Filtra per Categoria
Autonomia Bolognese
Autonomie del Meridione
Fondo DeriveApprodi
Collettivi Politici Veneti
Autonomia Toscana
Blog

di Gio­van­ni Ioz­zo­li *

In que­sto volu­me, dedi­ca­to all’autonomia ope­ra­ia meri­dio­na­le, il pri­mo di una serie di tre, Fran­ce­sco Festa e Anto­nio Bove, ricer­ca­to­ri mili­tan­ti (cioè, non forag­gia­ti dai sol­di pub­bli­ci) offro­no al let­to­re un’opera ric­chis­si­ma in cui sto­ria, sto­rio­gra­fia, bio­gra­fie, teo­rie e pras­si, si intrec­cia­no su un ter­re­no deli­ca­tis­si­mo, anzi inaf­fer­ra­bi­le, che si può ricon­dur­re ad una doman­da reto­ri­ca: è esi­sti­ta una for­ma spe­ci­fi­ca­men­te meri­dio­na­le dell’autonomia ope­ra­ia? E in che modo que­sta cate­go­ria – così lega­ta alla sto­ria del neo­ca­pi­ta­li­smo for­di­sta pada­no – può esse­re pie­ga­ta e ria­dat­ta­ta al con­te­sto del mez­zo­gior­no? E far­lo, è un’attribuzione legit­ti­ma o una for­za­tu­ra  ideo­lo­gi­ca? I due auto­ri, attin­gen­do a mol­ti con­tri­bu­ti intel­let­tua­li e/​o mili­tan­ti, sem­bra­no inter­ro­ga­re e inter­ro­gar­si sul­la licei­tà di tale operazione.

Par­tia­mo, quin­di, da una que­stio­ne sostan­zia­le: cos’è l’autonomia ope­ra­ia meri­dio­na­le? È dav­ve­ro esi­sti­ta? Basta defi­nir­la come l’insieme dei com­por­ta­men­ti ope­rai e pro­le­ta­ri fuo­ri e con­tro le com­pa­ti­bi­li­tà capi­ta­li­sti­che e com­ple­ta­men­te indi­pen­den­ti da ogni lega­me con il rifor­mi­smo? Per pro­va­re a rispon­de­re biso­gna trac­cia­re una «car­to­gra­fia tema­ti­ca» e ripen­sa­re l’idea stes­sa di Mez­zo­gior­no, dell’aggressione capi­ta­li­sti­ca alle sue regio­ni, pren­de­re distan­za dal pie­ti­smo meri­dio­na­li­sti­co e dal mar­xi­smo sto­ri­ci­sta: la linea del pro­gres­so in asce­sa con il timo­ne ret­to dal­la bor­ghe­sia illu­mi­na­ta, sen­za la qua­le il Sud sareb­be ostag­gio di laz­za­ri, ple­ba­glia e lum­pen­pro­le­ta­riat. Linea che ha segna­to, per oltre cinquant’anni, l’azione poli­ti­ca e cul­tu­ra­le del Pci. (pag. 9)

