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di Anto­nio Bove e Fran­ce­sco Festa

Gli auto­no­mi sono sta­ti gli sco­stu­ma­ti del Movi­men­to Ope­ra­io. Refrat­ta­ri alle eti­chet­te, si sono pre­sen­ta­ti all’appuntamento con la rivo­lu­zio­ne acco­mu­na­ti, nel­la diver­si­tà che cia­scu­na espe­rien­za ter­ri­to­ria­le ha rap­pre­sen­ta­to, da una atti­tu­di­ne che sta sul fon­do. Tira­re sas­si nel­le vetra­te, seder­si a tavo­la scom­po­sti coi gomi­ti sul tova­glio­lo, sor­bi­re il bro­do col risuc­chio. Han­no capi­to a istin­to che le rego­le del­lo “sta­re com­po­sti alla tavo­la del­la rivo­lu­zio­ne” ser­vi­va­no solo a man­te­ne­re l’ordine costi­tui­to. È per quel­lo che han­no comin­cia­to a mac­chia­re le tova­glie di lino, fare pal­li­ne di pane e lan­ciar­le negli occhi dei com­men­sa­li. Scostumatezze.

Qual­che mese fa Ser­gio Bian­chi ci affi­dò il com­pi­to imma­ne di lavo­ra­re a un volu­me sull’autonomia meri­dio­na­le, una fol­lia deci­sa con la leg­ge­rez­za con cui si scel­go­no i cal­zi­ni da indos­sa­re al mat­ti­no. Deci­dem­mo di accet­ta­re nel­lo spa­zio di pochi minu­ti, tro­van­do­ci immer­si nel­la rico­stru­zio­ne di un com­ples­so mosai­co di sto­rie rispet­to al qua­le il volu­me dedi­ca­to alla sto­ria dei Col­let­ti­vi Poli­ti­ci Vene­ti per il Pote­re Ope­ra­io, nono­stan­te la distan­za geo­gra­fi­ca dal nostro ogget­to d’indagine, offre nume­ro­si spun­ti. In par­ti­co­la­re, dopo una lun­ga serie di appas­sio­na­te recen­sio­ni del volu­me, ci sem­bra inte­res­san­te pro­va­re ad allar­ga­re la rifles­sio­ne, usan­do que­sto volu­me come un deto­na­to­re, che è un modo di rico­no­sce­re la sua inci­si­vi­tà. Sia­mo gen­te sem­pli­ce, e visto che l’oggetto di Prag­ma è un “dibat­ti­to sull’autonomia”, par­tia­mo dal­le doman­de bana­li. C’è anco­ra spa­zio per l’autonomia?

Va rico­no­sciu­ta senz’altro, a quest’area poli­ti­co cul­tu­ra­le, la lon­ge­vi­tà, men­tre sono avviz­zi­te le posi­zio­ni m‑l, scal­za­te dall’accelerazione degli even­ti che ha tra­vol­to i cata­fal­chi dove ripo­sa­va­no le loro mum­mie teo­ri­che. L’autonomia come atti­tu­di­ne alla rivol­ta e insof­fe­ren­za al domi­nio, inve­ce, è dura­ta per­ché, appun­to, la sua esi­sten­za pre­scin­de dal­le sigle e dal­le for­me intor­no alle qua­li negli anni si è coa­gu­la­ta. Anzi­ché esse­re un’identità, l’autonomia è un com­por­ta­men­to che esi­ste a pre­scin­de­re dagli autonomi.

Que­sto carat­te­re ren­de ragio­ne del suo esse­re un feno­me­no mul­ti­for­me, sci­vo­lo­so anche nel­le sue espe­rien­ze più strut­tu­ra­te e orga­niz­za­te e que­sta sua natu­ra ren­de pos­si­bi­le una sua nar­ra­zio­ne sol­tan­to se lega­ta ai ter­ri­to­ri e alle loro specificità.

Que­sto insie­me di espe­rien­ze dif­fe­ren­ti, tut­ta­via, ha avu­to un ele­men­to comu­ne nel­la tra­ma di fon­do che è lo scon­tro tra il Capi­ta­le e lavo­ro, nel­le sue for­me spe­ci­fi­che in cia­scun ter­ri­to­rio. Discu­ten­do, allo­ra, di auto­no­mia dal­la nostra pro­spet­ti­va, pro­via­mo a intro­dur­re nel­la discus­sio­ne il tema dell’autonomia meri­dio­na­le, nel con­te­sto gene­ra­le italiano.

Rico­strui­re la sto­ria dell’autonomia ope­ra­ia è un’impresa che si con­trad­di­ce da sola. A con­ti fat­ti non esi­ste “una Sto­ria” ma un insie­me di vicen­de che si intrec­cia­no intor­no a even­ti, lot­te, gran­di appun­ta­men­ti e pic­co­le sto­rie per­so­na­li e col­let­ti­ve. Riguar­do al Mez­zo­gior­no la situa­zio­ne si fa più ancor più com­ples­sa per il soprag­giun­ge­re di fat­to­ri deli­nean­ti una sto­ria “a par­te” che non è di “arre­tra­tez­za”, come mol­ta cat­ti­va let­te­ra­tu­ra vuo­le far inten­de­re, ma di subal­ter­ni­tà inter­na a un pia­no gene­ra­le di sviluppo.

