Recensione di Gigi Roggero a Gli autonomi. Storia dei Collettivi politici veneti per il potere operaio di Giacomo e Piero Despali, a cura di Mimmo Sersante (DeriveApprodi, gennaio 2020)
Ci sono libri, pochi, che da tempo aspettano di essere scritti. La storia dei Collettivi politici veneti per il potere operaio (Cpv) è uno di questi. Con la cura di Mimmo Sersante, è costruito attraverso un lungo e articolato dialogo tra i fratelli Giacomo e Piero Despali, dalmati di nascita e padovani di adozione, che dei Collettivi sono stati quadri dirigenti. Il testo è arricchito da interviste a ex militanti di Pordenone, Rovigo, Venezia e del Centro di comunicazione comunista veneto, a dimostrazione dell’estensione e del radicamento dei Cpv, e da alcuni documenti politici, soprattutto della rivista «Autonomia». Pubblicato a gennaio, è il sesto volume de Gli autonomi, ormai storica iniziativa editoriale di DeriveApprodi. Dell’Autonomia operaia organizzata, infatti, i Cpv sono stati un asse portante.
La narrazione comincia dall’inizio degli anni Settanta, il convegno di Rosolina del ’73 è ovviamente una tappa periodizzante su cui riflettere. Piero, allora in un gruppo di studenti medi ed ex medi da cui nasceranno i Collettivi, non ha compreso i reali motivi politici dello scioglimento di Potere operaio: «la proposta di dare centralità alle assemblee autonome delle grandi fabbriche poteva solo significare che si andasse tutti a Marghera e fare lavoro esterno; e però questa cosa non c’entrava niente con la nostra esperienza territoriale». Con la concreta necessità di utilizzare una struttura organizzativa nazionale, i padovani decidono dunque di restare in Potere operaio anche dopo Rosolina. L’anno dopo, nel ’74, verificano l’esaurimento di quella storia: l’attivo di Po si trasforma così nel primo attivo dei Collettivi.
Del resto, come precisa Giacomo, gli studenti – in particolare quelli degli istituti tecnici – prefiguravano già dalla fine degli anni Sessanta quella che, nel corso di un decennio, sarebbe emersa come nuova composizione di classe, al cui centro vi era la complessa figura politica dell’operaio sociale, la cui sostanza soggettiva è il rifiuto del lavoro (salariato, tiene a precisare Giacomo; sans phrase, ovvero specificamente capitalistico, ribatte Piero). Da qui la ripulsa a chiudersi nel fortilizio della fabbrica tradizionalmente intesa, per costruire il processo organizzativo dentro e contro la «fabbrica diffusa», anticipata dalla configurazione produttiva del Veneto. «Sono convinto – sostiene Piero – che solo più tardi Negri comincerà a valorizzare la centralità di questa nuova composizione di classe. Da parte nostra possiamo dire di averlo anticipato proprio sul terreno della politica pratica. Io credo che sia stato questo il vero motivo per cui torneremo a incontrarlo, dopo».
La lotta dei Consigli di fabbrica doveva perciò saldarsi con l’iniziativa territoriale contro l’aumento dei prezzi e l’abbassamento della qualità della vita. Nascono così nuovi organismi, come i coordinamenti operai, «un mix di operaio massa e operaio sociale»; oppure i Gruppi sociali, centri di aggregazione legati alle parrocchie, che vengono occupati e trasformati dalla presenza politica dei compagni. È in questo tentativo di ricomposizione fondato sul territorio che viene lanciata la parola d’ordine: «Costruiamo il potere operaio e proletario nelle nostre zone».
