Da «pre-print 1/4», supplemento al n. 0 di «Metropoli», 1978 Roma
di Franco Piperno
Chiamiamo autonomia la forma politica dentro cui si esprime e cresce il movimento del lavoro non-operaio. Si intende per lavoro non-operaio sia il lavoro indirettamente produttivo, sia il lavoro produttivo le cui prestazioni prescindono dalla modificazione – più o meno meccanizzata – della merce.
Questo segmento di forza-lavoro si caratterizza per essere la materiale articolazione dell’«intelletto generale» nel senso che solo a partire dalla sua presenza dentro il flusso produttivo allargato, il lavoro vivo assume la forma di attività generalmente e compiutamente sociale, attività in sé conclusa, che non ha bisogno di alcun «fattore esterno» per dispiegare nella sua interezza la potenza del lavoro come allargamento indefinito della ricchezza o, se si vuole, del processo di riproduzione sociale.
In questo senso, il lavoro non-operaio – nel suo congiungersi al lavoro operaio, continuamente innovandolo e riducendolo – dà al lavoro sociale una dimensione di attività autonoma già dentro il processo di riproduzione capitalistico.
La via maestra attraverso cui questa «autonomizzazione» avviene è certamente quella che potremmo chiamare di «incorporamento» della forza produttiva-scienza dentro la forza-lavoro, fino a dar luogo a un vero processo di sostituzione.
L’aspetto più significativo, a livello di rapporti di produzione, è quello di riappropriazione da parte del lavoro vivo della «potenza» e della «socialità» con cui il capitale – in quanto soggetto di «scienza» – si presenta dentro il processo di produzione e riproduzione sociale. Infatti, quando il coordinamento e l’innovazione produttiva hanno luogo via l’impiego della razionalità scientifica; quando, per meglio dire, la stessa dinamica conflittuale con i movimenti della forza-lavoro è costretta a svolgersi sul terreno della scienza come forza produttiva; quando, di conseguenza, «l’incessante trasformazione della natura in industria» assume la forma di lavoro «non operaio», si danno le condizioni per cui gli elementi di comando sul lavoro vivo, che pure la forza produttiva-scienza incorpora, possano trapassare a elementi residuali rispetto all’unità potente «conoscenza e trasformazione» che questa stessa forza produttiva comporta. La forma di capitale allora può essere ricondotta a una dimensione di puro dominio, di arbitrio monetario estraneo alla produzione di ricchezza. In altri termini: il passaggio tendenziale, rilevabile empiricamente, al livello del processo produttivo moderno, del lavoratore come erogatore di fatica (tempo di lavoro) in «sorvegliante e regolatore» tecnico, fonda la possibilità di un’autonomizzazione del processo produttivo rispetto al processo di valorizzazione – proprio perché si dà un’unità fra lavoro e coordinamento del lavoro, materialmente realizzata dal massiccio ingresso, nella produzione sociale, del lavoro non-operaio come segmento crescente della forza-lavoro. Come ognuno vede, la tendenza sopra delineata è operante in tutta l’area del capitalismo maturo. La specificità della situazione italiana sta invece nell’anticipo con cui il lavoro non-operaio ha imposto se stesso, come interno alla composizione di classe operaia storicamente data, prima ancora che lo sviluppo delle forze produttive dentro la sezione italiana di capitale fondasse l’oggettiva possibilità dell’internità stessa. L’intelletto generale, vivo, vuole vivere – sia pure di vita fragile e inquieta – dentro il lavoro vivo. La pratica del rifiuto del lavoro ricompone il «sapere sociale» frantumato Diverse sono le ragioni che hanno provocato questo anticipo (che ha giocato e gioca come fattore “principe” nella destrutturazione dell’assetto di capitale in Italia).
Impossibile, in questa sede, elencarle tutte. Basterà ricordare il ruolo decisivo svolto dal ’68 – e più specificatamente la diffusione e la continuità con cui l’esperienza del ’68 è penetrata in questi dieci anni nei comparti del lavoro sociale diversi dalla fabbrica. Mette conto delineare brevemente quale conseguenza – in termini di rapporti di forza fra le classi dentro la produzione sociale – comporti questo rovesciamento anticipato per cui la delega del dominio all’intelletto generale, volta ad assicurare il carattere molecolare del processo di valorizzazione, funziona all’inverso, ricomponendo sulla base del sapere sociale accumulato tutta l’intelligenza produttiva del lavoro vivo contro le condizioni di produzione. A partire dal ’70, sia pure con ritmo ineguale, pieno di pause, arretramenti e cadute improvvise (valga per tutti la paralisi del movimento nei mesi successivi alla rivoluzione dei prezzi petroliferi) gli elementi di rigidità introdotti dalle lotte hanno inceppato e poi scardinato il mercato del lavoro.
Un rapido confronto tra il tasso di crescita dei salari, della produttività e dell’inflazione testimonia come nello scontro tra il tentativo capitalistico – organizzato su scala multinazionale, in primo luogo Usa e Rft – di contenere il lavoro necessario per aumentare il pluslavoro in quanto plusvalore, e la pratica operaia di ridurre il lavoro necessario per assicurarsi più tempo libero (come tempo otium o come tempo per un’attività appropriante altra ricchezza), ha prevalso, sul trend della produzione e riproduzione sociale, il comportamento di parte operaia. È così sotto gli occhi di tutti la diminuzione drastica dell’orario di lavoro effettivo rispetto a quello ufficiale (per via di assenteismo, pause più o meno concordate, rigida attinenza alla mansione e alla collocazione anche fisica), e l’aumento vertiginoso del doppio lavoro, soprattutto come «part-time». Si badi: il fenomeno odierno non ha alcuna analogia con quello – di proporzioni raffrontabili – degli anni Cinquanta.
Lì infatti il secondo lavoro si presentava come del tutto annesso alla dinamica della produzione di plusvalore (assoluto in primo luogo). Si trattava allora di prolungamento della giornata lavorativa strettamente intesa, in cui – stanti i livelli della produttività sociale dell’Italia post-bellica, nonché i rapporti di forza fra le classi – il doppio lavoro era dilatazione del «tempo immediato di lavoro» – perché il rapporto di lavoro necessario-pluslavoro si desse nelle proporzioni richieste dall’accumulazione capitalistica.
Insomma: il doppio lavoro veniva vissuto da parte operaia come lavoro necessario, mera occasione di sopravvivenza, costrizione imposta dal nemico sociale. Del resto, a riprova di questa considerazione, basterebbe ricordare il carattere rigido del doppio lavoro, il suo essere, cioè, tempo interamente regolato e ritmato della logica del processo di valorizzazione, impermeabile a ogni tentativo di autoregolazione o solo di fluidificazione operaia. Assai diversa è la situazione presente: qui siamo di fronte a una riproduzione «garantita» ottenuta tramite una pratica sociale di rifiuto del lavoro, che per estensione e profondità è senza precedenti nell’Occidente capitalistico. Questo è un passaggio decisivo, il cui possesso è indispensabile per la comprensione della situazione di classe in Italia. Nuova socialità della cooperazione lavorativa Quando, infatti, si insiste, nel rappresentare la congiuntura italiana, sugli elementi di rapina che la forma di produzione della «fabbrica diffusa» comporta; quando il doppio lavoro appare come mera estensione di sfruttamento, rastrellamento «sordidamente giudaico», negli interstizi della società – ecco che vengono a essere rimosse proprio le caratteristiche soggettive, di parte operaia, che storicamente hanno determinato, in qualche modo, in avanti le condizioni di produttività date. E questo è vero non solo per il lavoro «part-time» (che, come ognuno sa, postula un alto grado di socializzazione e automazione dei settori produttivi o dei servizi che lo richiedono); ma è vero perfino per il «lavoro a domicilio» – la vacca sacra di tutte le interpretazioni pauperistiche e regressive dell’economia italiana. Giacché, come è possibile non vedere che se elemento fondante del recente e massiccio allargamento del «part-time» del lavoro a domicilio è stata la lotta al lavoro produttivo da parte dell’operaio massa, la formazione stessa ha avuto tuttavia luogo dentro «l’incessante trasformazione della natura dell’industria» – anzi addirittura come ulteriore sollecitazione della stessa? Qui non si tratta di un regressione nella forma della cooperazione sociale, di un ritorno a forme che precedono la manifattura (humus desiderato del rivoluzionarismo protocomunista italiano che, giustamente, vede il proprio possibile successo affidato alla «infinita potenza» della povertà, al regresso, alla barbarie). Il lavoro a domicilio di cui si sta discutendo è sempre organizzato dalla grande impresa sulla scala della cooperazione sociale – e richiede quindi un ulteriore salto in avanti nei processi di automazione nonché nell’integrazione fabbrica-società. Il lamento sulla contrazione del «fattore di scala» che comporterebbe il passaggio dalla fabbrica, come luogo murario del ciclo lavorativo, allo «sminuzzamento» dello stesso ciclo nel lavoro a domicilio, non tiene conto della circostanza che questa disseminazione è solo decentralizzazione fisica – essa avviene infatti forzando il carattere organico della cooperazione lavorativa e materializzando comando e coordinamento dentro la tecnologia dell’automazione; così la divisione del lavoro procede nella sua sussunzione assolutamente classica, progressiva, delle forze produttive e in primo luogo dei comportamenti della forza-lavoro, rovesciando le difficoltà politiche in un allargamento assoluto del processo di valorizzazione, e per questa via potenziando il lavoro sociale come base materiale della ricchezza.
Se è vero, infatti, che nel lavoro a domicilio il calcolatore sostituisce le fragili gambe del capo reparto, e la prestazione a cottimo aggira la viscosità dell’erogazione lavorativa di fabbrica, è soprattutto vero che il lavoro a domicilio non è, esaminato nel suo «trend», lavoro necessario; nasce «a valle» della giornata lavorativa tradizionale, e quindi dopo che il problema della riproduzione ha ricevuto una soluzione positiva per la forza-lavoro. E d’altro canto le forme in cui il lavoro a domicilio si svolge, la stessa base tecnica della strumentazione fa sì che non si riapre l’era del lavoro parcellizzato, dell’uomo appendice della macchina: anche qui prevalenti sono gli elementi di sorveglianza sulla macchina, e quindi di autoregolazione del tempo di lavoro e di fluidificazione e intercambiabilità delle mansioni. Ancor più emblematica è la forma di lavoro «part-time».
Non si tratta infatti dell’eterno «part-time» del bracciante di Cerignola chiamato a surrogare il mulo per qualche ora – laddove il suo bisogno di reddito gli fa desiderare d’essere definitivamente mulo. Se guardiamo i saggi di sviluppo dei diversi settori che utilizzano il «part-time», ci accorgiamo che il più significativo (fino al punto di essere in realtà l’unico esistente) è quello che impiega il «part-time» utilizzando l’intercambiabilità e l’autoregolazione, sulla base della relativa automazione del flusso produttivo, la qualificazione richiesta sembra presupporre, più che una formazione specialistica, il possesso di quella anonima conoscenza sommersa che assicura l’adattabilità come capacità di apprendere puro lavoro in quanto sapere sociale.
