Da «Collegamenti» n. 6, Dicembre 1974
Una comprensione esatta della problematica organizzativa, che l’autonomia operaia in generale e le strutture già formate che essa ha espresso si trovano ad affrontare, richiede la definizione la più esatta possibile dei processi di aggregazione che hanno determinato il formarsi della cosiddetta “area dell’autonomia”.
Le componenti che interagiscono in questo processo sono:
- il nascere, lo svilupparsi e l’interagire di organizzazioni reali in fabbrica e, in misura minore sul territorio. Queste organizzazioni sono costituite da frange operaie più o meno consistenti che rompono in maniera netta con la tradizione riformista e burocratica per affermare l’esigenza di una direzione proletaria sulle lotte;
- la crisi di una fascia “estremista” di quel ” personale politico” prodotto dai gruppi neoleninisti (Potere operaio, Gruppo Gramsci, elementi di sinistra di Lotta continua). Questa crisi, motivata dall’impossibilità di costituire un partito coerentemente rivoluzionario, vale a dire capace di porre la propria candidatura alla direzione della classe sottraendola ai riformisti, comporta un’adesione di questi militanti a un’ipotesi organizzativa nuova e si definiscono area dell’autonomia;
- l’azione di piccole burocrazie tradizionali di tipo stalino-maoista (Avanguardia comunista, W il comunismo, il Comitato comunista m‑l di unità e di lotta) che tagliate o tagliatesi fuori dal processo di aggregazione dei gruppi maggiori cercano di dialettizzarsi con i gruppi operai autonomi per trovare uno “spazio a sinistra” nella speranza abbastanza assurda di potersi proporre come partito guida.
Non è d’uopo occuparsi infine degli ondeggianti “autonomisti”, di raggruppamenti come Re Nudo, il Fuori e le femministe, che godono dell’invidiabile prerogativa di poter fare ciò che desiderano senza recare alcun disturbo o giovamento di rilievo né alla borghesia né al proletariato, se non per rilevare che ciò contribuisce ad aumentare la confusione giocando sull’omonimia che può esserci tra autonomia di classe e autonomie locali o settoriali.
Un quadro così complesso genera inevitabilmente una certa confusione, l’autonomia sembra un vaso adatto a qualsiasi condimento per ogni minestra: chi non è o non può definirsi “qualcos’altro” è “autonomo”. In questa situazione giovano poco sia i tentativi di stabilire chi “ha capito prima” le cose, sia i richiami ai principi e soprattutto è inutile un dibattito “ideologico”.
Si tratta di ricondursi ai problemi concreti che affronta il movimento del proletariato dal punto di vista teorico e pratico, tenendo presente che la pratica a cui si riferisce non è, secondo una diffusa concezione becera e maoista, quella dei “militanti” che su di essa si “confrontano”, ma semmai quella della classe nella misura in cui si muove in maniera antagonista al capitale.
L’autonomia proletaria e i gruppi
Il primo mito, accreditato da una visione poliziesca e giornalistica della questione diffusa abbondantemente da «Panorama», «l’Espresso», «Il Corriere della Sera» e le veline della Questura, è che i gruppi operai autonomi composti da ex-studenti e sottoproletari (sic!) siano il gruppo più cattivo che “predica il rifiuto del lavoro e la riappropriazione, cioè il furto”.
È evidente che questa concezione travisa volutamente e completamente il rifiuto del frontismo con i riformisti, del contrattualismo e dell’opportunismo, rifiuto che caratterizza gli attuali embrioni di autonomia organizzata assieme alla difesa intransigente della lotta proletaria in tutte le sue forme legali e illegali.
Secondo l’opinione dei questurini la discriminante fra “gruppettari” e “autonomi” è che i primi sono ragionevoli, i secondi violenti; i primi parolai i secondi duri.
Gli autonomi sarebbero insomma il frutto più maturo o più acerbo, a seconda dei gusti o delle valutazione, della sinistra extra.
Pertanto, l’autonomia sarebbe sorta dalla crisi dei gruppi come nuova forma organizzativa di un non meglio precisato movimento che comprenderebbe spontaneità operaia, studentesca, culturale, marginale, gruppi e tronconi di gruppi e chi più ne ha più ne metta.