Dal ’76 i Cpv parlano, nella concretezza dell’intervento politico, di contropotere. È infatti in quell’anno che inizia una nuova pratica di lotta: il giorno precedente a un annunciato comizio di Almirante, i Collettivi spiazzano tutti – polizia e fascisti, Pci e ritualità antifasciste. Alcune centinaia di compagni armati, anche da Venezia-Mestre e da Vicenza, bloccano le vie di accesso al quartiere padovano dell’Arcella, distruggendo la sede dell’Msi, colpendo case e luoghi di ritrovo dei fascisti. Va detto che una simile iniziativa, così come più in generale le altre azioni contro gli squadristi locali, non seguono affatto le classiche retoriche resistenziali, caratteristiche di altri gruppi rivoluzionari e delle formazioni combattenti: sono una pratica strumentale utile a costruire un corpo militante coeso, a cementare i rapporti politici, a modulare l’esercizio della forza. Del resto, la cosiddetta «notte dei fuochi» dell’Arcella va ben oltre l’antifascismo: diventerà ben presto, insieme alle ronde ed estesa ad altri luoghi del Veneto, un modello di controllo territoriale e, al contempo, di decisione autonoma dei tempi, dei luoghi e dell’intensità nell’esercizio della forza. Con il ’76, così, i Cpv consolidano la propria forme di organizzazione compiutamente regionale, con un esecutivo politico composto dai responsabili dei singoli collettivi.
Con grande chiarezza, come già aveva fatto Donato Tagliapietra nel precedente volume sull’Autonomia operaia vicentina, Piero e Giacomo illustrano le differenze profonde rispetto alla proposta combattentista, in particolare le Br, ancorate alla centralità della grande fabbrica, al terrore panico per un golpe militare, a una concezione della forma-Stato definitivamente superata. Per certi aspetti, sono una sorta di Pci estremista, che interpreta l’autonomia della politica come autonomia della lotta armata, riproducendo una struttura separata rispetto alla composizione di classe. Attenzione, precisa Piero rivendicando l’«unità dei comunisti»: la lotta armata non è affatto esclusa dalla prospettiva autonoma, ma è sempre interna al processo di sviluppo dell’illegalità di massa e di costruzione del contropotere, mai rappresentata separatamente da un partito armato clandestino.
Il controllo territoriale si pratica anche per organizzare gli espropri, sfuggendo qui a un doppio rischio: da un lato la tentazione di esaltare meri comportamenti di ribellismo individuale, dall’altro di riprodurre la logica del servizio o caritatevole, nella divisione tra erogatori e utenti. Espropri e azioni di riduzione dei prezzi vivono all’interno del rapporto tra bisogni sociali e progetto politico rivoluzionario, evitando la reciproca autonomizzazione e separatezza. Divengono, appunto, esercizio di contropotere. Se guardiamo all’oggi, come talora esplicitamente e ancor più implicitamente questo volume ci invita a fare, vediamo come la storia si ripeta: il dibattito del cosiddetto «movimento» è infatti intrappolato tra il consumo ideologico delle insorgenze degli altri e i bravi samaritani che aiutano le vittime, tra il fuoco fatuo dell’estetica rivoltosa e l’acquasanta della rivoltante retorica umanitaria.
Centrale comunque è la questione del salario, inteso nella sua duplicità monetaria e reale, nella fabbrica tradizionale e nella fabbrica sociale. Il soggetto della lotta, l’operaio sociale, è una figura multiforme. Lo si trova nell’università patavina, la «nostra Mirafiori», dove i compagni incontrano lo studente massa, dentro i processi di fuga dalla fabbrica, di estensione del rifiuto del lavoro, di autovalorizzazione proletaria, di industrializzazione della formazione. Lo si trova nei comportamenti conflittuali delle donne, però – importante sottolineatura – non in quanto figura separata o indipendente dalla composizione di classe: «non eravamo tifosi del femminismo […] ci risultava difficile considerare la casa il luogo esclusivo della lotta», se per luogo di lotta intendiamo materialisticamente l’individuazione di una controparte e una pratica di organizzazione. I comportamenti conflittuali delle donne sono invece quelli con cui i compagni e le compagne dei Cpv si rapportano dentro e fuori dalla fabbrica tradizionale, costituendo un vettore soggettivo importante della nuova composizione di classe. Anche qui troviamo indicazioni e riflessioni che dovrebbero essere messe a valore nei dibattiti dell’oggi, che troppo spesso riproducono ideologicamente discorsi di un passato che non c’è più, senza neppure quella carica sovversiva che avevano al tempo.