Mette conto insistere ancora su alcuni tratti «operai» di queste relazioni produttive, che hanno silenziosamente mutato le condizioni dentro cui si svolgono i movimenti delle classi sociali in Italia. Una critica al concetto di «emarginazione» Intanto, diciamo subito che non c’è «emarginazione», disoccupazione e repressione nel senso forte che questi termini hanno nella storia delle relazioni industriali.
La raffigurazione del Paese in preda alla miseria crescente e alla ferocia dei nuovi e vecchi governanti, anche quando appaiono sui fogli dei radicals nostrani, sono pure idiozie: gravi solo perché testimoniano quanto separato, ottuso, inutilmente soddisfatto di sé sia quello «spicchio» di cielo della politica che appartiene ai nostri compagni rivoluzionari di ruolo e ai loro «compagni di strada» – posseduti da «delirio repressivo». Sopravvivono perché «controreazionandosi» a vicenda la paura delle proprie paure, coltivano la «volontà d’impotenza», l’orrore per la vittoria e il successo come materialità che si impone. Non si vuole con ciò negare che esista in Italia la logica del mondo «altro dalla ricchezza»: marginalità, disoccupazione, repressione non vogliono morire, si nutrono di lavoro vivo e sopravvivono come possono.
Ma tutto questo è banale – vuol dire ripetere ossessivamente una verità vuota: il carattere contraddittorio del «progresso» capitalistico, il suo continuo mortificare e distruggere la «vita possibile» dei produttori come riaffermazione delle proprie condizioni di sviluppo. Ma il punto decisivo è oltre il banale. Come dire: oltre Seveso.
Di chi è l’iniziativa che attraversa e sommuove, ormai pressoché ininterrottamente da dieci anni, tutto il tessuto produttivo? O, se si vuole: come si è andata configurando, nel rapporto fra le classi, la distribuzione della ricchezza in Italia? Quale soggetto è andato affermando il proprio diritto come «diritto nuovo» alla garanzia, all’automatismo della riproduzione senza accettare condizioni sul versante dell’interesse generale – ovvero della produttività sociale intesa come incremento del valore realizzato «pro capite»? Tutta la pubblicistica e la letteratura corrente danno una risposta inequivocabile.
La vita quotidiana si incarica da parte sua di «zittire il lamento delle statistiche», facendo penetrare nella testa dei singoli questa «sicurezza bella» del diritto automatico alla vita come diritto imposto. Per capire questo generale sommovimento non basta tenere d’occhio gli indici «classici» della scienza economica; il quadro si è fatto più complesso e ricco di variabili sconosciute. Vediamo la cosa da più vicino. Si dice: oltre due milioni di disoccupati, soprattutto giovani. Reinnescato dal «ritardo semantico» delle parole un «pianto costernato» inonda i fogli progressisti e «rivoluzionari». A prendere sul serio i termini (che informano perché richiamano analogia) ci sarebbe da aspettarsi che due milioni di persone vivano nell’indigenza, e una percentuale così cospicua (diciamo centomila) sia prossima all’inedia. Come ognuno può vedere si tratta di una rappresentazione distorta dell’uso di vecchie parole per denotare fatti nuovi. Il «soggetto sfruttato» considerato dal punto di vista della sua ricchezza L’attuale disoccupazione italiana ha luogo in condizioni affatto originali. Il livello della spesa pubblica, in specie per sanità, scuola, servizi è di tale portata da sdrammatizzare alla radice il fenomeno. E il fatto che tutto questo poggi su un apparato pubblico «improduttivo» al quale va destinata una fetta del plusvalore sociale, è fatto – dal punto di vista dell’interesse di classe – assolutamente secondario a fronte del «valore d’uso» di questi servizi e anche dell’effetto di alleggerimento che l’occupazione in essi esercita sul mercato del lavoro, concorrendo in modo non secondario a impedire il formarsi di un esercito industriale di riserva.
Da questo punto di vista, si può dire che la contraddizione passa attraverso le spese dello Stato; e che si dà un preciso interesse operaio al mantenimento delle funzioni definibili come «improduttive». D’altro canto le occasioni – più o meno legali – di reddito che un sistema produttivo a capitalismo maturo genera di continuo, rendono la disoccupazione in certa misura, un «tempo di lavoro» autoregolato, saltuario, non irrigidito.
Del resto, basta osservare che la stessa categoria anagrafica del disoccupato è, nelle statistiche, definita per negazione – in quanto condizione che difetta nella regolarità e continuità della prestazione lavorativa. Ma mentre questa condizione denotava in passato, ad esempio negli anni Cinquanta, estraneità al processo produttivo o comunque alla distribuzione del reddito, questo non è più vero, almeno nella generalità dei casi, dentro una produzione sociale così elastica e insinuante – in cui fabbrica e società diventano sinonimi. Forse bisognerebbe cominciare a pensare alla disoccupazione non come «mancanza» come «difetto», ma come «presenza», come «pienezza». Giacché solo gli ideologi del lavoro produttivo – specie zoologica in estinzione confinata ormai in quegli spogli parchi che sono gli uffici studi del sindacato e del Partito comunista – rimuovono, mentendo per omissione, la componente di rifiuto del lavoro produttivo che v’è nel fenomeno della disoccupazione giovanile. Anche qui il comportamento soggettivo è un «indizio forte» di questa asserzione.
Al di là della rilevanza statistica dei dati – che pure testimoniano un allargamento a forbice tra giovani disoccupati anagraficamente censiti e occasioni di lavoro precario, nella forma giusta, non utilizzata – assai più probante è la fuga della fabbrica, tipica di quella nuova generazione di operai che sono, a un tempo, studenti un po’ balordi delle scuole di ogni ordine e grado. Qui siamo di fronte a una novità di comportamento di grande rilievo.
Negli anni Sessanta la fabbrica era, in specie per la forza-lavoro giovanile, un’occasione privilegiata di reddito e, per una minoranza politicizzata numericamente significativa, anche sede, orgogliosa e decisiva, della lotta e dell’organizzazione politica di classe. Insomma «militanti e produttori» insieme si era solo nella fabbrica. Qualcosa in questo registro così lineare si è ora irrimediabilmente rotto. Il giovane operaio guarda fuori dalla fabbrica alle occasioni più fluide e meno rigide di reddito – ma guarda fuori anche con gli occhi del corteo duro che spazza il centro cittadino, con l’ansia dell’espropriatore-ladro, con la vigile attenzione del terrorista: anche qui si tratta di una minoranza, in vero numericamente ridotta, ma la sua stessa esistenza come «distribuzione normale» in ogni agglomerato operaio attesta la non interpretabilità in termini di devianza, di scarto statistico; e ciò è, di per se stesso, un salto rispetto al passato. Certo, tutto questo è anche risultato del processo inflazionistico, della progressiva importanza del «capitale produttivo di interesse», del risarcimento consumato dai circuiti monetari come risposta padronale all’egemonia dell’operaio in fabbrica. Ma appunto è la straordinaria continuità dell’innovazione produttiva operaia che va sottolineata come chiave di comprensione del presente – rattrappimento dell’erogazione lavorativa in fabbrica, utilizzazione delle occasioni fluide di lavoro che il capitale è costretto ad approntare dentro la produzione allargata. L’incessante erosione del pluslavoro A ben guardare la «porta stretta» attraverso cui passare per comprendere la situazione italiana è data dalla «genesi» delle condizioni, dentro le relazioni produttive, che consentono l’affermarsi della rigidità operaia (vera e propria erosione progressiva di plusvalore) senza che la macchina produttiva precipiti verso la paralisi – con conseguenze che finirebbero per schiacciare lo stesso contropotere operaio. Il che equivale a interrogarsi sul «segreto» che ha permesso di incrementare il rapporto lavoro necessario/pluslavoro in una misura senza precedenti nella storia italiana e senza confronti nell’Occidente capitalistico – tenendo tuttavia il debito complessivo del Paese verso l’estero entro i 20 milioni di dollari: che vuol dire il 10% del G.N.P. annuale e appena 1/5 dell’ammontare di capitale trafugato all’estero in soli sette anni (dati del 1976).
Bene: ricorrendo per brevità d’esposizione a una risposta schematica si può affermare, in primo luogo, che la lotta operaia contro il pluslavoro in fabbrica ha potuto imporsi, ben al di là dei risultati contrattuali, perché il lavoro non-operaio dentro e fuori la fabbrica ha progressivamente desistito dai suoi compiti di comando e controllo per configurarsi tendenzialmente come «coordinamento e innovazione».
Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che è il comportamento molecolare di milioni di uomini, che dovrebbero «sorvegliare e punire» altri uomini, a permettere la sottrazione alla costrizione del «ritmo», il fiorire delle pause, il ridimensionamento della fatica. Il lavoro non-operaio che vede se stesso dentro la composizione di classe operaia assicura, nella quotidianità della produzione sociale, l’espandersi dell’erosione del pluslavoro. Tempo di lavoro / tempo di non lavoro D’altro canto questo comportamento soggettivo del lavoro non-operaio spinge all’automazione della produzione come tentativo di oggettivare il comando nel capitale costante; ma anche come mera condizione di sopravvivenza del ciclo produttivo.
A sua volta l’allargarsi dell’automazione offre altre occasioni all’intelligenza produttiva di sfuggire al «tempo immediato di lavoro», contrae assolutamente e relativamente la presenza della forza-lavoro in generale e di quella produttiva in particolare nel processo produttivo diretto, pone le basi per una ulteriore riduzione che può assumere l’aspetto di pluslavoro o di «tempo libero» a seconda dei rapporti di forza tra le classi.
Vale la pena ricordare, a proposito del tempo libero, che anche qui qualcosa è mutata; non è tempo libero dell’impiegato svizzero impaniato dalle agenzie di viaggio: tempo che «trascorre senza senso restando tuttavia soggetto ai ritmi del mondo del lavoro salariato e alla sua ideologia».
Il tempo libero se è in parte tempo di lavoro (ma autoregolato) per procurarsi reddito, è anche «otium» in quanto tempo dedicato ad attività più alte; ad esempio: all’organizzazione e all’allargamento della lotta – per quanto ingenue possano essere le forme che tutto questo «mediamente» assume. D’altro canto il «tempo libero ha naturalmente trasformato colui che ne dispone in un soggetto diverso; ed è come tale che egli entra poi anche nell’immediato processo di produzione». Insomma questo «feed-back» positivo che si è istituito tra rifiuto operaio del lavoro produttivo – comportamento dentro la produzione del lavoro non-operaio – automazione (feed-back che rende vischiosa e qualche volta arresta, stante la relativa arretratezza delle forze produttive, la connessione processo di valorizzazione-processo di produzione) trova il suo «spunto iniziale» nel comportamento del lavoro non-operaio che ormai sembra guidare tutta la dinamica.
Si è già accennato alla complessità della ricostruzione storica di questo comportamento – probabilmente analogo a quello di altri Paesi a capitalismo maturo ma, certamente, specificatamente italiano per diffusione e profondità. Si è già richiamato il ’68. Ma ovviamente è un riferimento che a sua volta andrebbe spiegato. Su questo discorso bisognerà tornare.