Il libro è la rispo­sta a quel­la doman­da reto­ri­ca: è legit­ti­mo par­la­re di una auto­no­mia ope­ra­ia meri­dio­na­le e tale cate­go­ria non va con­si­de­ra­ta un’appendice di quel­la nata nel cuo­re del trian­go­lo indu­stria­le, nel­la misu­ra in cui la sto­ria eco­no­mi­ca e socia­le del mez­zo­gior­no può sot­trar­si alla nar­ra­zio­ne “sto­ri­ci­sta” del sot­to­svi­lup­po cro­ni­co del nostro Sud, eter­na­men­te eti­chet­ta­to come ritar­do, risac­ca e zavor­ra mala­ta del pro­ces­so uni­ta­rio. Que­stio­ne di sguar­di, di pun­ti di vista, di approc­cio alla let­tu­ra sto­ri­ca. Se il Sud smet­te di esse­re con­si­de­ra­to una escre­scen­za incom­piu­ta del pro­ces­so uni­ta­rio e del neo­ca­pi­ta­li­smo, allo­ra i suoi movi­men­ti auto­no­mi non van­no con­si­de­ra­ti una ripro­du­zio­ne del­le lot­te dell’operaio mas­sa, ben­sì il baci­no di crea­zio­ne di figu­re e con­flit­ti ori­gi­na­li. Il sot­to­pro­le­ta­ria­to – fan­ta­sma e coscien­za spor­ca del movi­men­to ope­ra­io – esce da se stes­so, dai suoi ste­reo­ti­pi lum­pen, supe­ra lo stig­ma ple­beo e si pre­sen­ta come pro­le­ta­ria­to dif­fu­so, crea­to­re di plu­sva­lo­re socia­le nel­la nuo­va fab­bri­ca-metro­po­li. Non ritar­do, quin­di, ma nuo­va e diver­sa real­tà che richie­de nuo­ve e diver­se chia­vi inter­pre­ta­ti­ve. Gli anni 70 dei movi­men­ti anta­go­ni­sti napo­le­ta­ni, rac­con­ta­no pro­prio il pro­ces­so di auto­va­lo­riz­za­zio­ne – l’assalto alla spe­sa pub­bli­ca, la riap­pro­pria­zio­ne del patri­mo­nio abi­ta­ti­vo, il riven­di­ca­zio­ni­smo inces­san­te sul­la linea reddito/​lavoro – di que­sto sog­get­to che rara­men­te la sini­stra era riu­sci­ta a inter­cet­ta­re. Auto­no­mia a sud come nuo­va chia­ve di let­tu­ra di que­sto sud.
Gli auto­ri rimar­ca­no più vol­te que­sta tesi, come un filo con­dut­to­re che deve reg­ge­re la fre­ne­sia cen­tri­fu­ga del­le sto­rie e dei movimenti.

Nei pri­mi anni Set­tan­ta, i rifles­si sui con­su­mi del­la cri­si eco­no­mi­ca e del­lo svi­lup­po cao­ti­co dei trent’anni pre­ce­den­ti ripor­ta­no il Mez­zo­gior­no al cen­tro del­le rifles­sio­ni del Pci e del­la sini­stra rivo­lu­zio­na­ria, ria­bi­li­tan­do la «que­stio­ne meri­dio­na­le». Le let­tu­re del­la situa­zio­ne, tut­ta­via, sono insuf­fi­cien­ti a chia­ri­re gli spun­ti rela­ti­vi alla com­po­si­zio­ne socia­le, all’industrializzazione e al ruo­lo del­le regio­ni meri­dio­na­li nel­la pro­gram­ma­zio­ne capi­ta­li­sti­ca. Nel­la let­tu­ra del Pci, ma anche in set­to­ri alla sua sini­stra, il Sud è visto da sem­pre come una «distor­sio­ne», l’elemento arre­tra­to del­lo svi­lup­po gene­ra­le, frut­to di un «pro­ble­ma», di un «ritar­do» o di una serie di «erro­ri di pro­gram­ma­zio­ne». Da tale assun­to emer­ge che, alla base, il pro­ces­so di svi­lup­po capi­ta­li­sta pos­sa inter­ve­ni­re per rimuo­ve­re gli agen­ti di fre­no allo «svi­lup­po». Una discus­sio­ne, in veri­tà, tut­ta inter­na alle logi­che del capi­ta­li­smo che pur­trop­po ancor oggi occu­pa gran par­te dei dibat­ti­ti sul tema, par­ten­do da due erro­ri enor­mi. Uno è l’idea che il pro­ble­ma sia il man­ca­to svi­lup­po e non la sua stes­sa natu­ra, cioè la sua matri­ce capi­ta­li­sta; l’altro è la con­si­de­ra­zio­ne del Mez­zo­gior­no come «tema», men­tre la discus­sio­ne dovreb­be, in altro sen­so, ver­te­re sul­le moda­li­tà del pro­ces­so eco­no­mi­co, poli­ti­co, socia­le e cul­tu­ra­le che ha crea­to il Mez­zo­gior­no come visio­ne. Il capi­ta­li­smo è il vero tema. (pag. 31)

