­sti che moti­va­no il pun­to di vista, chia­ma all’assunzione di respon­sa­bi­li­tà per­so­na­le. Il bru­li­ca­re di nomi pro­pri di per­so­ne, di luo­ghi, di rife­ri­men­ti ideo­lo­gi­ci, di date, che Gia­co­mo e Pie­ro spar­go­no qua e là spe­ci­fi­ca­no i con­te­sti spa­zia­li e tem­po­ra­li, arti­co­la­no e spie­ga­no i pun­ti di vista del racconto.

Cor­po­reo signi­fi­ca che fan­no par­te di quel sape­re anche le emo­zio­ni, sia quel­le che ori­gi­na­no gli avve­ni­men­ti sia quel­le che spin­go­no alla pre­sa di paro­la, al rac­con­to. Non è un caso che il dia­lo­go ini­zia pro­prio con il ricor­do di una pas­sio­ne vis­su­ta al con­tat­to con un libro di Ador­no: “Era la vita offe­sa che si rivol­ta­va e pren­de­va la paro­la” (p. 17). E anche le emo­zio­ni che la let­tu­ra pro­vo­ca, per­ché il rac­con­to è anche un’esperienza este­ti­ca, di godi­men­to. Sot­to­li­nea­re trop­po que­sta dimen­sio­ne com­por­ta dei rischi, potreb­be spin­ge­re imper­cet­ti­bil­men­te ver­so un appa­ga­men­to pura­men­te edo­ni­sti­co, a sca­pi­to del­la pre­gnan­za sto­ri­ca e poli­ti­ca. Ma è comun­que legit­ti­ma, va recu­pe­ra­ta e valorizzata.

Per que­sto è neces­sa­rio insi­ste­re sul­la poli­fo­nia, nel sen­so più ampio, che ani­ma il rac­con­to e il libro, che si rivol­ge, chia­ma, inter­pel­la, even­tual­men­te richie­de con­te­sta­zio­ne e con­tro-discor­so, altre voci, altre into­na­zio­ni e valu­ta­zio­ni, e il sapo­re e il colo­re del­le emo­zio­ni. E non si trat­ta di un movi­men­to dia­let­ti­co, per cui tut­to si ricom­po­ne e si paci­fi­ca a un livel­lo supe­rio­re dove tut­to rice­ve signi­fi­ca­to e dire­zio­ne. Al con­tra­rio, tut­to si com­pli­ca e si svi­lup­pa. È indi­sci­pli­na­ta e spor­ca, ma que­sta è la sto­ria vera. Anzi, sen­za aggettivi.

L’autonomia con la lettera minuscola

di Fede­ri­co Battistutta

Ho let­to con inte­res­se i diver­si inter­ven­ti fin qui pub­bli­ca­ti, quan­to mai ric­chi e arti­co­la­ti, ma leg­gen­do ho avver­ti­to che qual­co­sa man­ca­va. Che cosa? Ecco, vor­rei par­la­re di quest’assenza, in bre­ve: dell’autonomia ope­ra­ia con la let­te­ra minu­sco­la. Sì, per­ché c’è sta­ta un’area dell’autonomia assai più gran­de e fra­sta­glia­ta dei coor­di­na­men­ti o del­le orga­niz­za­zio­ni che han­no pro­va­to a orien­ta­re e, in cer­ti casi, diri­ge­re la rab­bia e la gio­ia di tan­ti gio­va­ni in que­gli anni. È sta­ta un’area ric­ca di con­trad­di­zio­ni, senz’altro, ma non era cer­to una “palu­de”, ben­sì una mobi­le uto­pia con­cre­ta, cao­ti­ca fin­ché si vuo­le, ma che sape­va all’occorrenza espri­me­re, nel­la teo­ria e nel­la pra­ti­ca, un’intelligenza mole­co­la­re, dif­fu­sa, pra­ti­can­do l’orizzontalità e sabo­tan­do le gerar­chie. For­se è bene inda­ga­re e par­la­re anche seguen­do quel­le trac­ce resta­te per lo più silen­zio­se. Per que­sto pren­do la paro­la e quan­to segue vuo­le esse­re solo – all’interno di un più ampio qua­dro poli­fo­ni­co – un sog­get­ti­vo e par­zia­le con­tri­bu­to in quel­la direzione.