Qui ci interessa evidenziare come sia insufficiente vedere nella «nuova composizione di classe» la base materiale della crisi italiana. Giacché quando si parla di modificazione nella composizione di classe si sottolinea in genere l’ingresso (o il diverso peso relativo) di un segmento di forza-lavoro dentro il corpo complessivo di classe operaia.
Muta la composizione tecnica di classe ma, in qualche modo, si tratta di un’aggiunta, o, come è uso dire, di «proletarizzazione» di altri strati sociali che nel loro ridursi a «classe operaia» si impadroniscono della memoria storica di lotte, comportamenti e istituti organizzativi precedenti. Oggi invece in Italia c’è rottura, c’è mutamento nella composizione politica di classe – il dislocarsi del lavoro operaio non significa assorbimento e mimetizzazione del primo nel secondo, non è una sorta di «reductio ad unum». Comando del valore d’uso sul lavoro sociale L’ingresso soggettivo del lavoro non-operaio dentro il corpo di classe operaia pone un drammatico problema di rottura del comportamento produttivo e politico nella prassi totale del lavoro vivo; che genera – non serve nasconderlo – anche tragiche forzature, lacerazioni nonché tentativi di rigetto. Il che è del resto assai ragionevole – purché si tenga presente che i soggetti denotati con astrazioni (lavoro operaio, lavoro non-operaio) sono in realtà soggetti reali e cioè uomini che intrattenendo reciprocamente nuove relazioni mutano, sono costretti a mutare, radicalmente se stessi. È una problematica assai vasta; e in questa sede è possibile indicare solo uno dei fili conduttori. L’idea forza con cui il lavoro non-operaio va costruendosi come soggettività è quella del comando del valore d’uso sul lavoro sociale. Malgrado che spesso questa idea-forza non sia penetrata dentro il singolo a mo’ di coscienza, i movimenti produttivi e i gesti di lotta del lavoro non-operaio corrono lungo questo filo. Si pensi alle lotte sui servizi sanitari, sulla scuola, sul problema dell’energia. E tuttavia questo valore d’uso non ha un significato protosocialista, artigianale, di possesso intellettuale e controllo da parte del singolo produttore della specifica mediazione tecnica con la natura relativa a una particolare attività lavorativa.
In altri termini non è una riedizione del movimento hippie, divinizzazione fantastica del singolo e disprezzo reazionario per la ricchezza.
Comando del valore d’uso vuol dire richiesta di «lavoro utile» come possibilità materiale di usare, per i soggetti che producono, della ricchezza sociale – usare nel senso di godere di essa. Da questo punto di vista la divisione del lavoro, l’organizzazione scientifica della cooperazione lavorativa, la «natura come industria», in una parola la potenza del lavoro astratto, costituiscono il presupposto, il terreno stesso su cui la pratica del valore d’uso s’impianta. Si potrebbe dire che il valore d’uso pretende uno smisurato allargamento di questo stesso processo, desidera la «società umana come racket di massa della natura» – al limite spinge alla riproduzione sociale come processo garantito, meramente automatico, immediato e quieto nella sua anomia: come l’atto naturale del respirare. Bisogna insistere: l’idea-forza del lavoro d’uso non va ricercata nei documenti che i gruppi politici preparano o nella rappresentazione individuale che il militante ha del movimento.
Essa «non si fa vedere a occhio nudo e chiede quindi l’occhio della mente e la presa della teoria».
E la mente può ricercarla solo nella fattualità dei processi – purché si intenda per processi la totalità della prassi umana; ma in primo luogo il movimento produttivo del lavoro vivo e i comportamenti politici di massa. Valore d’uso è Valore d’uso è il disgusto del posto fisso, magari sotto casa: è l’orrore per il mestiere; è mobilità; è fuga dalla prestazione stupidamente irrigidita come resistenza attiva alla merce, a farsi merce, a essere posseduto interamente dai movimenti della merce. Valore d’uso è la complicità sociale che il lavoro non-operaio offre, lungo gli interminabili attimi della giornata lavorativa, al comportamento operaio che rifiuta la «cieca fatica» propria del lavoro di fabbrica. Valore d’uso è la volontà di sapere nel suo «attraversare calpestando», con la dolce ottusità dei giovani, il corpo della «madre scuola»; che boccheggia e ansima perché strutturalmente incapace di dare, di rispondere a un bisogno di conoscenza che non si configuri come richiesta di inserimento nei ranghi del lavoro salariato – e se, dio non voglia, anche qualche rosa viene calpestata tanto peggio per le rose. Valore d’uso è il desiderio di apprendere con tutto il corpo questa nuova sensibilità che emerge da quel continente ricco di toni, sfumature, emozioni sensibili che è l’associazionismo giovanile nel suo rapporto particolare con la musica, il cinema, la pittura, insomma con «l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica». Valore d’uso è la ricerca caparbia di nuove relazioni tra gli uomini, di modo «trasversale di comunicare», di sperimentare, di crescere sulle proprie diversità – e insieme la capacità di non rimuovere la sofferenza, le miserie e le sconfitte di questa ricerca lasciandosi assorbire dalla vecchia norma, reinventando tartufescamente la domenica; bensì cercando ancora, procedendo «a testa alta». Valore d’uso è la «pensosa allegria» propria del furto di oggetti utili, desiderati – che è rapporto diretto con le cose, libero dalla mediazione sporca perché inutile del denaro; ma anche «nostalgia della ricchezza», del vivere gratis, di una pienezza di consumo e godimento come possibilità latente, materiale della società moderna – che forse è aspirazione al paradiso ma solo in quanto disprezzo per le difficoltà inutili perché già superabili; solo in quanto odio per un purgatorio che, nel suo trascinarsi oltre il giusto, cessa di essere preparazione, attesa per diventare privazione giustificata, sofferenza superflua. Valore d’uso è la speranza ingenua con cui nell’agricoltura, nei servizi, nei quartieri, nascono, per vivere fragilmente e poi morire, cento, mille esperienze di «controeconomia», di lavoro utile – come allusione tenera a un’altra forma di lavoro sociale, a un’altra distribuzione del tempo del lavoro in quanto costo sociale; desiderio di conoscere, bisogno di scegliere la destinazione della propria fatica; in qualche modo stima e protezione audace dell’unicità della propria vita. Valore d’uso è la disumana astrattezza dell’omicidio, dell’attentato – soluzione fantastica di un problema reale, rimpianto denso dell’interezza delle proprie possibilità, disperato tentativo di far valere, con orgoglio impaziente, la propria forza sociale; che però, nella forma cortocircuitata della violenza militare, finisce col premiare esattamente il contrario di ciò di cui parla. Valore d’uso è tutto questo e insieme altre cose: difficilmente verbalizzabili ma certo osservabili dentro la nuova giornata lavorativa, dentro la vita quotidiana – purché cessi il vezzo di ascoltare con un orecchio solo: e avvertire così il rumore dei cristalli rotti ma non lo strofinio di «tutta la tavola trascinata irresistibilmente verso il futuro». Inadeguatezza della categoria-denaro a sintetizzare i nuovi bisogni Forse il richiamo alla Roma del 12 marzo 1977 può rendere nella sua complessità – come ricchezza e indigenza insieme – l’immagine della pratica sociale del valore d’uso.
Tutti i tratti prima delineati erano presenti – si davano simultaneamente e nello stesso luogo come in una prova generale, in una scena di massa con centomila attori. Forse bisognerebbe ripartire da lì, dalla «cattiveria sognante» di quel black-out assai meno popolato che quello di New York ma in qualche modo più gravido di conseguenze perché costruito da una «minoranza di massa», perché praticato servendosi della luce. Ripartire da lì, da quell’accaduto, da quella presenza per riannodare i fili del discorso sulla forma denaro, sulla forma stato, sulla forma pensiero, sul sindacato, sul partito e così via. Qui possiamo solo tratteggiare l’approccio che deriva, nell’affrontare alcuni di questi temi, dell’avere l’occhio al «movimento reale che trasforma». Innanzi tutto il valore di scambio o meglio il denaro come capitale. Nella pratica della nuova giornata lavorativa, in questo singolare modo di contrapporsi al movimento della categoria denaro, v’è appena la traccia della tradizione nazional-popolare della cultura cattolica che sente il denaro come colpa, come cosa immonda, come catastrofe dell’essenza umana. Lo scambio lavoro contro denaro viene vissuto come scambio di fatica contro reddito. Ma si dirà: questa è una pratica antica quanto la forza-lavoro. Si può rispondere: la novità risiede nella circostanza che comportamenti produttivi di interi segmenti di forza-lavoro (in particolare il lavoro non-operaio) tendono a imporre, nel funzionamento della macchina economica, questo tipo di scambio. Per dir meglio: il denaro pretende il lavoro che valorizza, impone che la produzione sociale sia dominata dall’atto di scambio lavoro contro capitale: potrebbe dirsi che il motore segreto della dinamica capitalistica, di questo spirito animale mai sazio che sommuove la storia moderna, è piantato in questo atto di scambio. Di qui potrebbero derivarsi, come altrove è stato chiarito, con passaggi rigorosamente algebrici, tutti i comportamenti dei soggetti sul mercato: compresa la forza-lavoro nei suoi movimenti politici e produttivi. Denaro come costo sociale eccessivo La pratica sindacale di privilegiare l’aspetto reddito sull’aspetto capitale non contraddice questo svolgersi della categoria denaro – stante la capacità del capitale di presentarsi come reddito denaro, reddito astratto che produce esso stesso bisogno astratto di ricchezza, bisogno astratto di godere più che godimento fattuale.
È questa la chiave per capire la sostanziale simpatia con cui gli operai dell’Occidente (ma forse anche quelli dei Paesi a socialismo realizzato) hanno guardato e guardano allo sviluppo capitalistico – ed è ancora questo il passaggio necessario per ricostruire la cosiddetta «degenerazione revisionista» in tutto il movimento operaio; senza ricorrere a schemi interpretativi moralistici tipo «tradimento» che per essere convincenti, dato il carattere ripetitivo e onnipresente del tradimento stesso, richiederebbero una teoria genetica sui funzionari dei partiti operai.
Del resto, niente di irragionevole: l’opzione di massa a favore dello sviluppo capitalistico proviene dalla consapevolezza, anch’essa di massa, che – sia pure a prezzo dell’astrattizzazione dei bisogni, sia pur facendo emergere un’«umanità capovolta» – questo modo di produzione assicura, magari con le scorie produttive, l’appagamento di bisogni concreti, l’espansione del processo di vita, il ricambio ricco con la natura. La rottura si delinea quando, sulla base composita, universale, egualitaria, comunicabile, assicurata dal denaro in quanto misura e scopo delle cose, emergono bisogni nuovi, radicali – qualche volta nel senso che non sopportano ontologicamente rappresentazione in termini di denaro: spesso nel senso che avvertono come non più necessaria una loro traduzione in denaro.
