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di Ade­li­no Zanini

per Ari­sti­de Bian­chi (Biso), che era anche musi­ci­sta,
e per Checco

1. Mol­to è già sta­to det­to – e que­sto sem­pli­fi­ca le cose. Ma coe­ta­nei­tà e cospa­zia­li­tà ren­do­no in ogni caso tut­to più dif­fi­ci­le, quan­do si trat­ti di ragio­na­re su di un’opera, impor­tan­te, inte­sa a ripro­dur­re e fis­sa­re, com’è giu­sto, la memo­ria di un sog­get­to col­let­ti­vo, sot­traen­do­la alla defi­ni­ti­va dam­na­tio memo­riae giu­di­zia­rio-media­ti­ca. Le dif­fi­col­tà deri­va­no – nel mio caso, alme­no – non tan­to da una “distan­za di giu­di­zio” che, a dispet­to dei mol­ti dub­bi di un tem­po, non saprei comun­que come attua­re (il che non signi­fi­ca non saper dire quel­lo che cre­do vada det­to, altri­men­ti evi­te­rei d’intervenire), quan­to per­ché ad esse­re tira­ti in bal­lo sono anche sen­sa­zio­ni e affet­ti che ti (mi, se pre­fe­ri­te) fan vede­re e ricor­da­re pure quel­lo che for­se non c’è mai sta­to dav­ve­ro. Non per­ché vi sia il rischio dell’inconsapevole “fal­so ricor­do” sto­ri­co-per­so­na­le (par­lo, di nuo­vo, solo per me), quan­to per­ché le aspet­ta­ti­ve di que­gli anni si lega­no non solo a un’epoca, ma anche a un’età del­la vita, a una gal­le­ria di vol­ti, luo­ghi,  imma­gi­ni, del cui invec­chia­re non sem­pre hai avu­to per­ce­zio­ne – e quan­do l’hai avu­ta, il rifiu­to di rico­no­scer­la può esse­re a vol­te qua­si irri­du­ci­bi­le. Seb­be­ne qual­che anno fa l’abbia vista qua­si caden­te, del­la Fusi­na­to avrò sem­pre “una” imma­gi­ne, quel­la di quan­do ci anda­vo a suo­na­re. Nes­su­no me la può toglie­re. E allo­ra, i qua­si cinquant’anni tra­scor­si sono dav­ve­ro tan­ti – e il rischio di esse­re o mol­to attrat­ti, o mol­to indif­fe­ren­ti è pale­se. Dun­que, la rico­stru­zio­ne, lo sta­bi­li­re gli even­ti, leg­ger­li nel­la loro sem­pre riven­di­ca­ta “par­zia­li­tà” è impor­tan­te. E va rico­no­sciu­to a Mim­mo l’essere ter­za voce nar­ran­te, non pote­va esse­re diver­sa­men­te. Di par­te, sem­pre: “giu­di­zio di fat­to e giu­di­zio di valo­re pari sono”. Pre­mes­sa intro­dut­ti­va espli­ci­ta.
Quan­to ne deri­vo, pur som­ma­ria­men­te e for­se un po’ apo­dit­ti­ca­men­te, è però che la Sto­ria dovreb­be fun­zio­na­re (evi­to il ver­bo esse­re e gli essen­zia­li­smi che impli­ca) solo come sem­pli­ce “vita del­la memo­ria”, non più qua­le “mae­stra di vita”. Sem­pre di Cice­ro­ne si trat­ta. Si voglia o no elo­gia­re “l’assenza di memo­ria” – pro­ba­bil­men­te uno dei distin­guo su cui non vi sarà mai accor­do pie­no tra tut­ti colo­ro che han pre­so e pren­de­ran­no qui la paro­la –, mi sem­bra indu­bi­ta­bi­le che dall’esperienza pas­sa­ta non si pos­sa più trar­re nes­su­na indi­ca­zio­ne per il futu­ro; si può trar­re solo il rispet­to per ciò che di nostro c’è sta­to nel pas­sa­to e la cau­te­la a fron­te di ciò che acca­de ora. In entram­bi i casi, il “mode­ra­ti­smo” non è richie­sto, ma il rico­no­sce­re che sog­get­ti, meto­di, obiet­ti­vi, da trop­po tem­po par­la­no ormai altri lin­guag­gi (e del Vene­to di que­gli anni non è rima­sta nem­me­no la neb­bia), que­sto è banal­men­te ine­vi­ta­bi­le e dovreb­be por­ta­re con sé giu­di­zi con­se­guen­ti rispet­to al pre­sen­te. Del futu­ro, pre­fe­ri­sco tace­re. In que­sti ulti­mi ven­ti anni, non ho pro­va­to gran “entu­sia­smo” a fron­te di mol­to (non di tut­to, cer­to) di ciò che si è mos­so. Limi­ti miei, evi­den­te­men­te, del­la mia irri­du­ci­bi­le stan­zia­li­tà (ed “ope­rai­sti­ci­tà”, for­se): del mio saper coglie­re solo l’indignazione eti­ca di movi­men­ti altri­men­ti poli­ti­ci (tron­ti­smo di ritor­no?, for­se). Cer­to è che quan­do qual­co­sa d’interessante si è pro­fi­la­to, dei tra­scor­si non c’era men­zio­ne – e quan­do c’era sem­bra­va più un limi­te che una risor­sa. A par­ti­re da Geno­va 2001.