Nel­la nar­ra­zio­ne di cer­ta cat­ti­va sto­rio­gra­fia quan­do si par­la di Mez­zo­gior­no si fa rife­ri­men­to a un indi­stin­to agglo­me­ra­to di popo­la­zio­ni e pro­vin­ce den­tro un con­ti­nuum di vicen­de sto­ri­co-poli­ti­che defi­ni­te da un rap­por­to ver­ti­ca­le con il pote­re costi­tui­to: dall’alto ver­so il bas­so, dal­la bor­ghe­sia ai subal­ter­ni. La sto­ria, così, si fa qua­si descri­zio­ne di una Leg­ge Natu­ra­le, deter­mi­ni­smo del­le clas­si pro­prie­ta­rie e dell’intellettualità bor­ghe­se che sono inter­ve­nu­te, dal­la secon­da metà dell’Ottocento fino al lun­go Secon­do dopo­guer­ra, con l’adozione di poli­ti­che emer­gen­zia­li e con misu­re pater­na­li­sti­che. Tut­to ciò all’ombra del­la “que­stio­ne meri­dio­na­le”: una sor­ta di imma­gi­ne reto­ri­ca, depo­ten­zian­te, appic­ci­ca­ta­ci addosso.

Sca­van­do negli archi­vi di movi­men­to si tro­va una stra­ti­fi­ca­zio­ne di vis­su­ti e memo­rie spar­se da cui si evin­ce l’esistenza di un’esperienza col­let­ti­va con una pro­pria con­si­sten­za mate­ria­li­sti­ca­men­te radi­ca­ta nel­le lot­te di clas­se. L’autonomia meri­dio­na­le è esi­sti­ta in quell’ampio reti­co­lo di lot­te ope­ra­ie e socia­li che biso­gna ricom­por­re per squar­cia­re il silen­zio, toglien­do quel­la pati­na che la bor­ghe­sia meri­dio­na­le ha depo­si­ta­to con la sto­rio­gra­fia “uffi­cia­le”, sul­la qua­le ha ripro­dot­to clien­te­le, baro­nag­gio e assi­sten­zia­li­smo, cam­bian­do gat­to­par­de­sca­men­te pel­le al feu­da­le­si­mo per man­te­ne­re il pote­re. Que­sti dispo­si­ti­vi nel Sud han­no fun­zio­na­to, pri­ma, come val­vo­la di sfo­go e, poi, come con­trol­lo dei rap­por­ti di for­za tan­to nell’entroterra agri­co­lo quan­to nel­le cit­tà costie­re. Una plu­ra­li­tà di dimen­sio­ni ter­ri­to­ria­li, di sto­rie e di cul­tu­re sul­le qua­li, per eser­ci­tar­vi ege­mo­nia, gli intel­let­tua­li bor­ghe­si han­no costrui­to l’icona del­la macro­re­gio­ne indif­fe­ren­zia­ta: il Sud Ita­lia. Del resto, il discor­so bor­ghe­se non fa che sem­pli­fi­ca­re la com­ples­si­tà in modo da eser­ci­ta­re la pro­pria vio­len­za di classe.

Da dove par­ti­re, quin­di, per riper­cor­re­re i fili di una sto­ria dell’autonomia? E cos’è l’autonomia ope­ra­ia meri­dio­na­le? Per pro­va­re a rispon­de­re biso­gna sca­va­re den­tro i fram­men­ti, trac­cia­re una car­to­gra­fia tema­ti­ca e ripen­sa­re l’idea stes­sa di Mez­zo­gior­no per libe­rar­se­ne defi­ni­ti­va­men­te, pren­de­re distan­za dal pie­ti­smo meri­dio­na­li­sti­co e dal mar­xi­smo sto­ri­ci­sta: la linea del pro­gres­so in asce­sa con il timo­ne ret­to dal­la bor­ghe­sia illu­mi­na­ta, sen­za la qua­le il Sud sareb­be ostag­gio di laz­za­ri, ple­ba­glia e lum­pen­pro­le­ta­riat. Linea che ha segna­to, per oltre cinquant’anni, l’azione poli­ti­ca e cul­tu­ra­le del PCI.

In real­tà, guar­dan­do a Sud è un tema par­ti­co­lar­men­te inte­res­san­te quel­lo del­la rela­zio­ne fra i mili­tan­ti rivo­lu­zio­na­ri e le rivol­te non pro­pria­men­te ope­ra­ie e, soprat­tut­to, con quei “grup­pi socia­li subal­ter­ni”, per dir­la con Gram­sci: un insie­me spu­rio di pro­le­ta­ria­to e sot­to­pro­le­ta­ria­to. In tal sen­so la rivol­ta di Reg­gio Cala­bria del 1970 è sta­ta para­dig­ma­ti­ca dell’incapacità, per mol­te for­ma­zio­ni poli­ti­che a par­te Lot­ta Con­ti­nua, di leg­ger­vi un con­te­sto deter­mi­na­to dagli inte­res­si di clas­se di quel “sot­to­pro­le­ta­ria­to” che i Nuclei Arma­ti Pro­le­ta­ri han­no poi indi­vi­dua­to come la clas­se rivo­lu­zio­na­ria del meri­dio­ne ita­lia­no, un tema sen­za il qua­le com­pren­de­re quel­lo che è acca­du­to e anco­ra acca­de dal­le nostre par­ti è impossibile.