Si porrebbe dire: il denaro come costo sociale eccessivo nell’epoca in cui è la stessa natura a funzionare da industria. Bisogni radicali e desiderio di sovversione È qui che si evidenzia quel bisogno di non farsi merce che sta a fondamento della pratica della lotta illegale e delle sue forme violente. Bisogno che, a sua volta, è sintesi di bisogni peculiari, diversi, non commensurabili: ultimo bisogno astratto ma scagliato contro l’astrazione come regola; e, per ciò stesso, retroterra reale dell’organizzazione rivoluzionaria post-leninista. Mette conto sottolineare che quando si discorre di bisogni radicali non ci si riferisce a nascoste positive latenze della natura umana, auspicabili ma di esistenza incerta – come le risorse petrolifere non ancora scoperte. Questi bisogni radicali stanno lì “sotto le chiappe” di tutti.
Si chiamano con nomi diversi, spesso hanno odore sgradevole, comportano qualche orrenda formazione e si fanno valere con modi poco civili.
Ma ci sono.
Il movimento delle donne ad esempio – ripulito da quella malattia ideologica, che lo perseguita come un vizio di cuore, di proporsi come rivendicazione un po’ rancorosa l’uguaglianza ossessiva con l’uomo – il movimento delle donne, si diceva, in quanto afferma la diversità della donna, la peculiarità dei suoi bisogni non genericamente umani, e la precisa determinazione di far posto, dentro le «relazioni industriali», a questa diversità senza che essa sia costretta a mimetizzarsi nella forma «uguale» il denaro. Non sta qui un fondamento, non elucubrativo, del «diritto ineguale» come possibilità attuale? Ancora: le pratiche lavorative, soprattutto nella riproduzione sociale, che si svolgono attorno alla solidarietà piuttosto che alla concorrenza, assumono una forma «altra» del lavoro salariato: sono qualche volta lavoro socialmente utile, più spesso attività con scopo – in cui bisogno e lavoro coincidono.
Pratiche sempre esistenti è vero, ma costrette a vivere ieri negli interstizi, negli angoli bui della produzione sociale – come parenti deformi. Oggi tendono a emergere, ad allargarsi innovandosi, a ritagliarsi propri spazi di esistenza e di legittimazione. La «società sommersa» Quando si dice che il rapporto tra un soggetto sociale costituito sul valore d’uso e la categoria di valore di scambio tende a porsi come mera occasione di reddito si vuole significare due concetti.
Alla forma impresa il lavoro vivo (o meglio la parte non irrilevante di esso) chiede garanzia di vita, soluzione automatica del problema della riproduzione. L’orgoglio produttivo, l’erogazione con inventiva, se può, si applica altrove – dopo che è trascorso il tempo immediato di lavoro.
Così se i torni, i forni, le caldaie, gli scambi, il sistema macchine nel suo insieme funzionasse da solo ben pochi si sentirebbero diminuiti per questo. Invece dentro la forma valore d’uso segmenti via via più larghi di lavoro vivo applicano la loro forza invenzione, la loro intelligenza produttiva – con risultati non sempre apprezzabili ma con una continuità di sperimentazione che attesta la radicalità del bisogno.
Questa «società sommersa» non fonda kibbutz, non popola riserve in cui si pratichi virtuosamente il baratto.
Essa è impiantata come un tumore dentro la società del lavoro salariato – e organizza la sua metastasi, articolandosi, succhiando tutto quello che può col minimo sforzo, badando in ogni circostanza ai rapporti di forza e sottraendosi con grande intelligenza alle battaglie campali, agli scontri decisivi per evitare che l’impiego massiccio di tutti gli anticorpi di cui la società è capace, blocchi la metastasi stessa. Non emarginazione, ma estraneità ostile Come ognuno può vedere siamo ben lontani dal modello esplicativo Asor Rosa – che ha avuto le sue vittime dentro il movimento. Per Asor Rosa la forma impresa è prima società ricca ed equilibrata assediata da ciompi senza mestiere, temibili solo per la loro miseria morale e materiale che è loro propria. Laddove i ricchi non sono certo coloro che vivono dentro e per l’impresa – semmai essi hanno diritto a tutta la pietà, non scevra di preoccupazione, dei giovani. Ed è ancora alla complessità del 12 marzo del ’77 che bisognerà riandare per ricostruire l’intreccio tra nuovi comportamenti del lavoro vivo (in particolare del lavoro non-operaio) e strategia sindacale. Tutto ciò che prima è stato scritto sulla pratica del valore d’uso, ancorché incompleto, è sufficiente tuttavia a dare le dimensioni del problema.
Il rapporto è di estraneità profonda e, nell’immediato, esso assume la forma di un’ostilità reciproca. La cacciata di Lama dall’Università di Roma, lungi dall’essere una bizzarria estremista, è una spia di questa situazione.
Del resto non può che essere così. Il sindacato interpreta sul terreno contrattuale, come autorità salariale, i movimenti della forza-lavoro volti alla propria valorizzazione in quanto merce.
Questi movimenti non sono un’invenzione del sindacato. Sono movimenti indotti dallo svolgersi della categoria denaro, ma essendo movimenti reali che trascinano milioni di uomini, hanno aspetti contraddittori.
Il sindacato per sua fondazione mette in rilievo i tratti di movimento autovalorizzante di merce. Il conflitto, la lotta che esso rappresenta e conduce si svolge dentro i limiti dello scambio lavoro produttivo-capitale. Oltre questi limiti la forma stessa di sindacato non si dà. Sicché, quando in Inghilterra o in Italia i bonzi sindacali concordano sacrifici con le imprese per salvare l’economia, bisognerebbe smetterla di gridare allo scandalo. Fanno il loro mestiere; difendono insieme il loro posto di lavoro; e gli operai, che sanno apprezzare la divisione del lavoro, non menano alcuna meraviglia. Ma questo movimento autovalorizzante di merce si svolge secondo una dinamica affatto diversa da quella che presiede alla pratica del valore d’uso – nella crisi poi questa diversità tende a porsi come opposizione, come ostilità.
E questa ostilità, occorre ricordarlo, non contrappone un pugno di burocrati sindacali al popolo lavoratore.
Essa divide il lavoro vivo, si rappresenta come contrasto produttivo, politico, culturale tra segmenti diversi del lavoro – insomma contrappone uomini ad altri uomini sulla scala dei grandi numeri. Il comportamento dominato dal valore di scambio si oppone, è costretto a opporsi al comportamento dominato dal valore d’uso. È una lacerazione che attraversa il corpo del lavoro vivo, schiera moltitudini da una parte e dall’altra spesso senza continuità o confini tracciabili in base alle mansioni espletate. E tuttavia si può dire che, mediamente, quello che chiamiamo comportamento dominato dal valore d’uso si ritrova di preferenza tra i giovani che esplicano il lavoro non-operaio; e quello che chiamiamo comportamento dominato dal valore di scambio si ritrova più frequentemente nel lavoro operaio della grande fabbrica.
Dunque la lacerazione esiste: e tutto fa pensare che sia destinata ad approfondirsi. Né serviranno a lenire il dolore le comuni reliquie: la notevole omogeneità di lessico e il paradossale rifarsi alle stesse icone (oh, il ritardo della «politica»!) nascondono in realtà universi inconciliabili. E d’altro canto questa lacerazione non sarà certo rimaneggiata dal probabile successo della strategia del Pci mirante a porre l’ipotesi diretta del lavoro produttivo sul governo del Paese – è facile prevedere infatti che la «centralità operaia» come riferimento per la macchina statuale non può che comportare, almeno nell’immediato, l’accentuarsi della pressione volta a ricondurre a forza-lavoro produttiva il lavoro non-operaio, e in genere il lavoro produttivo.
Riconduzione che, se non ha alcun respiro strategico dentro lo sviluppo capitalistico – giacché il livello delle forze produttive, la composizione di classe, l’obsolescenza della dimensione nazionale la rendono retrodatata – ha tuttavia la capacità di scompaginare il significato sovversivo dei nuovi comportamenti dentro la produzione sociale, compromettendo una ricomposizione di classe nella crisi attorno alla pratica del valore d’uso. Sembra quindi di poter concludere che la contrapposizione tra segmenti diversi del lavoro vivo è destinata, almeno in Italia, ad accentuarsi – alimentando uno scontro che, in quanto coinvolge milioni di uomini, può essere riguardato come una forma, sia pure sotterranea, di guerra civile.
DAL TERRORISMO ALLA GUERRIGLIA
di Franco Piperno
1. Per il concorrere di cause diverse, non esaminabili in questa sede, ha avuto luogo nell’ultimo decennio un silenzioso sommovimento «nel modo di produrre la ricchezza».
Il circuito produttivo utilizza prevalentemente la natura come industria, piuttosto che l’erogazione di pluslavoro ed il conseguente furto del tempo di lavoro. Per dirla in gergo: le diverse forme della produzione sociale non sono più organicamente saldate dalla legge del valore.
Tutto questo comporta delle conseguenze di grande rilievo, che investono i soggetti sociali nonché la stessa cooperazione lavorativa. Intanto emerge un soggetto proletario nuovo, artefice sì della ricchezza ma non più interpretabile (anche ai fini del calcolo economico) in termini di lavoro produttivo e improduttivo. Muta quindi la composizione di classe del proletariato.
L’intellighentsia tecnico-scientifica in particolare (che rozzamente possiamo chiamare «lavoro non-operaio») viene ad occupare una posizione di centralità nella produzione della ricchezza sociale. E non si tratta, si badi, della disattesa aspettativa sulla proletarizzazione dei ceti medi – come mera riduzione di altre figure sociali a lavoro salariato.
Il lavoro non-operaio – agendo non più come ceto residuale, bensì in quanto soggetto materiale di un nuovo modo di produzione – porta con sé comportamenti, riferimenti culturali, ideologie, non riconducibili alla memoria storica delle lotte operaie.
2. Il mutamento nella composizione del proletariato induce una «nuova spontaneità» che appare sulla scena per la prima volta nell’indimenticabile ’68. La nuova spontaneità ha il suo tratto caratteristico nel rapporto che intrattiene con la ricchezza sociale.
Quest’ultima, infatti, viene vissuta come valore d’uso – nel senso che appropriarsene vuol dire godere di essa.
La produzione cessa così di essere sentita come una sorta di attributo «a priori» dell’essenza umana – quasi una necessità morale; essa viene indagata e ridimensionata in quanto produzione di ricchezza umanamente fruibile: cioè, appunto, di valori d’uso.
Ecco allora dispiegarsi i comportamenti tipici di questa nuova spontaneità: l’assenteismo come sabotaggio di massa della costrizione al lavoro; il furto nei supermarket come riappropriazione individuale di oggetti il cui godimento è impedito dalla mediazione monetaria; l’occupazione come semplice occasione di reddito; la disponibilità «generosa ed incantata» nei confronti di quei momenti dell’attività sociale in cui «lavoro e bisogno coincidono»; le mille forme di ribellione in cui si consuma «nell’anonimato del quotidiano» una insofferenza sociale radicale e qualche volta violenta.