2. Si è det­to e ripe­tu­to come la sto­ria dei Col­let­ti­vi sia del tut­to radi­ca­ta nel­lo spe­ci­fi­co Vene­to. Vero, ovvia­men­te, ma la regio­ne non era una real­tà omo­ge­nea. Al di là di un tes­su­to socia­le per mol­ti aspet­ti uni­for­me, vi era­no mol­te ano­ma­lie, tra loro com­ple­men­ta­ri – come rac­con­ta la sto­ria, anche qui, spe­ci­fi­ca, del tipo di pre­sen­za ter­ri­to­ria­le del “lun­go” Pote­re ope­ra­io vene­to. Tra le ano­ma­lie, cru­cia­li Por­to Mar­ghe­ra e l’università di Pado­va. Del­la pri­ma si è mol­te vol­te det­to (ma a ragio­ne Caval­li­ni ne ricor­da i pas­sag­gi suc­ces­si­vi all’epopea più cele­bra­ta e nel testo se ne men­zio­na, ica­sti­ca­men­te, la cri­si); del­la secon­da si ricor­da, com’è ovvio, il fon­da­men­ta­le lavo­ro teo­ri­co svol­to dal Col­let­ti­vo di Scien­ze poli­ti­che. Quan­do si par­la di uni­ver­si­tà, però, occor­re tener con­to di ciò che nel testo si per­ce­pi­sce come vero pun­to di svol­ta, una pre­mes­sa deci­si­va per la sto­ria dei Col­let­ti­vi. Svol­ta pro­dot­ta­si, in una strut­tu­ra acca­de­mi­ca non cer­to aper­ta, né pro­gres­si­sta, con l’arrivo dei nuo­vi bar­ba­ri, degli stu­den­ti che pro­ve­ni­va­no dagli isti­tu­ti tec­ni­ci (ove il ’68 era sta­to più duro); stu­den­ti i qua­li, a par­ti­re dall’anno acca­de­mi­co 1969–70, pote­ro­no inva­de­re per­si­no le cit­ta­del­le uma­ni­sti­che, oltre a qual­sia­si altra facol­tà. L’apertura, solo a Roma e a Pado­va, nel ’71 (mi pare), del cor­so di lau­rea in psi­co­lo­gia (e nel testo lo si ricor­da) aumen­tò poi quel­lo che già era l’appeal nazio­na­le dell’ateneo nei con­fron­ti del sud del pae­se. Ecco, quan­do si dice “ter­ri­to­rio”, non si deve dimen­ti­ca­re di coniu­ga­re spa­zi, luo­ghi e  sog­get­ti. Al di là di un’estetizzante topo­no­ma­sti­ca del­la rivol­ta, ci sono infat­ti nomi pro­pri (quel­li degli isti­tu­ti tec­ni­ci di Pado­va cit­tà, ad esem­pio) che basta­no a evo­ca­re  l’importanza avu­ta dal­la pre­sen­za di deter­mi­na­ti sog­get­ti socia­li nel­la for­ma­zio­ne e nel­la pra­ti­ca dei Col­let­ti­vi. È il caso del ruo­lo degli stu­den­ti medi, di cui il libro dà pre­ci­sa testi­mo­nian­za poli­ti­ca e orga­niz­za­ti­va, anche e soprat­tut­to quan­do ad esse­re in que­stio­ne non fu più sol­tan­to la cit­ta­del­la uni­ver­si­ta­ria, il lega­me tra facol­tà e isti­tu­ti, ben­sì la pro­vin­cia vene­ta, allo­ra gri­gia come non mai, sfian­ca­ta dagli effet­ti del­la cri­si petro­li­fe­ra e rat­tri­sta­ta oltre misu­ra dal­la cosid­det­ta auste­ri­ty.