Ini­ziai a leg­ge­re «Ros­so» con vivo inte­res­se all’indomani del­lo scio­gli­men­to del Grup­po Gram­sci, di cui era fino a quel momen­to l’organo. «Gior­na­le den­tro il movi­men­to», reci­ta­va il sot­to­ti­to­lo. I con­te­nu­ti degli arti­co­li (come la veste gra­fi­ca che occhieg­gia­va un po’ alla stam­pa under­ground dell’epoca) apri­va­no lar­ga­men­te ai temi del­la con­tro­cul­tu­ra: non solo la fab­bri­ca, la con­di­zio­ne ope­ra­ia e le sca­den­ze con­trat­tua­li, ma anche il tem­po libe­ro, la libe­ra­zio­ne ses­sua­le, la musi­ca rock come ele­men­to aggre­gan­te e via di que­sto pas­so (vale a dire tut­ti temi ine­ren­ti all’importanza dei pro­ces­si di ripro­du­zio­ne, tan­to risco­per­ti in que­sti ulti­mi anni). Pro­po­si subi­to la costi­tu­zio­ne di un col­let­ti­vo auto­no­mo nel liceo che fre­quen­ta­vo a Mila­no e ade­rim­mo al Coor­di­na­men­to dei col­let­ti­vi auto­no­mi stu­den­te­schi che s’incontrava perio­di­ca­men­te in via Disci­pli­ni, dove c’era anche la reda­zio­ne di “Ros­so”. Fu un’esperienza radi­cal­men­te dif­fe­ren­te da quel­la che si respi­ra­va nei grup­pi del­la nuo­va sini­stra (che, a veder­la ora, di nuo­vo ave­va dav­ve­ro poco), nei con­te­nu­ti, come nel­le pra­ti­che e nel­le dina­mi­che inter­ne. L’esperienza del­la poli­ti­ca fu dav­ve­ro una poli­ti­ca dell’esperienza. Quan­do, poco pri­ma del ’77, si pas­sò dall’intervento set­to­ria­le a quel­lo ter­ri­to­ria­le finii, più per lega­mi ami­ca­li che stret­ta­men­te poli­ti­ci, in uno dei col­let­ti­vi in segui­to dive­nu­ti più discus­si: il Roma­na-Vit­to­ria, da cui uscii alcu­ni mesi pri­ma dei fat­ti di via De Ami­cis. Non era deci­sa­men­te la mia sto­ria, quel­la, e lo capii in tempo.

Mi ritro­va­vo in mol­te posi­zio­ni di «Ros­so» (pur mal dige­ren­do il leni­ni­smo – o neo-leni­ni­smo, che dir si voglia – che emer­ge­va sem­pre più) sen­za mai far par­te dell’organizzazione, ver­so cui mi sen­ti­vo a un tem­po vici­no e lon­ta­no; per sem­pli­fi­ca­re, ero – e in fon­do lo sono sem­pre sta­to – un movi­men­ti­sta, un «mili­tan­te poli­ti­co di base», per usa­re una lim­pi­da espres­sio­ne di Dani­lo Mon­tal­di. Le tema­ti­che di ascen­den­za ope­rai­sta (il rifiu­to del lavo­ro, in pri­mis, decli­na­to da noi nei ter­mi­ni di rifiu­to del­la scuo­la) le mesco­la­vo con que­gli aspet­ti riguar­dan­ti la «rivo­lu­zio­ne del­la vita quo­ti­dia­na», che ritro­va­vo in Raoul Vanei­gem e nel­la cor­ren­te situa­zio­ni­sta. E – come si può imma­gi­na­re – tene­re insie­me ope­rai­smo e situa­zio­ni­smo non fu un lavo­ro facile.

Il ’77 lo pas­sai per le stra­de, come cane sciol­to (ma Mila­no ave­va anti­ci­pa­to di alme­no un paio d’anni quel­lo che poi è defla­gra­to nel­le altre cit­tà pro­prio in quel fati­di­co anno). Non c’era cor­teo che non des­se vita a una qual­che for­ma di auto­va­lo­riz­za­zio­ne di mas­sa (così si dice­va all’epoca), in mol­ti casi sor­ta spon­ta­nea­men­te e in for­ma gio­io­sa, per la qua­le nes­su­no poi finì sot­to pro­ces­so, a ripro­va di come quel­le for­me di lot­ta pagas­se­ro. Come can­ta­va Janis Joplin: Freedom’s just ano­ther word for nothing left to lose.
All’università finii per avvi­ci­nar­mi per un po’ agli india­ni metro­po­li­ta­ni, un feno­me­no deci­sa­men­te mino­ri­ta­rio nel movi­men­to mila­ne­se, anche se biso­gne­rà pri­ma o poi far rie­mer­ge­re anche quel­le espe­rien­ze (l’ha fat­to di recen­te Gian­fran­co San­gui­net­ti, soda­le di Debord, con il tono sen­ten­zio­so e anti­pa­ti­co che pur­trop­po carat­te­riz­za spes­so la vul­ga­ta situa­zio­ni­sta). La spin­ta alla cen­tra­liz­za­zio­ne orga­niz­za­ti­va impo­sta da «Ros­so» in que­gli anni per con­tra­sta­re l’emorragia mili­ta­ri­sta, come si sa, non otten­ne i risul­ta­ti atte­si. Se si vuo­le, le ten­den­ze cen­tri­fu­ghe si ampli­fi­ca­ro­no: nel frat­tem­po il movi­men­to del­le don­ne e quel­lo degli omo­ses­sua­li deci­se­ro di pro­se­gui­re per con­to pro­prio, mol­ti scel­se­ro altre stra­de, chi optan­do per il lavo­ro su di sé, chi lascian­do la cit­tà per la cam­pa­gna e dare vita al movi­men­to del­le comu­ni e chi anco­ra più lon­ta­no, in India e oltre. Insom­ma di lì a poco quell’entità che ci osti­na­va­mo a chia­ma­re “movi­men­to” – un ter­mi­ne di com­pren­sio­ne imme­dia­ta, epi­der­mi­ca e intui­ti­va per chi era inter­no a esso, ma il cui signi­fi­ca­to risul­ta­va osti­co e incom­pren­si­bi­le a chi sta­va fuo­ri – sareb­be svaporato.