Par­tia­mo, quin­di, da que­gli anni in cui si inne­sta sul­la sog­get­ti­vi­tà di clas­se la pos­si­bi­li­tà dell’autonomia ope­ra­ia e in quel momen­to che si rav­vi­sa­no, anche nel Mez­zo­gior­no, un ciclo nuo­vo del­le lot­te di clas­se che non sono una rica­du­ta sul­la cit­tà di quel­lo che acca­de in fab­bri­ca e, soprat­tut­to, non sono l’effetto del­la lot­ta di clas­se pro­dot­ta­si nel Nord del Pae­se. Nel perio­do, poi, che va dal ’69 al ’74 si situa­no even­ti signi­fi­ca­ti­vi, fra cui a Napo­li il cole­ra nell’estate ’73 e le mol­te­pli­ci lot­te spon­ta­nee in tut­to il Sud: non solo Reg­gio Cala­bria ma la rivol­ta dei brac­cian­ti di Avo­la, quel­la di Bat­ti­pa­glia, Castel­lam­ma­re. In que­gli anni si osser­va l’emersione di un’inedita com­po­si­zio­ne socia­le den­tro cui matu­ra­no le con­di­zio­ni per lo svi­lup­po di radi­ca­li e mas­si­ve lot­te in cui inte­ri set­to­ri socia­li, rite­nu­ti fino allo­ra di secon­do pia­no nel­la vita poli­ti­ca, si affer­ma­va­no fran­tu­man­do il pesan­te sco­glio del­le pater­ni­tà poli­ti­che e del­le diri­gen­ze nel­le lot­te. Que­sti set­to­ri non appar­te­ne­va­no alla fab­bri­ca, ma si era­no resi atti­vi, a Napo­li, sin da dopo l’epidemia cole­ri­ca con le lot­te con­tro l’aumento del costo del pane, con­fi­gu­ran­do una “com­po­si­zio­ne di clas­se urba­na”, altra inter­pre­ta­zio­ne di quel­lo che era l’operaio socia­le, den­tro cui risie­do­no i carat­te­ri pecu­lia­ri del­la lot­ta di clas­se napo­le­ta­na di que­gli anni. E que­sti dati di com­po­si­zio­ne sono ben pre­sen­ti alle avan­guar­die ope­ra­ie e ai grup­pi poli­ti­ci che ope­ra­no in cit­tà den­tro un ter­re­no socia­le nuo­vo per la tra­di­zio­ne marxista–leninista. Nasco­no così espe­ri­men­ti poli­ti­ci di sog­get­ti­va­zio­ne di set­to­ri del pro­le­ta­ria­to estra­nei alla cen­tra­li­tà ope­ra­ia di fab­bri­ca come i Disoc­cu­pa­ti Orga­niz­za­ti o l’esperienza dei Comi­ta­ti di Quar­tie­re, che costrui­sco­no i momen­ti più alti del­la lot­ta dai pri­mi anni ’70 in poi. Chi non lo capi­sce e resta anco­ra­to alla “cen­tra­li­tà del­la fab­bri­ca”, si dissolve.

Dun­que, gli auto­no­mi meri­dio­na­li non ebbe­ro la fab­bri­ca come ele­men­to cen­tra­le del pro­prio inter­ven­to poli­ti­co, né tan­to­me­no il sog­get­to cen­tra­le del­la loro azio­ne fu l’operaio del­la cate­na di mon­tag­gio, ben­sì lo spa­zio era la dimen­sio­ne urba­na e i sog­get­ti di rife­ri­men­to era­no anno­ve­ra­bi­li in una spe­ci­fi­ca for­ma di ope­ra­io socia­le qua­le pro­dot­to del­la sus­sun­zio­ne rea­le del­la cit­tà al capi­ta­le. L’intervento poli­ti­co degli auto­no­mi, per­tan­to, in par­ti­co­la­re di quel­li napo­le­ta­ni, all’interno di que­sta com­po­si­zio­ne socia­le fu quel­lo di svi­lup­pa­re un prin­ci­pio del pri­mis­si­mo ope­rai­smo di Ranie­ro Pan­zie­ri: “apri­re e tene­re aper­to il movi­men­to”. Ossia il ten­ta­re di atti­va­re tut­te le leve poli­ti­co-socia­li e di con­tro­in­for­ma­zio­ne per man­te­ne­re quan­to più pos­si­bi­le il pun­to d’attacco dei movi­men­ti socia­li: accu­mu­la­re quan­ta più for­za tra­mi­te le lot­te socia­li per allon­ta­na­re il momen­to del riflus­so; pro­dur­re socia­li­tà nuo­ve e con­so­li­da­re gli inte­res­si dei movi­men­ti di clas­se, pro­van­do a far pen­de­re i rap­por­ti di for­za a favo­re del­le clas­si subal­ter­ne. In que­sti pas­sag­gi abbia­mo una tra­du­zio­ne meri­dia­na dell’operaismo: pri­ma i movi­men­ti di clas­se e poi il capi­ta­le; pri­ma gli inte­res­si di clas­se in modo da rifug­gi­re allo spa­zio del­la nor­ma­li­tà, alla tem­pi­sti­ca del lavo­ro e, dun­que, al recu­pe­ro del capitale.