Se poi sia­no da veder­si qui le pre­mes­se dell’operaio socia­le – in par­ti­co­la­re, anche se non solo, in que­gli stu­den­ti degli isti­tu­ti tec­ni­ci la cui pro­fes­sio­na­li­tà si sta­va rive­lan­do pres­so­ché inser­vi­bi­le se non come qua­li­fi­ca di una for­za-lavo­ro impo­ve­ri­ta, desti­na­ta a sicu­ra inoc­cu­pa­zio­ne e, quin­di, a pre­ca­riz­za­zio­ne, da cui una spin­ta anche mate­ria­le, oltre che for­te­men­te sog­get­ti­va, a cam­biar vita – beh, qual­che dub­bio lo nutro anch’io, effet­ti­va­men­te. Uno dei per­ché l’ha già det­to Negri nel suo inter­ven­to, rela­ti­va­men­te al nes­so territorialità/​organizzazione. Aggiun­ge­rei che quel­la com­po­si­zio­ne socia­le era, comun­que, anco­ra mol­to lon­ta­na dal­la “con­di­zio­ne” che poi si sareb­be assun­ta come tipi­ca dell’operaio-sociale. D’altra par­te, tra il momen­to ini­zia­le e quel­lo fina­le del­le vicen­de con­si­de­ra­te (sia esso il 7 apri­le o no), mol­to cam­biò. Solo dopo, però, avrem­mo sapu­to quel­lo che il ’73 avreb­be rap­pre­sen­ta­to per la gran­de fab­bri­ca. Allo­ra, il mar­zo a Mira­fio­ri non sem­brò così irri­le­van­te. E cosa fos­se auto­ma­zio­ne lo avrem­mo sapu­to via via solo ascol­tan­do chi lavo­ra­va in fab­bri­ca. Nel ’73, nel­le segre­te­rie del Bo si usa­va­no anco­ra la bic e le sche­de per­fo­ra­te per il data-base degli iscrit­ti e la stam­pa dei libret­ti, se il ricor­do non m’inganna.

3. Voglio dire che l’intuizione teo­ri­ca di Negri diven­ne “pra­ti­ca­men­te vera” mol­to dopo e in for­me mol­to dif­fe­ren­ti, anche, dal model­lo ori­gi­na­rio, che non pote­va cer­to pre­ve­de­re quel­lo che sareb­be acca­du­to con l’informatizzazione dif­fu­sa, la qua­le fu, a sua vol­ta, uno dei pre­sup­po­sti di quan­to teo­riz­za­to in tutt’altra situa­zio­ne. Per­ché non era solo que­stio­ne di entra­ta in fab­bri­ca del socia­le e vice­ver­sa, quan­to di una pro­gres­si­va irri­du­ci­bi­li­tà del secon­do alla pri­ma (la vicen­da dei 61 alla Fiat [1979] par­le­rà anche di que­sto). E ciò si spin­se ben oltre la fine dei Col­let­ti­vi. Cer­to è – que­sto è sicu­ro e qui ver­te effet­ti­va­men­te la que­stio­ne – che il Vene­to “bian­co e arre­tra­to” ave­va nel frat­tem­po cono­sciu­to e anti­ci­pa­to feno­me­ni i qua­li, coniu­gan­do sus­sun­zio­ne for­ma­le e rea­le, avreb­be­ro rea­liz­za­to una sor­ta di nuo­va accu­mu­la­zio­ne ori­gi­na­ria: in sen­so let­te­ra­le, direi, e in modo pecu­lia­re rispet­to ad altre regio­ni. Lo avreb­be­ro dimo­stra­to gli anni ’80, allor­ché, dopo la cri­si petro­li­fe­ra del 1979 e la sta­si pro­dut­ti­va nel set­to­re secon­da­rio, a par­ti­re dal 