Se il 7 apri­le ’79 segnò l’inizio del­la fine per me signi­fi­cò rico­min­cia­re a fare l’attivista. Nes­su­no me l’aveva chie­sto, ma sen­ti­vo un debi­to mora­le e poli­ti­co nei con­fron­ti dei com­pa­gni e del­le com­pa­gne costretti/​e alla lati­tan­za o alla deten­zio­ne. Rimet­te­re insie­me i coc­ci di quel­lo che rima­ne­va di un tes­su­to anta­go­ni­sta nei pri­mi anni ’80 a Mila­no non fu faci­le. A tan­ti, scam­pa­ti alle denun­ce dei pen­ti­ti, non sem­bra­va vero di aver­la sfan­ga­ta e pre­fe­ri­ro­no defi­lar­si. Furo­no anni vela­ti di tri­stez­za. Si trat­ta­va, è bene dir­lo, per lo più di garan­ti­re una pro­spet­ti­va difen­si­va, nell’imminenza del­le sca­den­ze pro­ces­sua­li (a Mila­no era il cosid­det­to pro­ces­so Ros­so-Toba­gi, come lo deno­mi­na­va­no i media). In segui­to, quan­do uscì da Rebib­bia il docu­men­to sul­la dis­so­cia­zio­ne poli­ti­ca, alla tri­stez­za stri­scian­te si affian­cò la cate­go­ria del risen­ti­men­to. Quan­do appar­ve su «Con­tro­in­for­ma­zio­ne» la nostra posi­zio­ne (fir­ma­ta come Radio Black-out), in cui era evi­den­te la nostra cri­ti­ca nei con­fron­ti di quel­le posi­zio­ni pur man­te­nen­do una posi­zio­ne dia­lo­gi­ca con quei com­pa­gni, fum­mo accu­sa­ti di fian­cheg­gia­re la dis­so­cia­zio­ne, da con­si­de­ra­re quin­di «tra­di­to­ri del movi­men­to comu­ni­sta» (come reci­ta­va allo­ra il tito­lo sul­la pri­ma pagi­na di una testa­ta auto­no­ma). Ricor­do ciò solo per pro­va­re a tra­smet­te­re le tra­me emo­ti­ve e i vis­su­ti che aleg­gia­va­no in que­gli anni, non per sol­le­va­re vacue pole­mi­che a tem­pi lar­ga­men­te scaduti.

La farò faci­le, ma quel­lo che pen­so, dopo tan­ti anni e tan­te paro­le, è che den­tro l’area dell’autonomia, da una par­te o dall’altra, abbia­mo sba­glia­to un po’ tut­ti, ma mi con­so­la pen­sa­re che, alla fine, tut­ti ave­va­mo anche un po’ ragio­ne. Fu un’esperienza con un pie­de den­tro la gran­de tra­di­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria del Nove­cen­to e l’altro già pro­iet­ta­to oltre. Que­sta fu in fon­do la sua ric­chez­za e il suo limi­te. È come se quel gran­de movi­men­to fos­se anda­to trop­po avan­ti nel­la rea­liz­za­zio­ne del “sogno di una cosa”, ver­so una diver­sa qua­li­tà del­le rela­zio­ni e del­la vita degli uomi­ni e del­le don­ne. La spe­ran­za era trop­po gran­de e alla fine l’impatto fu rovi­no­so. Così, dinan­zi a tut­to ciò pos­so dire di pro­va­re sì nostal­gia, ma è una nostal­gia osti­na­ta­men­te coniu­ga­ta al futu­ro. Con i ver­si di Paul Éluard: Supe­re­re­mo in velo­ci­tà l’alba e la primavera/​E pre­pa­re­re­mo gior­ni e stagioni/​A misu­ra dei nostri sogni”.