L’autonomia, l’operaismo, le metro­po­li slab­bra­te e puru­len­te del mez­zo­gior­no, le cam­pa­gne dell’entroterra, l’appennino e le ter­re dell’osso: se Lenin veni­va por­ta­to a spas­so in Inghil­ter­ra, sareb­be legit­ti­mo tra­slo­ca­re Pan­zie­ri a sud di Lati­na?
Inqua­dra­re quel­la sto­ria con le len­ti dell’operaismo è un pro­ce­di­men­to con­tro­ver­so. Festa e Bove resta­no fede­li a un meto­do: leg­ge­re i cicli dell’ inter­ven­to straor­di­na­rio nel mez­zo­gior­no alla luce del­la sequen­za sviluppo/​crisi del­lo Sta­to Pia­no, legan­do com­po­si­zio­ne di clas­se, con­flit­ti, inve­sti­men­ti e spe­sa pub­bli­ca, den­tro un’unica chia­ve di let­tu­ra. Il pro­gram­ma non scrit­to dell’autonomia ope­ra­ia meri­dio­na­le sta tut­to den­tro que­sto groviglio.

«Sol­tan­to a livel­lo di clas­se ope­ra­ia si può par­la­re in sen­so spe­ci­fi­co di pro­ces­so rivo­lu­zio­na­rio, di rivo­lu­zio­ne, di rot­tu­ra rivo­lu­zio­na­ria», si dice­va, ma la clas­se ope­ra­ia, nel­le metro­po­li e nei ter­ri­to­ri meri­dio­na­li stra­vol­ti dal capi­ta­li­smo del­la cri­si non è solo quel­la del­la linea di mon­tag­gio, anzi, a Napo­li e in tut­to il Mez­zo­gior­no que­sto para­dig­ma non reg­ge. L’operaismo è un pun­to di vista di par­te, cui ha attin­to – chi più, chi meno – tut­ta l’area dell’Autonomia ope­ra­ia ed è ine­vi­ta­bi­le riflet­te­re sui pro­ble­mi che l’incontro fra la sto­ria del Sud e que­sta cor­ren­te di pen­sie­ro gene­ra. Leg­gen­do quel­le vicen­de den­tro le loro spe­ci­fi­ci­tà è evi­den­te che si fini­sca per indi­vi­dua­re un vul­nus, un cor­to­cir­cui­to nel para­dig­ma ope­rai­sta le cui spe­ci­fi­ci­tà van­no rimo­du­la­te attra­ver­so i com­por­ta­men­ti e le sog­get­ti­vi­tà dell’Autonomia meri­dio­na­le: in par­ti­co­la­re, rispet­to alla com­po­si­zio­ne di clas­se di quei ter­ri­to­ri e ai pro­ces­si di pro­du­zio­ne e valo­riz­za­zio­ne del­le comu­ni­tà. Det­to fuo­ri dai den­ti: l’operaismo è nato nel Nord Ita­lia, davan­ti ai can­cel­li del­le fab­bri­che del «trian­go­lo indu­stria­le», in par­ti­co­la­re a Mira­fio­ri con al cen­tro l’operaio mas­sa, gio­va­ne meri­dio­na­le «depor­ta­to» per soste­ne­re lo svi­lup­po capi­ta­li­sti­co dei glo­rio­si Set­tan­ta. A Sud que­sta linea di pen­sie­ro ha avu­to la fun­zio­ne di “cas­set­ta degli attrez­zi” con­cet­tua­le per grup­pi ristret­ti di intel­let­tua­li e avan­guar­die mili­tan­ti, ma non è mai esi­sti­ta una sua tra­di­zio­ne teo­ri­ca né una sua tra­du­zio­ne. (pag. 11)