Comunque proprio in quella fase, sostiene Piero, si compie la transizione tra l’operaio massa e l’operaio sociale, che permette di anticipare il ’77. A partire da questa concretezza di intervento territoriale centrato sulla nuova composizione di classe i Cpv si avvicinano a «Rosso»: in questo contesto, nel giro di poco, cominceranno a porre il tema del partito, nella forma dell’organizzazione nazionale. Lo fanno spinti dalla forza del loro radicamento, come possibilità di un passaggio in avanti, con la necessità di continui momenti di verifica politica. Ciò consente loro, almeno nel ripercorrerlo analiticamente, di criticare il «colpo sull’acceleratore» di chi ha immaginato che la tendenza fosse già realizzata, quindi non necessitasse di una processualità politica. L’accelerazione, infatti, non è un salto in avanti in rottura con la tendenza del capitale, al contrario si affida a essa pensando di poterla dirigere. Resta in ogni caso un nodo irrisolto, uno di quelli centrali. Giacomo e Piero non svicolano dal problema, non tentano di far quadrare i conti o di rifugiarsi in mitopoietiche ricostruzioni. Affrontano il tema di petto, evidenziano i punti critici, ripensano quello che è stato fatto e che non è stato fatto. La stessa territorialità, ci dicono, «è stato l’elemento di pregio della nostra organizzazione anche se, alla lunga, si è rivelata un limite». Con il finire del ’78, si esaurisce anche l’ipotesi nazionale: così nell’ottobre esce il numero zero di «Autonomia», «nelle intenzioni un settimanale di movimento legato al territorio», che continuerà le sue pubblicazioni fino all’inizio degli anni Novanta, accompagnando la transizione dai Cpv a quello che verrà dopo.
Anche la banale brutalità della repressione non può essere un alibi dietro cui nascondersi, come se i rivoluzionari si aspettassero qualcosa di diverso dal nemico. Anzi, ci dicono, è stato un errore sopravvalutare lo Stato di diritto, dare per buone le retoriche con cui i liberali raccontano la propria democrazia. In queste pagine, oltre a non esserci nessun tentativo di giustificazione, non vi è neppure alcuna traccia di vittimismo, anzi: «Sono orgoglioso – afferma Piero – di dire che non mi sono mai trasformato in un esule. Invece nella mia lunga latitanza la rete di solidarietà che ho trovato è stata significativa in quanto indice di ciò che siamo stati».
Poi sarebbero venuti gli anni Ottanta, la controrivoluzione capitalistica e il leghismo. Si apre un’altra storia, che però non va letta in modo disgiunto: è in qualche modo la risposta a questa storia, quella dell’Autonomia. La fuga dalla fabbrica che diventa autoimprenditorialità, le province che i Cpv non sono riusciti a trasformare fino in fondo, il contropotere autonomo che si trasfigura nel separatismo proprietario: ecco, dice Giacomo, dove nasce l’uomo della Lega, che sa interpretare e piegare verso i propri fini i mutamenti della composizione sociale del Veneto. Tutto sommato, negli anni Ottanta e Novanta fa quello che – con segno opposto – i Cpv avevano fatto nel decennio precedente. «Forse – riflette a voce alta Piero – non siamo stati sufficientemente radicali, nel senso in cui il nostro Marx usa questa parola: di andare alla radice delle cose. Non so se per il tempo che ci è mancato, per errori nostri di valutazione – aver sopravvalutato troppo noi stessi e sottovalutato gli altri – oppure, ma questo lo dico col senno di poi, per non aver compreso a tempo la reale posta in gioco». Altrettanto importante è il ragionamento di Giacomo attorno alla soggettività, questione cruciale che spesso anche nella nostra tradizione politica è stata soffocata da un riduzionismo che potremmo definire meccanicista: la composizione politica, afferma correttamente, è infatti un impasto di cose molteplici e talora contraddittorie, non solo della collazione nella stratificazione della forza lavoro.