1984, nel­la regio­ne pre­se avviò una ripre­sa frut­to del con­so­li­dar­si di pro­ces­si che avreb­be­ro fat­to del model­lo Vene­to un esem­pio vin­cen­te, in gra­do di sfrut­ta­re al meglio le pos­si­bi­li­tà offer­te dal mer­ca­to, spes­so gra­zie a pro­dot­ti ad alto con­te­nu­to tec­no­lo­gi­co gene­ra­ti all’interno di micro-impre­se, tan­to da rag­giun­ge­re una cre­sci­ta del red­di­to pro­dot­to pro capi­te supe­rio­re alla media euro­pea. Nei con­fron­ti di ciò i Col­let­ti­vi ave­va­no alme­no in par­te intui­to quan­to i grup­pi e il Pci non ave­va­no inte­so (più arti­co­la­to dovreb­be esse­re il discor­so sul sin­da­ca­to). Ecco allo­ra che la ter­ri­to­ria­li­tà diven­ne, al di là del leni­ni­smo (alquan­to arti­co­la­to, peral­tro), espres­sio­ne di dif­fu­sio­ne di pra­ti­che ribel­li mira­te (a vol­te sin trop­po…), attua­te da una com­po­si­zio­ne di clas­se a dir poco ibri­da, e cen­tra­te pro­prio con­tro le nuo­ve for­me di accu­mu­la­zio­ne ori­gi­na­ria. E que­sto è il pun­to decisivo.

4. C’è un pas­so ini­zia­le del libro in cui si ricor­da­no le let­tu­re for­ma­ti­ve che ave­va­no intro­dot­to que­gli anni. A par­te i soli­ti noti, vi è Mar­cu­se, di cui – si dice – non con­vin­ce­va il ruo­lo attri­bui­to agli stu­den­ti rispet­to alla clas­se ope­ra­ia occi­den­ta­le. “Poi, in veri­tà, que­sta sto­ria del­la cen­tra­li­tà poli­ti­ca degli stu­den­ti sarà ripre­sa pro­prio da noi dei Col­let­ti­vi – dice Pie­ro –, anche se con un altro nome e una diver­sa decli­na­zio­ne. Ad esem­pio, con­si­de­ran­do­li già for­za lavo­ro in for­ma­zio­ne, da sfrut­ta­re a tem­po debi­to nel­la fab­bri­ca dif­fu­sa del­la nostra pro­vin­cia. Non si trat­ta­va solo di lin­guag­gio”. Cer­to che no, si trat­ta­va di una com­po­si­zio­ne di clas­se in dive­ni­re, in cui il socia­le era anco­ra impa­sta­to di tan­te cose nient’affatto lon­ta­ne dal­le riven­di­ca­zio­ni del decen­nio pre­ce­den­te: rifiu­to del lavo­ro, dirit­to allo stu­dio, costo dei tra­spor­ti, dirit­to alla casa, auto­ri­du­zio­ni. Per que­sto essa poté fun­zio­na­re, per il suo ibri­di­smo.
Ciò non toglie – ha ragio­ne Bet­tin – che il limi­te dell’azione dei Col­let­ti­vi fos­se pro­prio quel­lo di aver let­to l’operaio socia­le più come “ope­ra­io”, meno nel suo lato “socia­le”, sem­pre, però, – e que­sta fu la loro for­za, inve­ce – con i pie­di nel socia­le, sen­za vir­go­let­te.
Anche per que­sto il ’77 non rap­pre­sen­tò una tap­pa par­ti­co­la­re a Pado­va – bre­ve paren­te­si. I Col­let­ti­vi non com­pre­se­ro (e furo­no in buo­na com­pa­gnia) il “sen­so” del ’77 – ossia le sue dire­zio­ni di svi­lup­po.