L’ “Autonomia” come attitudine, come postura umana e stile della militanza

di Omid Firou­zi Tabar

Dicem­bre, 2001. A un anno e mez­zo dal­la nasci­ta del “col­let­ti­vo di scien­ze poli­ti­che” ave­va­mo deci­so di occu­pa­re la Facol­tà di scien­ze poli­ti­che di Pado­va, non suc­ce­de­va da cir­ca die­ci anni, dai tem­pi del­la Pan­te­ra. Era­va­mo una cin­quan­ti­na, mos­si sem­pli­ce­men­te dal­la con­vin­zio­ne di fare la cosa giu­sta, “quel­lo che devo fare” ripe­te­va Gert del Poz­zo in “Q” e noi pren­de­va­mo quell’attitudine dav­ve­ro sul serio, e con una giu­sta e sana dose di gio­io­sa incoscienza.

Ricor­do che gira­vo con un paio di com­pa­gni per le aule vuo­te, ma “nostre”, con un sen­so di liber­tà e sod­di­sfa­zio­ne genui­na, uni­ta a una cer­ta ten­sio­ne, qua­si reve­ren­zia­le, per­ché sep­pur a gran­di linee, sape­va­mo cosa aves­se­ro rap­pre­sen­ta­to quei luo­ghi negli anni ’70, era qual­co­sa che, cre­de­te­mi, aleg­gia­va nell’aria, ma non solo nell’aria.

Ad un cer­to pun­to con­si­glio di anda­re a fare un check nel miti­co “giar­di­net­to”, deli­mi­ta­to da un alto muro con­fi­nan­te con il Liceo Clas­si­co Tito Livio, e poi in Aula Magna, dove in tan­te e tan­ti avrem­mo pas­sa­to la not­te. Indi­vi­duia­mo le zone più “con­for­te­vo­li” per met­te­re zai­ni e sac­chi a pelo, ma pri­ma di usci­re suc­ce­de qual­co­sa che mi e ci rimar­rà impres­so a lun­go. Men­tre scen­do le ulti­me ripi­de sca­le, dove tan­te vol­te mi ero ritro­va­to sedu­to a ter­ra a fare lezio­ne cau­sa sovraf­fol­la­men­to aule, noto una vaga e minu­sco­la vena­tu­ra color rosa affio­ra­re sul bian­co di una dal­le pare­ti late­ra­li. Con me c’era un com­pa­gno che ci sguaz­za­va in que­ste cose, anche per­ché ogget­ti­va­men­te più con­sa­pe­vo­le del­la sto­ria del luo­go in cui ci tro­va­va­mo, e allo­ra deci­dia­mo di chia­ma­re gli altri e comin­cia­mo a grat­ta­re con deli­ca­tez­za quel­la par­te del muro, tipo archeo­lo­gi, e con il pas­sa­re dei secon­di emer­ge in cre­scen­te color ros­so la scrit­ta “AUT.OP.”, con affian­co la fal­ce e il mar­tel­lo. Quan­do si dice: “se i muri potes­se­ro parlare”.

Per pochi atti­mi sia­mo rima­sti in silen­zio a fis­sa­re quel­la scrit­ta, sor­pre­si e per cer­ti ver­si affa­sci­na­ti. In que­gli atti­mi pas­sa­to e pre­sen­te si sono fur­ti­va­men­te incon­tra­ti. Poi abbia­mo sen­ti­to un gri­do, “cor­re­te com­pa­gni sono arri­va­ti i digos­si­ni”, e sia­mo schiz­za­ti via. Sape­va­mo che ci avreb­be­ro denun­cia­to, lo ave­va­mo mes­so in con­to, il pun­to era tene­re l’occupazione per fare gli incon­tri di auto­for­ma­zio­ne il gior­no dopo. Il tito­lo dei semi­na­ri auto­ge­sti­ti era una cosa del tipo “la demo­cra­zia del sape­re” ma que­sta è una sto­ria lunga.

Leg­gen­do il coin­vol­gen­te rac­con­to e le con­si­de­ra­zio­ni dei fra­tel­li Despa­li su una fase cru­cia­le del­la cosid­det­ta “ano­ma­lia ita­lia­na”, che coin­ci­de con la fine del lun­go ’68 in que­sto pae­se, mi sono venu­te in men­te nume­ro­si ricor­di ed istan­ta­nee lega­te a scien­ze poli­ti­che, ma anche ad alcu­ni luo­ghi stra­te­gi­ci e a me mol­to fami­glia­ri che ven­go­no ricor­da­ti, come le piaz­ze, Capi­ta­nia­to in par­ti­co­la­re, le men­se e le resi­den­ze stu­den­te­sche di Pado­va. Sono tut­ti luo­ghi che, più di 30 anni dopo il ’77, ho avu­to modo di attra­ver­sa­re in con­te­sti di lotta.