Infine, con lucida chiarezza viene analizzato il comportamento politico in carcere e il tema della dissociazione: «Noi – spiega Giacomo – avevamo sempre dato battaglia ai compagni delle Br condannandone le degenerazioni nel mentre si davano, ma la nostra era una battaglia politica mentre questa della dissociazione di politico non aveva nulla perché a condurre il gioco era lo Stato, quello Stato che i compagni, che la dissociazione avevano promosso, dicevano di aver combattuto. Noi la battaglia processuale l’abbiamo condotta avendo sempre di mira le lotte fuori dal carcere. Questi compagni avevano preferito l’autoreferenzialità vestendo i panni di un ceto politico separato, con “il manifesto” come megafono e il dialogo con le istituzioni come il loro impegno precipuo». Dopo l’accelerazione in un avanti separato, ecco l’accelerazione in un rinculo separato. Il problema è che, quando non si pensa con le mani, al pari di quando non si agisce col cervello, la testa si stacca dal corpo, l’individuo dal collettivo, il tempo del proprio sé dalla temporalità del processo organizzativo e dalla produzione allargata di soggettività: è la strada di una compiaciuta o frettolosa «autoreferenzialità», appunto.
Su questo si chiude il dialogo dei Despali insieme al curatore. Un dialogo che mette il lettore-militante continuamente a confronto con i nodi irrisolti del passato e dunque con i problemi dell’oggi, di una storia specifica che è terminata e di una storia rivoluzionaria che ricomincia sempre da capo. A tratti sembrerebbe forse mancare un approfondimento sul piano del processo di organizzazione concreto e quotidiano, di cui Giacomo e Piero sono stati non solo partecipi ma figure protagoniste. Crediamo che non sia una disattenzione, bensì la scelta di mantenersi su un livello di analisi più complessivo. Tale scelta si avvale del concordato completamento del volume con altri due pezzi fondamentali, che si incastrano uno con l’altro: il già citato L’Autonomia operaia vicentina di Tagliapietra e il neonato sito sulla storia dei Cpv (www.collettivipoliticiveneti.it).
Va pure detto che il libro è non solo fondamentale, ma anche bello – come auspica il curatore. Non di quella bellezza fornita da una vuota suggestione, da parole che volano via un istante dopo che sono state pronunciate o lette, da una temporalità effimera: in poche parole, non è una bellezza che risponde ai codici dell’estetica postmoderna. Al contrario, questa storia è di una bellezza radicata nella terra, da cogliere con la testa – ribadiamo, da pensare con le mani. Per leggere un simile libro, avvertiva Nietzsche, è necessaria soprattutto una cosa «per cui si deve essere quasi vacche e in ogni caso non “uomini moderni”: il ruminare». Ruminando, allora, continuiamo e riapriamo la discussione: non sul passato, ma immediatamente sul presente. Sapendo che l’autonomia non è mai data una volta per tutte: la si conquista e reinventa di continuo, rompendo con l’esistente e con quello che siamo, o che siamo diventati.
Giacomo e Piero Despali (a cura di Mimmo Sersante), Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio, Gli autonomi – volume VI, Edizioni DeriveApprodi, Roma, 2020, pp. 260, € 19,00
È uscito il sesto volume della serie Gli autonomi – e questa è già una notizia, visto che una collana di tale persistenza, merita qualche considerazione. Il primo volume risale al lontanissimo 2007 ed è già in gestazione il numero sette. Qual è la platea che sostiene questa continuità di interesse su un terreno che potrebbe sembrare monotematico o specialistico? Tutti over 65 che contemplano malinconicamente il loro passato pirotecnico? No, certo. Fra gli accaniti lettori di questi libri, sempre miracolosamente in equilibrio tra memorialistica e saggistica politica, esiste di sicuro una ricca eterogeneità di volti e storie, fatta anche di giovanissimi: tutta gente che si interroga sul presente e sul futuro, usando questi volumi come strumenti per aggredire i nodi del qui e ora, la battaglia politica e sociale dell’oggi, il bilancio storico del movimento antagonista come bilancio del movimento reale del conflitto in questo paese – l’autonomia “storica” come elemento di riflessione sull’”autonomia possibile”.