Sem­bra para­dos­sa­le che pro­prio la “rivo­lu­zio­ne coper­ni­ca­na” di Tron­ti pos­sa esse­re uno stru­men­to uti­lis­si­mo a leg­ge­re quel­la sta­gio­ne che ha visto in Napo­li un labo­ra­to­rio. Se, come soste­ne­va­no gli ope­rai­sti, il pun­to di vista ope­ra­io non è nien­te di meno che lo sguar­do sul pro­ces­so gene­ra­le da par­te di chi sta nel pun­to più alto del­lo svi­lup­po capi­ta­li­sti­co, la clas­se ope­ra­ia, biso­gna lavo­ra­re per defi­nir­ne le muta­zio­ni, la cor­ret­ta fisio­no­mia nel­la dina­mi­ca del­lo svi­lup­po e nel suo attra­ver­sa­re i ter­ri­to­ri. Un attra­ver­sa­men­to che è sem­pre ambi­va­len­te, den­tro cui si tra­sfor­ma­no e si adat­ta­no i sog­get­ti socia­li ma anche i pro­ces­si pro­dut­ti­vi. Cia­scu­no secon­do le sue neces­si­tà di soprav­vi­ven­za. “Sol­tan­to a livel­lo di clas­se ope­ra­ia si può par­la­re in sen­so spe­ci­fi­co di pro­ces­so rivo­lu­zio­na­rio, di rivo­lu­zio­ne, di rot­tu­ra rivo­lu­zio­na­ria” ma la clas­se “ope­ra­ia”, nel­le metro­po­li e nei ter­ri­to­ri stra­vol­ti dal capi­ta­li­smo del­la cri­si non è solo quel­la del­la linea di mon­tag­gio, anzi, a Napo­li e in tut­to il Mez­zo­gior­no que­sto para­dig­ma non reg­ge. Quell’approccio che ha rilet­to il mar­xi­smo fian­co a fian­co all’operaio mas­sa è vis­su­to den­tro le lot­te del pro­le­ta­ria­to urba­no che si è sog­get­ti­va­to rico­no­scen­do­si “ope­ra­io”: sog­get­to da cui si estrae plu­sva­lo­re nel ciclo pro­dut­ti­vo este­so alla metro­po­li, e quin­di pro­prio come l’operaio mas­sa ha comin­cia­to a lot­ta­re con­tro se stes­so, con­tro la sua con­di­zio­ne di for­za lavo­ro alie­na­ta, estra­nea alla pro­du­zio­ne di mer­ci e sfrut­ta­ta dal­la tem­pi­sti­ca del­la valo­riz­za­zio­ne capi­ta­li­sti­ca. Pro­prio come l’operaio mas­sa che era, poi, l’emigrante sra­di­ca­to dal­le pro­vin­ce meri­dio­na­li, il con­ta­di­no, il brac­cian­te espul­so dal­le ter­re del­la Rifor­ma agra­ria, strap­pa­te gra­zie alle sue lot­te con­tro il lati­fon­do e i “galan­tuo­mi­ni”. Que­sta epo­pea tri­ste­men­te ter­mi­na­ta è ini­zia­ta un seco­lo pri­ma con la “nasci­ta del­la colo­nia”, per dir­la con Nico­la Zita­ra, e con la sud­di­vi­sio­ne di clas­se fra un Nord indu­stria­liz­za­to e un Sud agri­co­lo, sacri­fi­ca­to per l’accumulazione ori­gi­na­ria del pro­ces­so di svi­lup­po settentrionale.

L’operaismo è onto­lo­gi­ca­men­te un pun­to di vista di par­te, una cas­set­ta degli attrez­zi cui ha attin­to – chi più chi meno – tut­ta l’area dell’autonomia ope­ra­ia. E que­sto ren­de obiet­ti­va­men­te impor­tan­te leg­ge­re le sto­rie dell’autonomia den­tro le loro spe­ci­fi­ci­tà ma in con­te­sto che ne ren­da evi­den­ti i lega­mi fra le dif­fe­ren­ti sto­rie. Fra colo­ro che più han­no attin­to a quel­la riser­va di idee, comun­que, ci sono cer­ta­men­te i CPV. Esem­pla­re è il rac­con­to dei Despa­li nel riper­cor­rer­ne l’uso e, prim’ancora, nel det­ta­glia­re la genea­lo­gia dell’operaismo alla pro­va del­la nuo­va com­po­si­zio­ne di clas­se oltre il for­di­smo: l’operaio socia­le. Que­sta let­tu­ra get­ta in qual­che modo un pon­te tra l’esperienza vene­ta e quel­la napo­le­ta­na, pur nel­la diver­si­tà di approc­ci e moda­li­tà di orga­niz­za­zio­ne poli­ti­ca che, comun­que, apro­no lo spa­zio poli­ti­co di una sog­get­ti­vi­tà nuo­va, intui­ta, non com­pre­sa fino in fon­do ma incro­cia­ta in due espe­rien­ze dif­fe­ren­ti. Due dei tan­ti vol­ti dell’operaio socia­le che non è uno spac­ca­to di clas­se omo­ge­neo ma la nuo­va sog­get­ti­vi­tà mul­ti­for­me che si mani­fe­sta den­tro la ristrut­tu­ra­zio­ne capi­ta­li­sti­ca. E che ha fisio­no­mie diver­se a Pado­va e a Napo­li, pro­dot­ti dal­la stes­sa cri­si su ter­ri­to­ri differenti.