Una valutazione in termini reali porta invece a definire l’autonomia proletaria come la contraddizione irrinunciabile tra le classi, esistente come movimento aperto o sotterraneo capace di darsi proprie forme organizzate funzionali ai livelli di scontro che affronta.
Certamente esiste quindi una problematica organizzativa, un’esigenza di centralizzazione in termini reali dato che la classe non può emanciparsi come somma di gruppi locali ma al contrario deve, per abolire lo sfruttamento, acquisire la capacità di espropriare i capitalisti e di riorganizzare la produzione su base mondiale.
D’altra parte questa centralizzazione non può essere concepita come forzatura volontarista del movimento reale dentro un programma precostituito. Al contrario dev’essere la definizione continua di un programma teorico-pratico da parte dei proletari stessi.
Chi si fa propugnatore di un’organizzazione concepita come passaggio dalla spontaneità alla direzione di una minoranza è per sua stessa logica all’interno del progetto socialdemocratico (non importa se apertamente riformista o “rivoluzionario” di stampo leninista) di fungere da cervello della classe operaia.
In realtà il “salto” che propongono è quello dall’organizzazione operaia legata a precisi interessi di classe alla militanza di gruppo, all’illusione di “dirigere” un movimento che si annuncia anonimo, sprezzante di capi e di profeti, determinato solo dall’interesse operaio.
Il gruppo non è insomma un’organizzazione “sbagliata” degli operai ma al contrario l’ultimo visibile prodotto della crisi della piccola borghesia in cerca di un ruolo da coprire. Poco importa se rifluisce nel fronte con i riformisti come i gruppi maggiori o si “militarizza” per affrontare lo scontro con lo Stato in termini tratti dall’esperienza di rivoluzione nazional-popolare (rivoluzione cinese e cubana) o di “fronte popolare” (resistenza).
In ogni caso è al di fuori della logica di classe, in ogni caso deve recuperare una tematica rifomista (fronte antifascista e lotta alla reazione assieme alla borghesia progressista). Nulla insomma che riguardi il programma operaio di riappropriazione dei mezzi di produzione, di difesa dei propri interessi di classe contro tutte le altre classi, non importa se conservatrici o “progressiste”.
Rivoluzione politica e rivoluzione sociale
La differenza fondamentale tra comunismo come espresso dal programma proletario e il “comunismo” della piccola borghesia intellettuale sta nelle controparti e nelle finalità che queste due classi assumono.
La piccola borghesia intellettuale in quanto classe esterna alla produzione, addetta all’amministrazione e alla circolazione del valore si pone il problema del potere come potere politico, cioè come potere sull’appropriazione delle merci prodotte. Il piccolo borghese non combatte il modo di produzione capitalista, ma il fatto che la ricchezza venga distribuita in base al criterio (proprietà privata di tipo borghese) che lo esclude e lo emargina. (…)
Il proletariato come classe dei produttori si oppone alla proprietà capitalista nella sua essenza di comando sulla produzione. I proletari non lottano semplicemente contro questo o quel gestore della produzione: ma contro il meccanismo stesso della legge del valore. Il potere al quale i proletari mirano non è un astratto potere politico delegato a qualcuno, ma il potere sulla produzione che permette di rovesciarne la natura e le finalità. (…)
Autonomia proletaria e gli obiettivi intermedi
Un evidente tentativo di ridurre l’autonomia proletaria a supporto di strutture burocratiche è quello di definirla come un’insieme di obiettivi “qualificanti”: riappropriazione, salario garantito, rifiuto del lavoro.
Vedere così la cosa significa confondere il movimento con delle forme che a volte assume, con delle tappe intermedie che si dà o che, peggio, si cerca di dargli.
Al contrario, gli obiettivi che la classe di volta in volta persegue sono inevitabilmente determinati da contingenze particolari di luogo e di tempo, dalla forza operaia, dall’organizzazione capitalista, dal peso delle classi intermedie e persino da fattori casuali. Come esempio di questa logica abbiamo visto in questi ultimi anni il tentativo di generalizzare a tutta la classe operaia italiana gli obiettivi e le forme di lotta di un suo settore importante ma specifico, cioè quelli portati avanti dagli operai della Fiat nella vertenza del ’68–69.