Giacomo e Piero Despali, sotto la guida di Mimmo Sersante, tessono il racconto appassionato e lucido di una stagione che sembra lontana anni luce, guardando il Veneto d’oggi, ridotto a suburra leghista. Ma ci raccontano (come già aveva fatto Donato Tagliapietra nel volume precedente dedicato al territorio vicentino) che anche il “loro” Veneto, quello che uscì dal turbine degli anni ’60, era il risultato di una massiccia trasformazione antropologica, maturata nell’arco di un mattino: un mondo di arretratezza arcaica, di provincialismo democristiano, che pareva immoto e immutabile, nel giro di pochi anni divenne un laboratorio di pratiche sociali rivoluzionarie, che coglievano ed esasperavano, fino a portarli al punto di rottura, gli elementi di sviluppo e modernizzazione prodotti dal boom economico e dalla scolarizzazione di massa.
Al centro della narrazione, una generazione di giovanissimi militanti, quasi tutti studenti delle scuole tecniche e professionali o lavoratori delle microfabbrichette, che si pone l’obiettivo di un insediamento reale nel corpo di classe e nel cuore di questi territori in rapida modificazione. Rompendo con il vecchio Veneto provinciale e rurale, ma anche con il quietismo piccista che spera nella lunga inerzia elettorale, per scalzare la DC. I fratelli Despali sono due giovanotti come tanti, politicizzati nelle scuole medie superiori e approdati in Potere Operaio, la sponda più radicale tra quelle disponibili. La stagione dei gruppi che sta volgendo al termine, ha comunque costituito un invaso e un dispositivo di formazione per migliaia di giovanissimi militanti. Quando Potop si scioglie, non tutti condividono questa scelta, anzi Giacomo e Piero Despali – e con loro, probabilmente la maggior parte del quadro diffuso dell’organizzazione – non ne colgono neanche bene le ragioni.
Ricordo che lo scioglimento di Potere Operaio a Rosolina l’ho vissuto in maniera negativa perché il fatto di rimanere o non rimanere in Potere Operaio, dare continuità a quell’esperienza oppure uscirne per dare forma ad altre esperienze, è stato un effettivo elemento di confusione. Per quanto mi riguarda, ero allora – parliamo del 1973 – in un gruppo di studenti, medi ed ex medi, che sul momento non aveva capito il vero motivo dello scioglimento perché la proposta di dare centralità alle assemblee autonome delle grandi fabbriche poteva solo significare che si andasse tutti a Marghera a fare lavoro esterno; e però questa cosa non c’entrava niente con la nostra esperienza territoriale. (pag. 35)
Potere Operaio si scioglie, ma la sua intelaiatura organizzativa a Padova è ancora in piedi. Nella confusione dei riferimenti nazionali e delle varie ipotesi, il “che fare”, per i giovanissimi quadri veneti, è la riconduzione dell’iniziativa politica al territorio: non un rinculo, ma una specie di intuizione strategica, che solo nel tempo troverà le parole – e l’armamentario teorico – per essere razionalizzata. I Collettivi per il potere operaio rappresentano, anche nella sigla, questa fase di superamento: si mantiene testardamente il riferimento al “potere operaio”, ma è ormai tramontata la prospettiva che basti andare a traino delle grandi fabbriche e dell’operaio massa; la ristrutturazione sociale è velocissima, cambia i territori, l’organizzazione del lavoro, gli insediamenti produttivi, la scuola; più che affidarsi alla funzione salvifica del mondo operaio, si devono ripercorrere i nessi che stanno legando tutte queste trasformazioni, leggerne gli attori sociali, coglierne le potenzialità conflittuali o ricompositive. Per fare questo c’è bisogno di una generazione di quadri – e di una organizzazione – adatta a questa fase di intensa movimentazione.