Questi comportamenti rompono ogni rapporto di proporzionalità tra partecipazione alla produzione e quota di reddito fruita; tra tempo di lavoro erogato e quantità di oggetti di cui si pretende la disponibilità. Va da sé che, trattandosi di comportamenti (e non di innocue idee), il loro manifestarsi impone la pratica dell’illegalità come condizione necessaria di esistenza.
3. A sottendere questi comportamenti v’è una cultura che, malgrado evidenti ingenuità, vistose lacune, super-semplificazioni, non può essere tuttavia liquidata come falsa coscienza.
È una cultura che, pur nutrendosi di indigenza ed alienazione, ha tuttavia speranza: nel senso che ritiene materialmente ed immediatamente superabile quella stessa indigenza ed alienazione.
Da qui la tematica dell’immediatismo: quel mettere al primo posto il proprio corpo, i propri bisogni, la propria diversità ed irripetibilità; con la presunzione – per lo più irriflessa – che la pienezza dei tempi sia giunta: il godimento concreto della ricchezza è a portata di mano, giacché è possibile qui ed ora rovesciare «la ricchezza oggettiva in ricchezza dei soggetti»; ed il prolungarsi della condizione di indigenza è frutto d’arbitrio, tecnicamente e socialmente non spiegabile, non giustificabile.
4. Del resto, non v’è solo l’urgenza di nuovi bisogni che premono alla ricerca di un appagamento che il vecchio mondo non sa dare. Muta anche la morfologia dello Stato moderno.
Il deperire «dell’economia come struttura»; o meglio: lo smarrimento – a seguito dello stesso sviluppo – di ogni regola economica, comporta l’ergersi autonomo del potere politico, arbitro unico sull’impiego dei frutti della cooperazione sociale. Esso sembra così definirsi come la sede entro cui trova una formalizzazione la guerra tra le corporazioni per la spartizione del «surplus» sociale nella sua forma monetaria.
Il nuovo Stato corporativo si rivela di conseguenza incapace di una attività progettuale in grado di perseguire, materialmente e coerentemente, l’interesse generale in quanto distinto dalle esigenze voraci delle corporazioni. Nello stesso tempo, gli istituti stessi della democrazia rappresentativa risultano svuotati di ogni contenuto decisionale e sopravvivono come costosi apparati ideologici che registrano ed acclamano operazioni maturate altrove.
La politica svolge i suoi esiti senza alcuna regola che non sia la mera misura del rapporto di forza – cioè, come è stato detto, la politica è guerra sotto altra forma.
5. In questo quadro, i bisogni sociali non rappresentabili dal sistema delle corporazioni – vuoi perché non monetizzabili, vuoi perché, più semplicemente, asincroni – tendono a farsi valere sfuggendo come nemica la mediazione politica e ricorrendo, senza alcuna riserva morale, alla guerra in forma propria. La nuova spontaneità ha perfezionato infatti una sorta, di «senso comune» diffuso soprattutto tra le donne ed i giovani, siano essi impiegati o operai, disoccupati o studenti.
È un «senso comune» che vive lo Stato come insieme di apparati sordamente amministrativi: da un lato arbitrari perché superflui, e dall’altro assolutamente estranei ed ostili.
L’insieme di questi apparati (e delle operazioni che producono) appare ai giovani proletari (o almeno ad una parte significativa di essi) come dispotico. Dispotico non significa, in questo caso, «limitativo delle tradizionali libertà individuali» – habeas corpus e così via.
Il potere è dispotico perché impone e legalizza una arbitraria e lancinante separazione tra individuo e ricchezza sociale, tra ricchezza oggettiva e godimento di essa da parte dei soggetti, tra ricchezza «esistente» e ricchezza «possibile».
6. II Movimento Operaio è incapace non solo di tradurre politicamente questa nuova spontaneità; ma perfino di riconoscerla ed entrare in contatto con essa. E tutto questo per motivi assai meno peregrini che i presunti tradimenti del «gruppo dirigente».
È quella del Movimento Operaio – infatti – un’esperienza politica che si è consumata attorno ad altri soggetti sociali, ad altra morfologia del processo produttivo, ad altra spontaneità – in altri termini, attorno ad un’epoca storica in cui il mancato sviluppo delle forze produttive, ovvero la miseria come fame, faceva aggio sul tema della divisione del lavoro e sul bisogno di auto-realizzazione dell’individuo.
Ecco allora che l’agire del Movimento Operaio si dipana in un tempo retrodatato: inneggia al profitto come sorgente di ricchezza quando è andata in rovina, per eccesso di sviluppo, la forma-impresa; difende l’indipendenza nazionale quando non si da più un mercato nazionale; promuove il lavoro manuale nell’epoca dell’automazione; predica la mistica del sacrificio a fronte di una vita quotidiana delle masse che pratica il consumo come libertà. Così, in un tempo irreale, matura nella retorica la tragedia del Movimento Operaio: le stesse variegate aspettative di massa – che appena due anni fa ancora si erano fissate sulla sinistra tradizionale – tendono, a fronte dell’impotenza, a rifluire o separarsi.
Alla fine, quell’orgogliosa iniziativa denominata «operaio che si fa Stato», residua solo il malconcio tentativo di una nuova legittimazione sociale al moderno Stato corporativo. Mentre per parte sua un altro, un secondo «movimento operaio» va emergendo, innervato da altri bisogni ed altre forme di lotta. Esso non solo si autonomizza dal primo, ma ormai vi si contrappone e lo combatte apertamente.
7. Così stando le cose, l’esistenza – in dimensioni ridotte ma significative – di un «movimento» che pratica la violenza armata per conseguire i propri obiettivi risulta, in qualche misura, ovvia: quasi come accade ai fenomeni naturali.
Ci si dovrebbe meravigliare del contrario. Dentro il movimento armato, la presenza delle Brigate Rosse si caratterizza – (rispetto ad altre formazioni combattenti, che sono significative per il rapporto che a volte hanno stabilito con i contenuti programmatici del movimento) per un discorso (pratico) sull’efficacia: vale a dire, non solo per l’uso coerente ed efficace del terrorismo (inteso, secondo la tradizione rivoluzionaria, come strumento atto ad intimidire e paralizzare più che a distruggere materialmente il nemico); ma anche per il tentativo di legittimare l’esistenza stessa dell’organizzazione militare in quanto momento indispensabile nella lotta per l’emancipazione sociale.
Nasce qui, ad esempio, la richiesta brigatista – formale forse, ma certo ragionevole – del riconoscimento del loro status di combattenti).
8. Fissati così i termini del discorso, è possibile affrontare la questione politica centrale: il rapporto tra violenza armata e movimento o, se si vuole, tra terrorismo ed emergere di quella nuova spontaneità prima, a grandi tratti, delineata. Intanto, vale la pena di riformulare la questione in maniera «chiara e distinta».
Indagare la corrispondenza (sia come data che come possibile) tra terrorismo e nuova spontaneità vuol dire verificare l’ipotesi di interfunzionalità tra i due fenomeni. Più correttamente, si tratta di scoprire i nessi (se ci sono) attraverso cui la nuova spontaneità può giovarsi del terrorismo e più in generale della lotta armata nel suo dispiegarsi come processo emancipativo pratico, quotidiano.
La soluzione del problema contiene in sé la «catena di soluzioni» per i sotto-problemi che da quello derivano: ricomposizione o disarticolazione dello Stato; espropriazione o rafforzamento della lotta di massa.
Insomma, rispondendo al quesito sopra proposto si finisce col dare un segno univoco al terrorismo. Va da sé che non è possibile formulare questa risposta ricorrendo agli «universali» evangelici o ad iper-ipotesi inverificabili – tipo «la sacralità della vita umana», «la furia omicida dei terroristi»; «la congiura delle superpotenze contro l’eurocomunismo», e così via. Sceverando le parole dalle cose, l’indagine empirica può delineare il rapporto di contro-reazione che si istituisce tra i fatti in esame, in quanto cause ed effetti insieme.
9. Nell’indagine empirica conviene riferirsi ad episodi certi. Agli inizi degli anni ’70, nelle grandi fabbriche, la lotta di reparto ha «svelato» il ruolo del capo come privo di significato tecnico-produttivo. Il capo, infatti, non svolge alcuna reale funzione di coordinamento del processo produttivo; bensì ha compiti di divisione degli operai e di comando su di essi.
Egli appare (ed è) un agente del processo di valorizzazione, estraneo al processo di produzione – nel reparto tutti gli atti produttivi vengono compiuti dentro la cooperazione operaia prescindendo dal capo e dalla sua funzione di pura coazione al ritmo di lavoro. A seguito di questa «scoperta di massa» si è cominciato ad intimidire in vario modo i capi, e qualche volta a sparare su di essi.
È una storia accaduta agli inizi degli anni ’70; ma fornisce ancora oggi una chiara esemplificazione dell’intreccio possibile tra movimento e terrorismo. La lotta di massa può isolare, ed isola, articolazioni del potere in quanto pure funzioni di comando destituite di ogni fondamento tecnico e quindi prive di consenso nel tessuto produttivo (il loro esistere è spiegabile come imposizione arbitraria, come effetto di forza del nemico; il loro perire è a questo punto un problema di distruzione materiale). Così, questo affare dei capi evidenzia il possibile rapporto di efficacia reciproca tra lotta di massa e terrorismo, cui sopra si accennava.
Quella rete di controllo molecolare sui comportamenti operai costituita dal micropotere dei capi è oggi, almeno nelle grandi fabbriche, in più punti smagliata.
Di questo v’è perfino una «prova contabile»: le ore effettivamente lavorate sono significativamente inferiori a quelle contrattualmente previste, anche quando si tien conto delle ore dedicate ad officiare la liturgia sindacale: scioperi ufficiali, manifestazioni, comizi delle autorità e così via.
10. Esaminiamo ora i fatti di via Fani. Conviene avanzare subito un’osservazione, marginale ma non irrilevante. Non c’è contrapposizione tra il sequestro di Moro e gli atti terroristici contro i capi.
È lo stesso percorso della lotta di massa: dalla fabbrica al potere politico.
A tracciare questo percorso ha certo contribuito quella nuova spontaneità di cui già prima si è detto; ma tuttavia è stato il successo conseguito dalla manovra inflattiva nell’attacco alla vita quotidiana delle masse a renderlo un percorso obbligato.
Del resto non si spiega anche così l’idolatria statalista che oggi pervade il Pci fino ad assumere in alcuni suoi dirigenti punte di vera e propria isteria? Anche il terrorismo ha compiuto il cammino che dal comando di fabbrica porta al comando sociale.
Così, l’analisi critica svela il segno implicito nell’azione di via Fani. A fronte di un potere che limita i processi di emancipazione e interdice, soprattutto ai giovani, «l’illimitato godimento della ricchezza sociale», il terrorismo opera per intimidire a sua volta, per «interdire un potere di interdizione». E negli spazi che così si aprono v’è una obiettiva possibilità di crescita per il movimento.
Certo, non si possono ancora individuare tutti gli esiti di questo atto terroristico. E tuttavia esistono, sono sotto gli occhi di tutti, indizi sufficienti per affermare che questo Stato non viene fuori dall’affare-Moro più articolato e legittimato – ma solo più impotente e feroce.