Que­sta traduzione/​traslazione la ope­re­ran­no i pro­le­ta­ri nel­la pras­si, sen­za por­si tan­te que­stio­ni epi­ste­mo­lo­gi­che: nel Mez­zo­gior­no l’autonomia dell’interesse di clas­se e dei biso­gni di mas­sa non ha biso­gno di adat­tar­si al “cal­co” ope­rai­sta, ma lo rein­ven­ta, ne for­za il peri­me­tro costrin­gen­do le stes­se sog­get­ti­vi­tà orga­niz­za­te a ride­fi­ni­re se stes­se in rap­por­to ad una movi­men­ta­zio­ne socia­le ric­chis­si­ma e radi­ca­le. Rac­con­ta­re quel cli­ma è dif­fi­ci­le e neces­sa­rio. E per pro­va­re a far­lo, gli auto­ri si affi­da­no a mol­ti con­tri­bu­ti, di taglio e regi­stro assai dif­fe­ren­te (per sod­di­sfa­re ogni pala­to). Con­tri­bu­ti di alto pro­fi­lo, qua­li quel­lo di Lan­fran­co Cami­ni­ti, che rac­con­ta del­la nasci­ta di Pri­mi Fuo­chi di Guer­ri­glia, il ten­ta­ti­vo di pra­ti­ca­re il “dirit­to alla guer­ra” den­tro l’oppressione sta­gnan­te del­la socie­tà meri­dio­na­le e rifon­da­re una dia­let­ti­ca nuo­va tra ini­zia­ti­va arma­ta e pra­ti­ca di mas­sa, tra sog­get­ti­vi­tà auto­no­ma e comunità/​territori.

Indi­ca­re lo Sta­to come nemi­co, indi­riz­za­re con­tro lo Sta­to la sin­te­si dell’antagonismo al Sud, non sareb­be sta­to un «valo­re aggiun­to» – acca­de­va già. Il fat­to nuo­vo, a noi sem­bra­va, era che le fun­zio­ni del­lo Sta­to si anda­va­no dislo­can­do den­tro la socie­tà, i cor­pi inter­me­di e la distri­bu­zio­ne dei pote­ri, e una sem­pli­fi­ca­zio­ne socie­tà vs. Sta­to o clas­se vs. Sta­to non coglie­va le modi­fi­ca­zio­ni. Biso­gna­va per­ciò «por­ta­re» l’antagonismo den­tro la socie­tà, den­tro la sta­tua­liz­za­zio­ne del­la socie­tà; cioè, den­tro una dina­mi­ca, un pro­ces­so, e non una strut­tu­ra e le sue arti­co­la­zio­ni. (…) Non era­va­mo clan­de­sti­ni. Con quel­la stes­sa fac­cia face­va­mo assem­blee e rapi­ne, riu­nio­ni e atten­ta­ti. In guer­ra, d’altronde, si com­bat­te a viso aper­to. (pag. 96)

Napo­li, all’inizio degli anni ’70, è comun­que la quar­ta cit­tà indu­stria­le d’Italia. E l’Italsider e l’Alfasud ven­go­no pie­na­men­te inve­sti­te dal ven­to dell’autunno cal­do, del­la sta­gio­ne dei con­si­gli e dell’autonomia dei com­por­ta­men­ti ope­rai in dire­zio­ne del rifiu­to del lavo­ro sala­ria­to – non come pro­gram­ma o teo­ria, ma come pras­si ed esi­gen­za di vita. Anche qui ci si inter­ro­ga reto­ri­ca­men­te sul rap­por­to tra lot­te di fab­bri­ca e lot­te socia­li: sono i con­te­nu­ti del ’69 ope­ra­io a rove­sciar­si sui quar­tie­ri, o al con­tra­rio, è la matu­ra­zio­ne del­le lot­te popo­la­ri sul ter­ri­to­rio, sul ter­re­no del­la ripro­du­zio­ne e del red­di­to socia­le, a tene­re acce­so il fuo­co nei repar­ti del­la pro­du­zio­ne indu­stria­le? In ogni caso, anche a Napo­li alcu­ni gran­di sta­bi­li­men­ti diven­te­ran­no scuo­le di comu­ni­smo per una gene­ra­zio­ne di qua­dri ope­rai, sem­pre in bili­co tra sin­da­ca­li­smo radi­ca­le e insur­re­zio­ne.
Inte­res­san­te, da que­sto pun­to di vista, il recu­pe­ro del­la sto­ria dimen­ti­ca­ta dell’Unione Sin­da­ca­le dei Comi­ta­ti di Lot­ta, una rete di nuclei di fab­bri­ca – osti­li al nuo­vo cor­so con­si­lia­re post-69 – e ricon­du­ci­bi­le ad una pic­co­la for­ma­zio­ne mar­xi­sta-leni­ni­sta (gui­da­ta dal non dimen­ti­ca­to Gusta­vo Her­man): para­dos­si napo­le­ta­ni, per rac­con­ta­re l’autonomia, nel gro­vi­glio di sto­rie, fac­ce e pro­ces­si, devi par­la­re degli emme-elle…