Il libro, come già ricor­da­to da alcu­ni ha, tra le varie, la for­za di tra­smet­ter­ci bene una del­le carat­te­ri­sti­che più inte­res­san­ti dell’esperienza dei Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io (CPV). Si trat­ta del­la cen­tra­li­tà asse­gna­ta al ter­ri­to­rio, ai suoi sno­di stra­te­gi­ci, alla logi­sti­ca del­le rela­zio­ni più viva­ci che in esso si anni­da­va­no e muo­ve­va­no, alla geo­gra­fia varia­bi­le dei modi e del­le zone di assem­bra­men­to e “assem­blag­gio” del­le sog­get­ti­vi­tà rite­nu­te in quel momen­to sto­ri­co più “inte­res­san­ti” per nuo­ve for­me di ricom­po­si­zio­ne politica.

È vero, come ricor­da Toni Negri, che ci vor­rà mol­to per vede­re una rispo­sta matu­ra alla cri­si del model­lo for­di­sta, e a un cer­to supe­ra­men­to del­le dina­mi­che di clas­se che ne rap­pre­sen­ta­va­no sto­ri­ca­men­te il para­dig­ma di rife­ri­men­to, e che que­sta rispo­sta si mani­fe­ste­rà defi­ni­ti­va­men­te pro­prio con la mia gene­ra­zio­ne, quel­la di Seat­tle e di Genova.

La let­tu­ra di que­ste pagi­ne ci sug­ge­ri­sco­no però che sia­mo debi­to­ri rispet­to ai CPV, e in que­sto caso soprat­tut­to sul pia­no prag­ma­ti­co e meto­do­lo­gi­co del­la pras­si, dell’azione e dell’organizzazione poli­ti­ca, per la loro capa­ci­tà di intui­re – posi­zio­na­ti sul sol­co lascia­to dal pen­sie­ro ope­rai­sta e ben sup­por­ta­ti e ispi­ra­ti dal pen­sie­ro cri­ti­co ela­bo­ra­to in con­tem­po­ra­nea pro­prio a Scien­ze poli­ti­che dai “cat­ti­vi mae­stri” – che il capi­ta­le ten­de a rior­ga­niz­zar­si espan­den­do i con­fi­ni del­la mes­sa a valo­re e dun­que gli spa­zi e i dispo­si­ti­vi del con­trol­lo del­la pro­du­zio­ne e del­la ripro­du­zio­ne. E la con­sa­pe­vo­lez­za di quel­la tra­sfor­ma­zio­ne in atto, anco­ra ibri­da e spe­ri­men­ta­le per quan­to riguar­da gli orien­ta­men­ti del capi­ta­le, por­ta­va i Col­let­ti­vi ad agi­re di con­se­guen­za, pras­si e cono­scen­za non sem­bra­no cono­sce­re nel­la loro espe­rien­za solu­zio­ni di continuità.

Cer­to il sog­get­to cen­tra­le rima­ne­va, e vie­ne ricor­da­to nel testo, l’operaio e il luo­go di rife­ri­men­to la fab­bri­ca, quel­la in via di ristrut­tu­ra­zio­ne. Ma dicia­mo­lo, chi pren­de­rà in mano il libro pen­san­do di leg­ge­re solo, o soprat­tut­to, di pic­chet­ti ai can­cel­li del­le fab­bri­che e del­le moda­li­tà con cui i CPV inte­ra­gi­va­no con gli ope­rai sot­to il segno del­la “con­ri­cer­ca” di ope­rai­sti­ca memo­ria rimar­rà in qual­che modo deluso.

Abbia­mo piut­to­sto la pos­si­bi­li­tà di vede­re attra­ver­so la loro espe­rien­za come la fab­bri­ca si pro­lun­ga e ten­de ad abbrac­cia­re e incor­po­ra­re il ter­ri­to­rio e di osser­va­re e regi­stra­re i con­tro-pote­ri che i CPV orga­niz­za­no per cer­ca­re di toglie­re il ter­re­no sot­to i pie­di dei padro­ni ed esse­re un dispo­si­ti­vo poli­ti­co desta­bi­liz­zan­te, per pro­va­re a rap­pre­sen­ta­re in defi­ni­ti­va un pro­ble­ma. Ogni tan­to ce lo dimen­ti­chia­mo, ma alla fine que­sto è il pun­to, esse­re per il pote­re non solo un fasti­dio, ma un pro­ble­ma, meglio se non facil­men­te sussumibile.