Tut­ta­via, una del­le sue for­me era impli­ci­ta nel­la pra­ti­ca dei Col­let­ti­vi stes­si – da que­sto pun­to di vista lon­ta­ni anni luce dal­la “tri­stez­za” dei grup­pi. A rischio di risul­ta­re ete­reo e for­se del tut­to fuo­ri ber­sa­glio, la defi­ni­rei l’immanenza del­la pra­ti­ca, una rea­liz­za­zio­ne costan­te dell’utopia, una sor­ta di quo­ti­dia­ni­tà in cui il comu­ni­smo, pia­ces­se o meno, era qui e ora: una con­di­zio­ne pre-mes­sa del­la pra­ti­ca, la “cifra gio­io­sa” di que­gli anni, scri­ve Mim­mo, con un po’ di gene­ro­si­tà. Que­sto costi­tuì un trat­to spe­ci­fi­co, un ele­men­to di for­za (anche quan­do la repres­sio­ne mon­tò) e, cre­do, pure uno dei pre­re­qui­si­ti del­la capa­ci­tà di inno­va­zio­ne dei “pado­va­ni” che ven­ne­ro dopo. Scor­dar­si di loro non sareb­be buo­na cosa, equi­var­reb­be a dimen­ti­ca­re una par­te del­la sto­ria, par­te impor­tan­te, che non è più quel­la dei Col­let­ti­vi, ma che non gli è nem­me­no estra­nea – con tut­ti i distin­guo che vole­te. La kata­stro­phé di cui si par­la nel testo era già avve­nu­ta, ma pra­ti­che inno­va­ti­ve e radi­ca­li furo­no comun­que anco­ra possibili.

5. La “for­ma” di quel­la com­po­si­zio­ne ibri­da di cui s’è det­to – tor­no al pun­to per chiu­de­re – comin­cia­va però ad esse­re altra, e quan­do l’operaio socia­le ini­ziò a dive­ni­re vera­men­te tale, le for­me orga­niz­za­ti­ve (ter­ri­to­ria­li), tut­te, era­no sal­ta­te da un pez­zo e, pri­ma di esse, il pro­get­to di un’Autonomia orga­niz­za­ta a livel­lo nazio­na­le. Fu dav­ve­ro qui che avven­ne il pas­sag­gio defi­ni­to da Gia­co­mo pen­san­do al Petrol­chi­mi­co? “Arri­va la cri­si e con la cri­si i licen­zia­men­ti; la nostra avan­guar­dia che fa? Deve pur cam­pa­re; non può rifiu­ta­re il lavo­ro e anda­re a far­si le can­ne in piaz­za Fer­ret­to a Mestre. Deve tro­va­re un lavo­ro, inven­tar­se­lo. Tor­na a casa e fa l’imprenditore, per­ché altri­men­ti come caz­zo cam­pa la fami­glia, come man­gia? Poi c’è la pro­vin­cia che (…) non sia­mo riu­sci­ti a tra­sfor­ma­re. Met­ti insie­me que­ste due real­tà e avrai l’uomo del­la Lega”. In effet­ti, quel­la com­po­si­zio­ne ibri­da pote­va vira­re in mol­ti modi dif­fe­ren­ti: e que­sto fu cer­ta­men­te il più impor­tan­te tra quel­li pos­si­bi­li. Non per­ché vi fos­se un lega­me cau­sa­le tra fine dell’esperienza dei Col­let­ti­vi e dif­fu­sio­ne del leghi­smo: le pro­por­zio­ni e la com­ples­si­tà del feno­me­no furo­no ben altre. Il dire: «Ripu­li­to il Vene­to dagli auto­no­mi, tut­to per lor signo­ri è sta­to più faci­le», beh, è un po’ trop­po sem­pli­ce, se pre­so alla let­te­ra – anche per­ché vi era­no inte­re pro­vin­ce non toc­ca­te dal feno­me­no. Lega­me vi fu inve­ce tra la scon­fit­ta ope­ra­ia e di tut­te le for­me di lot­ta e mili­tan­za degli anni Set­tan­ta, da un lato e, dall’altro, la dif­fu­sio­ne di una “impren­di­to­ria” per costi­tu­zio­ne ambi­gua, come mol­to ambi­guo fu il leghi­smo di pri­ma gene­ra­zio­ne.
Ma di ciò han già par­la­to altri. Vor­rei solo aggiun­ge­re che rispet­to a tale ambi­gui­tà, quan­to si sareb­be det­to in segui­to sul fede­ra­li­smo – dal­la nostra par­te, inten­do – non fu sem­pre immu­ne da “altre” appros­si­ma­zio­ni. Ma di que­sto non va chie­sto con­to ai Col­let­ti­vi poli­ti­ci vene­ti per il pote­re ope­ra­io.
Ad ognu­no il suo.