11. Lo Stato corporativo ha subito avvertito lo spessore sovversivo, la minaccia per l’assetto sociale insita nei fatti di via Fani. Ma anziché «stare ai fatti», e muoversi tra di essi in maniera adeguata, dubitando della legittimità della sua stessa esistenza ha preferito trattare i brigatisti come belve sanguinarie sfuggite ai guardiani dello zoo. Ecco allora che la riduzione del terrorismo a problema di ordine pubblico e di igiene mentale ha svuotato d’effetto i comportamenti repressivi rendendoli, peraltro, ridicoli.
Tutto è avvenuto come se un elefante inseguisse per i vicoli della vecchia Roma una zanzara – guai ai passanti! È stato uno spettacolo tragico ed esilarante ad un tempo. Intanto i sacerdoti del regime inondavano la stampa e la televisione di richiami ai primi principi, lanciavano tra le lacrime appelli umanitari, proclamavano solennemente il valore assoluto della vita umana – diarrea declamatoria che non impediva loro di adoperarsi, con cinica doppiezza, perché il sangue di Moro scongiurasse, misticamente, quella resa dei conti che ormai sembra gravare sulle «vite probe» degli uomini del regime.
12. Non è difficile capire che i brigatisti, con il sequestro Moro, hanno inteso mostrare come i grandi sacerdoti che officiano i riti del moderno Stato corporativo non sono intoccabili, né godono di alcuna impunità. L’«infinita potenza dello Stato» poggia, infatti, sui piedi d’argilla della passività dei «sudditi». Oltre a ciò, i brigatisti – una volta catturato Moro – si sono riproposti di conseguire un ulteriore risultato (la scarcerazione di alcuni militanti) che rafforzasse materialmente l’organizzazione e ne legittimasse, in qualche misura, l’esistenza in quanto organizzazione militare che rompe il monopolio statale della violenza armata. Ma catturare vivo un «personaggio reale» come Moro comportava la neutralizzazione fulminea della scorta armata. Dunque, una volta dentro la macchina bellica del sequestro, l’eccidio dei cinque agenti era una mossa obbligata – lo scontro si è svolto infatti sulla linea del fuoco. D’altro canto, a seguito del rifiuto da parte del potere non solo dello scambio ma perfino della trattativa, l’uccisione di Moro era divenuta una altra mossa obbligata – pena la perdita, per il futuro, di forza contrattuale e di credibilità per l’organizzazione brigatista. Così, in un susseguirsi di mosse obbligate, l’esito dell’azione intrapresa il 16 marzo è davvero singolare: i brigatisti sembrano contribuire con il cadavere di Moro a quel nuovo equilibrio politico che da due mesi il sistema dei partiti e delle corporazioni stava affannosamente cercando – scongiurando l’eventualità più pericolosa ed ingarbugliata per il potere: dover trascinare con sé un Moro fisicamente vivo ma politicamente «immondo», vera «mina vagante» per le procedure del Palazzo.
Dove, allora, l’errore che ha finito col ridimensionare il senso del sequestro Moro?
In primo luogo, appunto, nell’uso del sequestro, del ricatto: uso ricorrente nella pratica terroristica, ma già inadeguato quando – come accade oggi – il fenomeno ha raggiunto tali livelli di potenza da imporre il passaggio a forme proprie di guerriglia.
In secondo luogo, nell’aver consegnato un’azione di siffatta potenza ad un obiettivo minimale, quasi privato, ed insieme tutt’altro che «realistico»: la scarcerazione di alcuni detenuti politici. In questa sfasatura tra efficacia destabilizzante dovuta all’impiego intelligente delle regole militari e gestione politica sprovveduta degli esiti provocati, si sono inseriti – sotto gli occhi di tutti – quegli elementi ambigui, spettacolari, degenerativi esemplarmente rappresentati nell’atto finale: la riconsegna, ingegneristica e beffarda, del cadavere di Moro in prossimità del Palazzo. Così, travolte in qualche modo da una sorta di boomerang, le BR sono rimaste segnate di ferocia impotente: come accade a tutti coloro che provocano morti inutili.
13. II dibattito sull’affare-Moro ha messo alla prova la «cultura di sinistra» come ideologia dominante.
È emersa la sua strutturale incapacità di scoprire le cause che stanno dietro la pratica terroristica e che continuamente la rigenerano.
I brigatisti, perché lucidi «dispensatori di morte», sono stati additati come burattini in mano a potenti – ma, ovviamente, segreti – burattinai; come ricettacolo, al più, dei passati errori del movimento comunista; come sempre e comunque nemici ed estranei al processo di emancipazione sociale. Qualcuno – come Scalfari, curioso erede dei «distinti crociani» – si è spinto anche oltre: li ha espulsi geneticamente dalla specie umana, e li considera sbrigativamente alla stregua di lupi impazziti – insomma, la materializzazione del male come categoria infantile.
Laddove ognuno sa che un branco di lupi riuscirebbe a mala pena a terrorizzare una sperduta comunità agreste; mentre, d’altro canto, una società complessa e malata come la nostra, in grado di tollerare con rassegnata passività la ferocia senza senso che punteggia l’anonimia della vita quotidiana, avrebbe rapidamente sminuzzato e digerito tutti i guasti inferti da un comportamento statisticamente bizzarro e crudele. Ma v’è di più: la cultura di sinistra, ricorrendo all’uso superstizioso di categorie astoriche e pietrificate (la «vita», la «convivenza civile», gli «eterni valori», «l’umanità») ha denunciato il suo spasmodico bisogno di durare, il rigetto fisiologico dell’autocritica, l’odio per gli eventi che minacciano quelle minime virtù sulle quali un intero ceto politico ha costruito in questo dopoguerra la sua minimale fortuna.
Si veda, a mo’ d’esempio, la questione – sollevata da più parti – dei «mezzi di lotta» come spia della vera natura della violenza armata.
Questo rovesciamento un po’ peregrino – al tradizionale culto dei fini è subentrata ed infuria tutt’ora una sorta di idolatria dei mezzi – rivela, nell’intolleranza che gli è propria, uno stolto disegno ideologico: rimuovere ed esorcizzare il nuovo per santificare i mezzi, le scelte politiche nonché la pratica di vita «volgare e soddisfatta di sé» della borghesia rossa. Così, tutto quel discorrere sulla vita a cui, da spettatori allibiti, abbiamo assistito nelle settimane del caso Moro, puzza irreparabilmente di retorica e di morte.
Lo attestano, nella loro generosità sprovveduta, proprio i compagni di Lotta Continua che, impegnati in una inedita missione sacerdotale, hanno riscoperto recentemente la sacralità della vita in quanto vita biologica – ed arretrano con orrore morale di fronte all’eventualità di «dare o subire» la morte – vissuta come catastrofe dell’essenza umana. In verità la vita umana non è poveramente un miracolo biologico.
Essa vive perché nodo di relazioni sociali; e nel caso dei «funzionari del dominio» comporta un adeguato potere di innovazione o interdizione sulla vita di altri uomini. Così può, scandalosamente, accadere che la morte di un uomo si traduca in libertà e vita per altri.
Si tratta di una «evidenza banale», secca come un fatto; essa determina invero il comportamento di tutti noi di fronte alla morte come evento quotidiano. Perché la disuguaglianza che gerarchizza la vita degli uomini conferisce ovviamente un peso diverso alle loro morti.
Così vanno le cose del mondo. E fingere che «le regole» siano diverse, che «l’umanità sia già realizzata» è espressione dei puri ‘desiderata’ quando non si tratta di volgare menzogna ideologica. E poiché il futuro si annuncia, fin da subito, disumano, decenza vuole che ognuno si scelga i suoi feriti ed i suoi morti; e questi pianga e quelli – se può – curi.
14. Si è spesso insistito sull’inconsistenza del programma politico delle formazioni armate a fronte di una indubbia capacità operativa che – ad esempio – nel caso delle Br ha raggiunto effetti di potenza senza precedenti. Ma questo divario tra intenzioni e potenza delle azioni non è, a ben guardare, un limite.
La caratteristica affatto moderna del terrorismo in Italia è che non abbisogna di un progetto per affermarsi ed espandersi; non ha (anche se, magari, lo crede) un modello sociale da proporci (o, se si vuole, da imporci). Infatti se, di nuovo, nell’approccio critico si distingue tra l’ideologia dei terroristi che partorisce documenti teoricamente pasticciati e non privi di allucinazioni, e la catena di eventi che gli atti terroristici mettono in moto, è agevole desumere quanto segue: il piano che presiede alla pratica terroristica – nonché al suo successo – è una strategia militare in senso proprio – rivolta alla distruzione materiale del nemico (lo Stato in tutte le sue articolazioni) secondo le regole dell’intelligenza militare. Questa strategia non abbisogna di un programma politico (inteso come indicazione progettuale delle forme di produzione e di potere proprie della società che si intende costruire) – per il buon motivo che essa vive, in modo irriflesso, dentro al movimento del valore d’uso cui già si accennava; costituendone una, sia pure estrema, articolazione. Infatti la coscienza critica della possibilità di impadronirsi, «qui ed ora», della ricchezza sociale arbitrariamente negata, penetra tra i giovani come senso comune – in grado, quindi, non solo di surrogare il tradizionale programma politico, ma anche di farsi regola immediata di vita che presiede e spinge all’agire.
In altri termini se la nuova spontaneità, il movimento del valore d’uso, viene visto come un plurisoggetto, un plurisapere, un pluricomportamento, il terrorismo non è di necessità altro dal movimento, bensì può essere una delle sue funzioni; e precisamente la funzione di distruzione del potere statale in quanto potere che impedisce ai mille saperi, ai mille bisogni concreti, particolari, locali che costituiscono il movimento di emergere e realizzarsi.