In que­sto sen­so gli “auto­no­mi” si muo­vo­no a vari livel­li, e strin­go­no rela­zio­ni e “allean­ze” con sog­get­ti e grup­pi socia­li emer­gen­ti come alcu­ni lavo­ra­to­ri pre­ca­ri e “ati­pi­ci” rispet­to ai pre­ce­den­ti cri­te­ri, e par­te del­la popo­la­zio­ne uni­ver­si­ta­ria, indi­vi­dui la cui vita socia­le ecce­de chia­ra­men­te le pare­ti mate­ria­li e sim­bo­li­che del­la fab­bri­ca, pic­co­la o gran­de che sia.

Ecco­la allo­ra una que­stio­ne diri­men­te che tra­spa­re dal­le paro­le di Pie­ro e Gia­co­mo, che rap­pre­sen­ta a mio avvi­so con­tem­po­ra­nea­men­te un’asse di con­ti­nui­tà con il pre­ce­den­te ope­rai­smo e una pro­ie­zio­ne vir­tuo­sa con i gior­ni nostri, o meglio con le moda­li­tà con cui alcune/​i mili­tan­ti affron­ta­no le sfi­de dei gior­ni nostri.

Si trat­ta del fat­to di cer­ca­re di asset­tar­si sui pun­ti più avan­za­ti del­le tra­sfor­ma­zio­ni del capi­ta­le, una postu­ra di matri­ce mar­xia­na che tro­va rin­no­va­ta lin­fa teo­ri­ca negli intel­let­tua­li ope­rai­sti e cosid­det­ti “posto­pe­rai­sti” e, nel nostro caso, appli­ca­zio­ne pra­ti­ca in mol­te scel­te e orien­ta­men­ti dei CPV. Esse­re ed agi­re sui pun­ti più avan­za­ti dei muta­men­ti in atto, anche a costo di pro­iet­tar­si trop­po in avan­ti ed espor­si al vuo­to, risul­ta comun­que opzio­ne pre­fe­ri­bi­le rispet­to a quel­la dicia­mo con­ser­va­tri­ce, di retro­guar­dia, di “posi­zio­ne” ed attendista.

Sarà que­sto un orien­ta­men­to che mi accom­pa­gne­rà tra la fine degli anni ’90 ad oggi in tut­te le dimen­sio­ni poli­ti­che attra­ver­sa­te da me e da cen­ti­na­ia di com­pa­gne e com­pa­gni, una ten­den­za che spes­so ci ha, direi feli­ce­men­te, distan­zia­ti da altri grup­pi o progetti.

Sul tema del­la vio­len­za non mi pare il caso di sof­fer­mar­si come giu­sta­men­te non fan­no più di tan­to gli auto­ri del libro. Non ser­vo­no trop­pi giri di paro­le per capir­si. Tal­vol­ta si scel­go­no cam­pi di bat­ta­glia, obiet­ti­vi e ven­go­no indi­vi­dua­te poste in palio e affron­ta­ti scon­tri che rag­giun­go­no soglie a cui ci si pre­pa­ra in un cer­to modo, soprat­tut­to per un legit­ti­mo dirit­to di resistenza.

Vor­rei chiu­de­re ripar­ten­do da alcu­ne note personali.

Ripren­den­do nuo­va­men­te i com­men­ti di Toni Negri, anch’io ho subi­to nota­to la deci­sio­ne di con­clu­de­re il rac­con­to del libro con i fat­ti avve­nu­ti alla fine degli anni ’70. Quan­do è comu­ne­men­te noto che – dopo lun­ghi anni di com­pli­ca­ta “resi­sten­za” all’infame repres­sio­ne, e soprat­tut­to a ripar­ti­re dal ciclo Seattle/​Genova – alcu­ne ten­den­ze e pro­pen­sio­ni pre­sen­ti nei CPV tor­na­no in cam­po, cer­ta­men­te alla luce, e in con­trat­tac­co, del­la ristrut­tu­ra­zio­ne “neo­li­be­ra­le” mes­sa in atto dal capi­ta­le in quei 20 anni.

Ma soprat­tut­to tor­na­no in sce­na alcune/​i compagne/​i che l’esperienza rac­con­ta­ta in que­sto testo l’hanno vis­su­ta e che rico­min­cia­no a misu­rar­si, sen­za timo­re reve­ren­zia­le, con le sfi­de del nuo­vo millennio.

Que­sto è suc­ces­so – nel­la “fase due” dei CPV si direb­be di que­sti tem­pi – in ter­mi­ni com­ples­si come suc­ce­de in tut­te le espe­rien­ze ambi­zio­se, con tra­iet­to­rie ambi­va­len­ti, con scel­te orga­niz­za­ti­ve discu­ti­bi­li e con alter­ne for­tu­ne, di cer­to con impor­tan­ti intui­zio­ni sul­le for­me di lot­ta e con spe­ri­men­ta­zio­ni vir­tuo­se che tut­to­ra sono a mio avvi­so mate­ria­le da cui attin­ge­re. Quel­le che ripor­to qui sono pen­sie­ri e impres­sio­ni sedi­men­ta­te in 20 anni di mili­tan­za, da mili­tan­te osti­na­ta­men­te indi­pen­den­te ed “ester­no”, ma comun­que spes­so “pros­si­mo” a que­sto per­cor­si e a queste/​i compagne/​i.