Fran­co e impor­tan­te, il con­tri­bu­to di Raf­fae­le Pau­ra, ama­tis­si­ma figu­ra tutt’ora atti­va den­tro il movi­men­to napo­le­ta­no; da lui arri­va un fram­men­to rela­ti­vo alla sto­ria dei Comi­ta­ti di Quar­tie­re (l’autonomia con la a minu­sco­la), del loro apo­geo e del­la loro rapi­da decre­sci­ta. Orga­ni­smi popo­la­ri, cen­tra­ti sull’autoriduzione e la ver­ten­zia­li­tà di quar­tie­re, nei qua­li però una gene­ra­zio­ne di mili­tan­ti dovrà fare i con­ti con il nodo più dram­ma­ti­co di quel­la fase storica:

Intor­no al ’74 un grup­po di mili­tan­ti atti­vi nel Comi­ta­to del quar­tie­re Por­to, sul­la scia di un ragio­na­men­to inter­no e sul­la spin­ta di quel­lo che acca­de­va intor­no, abban­do­na il lavo­ro di mas­sa e si strut­tu­ra come grup­po arma­to. È sta­ta una scel­ta com­pli­ca­ta e sicu­ra­men­te un erro­re poli­ti­co. Il grup­po non ave­va un nome, usa­va­mo diver­se sigle anche per­ché nel momen­to in cui si dif­fon­de­va un cer­to inna­mo­ra­men­to per la lot­ta arma­ta noi cer­chia­mo di evi­ta­re la deri­va avan­guar­di­sta anche se que­sta cosa poi, di fat­to, acca­de. Il nostro grup­po, come altre for­ma­zio­ni affi­ni spar­se nel Meri­dio­ne, non ave­va nem­me­no una com­po­si­zio­ne sta­bi­le, i com­pa­gni si spo­sta­va­no e attra­ver­sa­va­no diver­si ambi­ti del movi­men­to e pen­sa­va­mo che que­sto potes­se evi­ta­re il distac­co dal­le lot­te socia­li. Nes­su­no di noi, infat­ti, è mai sta­to clan­de­sti­no, anche quan­do era­va­mo lati­tan­ti con­ti­nua­va­mo a sta­re nel movi­men­to per­ché l’idea dell’avanguardia ester­na non ci ha mai attrat­to. Alcu­ni com­pa­gni, inol­tre, sono anda­ti in gale­ra per rapi­na o altri «cri­mi­ni» ma era­no pro­le­ta­ri che sta­va­no con noi e mol­te rapi­ne eti­chet­ta­te come cri­mi­ni «comu­ni» in real­tà non lo era­no, ma si trat­ta­va di azio­ni di com­pa­gni e pro­le­ta­ri poli­ti­ca­men­te schie­ra­ti den­tro quel­la for­te quo­ta di «ille­ga­li­tà socia­le» che si incro­cia­va con quel­lo che face­va­mo noi.
Nono­stan­te la dispo­ni­bi­li­tà all’uso di armi e del­la for­za, comun­que, fra tut­ti gli erro­ri che abbia­mo com­mes­so non abbia­mo mai avu­to come obiet­ti­vo quel­lo di col­pi­re le per­so­ne, l’omicidio poli­ti­co non è mai sta­to nel nostro oriz­zon­te. L’attività era rivol­ta pre­va­len­te­men­te al con­trol­lo dei ter­ri­to­ri che le lot­te socia­li sta­va­no libe­ran­do, con le cam­pa­gne con­tro i dela­to­ri nei quar­tie­ri, e poi ad azio­ni come la spe­sa poli­ti­ca che non era solo l’attacco ai super­mer­ca­ti ma anche ini­zia­ti­ve più ecla­tan­ti. Nel ’75, quan­do Ser­gio Romeo era anco­ra vivo vie­ne bloc­ca­to a For­cel­la un camion che tra­spor­ta­va pasta e il cari­co vie­ne distri­bui­to ai pro­le­ta­ri del