Ci ritroviamo con quanti avevano condiviso a Padova l’esperienza di Potere Operaio; l’attivo registra in verità la sua fine. Alcuni di noi, sempre più consapevoli del limite della proposta di Potere Operaio nazionale, proprio riferendosi a questa pratica politica di radicamento territoriale, decidono di razionalizzare l’intervento strutturandoci in collettivi politici fissati da specifici ambiti di lavoro. […] Il primo a formarsi è il Collettivo Padova Nord […] L’aggancio ci è offerto dall’intervento sul caro trasporti dell’anno prima del Comitato Interistituto; partendo dall’autoriduzione dell’aumento del prezzo dei biglietti e dell’abbonamento, dall’organizzazione degli scioperi e dal blocco delle corriere, avevamo costruito i Comitati di linea dei pendolari, una forma di organizzazione di fatto permanente che ci sarebbe tornata utile l’anno dopo (pag. 44)
Vertenzialità e territorio. Questa la ricetta. E poi adeguata strumentazione organizzativa: i Collettivi come struttura generale, e poi i Gruppi Sociali, i Coordinamenti operai, gli organismi studenteschi, tutto dentro il medesimo tessuto connettivo, animati da strumenti di comunicazione collettivi – vedi Radio Sherwood e più tardi il settimanale «Autonomia» – in un crescendo di legittimazione sociale che farà tremare partiti e istituzioni. Tutta la tematica dell’operaio sociale, si dispiegherà prima nella prassi, e poi, dopo, troverà una sua sistematizzazione teorica: «Noi vi scorgemmo il nostro punto di luce nel giovane proletario, studente di un istituto professionale o tecnico, frequentatore dell’oratorio parrocchiale, prossimo a varcare le soglie di una fabbrichetta oppure, se femmina, di un laboratorio» (pag. 48)
Dopo di che abbiamo voltato pagina privilegiando fin da subito la figura dell’operaio sociale. Aggiungerei naturalmente perché anche noi ne facevamo parte per età, percorsi scolastici, forme di vita e tutto questo a prescindere dai paesi e dalle famiglie di provenienza. In più sentivamo di farne parte. Si, c’era questo comune sentire che era difficile da spiegare, forse perché non c’era nulla da spiegare; era così e basta. E’ il motivo per cui non siamo entrati in maniera significativa nelle roccaforti dell’operaio massa, nella fabbriche di tre-quattrocento operai dove era il partito a fare il bello e il cattivo tempo. In questo caso si sarebbe trattato di una scelta, che non poteva essere la nostra perché ci saremmo sentiti come pesci fuor d’acqua. Sono convinto che solo più tardi Negri comincerà a valorizzare la centralità di questa nuova composizione di classe. Da parte nostra possiamo dire di averlo proprio anticipato sul terreno della politica pratica (pag. 51)
Il dibattito sulla composizione “tecnica e politica” di classe – e quindi sull’imputazione del soggetto rivoluzionario – agiterà furiosamente tutta la sinistra rivoluzionaria e anche la stessa area dell’autonomia, sempre divisa, tra i suoi tre-quattro tronconi principali, al momento di convergere su ipotesi di ricomposizione nazionale. Così come altrettanto lacerante sarà la discussione, in quell’infuocato decennio, sulla legittimità della lotta armata e, in generale, sull’uso della forza:
L’uso della forza, traduzione sul terreno della pratica contingente della lotta armata la cui validità sul piano strategico non era messa in discussione, la commisuravamo a questo progetto di intervento territoriale e la sua legittimazione poteva venire solo dalle strutture e non da fonti autoritative esterne. Senza questa premessa, la lotta armata avrebbe potuto svilupparsi solo avvitandosi su se stessa, come di fatto avvenne con le BR dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Anche se il distinguo per chi legge oggi potrebbe suonare capzioso, per noi violenza politica ed omicidio politico non furono mai la stessa cosa. Oggi è tornata di moda l’idea che solo lo Stato è legittimato a usare la forza e che solo la violenza di Stato è quella legittima. È la rivincita postuma di Hobbes su Spinoza e di Kant su Marx. Eppure per noi era diverso; veramente da questo punto di vista siamo stati i figli di questo secolo, delle sue rivoluzioni. È alla luce della sua storia che abbiamo potuto mettere in discussione quel monopolio di Stato conservando nel contempo i nostri distinguo (pag. 53)
Uso dell’illegalità, organizzazione, spostamento dei rapporti di forza sui territori: «è stato durante il 76 che abbiamo iniziato a parlare seriamente di contropotere, che abbiamo cominciato a crederci», cioè è la pratica reale, il consenso di massa, la vittoria nelle vertenze, a darti l’idea che quella parola tante volte evocata – contropotere – stava diventando esercizio concreto e quotidiano.