15 Va da sé che questo rapporto di interfunzionalità tra nuova spontaneità e terrorismo, vivendo in forma cieca, irriflessa, non è dato una volta per tutte; è assai critico: dipende dai modi e dai tempi secondo i quali entrambi i termini si sviluppano. In particolare mette conto rilevare come la situazione sia ad un bivio. L’affare-Moro ha segnato infatti, per molti versi, il punto più alto e, ad un tempo, i limiti del terrorismo. Esso è oggi costretto a scegliere. O si fissa e, magari, si perfeziona come pratica separata, popolar-giustizialista, con forme, tempi ed obiettivi quasi privati – per esempio insistendo sulla ossessiva tematica della scarcerazione dei prigionieri. In questo caso, come è già accaduto in altri paesi, il fenomeno della violenza politica finirà col collocarsi dentro la variegata casistica dell’insofferenza sociale nel tardocapitalismo – uno dei costi sociali che il dominio quotidianamente paga o, meglio, fa pagare per la propria sopravvivenza. Oppure esso trapassa a forme di guerriglia in senso proprio – inseguendo consapevolmente un suo radicamento dentro la nuova spontaneità. Questo, però, comporta una profonda ristrutturazione dell’organizzazione militare, la cui capacità di durare ed estendersi viene affidata alla «complicità sociale» più che all’autosufficienza dell’organizzazione stessa. Va da sé che un successo su questo piano comporterebbe un salto nella capacità offensiva della lotta armata. Nel breve periodo, cioè nei prossimi mesi, il radicamento non potrà certo avvenire sul terreno dei comportamenti: qui la diversità tra il vivere ricco ed immediato dei giovani e l’astrattezza militare, rigida, disumana del terrorismo è irriducibile. Viceversa, la saldatura come operazione soggettiva potrebbe aver luogo assumendo gli obiettivi che il movimento ha praticato in questi anni: in primo luogo, l’idea-forza «lavorare meno, lavorare tutti». Nella consapevolezza che rilevare con intelligenza alcuni degli obiettivi di massa e praticarli, vorrebbe dire scaricare su di essi l’indubbia potenza della lotta armata. D’altro canto i nuovi comportamenti sociali – costretti ad un impatto molecolare (e non spettacolare) col terrorismo – ne uscirebbero profondamente modificati ed ispessiti. Nel senso che prevarrebbe, minacciosa, la qualità di sovversione dell’ordine esistente che la nuova spontaneità contiene e cela dentro di sé: qualità che – per farsi valere – abbisogna di conseguire successi, di vincere, di sottrarsi a quell’aria tra la marginalità permissiva ed il dissenso innocuo che oggi la limita ed affligge come un vizio di cuore. Non si può infatti dimenticare che l’«espropriazione della lotta» e dell’iniziativa di massa interviene laddove il movimento cozza contro ostacoli che non riesce a rimuovere con azioni adeguate; e, inutilmente sazio del suo «buon diritto», non si attrezza per importo; sicché la sua tensione si consuma in una vuota «coazione a ripetere» che è solo prologo di impotenza e passività. Ecco perché coniugare insieme la terribile bellezza di quel 12 marzo del ’77 per le strade di Roma con la geometrica potenza dispiegata in via Fani diventa la porta stretta attraverso cui può crescere o perire il processo di sovversione in Italia.
16. A mo’ di provvisoria conclusione, si può affermare che la «particolarità felice» della situazione italiana risiede in queste circostanze. Esiste e si va tumultuosamente diffondendo tra i giovani una pratica di vita centrata sul bisogno, «cioè» sul valore d’uso.
A questo si accompagna, in un rapporto non privo di scontri e lacerazioni, il delinearsi di un soggetto politico che pone in termini militari la questione della rottura della macchina dello Stato.
Di conseguenza, in Italia, la pratica sociale del valore d’uso si carica di significato offensivo, di mutamento del modo di produzione; laddove, in altri paesi, quella stessa pratica – magari più ampia e ricca – vive di vita virtuale, interstiziale, in qualche modo effimera «accanto» alla società del capitale ed al suo Stato. D’altro canto il nuovo Stato corporativo non è in grado, almeno nel medio periodo, di far posto ai nuovi comportamenti, mediandone e governandone la dinamica. Il regime è così costretto a contrapporsi frontalmente alla nuova spontaneità – la rigetta perfino come mero dato, come esistenza; e si affanna per distruggerla desiderando solo una risposta in termini di interdizione e di morte. E tuttavia questa risposta – nel generale sommovimento che in dieci anni ha mutato il paese alterando i soggetti sociali, spezzando gli equilibri politici, svuotando alleanze secolari tra classi e ceti – non può articolarsi tramite una base sociale reazionaria perché inconsistente e già sconfitta, o ricorrendo ai corpi separati perché mangiati essi stessi dalle corporazioni. In verità, questa operazione di morte e restaurazione deve far perno fin da subito sulla rete sociale rappresentata politicamente dal Pci. Ma il precipitare del processo di statalizzazione di questo partito (ed il contemporaneo esaurirsi nell’impotenza del suo ruolo riformista-progressista) libera le contraddizioni sociali che vivono al suo interno e che l’ingegneria togliattiana era riuscita in questi anni a contenere ed amministrare.
I costi dell’operazione sono talmente alti da essere, forse, insopportabili. Il Pci rischia di tagliare il ramo su cui è seduto. Come ognuno vede «grande è il disordine sotto il cielo, e per questo la situazione è eccellente». 1a parte, maggio 1978 («pre-print 1/4», supplemento al n. 0 di «Metropoli», Roma, dicembre 1978) Vivere con la guerriglia Lucio Castellano L’anno scorso in Inghilterra è stato pubblicato uno studio interessante: alcuni statistici hanno ordinato le differenti professioni secondo la durata media della vita di chi le praticava. Ne è venuto fuori che i minatori sono quelli che vivono di meno e – seguendo una scala che va dal lavoro manuale a quello intellettuale – per ultimi vengono i professori, gli avvocati e gli uomini politici.
È un’osservazione, in parte banale, che bisognerebbe però far presente agli improvvisati elogiatori del lavoro manuale, e che comunque a torto è stata tenuta fuori dal dibattito in corso sulla democrazia, la violenza e la morte, di qui sul corpo e i bisogni, il personale e la vita quotidiana. Per essere acidi, si potrebbe metterla cosi: è fondato il rischio che Colletti viva più a lungo della stragrande maggioranza dei suoi studenti.
C’è di che riflettere molto. Ma è meglio riprendere il problema dagli inizi, dai termini in cui è stato posto. Il ’77 ha visto l’emergere prepotente di una categoria centrale – la fisicità, il corpo, i bisogni, i desideri: cioè l’individuo – e con esso le differenze, il particolare, che cercano di definire il loro posto dentro un processo collettivo di liberazione. La critica della politica – intesa come quel processo che eguaglia gli uomini nella astrazione dello Stato, isolandoli nella concretezza delle loro diversità, contrapponendosi ad ognuno di essi come «interesse generale» che li domina – è l’immagine sintetica di questo passaggio. Dietro ci stanno, ancora, la rivalutazione della concretezza della vita quotidiana contro l’astrazione totalitaria dei «grandi ideali»; il rifiuto della subordinazione del presente al futuro; la rivendicazione della materialità della propria esistenza; l’odio al sacrificio, all’eroismo, alla retorica.
Non è importante tracciare in questa sede la genealogia di questo immediatismo: c’è l’impronta operaia, radicale ed egalitaria del «tutto e subito», ed il ruolo cruciale del movimento di liberazione della donna; è essenziale – in questo discorso – la rottura, non la continuità, il fatto che per la prima volta questo blocco tematico diviene il punto di aggregazione, il momento di identità di un soggetto politico articolato e potente. Il soggetto generale sfruttato Sono questi i termini della questione che innovano profondamente il dibattito sullo Stato e la politica, la rivoluzione e la guerra, il processo di liberazione e i bisogni.
C’è un nodo, però, che bisogna capire preliminarmente, per comprendere quanta banalità e tediosità riesumate, quanto cattolicesimo protervo, siano potute venire fuori da una base così ricca, da premesse tanto eversive: perché un percorso misterioso, nel giro di pochi mesi, ha fatto di questo insieme di tematiche il terreno di fondazione di un’inedita cultura dell’emarginazione, di un linguaggio di piccolo gruppo, ripetitivo, petulante e barocco, il linguaggio di chi dell’«esclusione» ha fatto una professione di fede.
C’è stata una rimozione all’inizio, e di questa bisogna rendere conto: non è vero che tra il movimento del ’77 e le lettere a Lotta continua ci sia un filo semplice e diretto di continuità: c’è, viceversa, una selezione, un filtro politico preciso e determinante.
Il movimento del ’77 non è stato, socialmente, un movimento di emarginati e neanche – in senso stretto – di «non garantiti»: ci stavano dentro fette rilevanti di lavoratori dei servizi, di tecnici e impiegati, di giovani lavoratori delle piccole fabbriche e studenti, di lavoratori a tempo parziale e disoccupati, ed aveva un rapporto stretto, tematico e politico, con il movimento di lotta delle donne.
Un soggetto sociale unito dal suo essere in larga parte esterno ai meccanismi di cooptazione del sistema dei partiti e portatore di istanze estremamente avanzate, però ben addentro ai processi di produzione e riproduzione della ricchezza sociale, fortemente interrelato con l’insieme del tessuto sociale, non isolabile, socialmente potente perché detentore di conoscenza e informazioni, perché interno – e alcune volte inserito nel cuore – dei meccanismi riproduttivi.
Non è stata la rivolta del ghetto, ma l’emergenza di processi di modificazione profondi che hanno percorso in questi anni l’insieme del tessuto sociale e di classe nel nostro paese: l’esternità di questo soggetto politico al sistema dei partiti non è interpretabile come sua emarginazione, ma come debolezza profonda dell’assetto politico e istituzionale dell’«anello Italia». Contro la falsa coscienza di marginali La tematica dell’emarginazione non è stata un’identità naturale per questo movimento; è stata il prodotto faticoso di una gestione politica che ha smussato dentro una facile identità la radicalità dei problemi difficili che si erano posti, che ha ricondotto l’emergenza delle nuove tematiche dentro l’ossatura delle vecchie ideologie, che nella sostanza ha spaccato il movimento isolandone una componente, sciogliendo il problema della sua identità di soggetto politico in quello dell’identità sociale di una parte di esso. Con questo tramite, la critica della politica ha perso lo spessore che le avrebbe permesso di essere anche critica pratica del potere e dello Stato, per ridursi ad una pratica di esclusione dall’uno e dall’altro; e l’emergenza dell’individuale e del quotidiano dentro il processo collettivo di liberazione è stata ricacciata nel ghetto garantista del «lasciateci vivere», nella ricerca degli spazi marginali, mentre il problema della «legittimazione» politica della radicalità dei comportamenti e delle forme d’azione trovava la fondazione più tradizionale e povera: l’esclusione, la disperazione, la rabbia.
La disperazione come identità collettiva, come segno di riconoscimento, e con essa l’impotenza.
È un’identità rassicurante, per sé e per gli altri: «sono un emarginato arrabbiato, non ho bisogno di correggere i miei errori, quando ho fame urlo»; «è un povero emarginato, il male che può fare è poco, lo fa soprattutto a sé». È a questo punto che le lettere a Lotta continua diventano un caso nazionale, un boom letterario, escono sulle pagine dell’Espresso. Emarginazione e disperazione esistono, certo, ma non è questo il punto, qui si tratta di altro, di una cultura, di un linguaggio, di una professione: è un grande filtro ideologico attraverso il quale deve passare tutto quanto voglia stare «dentro il movimento», una forma obbligata di espressione, un linguaggio che dà legittimità e costringe al mimetismo.
Questo linguaggio ha i suoi cultori ed amministratori, i sacri maestri inflessibili ed autoritari nel dettare le regole del gioco, i patiti dello ‘sballo’ e gli ex cantori dei servizi d’ordine, gli esperti in «rapporti umani» e le professioniste del femminismo. Critica della distinzione tra pace e guerra Il dibattito sulla violenza appare la prima grande vittima di questa situazione infelice. Ha un punto di partenza che è importante: la rivendicazione del diritto alla vita, il rifiuto del sacrificio e dell’eroismo, della retorica bellicista.
