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di Giu­lia Page

«È fecon­do solo quel ricor­do che al con­tem­po ci ram­men­ta quan­to anco­ra ci resta da fare». L’incipit del­la sto­ria dei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti sem­bra qua­si inter­pel­lar­ci, fin dal­le pri­mis­si­me righe, in quan­to gio­va­ni let­to­ri, «un po’ curio­si e poco distrat­ti», e soprat­tut­to in quan­to gio­va­ni mili­tan­ti – dun­que sì, ere­di dell’importante tra­di­zio­ne ripor­ta­ta in que­sto e in altri libri, nei can­ti, nel­le pra­ti­che e nei rac­con­ti dei com­pa­gni più gran­di, ma al tem­po stes­so neces­sa­ria­men­te pri­mi atto­ri di quell’immenso «quan­to anco­ra ci resta da fare».
Gio­va­ni, si dice­va, ma non neces­sa­ria­men­te dal pun­to di vista ana­gra­fi­co, quan­to piut­to­sto da quel­lo gene­ra­zio­na­le. I «gio­va­ni mili­tan­ti» sono infat­ti, pri­ma di tut­to, sog­get­ti­vi­tà for­ma­te nel­la e dal­la cri­si siste­mi­ca del Capi­ta­le: figli del 2008 e qua­si cer­ta­men­te non­ni di nes­su­no, i più for­tu­na­ti di noi sono riu­sci­ti a but­ta­re uno sguar­do alle mobi­li­ta­zio­ni dell’Onda; al con­tra­rio, l’unica cosa più o meno di mas­sa che i più sfi­ga­ti di noi sono riu­sci­ti a vive­re in pri­ma per­so­na è una pan­de­mia glo­ba­le. Que­sta pre­mes­sa, lun­gi dall’essere una vit­ti­mi­sti­ca autoas­so­lu­zio­ne, è dove­ro­sa per rin­trac­cia­re i fili ros­si che ci ten­go­no anco­ra lega­ti a quel­la sto­ria mai vis­su­ta, per rico­strui­re la nostra genea­lo­gia in chia­ve più che mai attua­le. Per fare cioè del ricor­do non una mera filia­zio­ne basa­ta sul­la con­ti­nui­tà teo­ri­ca, ma meto­do di con­ti­nuo rin­no­va­men­to e mes­sa a veri­fi­ca del­le ipo­te­si poli­ti­che.
E in que­sto sen­so la sto­ria nar­ra­ta dai fra­tel­li Despa­li è par­ti­co­lar­men­te pre­zio­sa: con la net­ta impres­sio­ne di esse­re par­te atti­va di quell’intimo dia­lo­go, il gio­va­ne let­to­re vie­ne costret­to a usci­re dal­la posa di ascol­ta­to­re pas­si­vo, espo­nen­do le pro­prie cor­de a una disar­man­te asso­nan­za. Disar­man­te per­ché ci par­la di un’esperienza poten­te, sì, ma con­cre­ta, al di là del­le magni­fi­che gesta e del­le imma­gi­ni roboan­ti di con­flit­to esplo­si­vo, che pure fan­no neces­sa­ria­men­te par­te dell’immaginario di que­gli anni, ma che al tem­po stes­so han­no con­tri­bui­to a for­nir­ci l’immagine deter­mi­ni­sti­ca (ed erro­nea) di un’epoca già data in quei ter­mi­ni, di una com­po­si­zio­ne anta­go­ni­sta a prio­ri, di un ’77 come even­to a‑storico piut­to­sto che come bal­zo in avan­ti di un pro­ces­so di lun­ga data. Un’immagine che, tut­to som­ma­to, ha anche fini­to per lasciar­ci in boc­ca l’amaro di  una nostal­gia ingiu­sta (dopo­tut­to, come si può pro­va­re nostal­gia per qual­co­sa che non si è mai vis­su­to?), inne­sta­ta sul sospet­to – anch’esso ingiu­sto, o for­se più che altro, que­sto sì, autoas­so­lu­to­re – che un tem­po così non ci sarà mai più dato, e quin­di tan­to vale occu­par­si del­la pro­pria soprav­vi­ven­za, del pro­prio orti­cel­lo, del pro­prio cen­tro socia­le, e via dicen­do.
