di Elia Rosati
«Non siamo stati né troppo maoisti, né troppo leninisti,
e neppure troppo autonomi, marxisti di sicuro»
Leggere il racconto appassionato di Giacomo e Piero Despali sulla vicenda dei Collettivi politici veneti per il potere operaio è buttarsi, direbbe Victor Serge, in un mare tempestoso attraversando le passioni, le lotte, le rivolte e le sconfitte del grande scontro sociale e di classe della seconda metà degli anni Settanta.
Un testo diretto, franco e a suo modo plurale, fatto di discorsi che cominciano, girano, accelerano, approfondiscono, rallentano apparentemente vagando, per poi esplodere e colpire dritti al punto; ripercorrendo la storia grandiosa di uno dei pezzi più vitali, potenti e famigerati della galassia dell’Autonomia operaia italiana. Pagine in cui teoria e prassi si incarnano nella vita concreta di centinaia di militanti che decidono, tutte e tutti giovanissimi, di dare battaglia assaltando il cielo a partire da un territorio, il loro, quella Padova e quel Veneto che in molti, anche a sinistra, consideravano di contadinotti democristiani e timorati di Dio, del Varda, tasi e no parlar!
E invece a partire da formidabili e incalzanti tensioni ribelli e da potenti ipotesi strategiche progettuali (sempre e maniacalmente da sottoporre alla più rigida e implacabile verifica nella prassi) cominciava una straordinaria esperienza rivoluzionaria in cui radicamento e radicalità diventano un binomio esplosivo e inscindibile, finendo per imporre un livello dello scontro che a partire dal rifiuto del lavoro e dalla soddisfazione dei bisogni, costruisce una «attualità di un comunismo» che «si potesse vivere da subito».
Nel dialogo incalzante tra Piero, Giacomo e Mimmo Sersante si sentono e si intrecciano le voci e le biografie di tante e tanti, spessissimo nominati per nome, che cementano e strutturano un sodalizio bolscevico nella più nobile delle accezioni, organizzato ma sempre inclusivo, che vive in un Nordest laboratorio di una nuova composizione di classe, in cui la grande fabbrica non c’è, ma diventerà presto quella «diffusa» dell’«operaio sociale».
Una nuova leva militante di studenti e proletari che non legge Piovene, Zanzotto o i classici marxisti anestetizzati e depurati da Editori Riuniti, ma discute avidamente e in modo eretico assaporando nelle strade, nell’antifascismo militante, nelle ronde nelle fabbriche decentrate e nelle case dello studente occupate le pagine di Machiavelli, Marx, Fanon, Campanella, Foucault o Angela Davis.
Descrivere cosa fossero i Collettivi politici veneti vuol dire tenere per forza insieme: un background plurale, una disciplina militante ma soprattutto questa continua costante tensione rivoluzionaria, di chi scrive sui propri volantini e riviste solo quello che fa e soprattutto fa sempre quello che dice, senza ricadere in slogan o tifoserie; portando nella prassi «un uso ragionato della forza» deflagrante e condiviso ma sempre spostato sul piano dell’illegalità di massa nel/a partire dal proprio territorio a cui si impone dal basso una «omogenizzazione» costituente.
L’autonomia veneta non ha foto storiche a ricordarne gli istanti né luoghi famosi o simbolo, niente cancelli di Mirafiori o cacciate di Lama, ma, nel suo territorio, è ovunque: una presenza stabile e costante, un contropotere che si respira e che si avverte dalle scale del Magistero di Padova agli espropri nei supermercati, dalla cacciata del missino Covelli ai tavolini dei bar dei piccoli paesi dell’alto vicentino.
Un quotidiano «agire da partito senza essere partito» che attraversa le contraddizioni per scommettere sulla trasformazione, da «comunisti combattenti», rifiutando con forza un doppio livello (alto-basso, politico-militare), sperimentando e sperimentandosi continuamente nei linguaggi (dal settimanale «Autonomia» a «Radio Sherwood»), nelle pratiche («le notti dei fuochi») e nella concreta biopolitica militante (dalle «basi rosse» ai primi centri sociali).
È questo mix che spaventa più di tutto la controparte, turbando le vite e il sonno di padroni, poliziotti, rettori, prefetti, docenti universitari e dirigenti del Pci che si affrettano affannosamente a fabbricare teoremi nelle stanze oscure di via Beato Pellegrino e nelle botteghe della procure, con l’incubo che la «padovanizzazione» dello scontro di classe tracimasse.
I processi a mezzo stampa e le manette nell’immediato vinsero è vero, gli autori lo dicono chiaro, ma non per merito dei Calogero o dei Pecchioli, sarebbe «fissare l’albero dimenticando la foresta», ma perché un pezzo del capitalismo mondiale completava il suo ciclo e quello che sembrava «un cielo aperto si stava invece chiudendo». Anche se, va detto, i Colettivi politici veneti, ingabbiati dallo Stato, avevano già cominciato a mettere a tema i saperi, il nucleare e l’informatica; sentieri interrotti ripresi più tardi.
Ma nella franchezza di Piero e Giacomo c’è anche la lucidità dell’autonomia veneta di aver compreso non solo il proprio essersi spinti troppo avanti troppo presto, ma anche le inadeguatezze della propria soggettività politica, mettendo sul piatto nodi decisivi anche nell’oggi come: la dimensione europea delle lotte, il limite/forza della territorialità , l’importanza di aggredire fino in fondo il rapporto tra decentramento e sovranità nazionale, il tema dell’organizzazione e la cruciale necessità teorico/pratica di cercare quando serve mobili nuovi e non tenersi rassicuranti «case ammobiliate».
La potenza delle vicende raccontate in questo libro non può lasciare indifferenti, ma non c’è nessun gusto epico o autocompiacimento romantico nella narrazione, anche quando sarebbe giustificato, ma Piero, Giacomo e Mimmo tuffano il lettore nella storia ribelle di un territorio, nella corporeità complessiva di un Nordest così periferico e così centrale, così tendenziale e così anomalo; come, del resto, anche i suoi autonomi.
Ma queste pagine, impreziosite anche da alcune interviste e allegati documentari, trasmettono tutta l’immutata freschezza e la ferrea determinazione di una comunità politica che pratica il proprio essere marxianamente rivoluzionaria non per «professione» ma per «vocazione», con la «naturalezza» e «l’impazienza» di trasformare lo stato di cose presente per riprendersi il futuro.
P.s. Chi è cresciuto politicamente a Padova negli ultimi quarant’anni continua a sentire la balbuzie intellettuale e l’afasia di quegli inquisitori, ormai anziani, o dei loro giovani eredi che continuano a ripetere sui giornali locali, in modesti libretti, nelle campagne elettorali o finanche in qualche aula, come anche un piccolo corteo di studenti liceali sia un problema capitale.
Riflessi pavloviani di un ceto politico sconfitto, in una Veneto in cui, che piaccia o no a questi signori, in tantissimi ancora, debitori anche delle vicende narrate in questo libro, hanno continuato, continuano e continueranno a battere (ovunque) il loro tempo.