Tut­ta­via c’è un vul­nus in que­sta geo­gra­fia, un cor­to­cir­cui­to nel para­dig­ma ope­rai­sta. Esso è situa­to nel­le pro­vin­ce meri­dio­na­li. Le spe­ci­fi­ci­tà dell’operaismo van­no rimo­du­la­te attra­ver­so i com­por­ta­men­ti e le sog­get­ti­vi­tà dell’autonomia meri­dio­na­le: in par­ti­co­la­re, rispet­to alla com­po­si­zio­ne di clas­se di quei ter­ri­to­ri e rispet­to ai pro­ces­si di pro­du­zio­ne e alla valo­riz­za­zio­ne com­ples­si­va­men­te del­le comunità.

Det­to fuo­ri dai den­ti: l’operaismo qua­le meto­do d’intervento nell’autonomia di clas­se è nato nel Nord Ita­lia, sot­to i can­cel­li del­le fab­bri­che del “trian­go­lo indu­stria­le”, in par­ti­co­la­re a Mira­fio­ri con al cen­tro l’operaio mas­sa, gio­va­ne meri­dio­na­le “depor­ta­to” per soste­ne­re lo svi­lup­po capi­ta­li­sti­co dei glo­rio­si trent’anni del for­di­smo; e, poi, è sta­to uti­liz­za­to nell’analisi del­la com­po­si­zio­ne di clas­se metro­po­li­ta­na degli anni ‘70, nell’analisi del­la com­po­si­zio­ne tec­ni­ca e del­la com­po­si­zio­ne poli­ti­ca dell’operaio socia­le espul­so dal­la fab­bri­ca e sus­sun­to nei pro­ces­si di valo­riz­za­zio­ne del­la metro­po­li. “L’operaismo – come dice Lan­fran­co Cami­ni­ti – appar­te­ne­va a pro­ces­si di for­ma­zio­ne, era una cas­set­ta degli attrez­zi con­cet­tua­li – non esi­ste una ‘tra­di­zio­ne teo­ri­ca’ ope­rai­sta al Sud, né una ‘tra­du­zio­ne’”.

Posta così la fac­cen­da sareb­be chiu­sa e, di con­se­guen­za, l’autonomia meri­dio­na­le sareb­be un’anomalia, un’etichetta inven­ta­ta e affib­bia­ta a chi non si rifa­ce­va né alle for­ma­zio­ni del­la sini­stra extra­par­la­men­ta­re, né ai grup­pi m‑l, né tan­to­me­no a satel­li­ti del Pci. Al con­tra­rio, esi­sto­no del­le spe­ci­fi­ci­tà dell’autonomia meri­dio­na­le che l’operaismo, qua­le attrez­zo assai poco dut­ti­le nell’interpretare e nell’intervenire nel­la com­po­si­zio­ne di clas­se meri­dio­na­le non sem­pre è riu­sci­to a coglie­re, se non nel­la sua tra­sfor­ma­zio­ne che è sta­ta ope­ra­ta dai mili­tan­ti immer­si nei loro ter­ri­to­ri di lot­ta. In quel Mez­zo­gior­no che si vole­va nar­co­tiz­za­to sor­se­ro col­let­ti­vi auto­no­mi che die­de­ro vita a rivi­ste, pam­phlet e gior­na­li con una dif­fu­sio­ne loca­le e regio­na­le al rit­mo di un “noma­di­smo mili­tan­te” che por­ta­va gli auto­no­mi meri­dio­na­li su e giù per pae­si e pro­vin­ce inse­guen­do le lot­te ope­ra­ie e socia­li. Quel­la immu­ta­bi­le sta­ti­ci­tà, cui lo Sta­to con­ti­nua­va a inchio­da­re il Sud, veni­va rot­ta dai cam­peg­gi auto­ge­sti­ti e dai festi­val con­tro-cul­tu­ra­li, come quel­lo di Lico­la (NA) del ‘75 o dal­le lot­te che nel­lo svol­ger­si rie­vo­ca­va­no lo spet­tro del­le gesta dei bri­gan­ti dell’Ottocento, a suon di sol­le­va­zio­ni e poi di cac­cia­te di pre­ti, poli­ti­ci e padro­ni come a Gri­so­lia (CS) nel ’78.

Que­sti trat­ti li abbia­mo rin­ve­nu­ti, più recen­te­men­te, nel­le lot­te con­tro i rifiu­ti in Cam­pa­nia oppu­re nel­la rivol­ta luca­na con­tro l’insediamento del­le sco­rie nuclea­ri a Scan­za­no Joni­co in cui la for­za del­la sol­le­va­zio­ne si è ret­ta su paro­le d’ordine pre­ci­se: auto­no­mia dai pote­ri costi­tui­ti qua­le ter­mi­ne di inter­ven­to poli­ti­co e autor­ga­niz­za­zio­ne come meto­do. Eppu­re una vol­ta vin­te quel­le bat­ta­glie, la poli­ti­ca è rien­tra­ta nell’alveo del­la stes­sa demo­cra­zia bor­ghe­se, come se l’opzione anta­go­ni­sta non fos­se cre­di­bi­le di dive­ni­re orga­niz­za­zio­ne e nuo­vo pote­re costituente.