La mia fami­lia­riz­za­zio­ne con l’“autonomia” pas­sa per vie molteplici.

Ne sen­to par­la­re in casa da mio padre, figu­ra deci­si­va per la mia pri­ma poli­ti­ciz­za­zio­ne, i pri­mi anni del liceo, in ter­mi­ni ten­den­zial­men­te stig­ma­tiz­zan­ti. È a suo modo più che com­pren­si­bi­le. Lui era un comu­ni­sta orto­dos­so, veni­va chia­ma­to Majid “Soviet” tra i com­pa­gni, era un qua­dro del par­ti­to “Tudeh” for­te­men­te lega­to al Pci, negli anni ’70 ave­va vis­su­to diver­si con­flit­ti con i CPV e si era trin­ce­ra­to sal­da­men­te nel­la sua orto­dos­sia fino al ritor­no in Iran duran­te la rivo­lu­zio­ne e agli anni di car­ce­re che ave­va­no posto fine alla sua mili­tan­za. Tener­mi alla lar­ga dagli “auto­no­mi”, defi­ni­ti come “grup­pet­ta­ri” trop­po radi­ca­li ecc., era uno degli obiet­ti­vi dei miei geni­to­ri negli anni del liceo e dell’Università.

C’era poi il pia­no del­le rap­pre­sen­ta­zio­ni pub­bli­che e media­ti­che. Fin dai pri­mi pas­si del­la mia mili­tan­za, pure muo­ven­do­mi in col­let­ti­vi e per­cor­si indi­pen­den­ti, mi sono tro­va­to cuci­to addos­so l’etichetta di “auto­no­mo”. Ogni vol­ta la soli­ta sto­ria, gli “auto­no­mi” han­no fat­to que­sto e quell’altro, che dal pun­to di vista comu­ni­ca­ti­vo veni­va inte­so i “vio­len­ti” han­no fat­to que­sto e quell’altro. Devo dire che que­sta eti­chet­ta­ta, come ogni altra sem­pli­fi­ca­zio­ne, non mi ha mai entu­sia­sma­to, ma allo stes­so tem­po non ho mai sen­ti­to un par­ti­co­la­re moti­vo per sfor­zar­mi di riget­tar­la o per­de­re tem­po in pun­tua­liz­za­zio­ni ecc. Negli anni, come altre/​i del­la mia gene­ra­zio­ne ho nutri­to, attra­ver­so rac­con­ti e let­tu­re, una sem­pli­ce e genui­na fasci­na­zio­ne ver­so l’esperienza dei CPV. Non ho mai avu­to dub­bi, sono eser­ci­zi di fan­ta­sia che cre­do fac­cia­mo tutte/​i, che se fos­si vis­su­to in quell’epoca avrei scel­to quel­lo come con­te­sto di riferimento.

Deci­sa­men­te più com­pli­ca­to il rap­por­to diret­to con le/​i mili­tan­ti che, redu­ci da quel­la fase sto­ri­ca, ave­va­no appun­to deci­so di rilan­cia­re nuo­vi per­cor­si poli­ti­ci indi­vi­duan­do come base gra­vi­ta­zio­na­le Radio Sher­wood. Par­lo di rela­zio­ni e coo­pe­ra­zio­ni segna­te da ele­men­ti da cui ho impa­ra­to mol­to e che mi han­no fat­to cre­sce­re, ma anche carat­te­riz­za­te da attri­ti e con­flit­tua­li­tà in alcu­ni casi piut­to­sto intense.

C’era poi, come per mol­tis­si­me altre per­so­ne, l’idea che nel cor­so degli anni mi sono fat­to di quell’esperienza attra­ver­so i rac­con­ti dei com­pa­gni più gran­di e attra­ver­so le let­tu­re di rivi­ste e libri. A pro­po­si­to una par­te del mate­ria­le del­la Libre­ria Calu­sca, deci­ne di libri e rivi­ste degli anni ’70, dona­te­ci da Radio Sher­wood ai tem­pi del “Col­let­ti­vo di Scien­ze Poli­ti­che”, si tro­va oggi al Bio­slab di Pado­va, e alla fine di que­sta cri­si sani­ta­ria, sarà di nuo­vo a dispo­si­zio­ne del­la città.