quar­tie­re. Que­sto era il tipo di azio­ni che rite­ne­va­mo cen­tra­li. Ser­gio in quel­la occa­sio­ne era già nei Nap e voglio ricor­da­re que­sto par­ti­co­la­re per­ché nono­stan­te le sigle di appar­te­nen­za il dato poli­ti­co è che noi com­pa­gni ci riu­ni­va­mo sul­le azio­ni, non c’erano com­par­ti­men­ta­zio­ni sta­gne. In quel perio­do anche gli stes­si mili­tan­ti dei Nap agi­va­no in que­sto modo, pure per­ché quel­la orga­niz­za­zio­ne nasce den­tro i movi­men­ti, pri­ma dell’impazzimento orga­niz­za­ti­vo che avvie­ne qua­si per neces­si­tà, dopo la mor­te e gli arre­sti di mol­ti com­pa­gni e com­pa­gne e le fasi dram­ma­ti­che che la loro orga­niz­za­zio­ne si tro­vò ad affron­ta­re.(…) È anche sul­la base di que­sti even­ti che avver­tia­mo la spin­ta a costrui­re un grup­po che di fat­to si distac­ca dal lavo­ro nei quar­tie­ri, venia­mo coin­vol­ti da quel­la spin­ta sog­get­ti­va che por­ta a un «gio­co al rial­zo», pen­sia­mo che ormai i pro­le­ta­ri sia­no pron­ti a reg­ge­re in auto­no­mia le strut­tu­re ter­ri­to­ria­li e ci dedi­chia­mo a costrui­re un’altra orga­niz­za­zio­ne, inve­ce di ripen­sa­re e rilan­cia­re il lavo­ro di mas­sa. (…)
L’abbandono del­le lot­te socia­li, comun­que, anche se non era nostra inten­zio­ne c’è sta­to, doven­do affron­ta­re un per­cor­so di quel tipo che è sta­to un pun­to di non ritor­no. Nel­la zona del cen­tro ave­va­mo costrui­to, negli anni, una strut­tu­ra autor­ga­niz­za­ta a par­ti­re dal­le auto­ri­du­zio­ni che dove­va esse­re fun­zio­na­le alla costru­zio­ne di un con­tro­po­te­re ter­ri­to­ria­le. Il risul­ta­to di quel­la scel­ta, inve­ce, è che come pri­ma cosa vie­ne taglia­ta subi­to la cor­ren­te elet­tri­ca a tut­ti. Mia mam­ma non mi ha mai per­do­na­to per quel­la cosa. Il nostro ruo­lo in quei Comi­ta­ti non era secon­da­rio, anzi, nel momen­to in cui sia­mo pas­sa­ti alla clan­de­sti­ni­tà, con­se­gnan­do il lavo­ro di mas­sa e l’organizzazione in mano ai pro­le­ta­ri che ave­va­no fat­to le lot­te fino a quel momen­to insie­me a noi è scom­par­so tut­to e l’ espe­rien­za dell’autoriduzione si è esau­ri­ta. Tut­to quel pro­ces­so, i Comi­ta­ti per l’autoriduzione, la dife­sa del ter­ri­to­rio, i Comi­ta­ti di quar­tie­re alla fine è anda­to per­du­to. (pag. 200)

Alfon­so Natel­la, Fran­co Piper­no, Fran­ce­sco Caru­so e Giso Amen­do­la arric­chi­sco­no il rac­con­to cora­le di una epo­pea che solo appa­ren­te­men­te ha il sapo­re del­la scon­fit­ta o dell’occasione man­ca­ta: c’è un sedi­men­to di memo­ria, di veri­tà, di sapien­za sov­ver­si­va, che rie­mer­ge car­si­ca­men­te, fino a sfi­da­re il pre­sen­te davan­ti ai can­cel­li del­la logi­sti­ca, nei ter­ri­to­ri stu­pra­ti, nel­le metro­po­li slab­bra­te e vio­len­te che ci toc­ca attraversare.