Die­tro que­sta inca­pa­ci­tà a dive­ni­re pote­re costi­tuen­te vi è sta­ta un’incapacità del­le e dei compagne/​i a pen­sar­si in pie­na auto­no­mia. Det­to altri­men­ti: con debi­te pro­por­zio­ni e dif­fe­ren­ze, anche nel­la nostra par­te ha fun­zio­na­to una sor­ta di orien­ta­li­smo inter­no, sia nel come è sta­to per­ce­pi­to il Sud, sia nel come le/​i compagne/​i si sia­no visti. Ne è segui­ta, dun­que, una nar­ra­zio­ne di rifles­so, pri­va di auto­no­mia e spe­ci­fi­ci­tà rela­ti­va­men­te alle lot­te socia­li meri­dio­na­li. Ten­ta­ti­vi di eman­ci­par­si dai model­li impor­ta­ti dal Nord Ita­lia ed Euro­pa sono sta­ti posti in esse­re. Ad esem­pio, nei pri­mi anni 2000, alcu­ne orga­niz­za­zio­ni dell’antagonismo socia­le meri­dio­na­le han­no dato vita alla Rete del Sud Ribel­le, un coor­di­na­men­to inter­rot­to nel 2002 dai repar­ti spe­cia­li anti­ter­ro­ri­smo per un’assurda accu­sa di cospi­ra­zio­ne poli­ti­ca e asso­cia­zio­ne sov­ver­si­va fini­ta die­ci anni dopo nel nul­la. Negli anni suc­ces­si­vi, par­te di que­ste orga­niz­za­zio­ni han­no dato vita a un luo­go di rifles­sio­ne e di ricer­ca mili­tan­te nel­la rete di Oriz­zon­ti meri­dia­ni: una rete di rifles­sio­ne teo­ri­ca sul­la pos­si­bi­li­tà di costru­zio­ne di un pen­sie­ro meri­dio­na­li­sti­co in Ita­lia con alcu­ni semi­na­ri e una pubblicazione[1]. L’incapacità di strut­tu­ra­zio­ne su lun­go perio­do di que­ste ini­zia­ti­ve meri­dio­na­li altro non è che lo spec­chio di una dif­fi­col­tà epi­ste­mo­lo­gi­ca a pen­sar­si e pen­sa­re auto­no­ma­men­te con uno sguar­do rivol­to al Sud, sen­za affi­dar­si a intel­let­tua­li, for­mu­le e pac­chet­ti già pre­con­fe­zio­na­ti in altri luo­ghi e territori.

Nel tem­po que­sta inca­pa­ci­tà è sta­ta intro­iet­ta­ta fun­zio­nan­do come un tar­lo tan­to capar­bio da destrut­tu­ra­re ogni ten­ta­ti­vo di dare for­ma e orga­niz­za­zio­ne ai movi­men­ti di lot­ta: seb­be­ne la ten­sio­ne del­le e dei mili­tan­ti sia sta­ta sem­pre quel­la di accu­mu­la­re poten­za e di tene­re aper­to il movi­men­to tra­mi­te azio­ni e momen­ti di coa­gu­lo, con­sci dell’imminente riflus­so del­la lot­ta, anzi­ché imma­gi­nar­se­ne una pro­ces­sua­li­tà di lun­go perio­do. Infat­ti, non sia­mo mai riu­sci­ti a tra­dur­re l’iniziativa di lot­ta in con­tro­po­te­re orga­niz­za­to; e que­sto limi­te sto­ri­co insie­me alla mol­ti­pli­ca­zio­ne di dif­fe­ren­ze fra le strut­tu­re poli­ti­che han­no pro­vo­ca­to fran­tu­ma­zio­ni insa­na­bi­li e inca­pa­ci­tà depo­ten­zian­ti qual­sia­si poli­ti­ca rivo­lu­zio­na­ria. Repres­sio­ne poli­zie­sca e inchie­ste giu­di­zia­rie han­no chiu­so il cer­chio attor­no alle for­me di con­tro­po­te­re nei ter­ri­to­ri e quel vuo­to è sta­to col­ma­to, da una par­te, dal­le for­ma­zio­ni poli­ti­co-cri­mi­na­li, e dall’altra dai par­ti­ti e dal­lo Sta­to ripri­sti­nan­do il discor­so in un ordi­ne già visto: assi­sten­zia­li­smo e clien­te­li­smo in cam­bio di voti e lavoro.