Det­to que­sto la let­tu­ra del libro mi con­fer­ma l’idea che ci sia qual­co­sa den­tro l’esperienza degli “auto­no­mi” che tra­scen­de sin­go­li epi­so­di o scel­te, una sor­ta di postu­ra, di sti­le del­la mili­tan­za che a mio avvi­so ha la poten­za, rara, del­la “ripro­du­ci­bi­li­tà”, quel­la di resi­ste­re negli anni.

Un’attitudine direi bio­po­li­ti­ca, for­te­men­te incar­na­ta nel­le pra­ti­che, che pro­iet­ta ad affron­ta­re l’azione poli­ti­ca con ambi­zio­ne nel sen­so di per­ce­pi­re e leg­ge­re ogni pas­sag­gio e ogni fase vis­su­ta come ter­re­no di ripar­ten­za per spo­sta­re più in alto l’asticella del con­flit­to; con lai­ci­tà nel sen­so di rifiu­ta­re ogni ten­ta­zio­ne ad affron­ta­re tat­ti­che e stra­te­gie intor­no a que­stio­ni mora­li o di prin­ci­pio, ben­sì agi­re con prag­ma­ti­smo e giu­di­ca­re l’opportunità di ogni scel­ta, rela­zio­ne, allean­za, nego­zia­zio­ne o tem­po­ra­nea tre­gua o com­pro­mes­so, alla luce di quan­to esse sia­no o meno mate­rial­men­te fun­zio­na­li, nel pre­sen­te o in pro­spet­ti­va, al cam­bia­men­to radi­ca­le dell’esistente, al con­flit­to socia­le e alla pro­du­zio­ne di con­tro pote­ri. Non impor­ta se stai orga­niz­zan­do bar­ri­ca­te, occu­pan­do le Uni­ver­si­tà, cac­cian­do sin­da­ca­li­sti inde­si­de­ra­ti, trat­tan­do con isti­tu­zio­ni, par­lan­do con il Papa o inter­ve­nen­do den­tro il par­la­men­to euro­peo. Impor­ta il fat­to che ogni cosa sia desta­bi­liz­zan­te, che sap­pia irrom­pe­re nel pia­no del discor­so e abbia effet­ti mate­ria­li di eman­ci­pa­zio­ne e liber­tà; con una pro­pen­sio­ne direi strut­tu­ra­le a rap­pre­sen­ta­re “ecce­den­za”, il che non vuol dire in alcun modo mar­gi­na­li­tà, anzi. Si trat­ta di una irri­du­ci­bi­li­tà a pren­de­re sta­bil­men­te for­ma den­tro par­ti­ti, sin­da­ca­ti o, ancor più, in qua­dri isti­tu­zio­na­li, loca­li o nazio­na­li, non cer­to per una que­stio­ne di prin­ci­pio. Se deve suc­ce­de­re (e capi­ta che suc­ce­da, vedi il pun­to pre­ce­den­te), avvie­ne per uso stru­men­ta­le e stra­te­gi­co, si inte­ra­gi­sce con l’“alto” sem­pre e comun­que per giun­ge­re a desta­bi­liz­za­re i pia­ni e libe­ra­re nuo­ve for­ze incon­trol­la­bi­li isti­tu­zio­nal­men­te nel “bas­so”. Vuol dire sta­re fino in fon­do den­tro le dina­mi­che costi­tuen­ti e i pro­ces­si socia­li dina­mi­ci e in dive­ni­re e asse­gna­re pro­prio a que­sti un ruo­lo da pro­ta­go­ni­sti nel pro­get­to rivoluzionario.

C’è poi un ulti­mo pun­to, un ulti­mo trat­to di “rico­no­sci­bi­li­tà”, direi un vero mar­chio di fab­bri­ca sem­pre vivo e vali­do, ed è il rap­por­to con la repres­sio­ne. Mai fare le vit­ti­me, mai lamen­tar­si del­la repres­sio­ne, cer­to affron­tar­la razio­nal­men­te e con intel­li­gen­za, ma non lamen­tar­si. Il capi­ta­le, ci inse­gna­no gli “auto­no­mi”, sa esse­re, nel difen­de­re i suoi inte­res­si di clas­se, mol­to vio­len­to, fero­ce, allo­ra met­ter­si con­tro vuol dire atti­ra­re le sue atten­zio­ni, vuol dire che cer­che­rà di neu­tra­liz­zar­ti in ogni modo, spes­so con la repres­sio­ne, il car­ce­re, a vol­te con l’assassinio. Se si ten­ta di rapi­na­re una ban­ca ci si orga­niz­za come si deve, se poi le cose van­no male, lo si met­te in con­to, è qual­co­sa di pre­ve­di­bi­le da met­te­re in con­to, al mas­si­mo si fa il pos­si­bi­le per fare sì che il con­to non sia trop­po sala­to, per tor­na­re in azio­ne pri­ma possibile.