Pie­ro e Gia­co­mo, inve­ce, ci pren­do­no per mano e ci gui­da­no nel­le assem­blee, nel­le piaz­ze, nei pae­si­ni, nel­la car­ne viva, cioè, di un per­cor­so sog­get­ti­vo e col­let­ti­vo fat­to di avan­za­men­ti e bat­tu­te d’arresto, di vol­ti noti e vol­ti meno noti tut­ti egual­men­te fon­da­men­ta­li, di gran­di vit­to­rie e bru­cian­ti scon­fit­te, entram­be rela­ti­ve per­ché, come vuo­le la logi­ca maoi­sta del­la guer­ra par­ti­gia­na, «il sacri­fi­cio di pedi­ne, l’abbandono di posi­zio­ni, la riti­ra­ta, sono par­te inte­gran­te dell’offensiva» (p. 197). Ci gui­da­no cioè attra­ver­so un per­cor­so tutt’altro che faci­le e linea­re, ma in cui è imme­dia­ta­men­te riscon­tra­bi­le la con­ti­nui­tà nel meto­do.
Ogni azio­ne, infat­ti, ogni ini­zia­ti­va – dal­le ron­de con­tro gli straor­di­na­ri alle ron­de anti­fa­sci­ste, dal­le ver­ten­ze in men­sa alle auto­ri­du­zio­ni, dai Con­si­gli di fab­bri­ca alle assem­blee con i com­pa­gni del­le altre cit­tà – si con­no­ta, nel rac­con­to, come pra­ti­ca stru­men­ta­le uti­le non solo a cemen­ta­re i rap­por­ti poli­ti­ci den­tro e fuo­ri il cor­po mili­tan­te, ma anche e soprat­tut­to a con­so­li­da­re un fat­tua­le con­trol­lo ter­ri­to­ria­le, decli­na­to sul­la scel­ta auto­no­ma di luo­ghi, modi e tem­pi dell’azione poli­ti­ca. Un ele­men­to, quel­lo del tem­po, che segna la pri­ma gran­de discon­ti­nui­tà rispet­to al nostro pre­sen­te: cata­pul­ta­ti nell’emergenzialità siste­mi­ca, i mili­tan­ti di oggi han­no fini­to per abdi­ca­re alla ricer­ca di una tem­po­ra­li­tà auto­no­ma, e con essa alla pos­si­bi­li­tà dell’anticipazione, inse­guen­do inve­ce l’insostenibile rit­mo del nemi­co – in bar­ba a qua­lun­que inse­gna­men­to sull’Arte del­la Guer­ra – e ritro­van­do­si dun­que a sal­ta­re da un’emergenza media­ti­ca all’altra. Ine­so­ra­bil­men­te col fia­to cor­to. Ine­so­ra­bil­men­te in ritar­do.
È inve­ce pro­prio la capa­ci­tà di anti­ci­pa­zio­ne, uni­ta a quel­la di «tene­re con­ti­nua­men­te lega­te tat­ti­ca e stra­te­gia, visio­ne loca­le – del sin­go­lo scon­tro – e visio­ne gene­ra­le – dell’insieme del ter­ri­to­rio» (p. 197), ad aver per­mes­so ai Col­let­ti­vi di instau­ra­re, nel pro­prio rag­gio d’azione, un poten­te ed effet­ti­vo con­tro­po­te­re. Un con­tro­po­te­re distan­te anni luce da quel­lo sban­die­ra­to oggi­gior­no da alcu­ni mili­tan­ti, che, inter­pre­tan­do­lo come mero attra­ver­sa­men­to del ter­ri­to­rio o, peg­gio anco­ra, come una sor­ta di dirit­to di pre­la­zio­ne su una sup­po­sta ere­di­tà (model­la­ta, peral­tro, pro­prio su quell’idea di Auto­no­mia come filia­zio­ne esclu­si­va­men­te iden­ti­ta­rio-ideo­lo­gi­ca, anzi­ché come meto­do), han­no fini­to per iden­ti­fi­ca­re il con­cet­to di «ter­ri­to­rio» con la sua decli­na­zio­ne fisi­co-urba­ni­sti­ca, gene­ral­men­te costi­tui­ta da qual­che stra­da e qual­che piaz­za, e quel­lo di «radi­ca­men­to ter­ri­to­ria­le» con pate­ti­che for­me di (auto)ghettizzazione nei pro­pri spa­zi (occu­pa­ti, nel miglio­re dei casi, con­ces­si dal­la con­tro­par­te nel peg­gio­re). I fra­tel­li Despa­li, inve­ce, ci rac­con­ta­no di un ter­ri­to­rio defi­ni­to e di con­se­guen­za agi­to in pri­mis in rela­zio­ne alla com­po­si­zio­ne che lo attra­ver­sa – una com­po­si­zio­ne, nel caso del Vene­to, tutt’altro che sovrap­po­ni­bi­le a una sog­get­ti­vi­tà onto­lo­gi­ca­men­te ribel­le, ma anzi, para­dos­sal­men­te, pri­mo ambi­va­len­te labo­ra­to­rio da cui nasce­rà anche quell’identità leghi­sta che al rifiu­to del lavo­ro ave­va sosti­tui­to, come rea­zio­ne alla cri­si e ai licen­zia­men­ti e in nome del­la pro­pria eman­ci­pa­zio­ne eco­no­mi­ca e poli­ti­ca, una tota­le iden­ti­fi­ca­zio­ne con il lavo­ro, sfo­cia­ta nell’autoimprenditorialità e nell’autosfruttamento. E, di con­se­guen­za, il radi­ca­men­to sul ter­ri­to­rio si tra­du­ce in una sua tra­sfor­ma­zio­ne, nel­la ten­den­za con­ti­nua al ren­der­lo omo­ge­neo alla linea poli­ti­ca.
Il radi­ca­men­to ter­ri­to­ria­le si sostan­zia, in altre paro­le, nel con­ti­nuo rap­por­to tra «sod­di­sfa­zio­ne imme­dia­ta dei biso­gni socia­li e pos­ses­so auto­no­mo di agi­bi­li­tà e di capa­ci­tà poli­ti­co-mili­ta­ri nel ter­ri­to­rio» (p. 218); sen­za quel rap­por­to, quel­lo scam­bio con­ti­nuo, è faci­le – ci avvi­sa­no i Despa­li – sci­vo­la­re nel «Biso­gno» o nell’«Ideologia». Anco­ra una vol­ta, il richia­mo al pre­sen­te è imme­dia­to, per­ché ci pone spie­ta­ta­men­te di fron­te all’inadeguatezza del­le nostre pra­ti­che ai tem­pi del­la pan­de­mia glo­ba­le, che alter­na­no l’incomprensibile ribel­li­smo indi­vi­dua­le – in gene­re, poi, tut­to a paro­le, con un’apologia del­le insor­gen­ze degli altri con­trap­po­sta all’invocazione del­la ragion di Sta­to quan­do si trat­ti del con­flit­to nostra­no – al ser­vi­zio cari­ta­te­vo­le, il qua­le, scam­bian­do il con­sen­so – noto­ria­men­te stru­men­to di media­zio­ne capi­ta­li­sti­ca – per ege­mo­nia ter­ri­to­ria­le, fini­sce per tra­sfor­ma­re quest’ultima in una sci­vo­lo­sa e quan­to­mai pro­ble­ma­ti­ca «teo­ria demo­cra­ti­ca del comu­ni­smo». Nel par­la­re del­la bat­ta­glia per i prez­zi poli­ti­ci, inve­ce, i Col­let­ti­vi ci dico­no che non si trat­ta di una mera «sod­di­sfa­zio­ne imme­dia­ta dei pro­pri biso­gni» (spe­ci­fi­can­do peral­tro – anco­ra una vol­ta con gran­de attua­li­tà – che si trat­ta di com­por­ta­men­ti che si dan­no «anche sen­za l’iniziativa di un sog­get­to poli­ti­co orga­niz­za­to») quan­to piut­to­sto del­la capa­ci­tà, nel pro­prio pae­se o quar­tie­re, di «disar­ti­co­la­re il coman­do e il con­trol­lo che […] met­te a nudo pub­bli­ca­men­te, con la lot­ta e con l’imposizione del­la pro­pria for­za, la com­ples­sa real­tà di clas­se che mal potreb­be esse­re sve­la­ta sen­za le rot­tu­re