La critica della politica è anche critica della guerra, rifiuto della distruzione in nome dell’ideale futuro, rifiuto della subordinazione di sé ai «superiori interessi di tutti»: è rifiuto di quel momento dell’emergenza in cui la donna si comporta come l’uomo, e tutti come soldati, dove non c’è posto per il gioco e lo scherzo, per la festa, dove non esistono i diritti della vita quotidiana, e tutte le potenze distruttrici della società si concentrano «per costruire un futuro migliore». Ma il discorso non può finire qui, altrimenti diventa retorica natalizia. Perché la critica della guerra è anche critica della pace che la guerra produce e riproduce dal suo interno, ed è critica di quella parte della società che è sempre in armi per garantire la pace. È in realtà – non può non esserlo – critica della distinzione forzosa tra pace e guerra, tra esercito e società, tra soldato e civile. Ed anche qui c’è un problema, centrale, di rimozione del soggetto, della nostra storia, collettiva come personale.
Se lo guardiamo infatti con l’occhio del militante e dell’ideologo, il movimento del ’77 è stato il campo di battaglia di linee politiche ferocemente avverse – militariste alcune, pacifiste altre: organizzazioni di diversa natura, dentro quest’ottica – alcune fatte per la guerra, altre fatte per la pace – si sono disputate lo spazio politico al suo interno. Se lo guardiamo, però, dall’esterno (per così dire: dalla faccia che ha mostrato di sé), o se guardiamo, oltre allo scontro, alla convivenza di tendenze di diversa natura e alle stesse biografie dei compagni, vediamo che, al di là dei veti e delle prescrizioni categoriche, che slittano da un ruolo all’altro, che mescolano e tengono insieme storie ed esperienze normalmente incompatibili, allora ci accorgiamo che il movimento di questi anni, in Italia come in Europa, ha intrecciato intimamente, in modo continuo e sistematico, iniziativa legale ed illegale, violenta e non violenta, di massa e di piccoli gruppi, muovendosi ora secondo le leggi dello stato di pace, ora dello stato di guerra: questo dato non è vissuto all’interno di una organizzazione, ma le ha attraversate tutte, superandole e imponendo la convivenza di momenti organizzativi diversi all’interno del medesimo soggetto sociale. Questa caratteristica, questa capacità di mescolare insieme pace e guerra, di sviluppare iniziativa offensiva senza produrre soldati, non soltanto ha costruito la sua forza, ma è elemento centrale del suo essere movimento comunista ed eversivo. Erodere la distinzione tra pace e guerra vuol dire infatti porsi sul terreno della critica dello stato, mettere in forse i principi della legittimazione del potere politico, che afferma infatti una distinzione fra «Stato» e «società», «pubblico» e «privato», «generale» e «particolare». L’interesse generale è armato, gli interessi particolari si confrontano secondo le leggi che governano la pace.
L’armamento dello Stato garantisce il disarmo della società; il fatto che una parte della società – l’apparato repressivo e militare – si erga come corpo separato e funzioni secondo le leggi della «guerra», garantisce che il resto della società viva nella «pace». E «pace» vuol dire soltanto che la «guerra» è diventata un «affare particolare», di alcuni uomini che ne vivono (poliziotti e militari), o di quei particolari momenti in cui questi uomini particolari prendono il comando su tutti gli altri, dimostrando nei fatti che – essendo loro i garanti della pace di tutti – la governano anche, ne sono la parte dirigente.
La guerra garantisce la pace, la minaccia di essa la conserva, all’interno degli Stati o nei rapporti tra Stati, e nella distinzione tra pace e guerra appare fondarsi, nella cultura politica occidentale, il concetto di Stato. La violenza domina i rapporti sociali È una distinzione che impone la definizione della violenza in termini categoriali e, facendone «affare particolare di un gruppo di uomini particolari», ne tronca i nessi con le altre forme dell’agire e della comunicazione sociale: la «violenza» si presenta non per quello che è – una faccia di ogni attività umana dentro il rapporto di capitale, presente in ogni forma di espressione e comunicazione, dove porta il segno del rapporto di potere – ma appare un’attività accanto alle altre, specializzata e mostruosa, che tutte le ricatta. Ogni rapporto di potere ha la sua faccia militare, ed ogni rapporto umano è, dentro il capitale, rapporto di potere: per questo la macchina da guerra affonda le sue radici nei rapporti di pace, e la violenza che li domina si dà la sua rappresentazione generale nell’«infinita potenza distruttrice» dello Stato moderno.
L’apparato repressivo, con i suoi specialisti della guerra, è sintesi della violenza che domina i rapporti sociali, ed è la garanzia armata della loro riproduzione: perché il lavoro salariato non si scopra come violenza, la violenza si presenta come un lavoro accanto agli altri; perché il lavoratore non scopra di essere immerso nella violenza quotidiana, questa gli si presenta come professione di un altro «lavoratore», il poliziotto.
Rimettere sui piedi «questo mondo capovolto» vuol dire andare a svelare la violenza nascosta nella vita quotidiana ed affrontarla per quello che è, senza cedere al ricatto del terrore, attaccandone la macchina per sabotarla: vuol dire imparare ad usare la violenza, per non doverla delegare, per non esserne ricattati; imparare a riconoscerla, o a viverci insieme. Chi scioglierà l’armata rossa? Il movimento di questi anni non è stato insurrezionalista o militarista perché non è stato pacifista, perché non ha rispettato la successione della pace che prepara la guerra o il suo apparato, il suo esercito ordinato, e quella della guerra che prepara la nuova pace; perché non ha visto la violenza concentrata nell’ora X della resa dei conti – la cieca, disumana e astratta violenza degli eserciti -, ma l’ha vista dispiegata e appresa lungo tutto l’arco della lotta politica di liberazione. Perché due sono le strade (e i «pacifisti» di turno lo dimostrano sempre): a) la lotta politica esclude l’uso della violenza dal suo orizzonte, e allora rispetta l’apparato militare esistente, oppure si appresta ad organizzarne uno alternativo ed equivalente per passare poi ad una fase di guerra, aperta o «legittima», esercito contro esercito. Stato contro Stato (è una storia che già conosciamo, ed abbiamo imparato a porci le domande: chi scioglierà l’Armata Rossa? chi lotterà contro lo Stato quando la classe operaia si sarà fatta Stato?);
b) il processo di liberazione non è prima «politico» e poi «militare»; apprende l’uso delle armi lungo tutto il suo corso; scioglie l’esercito nelle mille funzioni della lotta politica; mescola nella vita di ognuno il civile ed il combattente, impone ad ognuno di imparare l’arte della guerra e quella della pace. Non si può pretendere di vivere il processo di liberazione comunista, ed avere lo stesso rapporto con la violenza, la stessa idea di bello, e buono, e giusto, e desiderabile, la stessa idea di normalità, le stesse abitudini, di un impiegato di banca torinese di mezz’età: vivere col terremoto è sempre – anche – vivere col terrorismo, e per non avere un’idea «eroica» della guerra bisogna innanzitutto evitare un’idea pezzente della pace. I pacifisti come Lama arruolano poliziotti, quelli «più a sinistra» chiedono la legittimazione della «violenza di massa», del «proletariato in armi».
Il movimento reale è stato più realista e meno bellicoso, più umano e meno eroico: è perché ha criticato la guerra che ha messo in discussione la pace, ed è perché ha rifiutato l’esercito che ha spezzato il criterio della delega e della legittimazione; con errori ed approssimazioni, e con deviazioni terribili, e coltivando miti assurdi, e dentro una storia, contraddittoria, ma imparando, e migliorando in un processo che ha modificato la realtà più di un’insurrezione. Critica comunista della democrazia Critica della politica è dunque anche critica della separatezza guerra/pace. La pace di cui parliamo, è la pace della democrazia, e la violenza che usa è «violenza legittima», che la maggioranza ha delegato alle istituzioni dello Stato: criticare quella violenza vuol dire criticare il principio più sviluppato della legittimazione politica, la democrazia. Perché il problema della legittimità è il problema della maggioranza, e il problema della maggioranza è quello degli istituti in cui si esprimono, cioè dello Stato: «maggioranza» e «minoranza» appartengono all’universo del pensiero politico, si spartiscono il comando sull’«interesse generale», vivono della separazione di «pubblico» e «privato», di Stato e società, affondando le radici dentro i rapporti di dominio che soli impongono agli uomini di confrontarsi come quantità.
La maggioranza si costituisce per amministrare il potere: quanto più il potere è concentrato, tanto più può la maggioranza, tanto meno può ognuno; tanto più ricco è il «pubblico», l’«interesse di tutti», tanto più povero, espropriato, è il «privato»; tanto più spossessato, privo di espressione, è l’interesse di ognuno. La democrazia è insieme il massimo sviluppo del potere statale, il massimo momento di concentrazione del potere politico, e il luogo dell’incontrastato comando del principio di maggioranza: il punto non è che nello Stato moderno vi sia poca democrazia, che non siano tutelate le minoranze; ma – al contrario – che è condotta una lotta a morte contro tutto ciò che non si esprime nei termini di maggioranza o minoranza, che non si esprime in termini di potere e di gestione. È per questo che ovunque il movimento di liberazione comunista è fuorilegge, perché si pone al di fuori del codice democratico, e questo codice definisce in modo esclusivo l’universo della politica.
La radicale critica marxiana della democrazia individua le categorie che fondano la lotta a morte fra democrazia e comunismo, fra potere democratico e liberazione comunista. Il resto sono miserie, imbrogli ad usum delphini. In democrazia è obbligatorio «lottare per la maggioranza» perché senza maggioranza non si può fare nulla, neanche produrre uno spillo, o suonare il clarino.
Allo Stato si può chiedere tutto, ma senza lo Stato non si può fare nulla, e il rapporto di potere si presenta come il linguaggio universale in cui tutti si condensano e traducono. La lotta per la maggioranza è obbligatoria, di qualsiasi maggioranza si tratti; e la maggioranza di un insieme piccolo rimanda alla maggioranza di un insieme più vasto, come la maggioranza del Pdup rimanda alla maggioranza di DP, mentre le istituzioni parlamentari si sviluppano su tutto il tessuto sociale, ed eserciti crescenti di delegati apprendono il mistero della conciliazione della massima divisibilità del potere con la sua massima concentrazione. Con la maggioranza si può tutto, senza la maggioranza non si può nulla: la sola azione sociale riconosciuta è la lotta per la maggioranza («è la dittatura degli avvocati sulla società americana», scriveva anni fa un giornalista a proposito del Congresso Usa); il solo rapporto sociale riconosciuto è quello assembleare, di maggioranza e minoranza.
Massima concentrazione del potere, sua ottima amministrazione.
Il capitale concentra i mezzi di produzione, la ricchezza sociale, la democrazia li amministra secondo un codice, quello del rapporto di maggioranza e minoranza: è il codice migliore, ma è il mondo del capitale. Non conosciamo un altro codice per «legittimare» il potere politico; lo Stato socialista si muove all’interno di questo stesso orizzonte. Questo vuol dire che stiamo lottando contro il potere politico, contro la forma-Stato, contro la democrazia, contro l’universo dei rapporti capitalistici di produzione, «per il comunismo».