Nel­la capi­ta­le del­la flui­di­tà socia­le, le for­ma­zio­ni dell’Autonomia orga­niz­za­ta – Ros­so, Sen­za Tre­gua, Mco – pro­ve­ran­no a costrui­re lega­mi soli­di con l’autonomia dif­fu­sa napo­le­ta­na e meri­dio­na­le. Ma per tut­to il decen­nio ’70, gli auto­no­mi del sud non rie­sco­no a defi­ni­re dei peri­me­tri orga­niz­za­ti­vi e pro­gram­ma­ti­ci sta­bi­li: come se il mon­ta­re dei cicli di lot­ta impe­dis­se non solo le scle­ro­tiz­za­zio­ni grup­pet­ta­re, ma anche qual­sia­si sedi­men­ta­zio­ne vir­tuo­sa, qual­sia­si pas­sag­gio che evi­tas­se i sal­ti e le rot­tu­re gene­ra­zio­na­li, che saran­no così tipi­che di que­sta sto­ria e di que­sti territori.

Gli auto­no­mi furo­no i pri­mi a lot­ta­re con­tro se stes­si, a pro­va­re a met­te­re ordi­ne nei pro­ces­si cao­ti­ci che era­no sta­ti così bra­vi ad evo­ca­re o abi­ta­re. Ma risul­ta dif­fi­ci­le rico­strui­re una cor­ni­ce ade­gua­ta, rispet­to a que­sta ecce­den­za, a que­sta ric­chez­za: tan­to più nel sud Ita­lia, e nel­la sua sgan­ghe­ra­ta capi­ta­le. E’ per que­sto che anco­ra oggi con­ti­nuia­mo a leg­ge­re libri su que­sta sto­ria così pre­sen­te, così irri­sol­ta, che pre­me con urgen­za sul­la nostra intel­li­gen­za e sull’agenda dell’oggi.

Del resto, in ognu­no dei nove volu­mi pre­ce­den­ti (una serie edi­to­ria­le dal­la lon­ge­vi­tà incre­di­bi­le, per la qua­le non si smet­te­rà mai di esse­re abba­stan­za gra­ti a Deri­veAp­pro­di) il pro­ble­ma “onto­lo­gi­co” dell’autonomia ope­ra­ia per­ma­ne osti­na­to – fino alla dif­fi­col­tà nel­la scel­ta del­la A maiu­sco­la o minu­sco­la, nel rac­con­ti di mol­ti con­te­sti. L’ A/​autonomia inaf­fer­ra­bi­le, che non si fa cat­tu­ra­re, cata­lo­ga­re, su cui non solo sto­ri­ci e sag­gi­sti con­ti­nua­no a sbat­te­re la testa, ma anche tan­ti soler­ti magi­stra­ti che han­no pro­va­to attra­ver­so cen­ti­na­ia di miglia­ia di pagi­ne di atti istrut­to­ri a ricon­dur­re a cate­go­rie pena­li quel­la che è sta­ta una esplo­si­va complessità.

Que­sto libro è for­se il più dina­mi­co e “dif­fi­ci­le” di tut­ta la serie, quel­lo che esi­ge più dedi­zio­ne, quel­lo in cui lo sfor­zo di con­te­stua­liz­za­zio­ne sto­ri­co-poli­ti­ca è più alto. Ma anche quel­lo che offre di più al let­to­re che, a secon­da del­le sue pre­fe­ren­ze, tro­ve­rà sto­rie di vita ed ele­men­ti alti dibat­ti­to teo­ri­co, intrec­cia­ti nel clas­si­co bai­lam­me medi­ter­ra­neo: come nei vec­chi asset­ti urba­ni napo­le­ta­ni, dove i bas­si del pia­no ter­ra con­vi­vo­no col pia­no nobi­le e tut­ti gli odo­ri e i rumo­ri si mesco­la­no appa­ren­te­men­te sen­za principio.

Un libro che reste­rà – oltre l’orizzonte faci­le del­la memo­ria­li­sti­ca – e che sia­mo sicu­ri tro­ve­rà la sua col­lo­ca­zio­ne non solo nel­le biblio­te­che di movi­men­to, ma anche negli archi­vi di isti­tu­ti e cen­tri stu­di che non han­no abdi­ca­to alla neces­si­tà del­la memo­ria critica.

*pub­bli­ca­to su Car­mil­laon­li­ne