ille­ga­li dei com­por­ta­men­ti pro­le­ta­ri» (p. 217). Non un vel­lei­ta­rio quan­to ideo­lo­gi­co appel­lo all’assalto alla ric­chez­za, dun­que, ma bat­ta­glia poli­ti­ca di lun­go perio­do, in cui obiet­ti­vi e pras­si muta­no con l’acuirsi del­la con­trad­di­zio­ne in cam­po, deter­mi­nan­do sca­den­ze e sal­ti orga­niz­za­ti­vi pro­iet­ta­ti sem­pre sul­la dimen­sio­ne di mas­sa. Da que­sto deri­va la limi­ta­tez­za, oggi­gior­no, di un sem­pli­ce copia-incol­la del­le pra­ti­che e del­le paro­le d’ordine mes­se in cam­po in que­gli anni, pro­prio per­ché la loro effi­ca­cia è col­lo­ca­ta spe­ci­fi­ca­men­te in un tem­po, in un ter­ri­to­rio e in una com­po­si­zio­ne dap­pri­ma ana­liz­za­ti, inchie­sta­ti, stu­dia­ti, e in segui­to agi­ti, in un qua­dro di con­ti­nua for­ma­zio­ne, scom­mes­sa e mes­sa a veri­fi­ca – ed, even­tual­men­te, in discus­sio­ne – del­le ipo­te­si poli­ti­che. Per­ché è solo in que­sta cir­co­la­ri­tà che il mino­ri­ta­ri­smo, al tem­po stes­so pro­dro­mo e con­se­guen­za del­la ste­ri­le e com­pia­ciu­ta auto­re­fe­ren­zia­li­tà, può lasciar posto alla mino­ran­za a voca­zio­ne mag­gio­ri­ta­ria.
Que­sto ele­men­to, peral­tro, apre lo spa­zio per un’ulteriore, fina­le rifles­sio­ne: ripor­ta­to solo a mar­gi­ne del rac­con­to di Gia­co­mo e Pie­ro, il tema del­la soli­tu­di­ne sem­bra inve­ce esse­re quel­lo che più di tut­ti toc­ca le cor­de dell’attualità e del nostro «gio­va­ne mili­tan­te». E que­sto innan­zi­tut­to per­ché, fuor di reto­ri­ca e lon­ta­no dai luo­ghi comu­ni del­la sno­w­fla­ke gene­ra­tion, la soli­tu­di­ne è dav­ve­ro un trat­to carat­te­riz­zan­te del­la nostra gene­ra­zio­ne: alle­va­ti nell’epoca del­la più esa­spe­ra­ta ato­miz­za­zio­ne, nascia­mo in un mon­do – quel­lo capi­ta­li­sta – in cui alle aspet­ta­ti­ve sul futu­ro espo­nen­zial­men­te decre­scen­ti cor­ri­spon­do­no, para­dos­sal­men­te, rit­mi di vita sem­pre più ser­ra­ti, acce­le­ra­ti o dal debi­to mora­le ver­so i pro­pri geni­to­ri e quin­di dall’esigenza di far frut­ta­re l’investimento-università in un mon­do del lavo­ro iper-indi­vi­dua­liz­za­to o, banal­men­te ma non trop­po, dal­le esi­gen­ze mate­ria­li, per poi appro­da­re a un altro mon­do – quel­lo mili­tan­te – in tota­le cri­si. Se ci aggiun­gia­mo anche un loc­k­do­wn nazio­na­le, pos­sia­mo sere­na­men­te con­sta­ta­re che non par­tia­mo gran­ché avvan­tag­gia­ti. Insom­ma, com­pa­gni e com­pa­gne, è nor­ma­le sen­tir­si soli. Tan­to su un pia­no indi­vi­dua­le e sog­get­ti­vo – la soli­tu­di­ne socia­le del­la cri­si eco­no­mi­ca – quan­to su quel­lo col­let­ti­vo – la soli­tu­di­ne poli­ti­ca del­la cri­si del­la mili­tan­za. Il pun­to, allo­ra, è capi­re come distrug­ge­re la soli­tu­di­ne pri­ma che sia lei a distrug­ge­re la sog­get­ti­vi­tà. Sì, per­ché alla fine è alla sog­get­ti­vi­tà che si ridu­ce il pro­ble­ma. Fino a ora, alla soli­tu­di­ne