Nel loro rac­con­to, le/​i compagne/​i venete/​i fan­no giu­sta­men­te nota­re come quell’operaio socia­le diven­ti, nel­la cri­si e nel­la scon­fit­ta poli­ti­ca, l’uomo del­la Lega. Descri­zio­ne para­dig­ma­ti­ca che resti­tui­sce l’idea di un pro­ces­so rea­le. Un qual­co­sa di simi­le nel­la sua dina­mi­ca, e dif­fe­ren­te com’è ovvio nei suoi risul­ta­ti, suc­ce­de a Napo­li quan­do il movi­men­to per­de ter­re­no e si sfal­da. Quei pro­le­ta­ri e sot­to­pro­le­ta­ri napo­le­ta­ni che, come le avan­guar­die vene­te devo­no cam­pa­re, si orga­niz­za­no in tal sen­so, defluen­do ver­so dif­fe­ren­ti scel­te sog­get­ti­ve, tra cui quel­la del­la cri­mi­na­li­tà orga­niz­za­ta, che in que­gli anni diven­ta un’industria moder­na ed effi­cien­te. Oggi quel­la con­fi­gu­ra­zio­ne di clas­se, nuo­va per l’epoca e per­ciò poco com­pre­sa dai rivo­lu­zio­na­ri “bene­du­ca­ti” si mostra in tut­ta la sua niti­da figu­ra e tro­va­re una meto­do­lo­gia di approc­cio, teo­ri­ca ma anche pra­ti­ca è un ele­men­to cen­tra­le. Rispet­to alla que­stio­ne dell’operaio socia­le è chia­ro che vada rico­strui­ta una rifles­sio­ne fina­liz­za­ta in pri­mis alla pie­na com­pren­sio­ne di que­sta figu­ra di dif­fi­ci­le inqua­dra­men­to. Lo sfor­zo ana­li­ti­co e l’iniziativa poli­ti­ca degli anni ‘70, in Vene­to come a Mila­no e a Napo­li, han­no avvia­to ma non han­no asso­lu­ta­men­te con­clu­so quel per­cor­so. La sua figu­ra è sta­ta inter­cet­ta­ta, incro­cia­ta; e pen­sa­re che quel­le intui­zio­ni feli­ci, quell’iniziativa poli­ti­ca sia­no sta­te defi­ni­ti­ve sareb­be un erro­re colos­sa­le. In quel­la fase le/​i compagne/​i venete/​i han­no anti­ci­pa­to sul ter­re­no del­la poli­ti­ca pra­ti­ca quel­lo che poi l’analisi teo­ri­ca ha affron­ta­to in segui­to. Ed è vero. Com’è vero che a Napo­li, dove quel­la figu­ra nel­la sua con­trad­dit­to­rie­tà rap­pre­sen­ta ancor oggi l’elemento cen­tra­le del­la geo­gra­fia socia­le metro­po­li­ta­na, la stes­sa anti­ci­pa­zio­ne rispet­to all’analisi teo­ri­ca è sta­ta effet­tua­ta da quel­le e quei mili­tan­ti sor­pren­den­te­men­te pro­ve­nien­ti tut­ti dall’area m‑l, che han­no dato vita alla sta­gio­ne del­la rivol­ta par­te­no­pea. Una rivol­ta con con­no­ta­zio­ni “lum­pen” che ne han­no carat­te­riz­za­to la viva­ci­tà, la vio­len­za e anche gli enor­mi erro­ri di pro­spet­ti­va poli­ti­ca. Eppu­re è pro­prio que­sto nuo­vo modo di vede­re la clas­se che ha costi­tui­to una pro­spet­ti­va di rot­tu­ra, che anco­ra oggi desta inte­res­se, que­sta sco­stu­ma­tez­za di irri­de­re le sacre cer­tez­ze del­la fede mar­xi­sta e ren­der­si capa­ci di attra­ver­sa­re la real­tà facen­do­si anche tra­sfor­ma­re da essa.

E’ pro­prio così: pri­ma che su quel­le figu­re socia­li che anco­ra oggi nell’affermare i pro­pri biso­gni dan­no la linea, più e meglio di qual­sia­si polit­bu­ro fuo­ri tem­po mas­si­mo, biso­gna inter­ve­ni­re su noi stes­si, sul­la capa­ci­tà di tra­sfor­mar­ci per inter­cet­tar­le. I CPV anti­ci­pa­ro­no quel­la com­po­si­zio­ne socia­le nuo­va per­ché ci sta­va­no coi pie­di den­tro. Lo stes­so è suc­ces­so a Napo­li negli anni ’70, non riu­scen­do, però, a dare una for­ma anche tran­si­to­ria che riu­scis­se a com­pren­de­re quel­la rivol­ta mul­ti­for­me che emer­ge­va dai bas­si­fon­di del­la cit­tà e che pro­ba­bil­men­te era trop­po ric­ca per esse­re com­pre­sa e inter­pre­ta­ta a pieno.

Alla fine di que­ste note ci ritro­via­mo con una serie di idee e una miria­de di doman­de, al di là del­le que­stio­ni meto­do­lo­gi­che. Che fare? Che far(n)e, di tut­te que­ste memo­rie? Attra­ver­sia­mo un tem­po tri­ste, distan­te da quel­le vicen­de che pro­via­mo a rac­con­ta­re. Se è fini­to un perio­do sto­ri­co, però, è sem­pre viva e urgen­te la “doman­da poli­ti­ca”. Il disfa­ci­men­to del tes­su­to poli­ti­co, ordi­to in una tra­ma per tut­ti gli anni ‘90 e mani­fe­sta­to­si nel­la sua ener­gia e nei suoi enor­mi limi­ti nel Mar­zo 2001 a Napo­li e nel Luglio suc­ces­si­vo a Geno­va, è com­ple­to. Un fat­to­re deter­mi­nan­te è sta­ta sicu­ra­men­te la dura repres­sio­ne ma anche l’inadeguatezza di quell’esperienza al livel­lo di scon­tro con il pote­re. Le ener­gie poli­ti­che sono sta­te poi impie­ga­te per difen­der­ci dai teo­re­mi ordi­ti con­tro il movimento.