Lotta continua, attraverso le assemblee operai-studenti, si fece carico della generalizzazione di questa esperienza, in pratica della sua mitizzazione. La successiva storia dell’evoluzione di Lc da preteso “coordinamento delle avanguardie reali” a reggicoda del riformismo è esemplare per comprendere come questo stravolgimento del ruolo dell’organizzazione rivoluzionaria sia la preparazione se non la copertura a operazioni neo-burocratiche.
Un rischio del genere oggi è corso dall’area dell’autonomia nella misura in cui viene proposta una centralizzazione sugli obiettivi.
Attraverso questo discorso una serie di tronconi di gruppi si unifica e cerca di unificare anche organismi reali sull’idea che oggi il compito dell’Autonomia operaia organizzata sia quello di colpire il capitalismo visto in una crisi gravissima.
Questa via conduce ad allontanarsi dagli interessi concreti della classe operaia, a centralizzarsi sui livelli “alti” dello scontro sottovalutando tutta una serie di tappe intermedie necessarie. Peggio ancora si da spazio a due posizioni non proletarie:
- il velleitarismo confusionario degli emarginati, la cui spontanea radicalità è assunta come referente politico, quando al massimo è un aspetto secondario dello scontro;
- le mene dei piccoli gruppi m‑l che solo un inguaribile opportunismo può far considerare come forza di classe. (…)
Compito di una minoranza rivoluzionaria non è quello di espropriare i proletari della comprensione della loro lotta attraverso il tentativo di funzionalizzarla a uno schema precostituito, ma al contrario di operare per uno sviluppo di questa comprensione. (…)
Autonomia proletaria e problematica insurrezionale
Il salto da lotta di fabbrica a lotta contro lo Stato sul piano generale e insurrezionale è uno dei passaggi obbligati del movimento che richiede la massima chiarezza di valutazione.
Ancora una volta è necessario ricondursi alla natura dello scontro di classe e ai suoi specifici fini.
Per il proletariato il problema militare è essenzialmente quello della difesa sul terreno dello scontro con l’apparato militare della fabbrica e dello Stato dei livelli di organizzazione raggiunta. Nella misura in cui il comunismo è uno specifico rapporto di produzione, non è ne imponibile né difendibile dalla “volontà” di un corpo militare separato.
Gli ultimi anni hanno visto il nascere di ipotesi organizzative basate sullo scontro “duro e diretto” con lo Stato. È necessario criticarle nella misura in cui i loro proponitori pretendono di essere fuori dalla logica riformista e neo-burocratica dei gruppi. L’argomento portato è che essi non pretendono di dirigere il movimento operaio, ma si limitano ad agire a un livello superiore.
Le due ipotesi su cui si muovono sono:
- quella classica che mira a un’organizzazione fortemente centralizzata il cui compito è di dare delle indicazioni al movimento durante lo scontro e il colpo finale allo Stato nella crisi rivoluzionaria. Questa non è che la faccia militare della vecchia logica di partito, e non merita un approfondimento;
- l’ipotesi gradualista della costruzione di “basi rosse” all’interno della società capitalistica come potere alternativo a quello dello Stato, capace di svilupparsi prefigurando la nuova società. Anche se questa concezione può sembrare più funzionale a un’organizzazione non burocratica della lotta, è opportuno chiarire che si tratta di un processo organizzativo prodotto in situazioni storiche completamente diverse da quelle dei paesi industriali e quindi elaborato da classi che nulla hanno a che vedere col proletariato. (…)
Le situazioni che hanno prodotto questa ipotesi sono quelle di economia agricola al cui interno sopravvive una netta o almeno rilevante separazione tra Stato e società civile. (…)
In effetti, il capitalismo sviluppandosi ha distrutto questo tipo di condizioni, unificando il proletariato al di là delle apparenti divisioni nazionali, razziali e culturali e spazzando via o subordinando a sé ogni forma produttiva precedente.
Insomma, forme militari-organizzative ricalcate in una logica sociologica da quelle di questo tipo non possono che abortire in breve a nuove forme di riformismo, al di là delle velleità radicali.
Nella realtà il proletariato tende a utilizzare la violenza nella misura in cui gli è utile a fini specifici, creando le forme organizzative più adatte. Il proletariato è perfettamente capace di farsi carico dell’organizzazione militare funzionale ai suoi interessi e di sedimentare al suo interno gli elementi in grado di portarla avanti, senza bisogno di alcun maestro esterno in quanto è utilizzata come mezzo specifico in condizioni storicamente determinate. (…)