socia­le i mili­tan­ti han­no con­trap­po­sto una socia­li­tà defi­ni­ta come «altra» rispet­to al vacuo con­su­mo di diver­ti­men­to e di espe­rien­za offer­to dal Capi­ta­le, ma che poi di fat­to si ridu­ce a una incom­pren­si­bi­le tol­le­ran­za del­le più bie­che pul­sio­ni indi­vi­dua­li, anche e soprat­tut­to da par­te dei mili­tan­ti stes­si, in par­ti­co­la­re quel­la dell’abuso di sostan­ze. Non fate quel­la fac­cia, com­pa­gni e com­pa­gne, ché fin­ché non tro­ve­re­mo il corag­gio di affron­ta­re que­sta discus­sio­ne in tut­ta fran­chez­za non solo sta­re­mo nascon­den­do la pol­ve­re (di ogni tipo) sot­to al tap­pe­to, ma con­ti­nue­re­mo a ripro­dur­re, all’interno dei nostri ambi­ti, una sog­get­ti­vi­tà mar­cia: i mili­tan­ti, quan­do sia­no sog­get­ti­vi­tà dispo­ni­bi­li a gio­car­si inten­sa­men­te il tut­to per tut­to sui per­cor­si poli­ti­ci, han­no biso­gno di «occhi buo­ni e cer­vel­lo fine», nega­ti inve­ce da quel­le sostan­ze che per­va­do­no e strut­tu­ra­no moda­li­tà rela­zio­na­li, eti­ca e prio­ri­tà (in altre paro­le, la sog­get­ti­vi­tà) in chia­ve indi­vi­dua­li­sta.
Allo stes­so modo, alla soli­tu­di­ne poli­ti­ca non si può rispon­de­re inten­si­fi­can­do le rela­zio­ni den­tro un movi­men­to che non c’è più: avre­mo maga­ri la sen­sa­zio­ne di esse­re un po’ meno soli men­tre affo­ghia­mo ine­so­ra­bil­men­te, ma il dato fina­le resta sem­pre lo stes­so – nau­fra­gio e mor­te cer­ta. La soli­tu­di­ne poli­ti­ca, inve­ce, si com­bat­te esclu­si­va­men­te nel­la costru­zio­ne di rela­zio­ni den­tro la com­po­si­zio­ne di clas­se. Pie­ro e Gia­co­mo, nel loro rac­con­to, fan­no un para­go­ne con «La soli­tu­di­ne dei nume­ri pri­mi» del famo­so roman­zo – divi­si­bi­li solo per uno e per se stes­si – e ci dico­no che «in veri­tà i nume­ri pri­mi non sono mai soli, per­ché costi­tui­sco­no sem­pre un insie­me, e come tali van­no pen­sa­ti: 2, 3, 5, 7… È dif­fi­ci­le ricon­dur­re quel 2 sen­za il suo segui­to alla fami­glia dei nume­ri pri­mi e nes­su­no si sareb­be inte­res­sa­to al 31 se fos­se sta­to solo» (p.  131).
Ecco, com­pa­gni e com­pa­gne, fin­ché sare­mo chiu­si nel­le nostre iso­le (non così) feli­ci, sare­mo soli. Quan­do, inve­ce, affron­te­re­mo l’ignoto, lì tro­ve­re­mo la nostra fami­glia di nume­ri pri­mi.
In que­sto risie­de, in fon­do, l’importanza del rac­con­to dei fra­tel­li Despa­li: non una lezion­ci­na pater­na­li­sta, ma la rap­pre­sen­ta­zio­ne empi­ri­ca di quel meto­do che è l’Autonomia. Un meto­do che par­la di rot­tu­ra con­ti­nua con se stes­si, di scom­mes­sa, di ricer­ca per­si­sten­te del­le pos­si­bi­li­tà di attac­co, soprat­tut­to – se non esclu­si­va­men­te – su sen­tie­ri sco­no­sciu­ti. Per­ché è meglio scom­met­te­re e fal­li­re, che cul­lar­si in un’immaginaria, ste­ri­le soprav­vi­ven­za. Per­ché nel pri­mo caso sare­mo vivi, nel secon­do mor­ti – pur respi­ran­do ancora.