Quel­la sta­gio­ne con­te­ne­va nume­ro­se intui­zio­ni feli­ci ma anche l’arretratezza di strut­tu­re che era­no pie­na­men­te coi pie­di nel ter­re­no sab­bio­so del peg­gio­re ‘900. È da quel­la posi­zio­ne sco­mo­da che sono venu­te fuo­ri il tat­ti­ci­smo esa­spe­ra­to, la pre­do­mi­nan­za del ceto poli­ti­co rispet­to all’energia che veni­va da inte­ri set­to­ri di clas­se coin­vol­ti in mas­sa per la pri­ma vol­ta dopo anni, e una man­can­za di orga­niz­za­zio­ne che, anco­ra una vol­ta, ha offer­to il pet­to nudo di quel movi­men­to alla fal­ce del­lo Sta­to. I Social Forum sono mor­ti per quel­lo: era­no diven­ta­ti par­la­men­ti­ni den­tro cui si agi­va la tat­ti­ca camuf­fa­ta da stra­te­gia che ha annac­qua­to il ter­re­no del­la pro­po­sta politica.

La situa­zio­ne attua­le è diret­ta­men­te figlia di que­gli erro­ri. Biso­gna tro­va­re il corag­gio di dire a noi stes­si che i mor­ti sono le nostre for­me orga­niz­za­ti­ve, in mol­ti casi for­me ibri­de di sta­li­ni­smo spruz­za­te di movi­men­to. È defun­ta la vec­chia ipo­te­si “entri­sta” che si è fat­ta stra­da fra ampi set­to­ri di quel movi­men­to dopo la scon­fit­ta pro­du­cen­do risul­ta­ti disa­stro­si, annac­qua­ti den­tro la bro­da­glia del­la tat­ti­ca di soprav­vi­ven­za come uni­co oriz­zon­te possibile.

Fuo­ri da tut­to ciò il ter­re­no del­lo scon­tro è sem­pre vivo e le con­di­zio­ni di lot­ta, che sono nume­ro­se, sono l’ambito nel qua­le si può scor­ge­re “la linea”. Negli ulti­mi vent’anni le lot­te di clas­se in Ita­lia e in tut­to il Sud sono pro­se­gui­te fre­gan­do­se­ne del­le dia­tri­be tra for­ma­zio­ni poli­ti­che. Le con­di­zio­ni del­lo sfrut­ta­men­to sono dive­nu­te sem­pre più inso­ste­ni­bi­li; la com­po­si­zio­ne di clas­se ha visto la pre­sen­za di nuo­ve figu­re socia­li, ancor più, impo­ve­ri­te e sfrut­ta­te, come le/​i migran­ti. Men­tre, ogni ambi­to dell’esistenza è sta­to sot­to­po­sto alla valo­riz­za­zio­ne sen­za che leg­ge del valo­re lavo­ro pos­sa misu­rar­ne lo sfrut­ta­men­to e dedur­ne tas­si sala­ria­li ruba­ti con la vio­len­za di clas­se. I con­flit­ti han­no infat­ti una con­si­sten­za bio­po­li­ti­ca: risie­do­no al di fuo­ri dei peri­me­tri lavo­ra­ti­vi, dove la sto­ria dell’autonomia di clas­se ha mos­so i pri­mi passi.

Nel­la socie­tà e, spe­ci­fi­ca­men­te, nel­lo spa­zio urba­no mol­to spes­so non sia­mo pre­sen­ti, chiu­si nel­le nostre nic­chie iden­ti­ta­rie o in un pas­sa­to che non vuo­le pas­sa­re. Tal­vol­ta igno­ria­mo l’esistenza di micro­con­flit­tua­li­tà; altre vol­te, quan­do i con­flit­ti affio­ra­no, vi giun­gia­mo in ritar­do e, spes­so, dopo neo­fa­sci­sti e/​o leghi­sti. Ciò non­di­me­no, i com­por­ta­men­ti e le con­dot­te dei con­flit­ti urba­ni han­no un carat­te­re ambi­va­len­te e auto­no­mo: ossia, pos­so­no pren­de­re diver­se stra­de e si pre­sen­ta­no osti­li a isti­tu­zio­ni e par­ti­ti. Sono le con­dot­te spu­rie del neo­li­be­ri­smo rea­zio­na­rio. E sono anche le ten­den­ze da deci­fra­re: le ten­den­ze di cui non sia­mo capa­ci di ana­liz­za­re i movi­men­ti tel­lu­ri­ci; diver­sa­men­te dai pri­mi ope­rai­sti, agli ini­zi dei ’60, al cospet­to dell’emigrante meri­dio­na­le e del­la “rude raz­za paga­na”, fie­ri poi di affer­ma­re davan­ti alla rivol­ta di Piaz­za Sta­tu­to: “non ce l’aspettavamo, ma l’abbiamo orga­niz­za­ta”. Oggi, l’autonomia esi­ste anche sen­za gli auto­no­mi, è col­pa nostra se sia­mo in ritardo.

[1] Oriz­zon­ti meri­dia­ni (a cura di), Bri­gan­ti o emi­gran­ti. Sud e movi­men­ti fra con­ri­cer­ca e stu­di subal­ter­ni, ombre cor­te, Vero­na 2015.