Durante tutto il ’76 continuiamo il nostro radicamento in città e in provincia, sviluppiamo in maniera ancora più estesa le pratiche di programma sul salario diretto e indiretto, il Comitato Interistituto si radica ancora di più nelle scuole, cominciamo a mettere piede in alcune facoltà, sempre attraverso ex medi; oltre a Scienze Politiche cominciamo ad essere molto presenti a Psicologia e Lettere. Iscriversi non costavo un cazzo e l’università era in quegli anni veramente di massa. Evidentemente il ciclo di lotte partito nel ’67 nelle Università di mezza Italia aveva dato i suoi frutti. Nessuno ci aveva regalato niente e quello che avevamo ce l’eravamo guadagnato. Così Psicologia stava diventando per Padova quello che Sociologia era diventata per Trento: una buona facoltà di tendenza, con bravi insegnati e uno sbocco garantito soprattutto per le donne. Con Psicologia approda a Padova lo studente massa […] ora sono migliaia con una composizione omogenea molto diversa dallo studente tradizionale, espressione della borghesia di un certo tipo. Molti di noi si sentono parte della nuova composizione per cui la scelta di questa facoltà non è casuale. Siccome Psicologia e Lettere erano vicino a Piazza dei Signori, anche noi eravamo sempre lì in piazza al punto che questa era diventata la nostra piazza, il nostro centro sociale: un cocktail micidiale grazie a questa combinazione di un casino di gente con caratteristiche nuove, che esprimeva un’idea diversa di studio e del modo di stare al mondo. Avevamo trovato il nostro brodo di coltura, letteralmente. Quale studente poteva resistere al fascino dei Collettivi? (pag. 58)
Se la realtà padovana non consente l’intervento sull’operaio massa, i Coordinamenti operai saranno comunque uno strumento di ricomposizione tra la classe operaia diffusa dei piccoli laboratori e i disoccupati prodotti dal processo di crisi/ristrutturazione iniziato nella prima metà dei settanta. La lotta agli straordinari, diventa tematica centrale, per tenere al centro delle pratiche la parola d’ordine “lavorare tutti lavorare meno” e in prospettiva il rifiuto del lavoro salariato, come critica all’immolazione del tempo di vita al moloch della produzione e all’etica lavorista, così radicata in quelle terre.
per noi lo straordinario, ogni sabato, in una situazione di forte disoccupazione, doveva essere combattuto ovunque, e non solo nelle medie e grandi fabbriche, attraverso la ronda. La ronda era una forma di lotta che coinvolgeva soprattutto i disoccupati; andava davanti la fabbrica, anche con gli operai della fabbrica, per bloccare lo straordinario. A ben vedere, per i disoccupati era la sola forma di lotta possibile, quella che restituiva loro dignità perché permetteva di lottare per i loro interessi. (pag. 66)
Mentre i ritmi della lotta di classe in Italia subiscono drastiche accelerazioni, si riflette con serietà sulla necessità di non lasciarsi intrappolare da ideologie territorialiste: c’è bisogno di un orizzonte nazionale complessivo per trasformare i conflitti diffusi in programma comunista. Il tema dell’Autonomia Operaia Organizzata – il nodo, in ultima analisi, del partito –, tra il ’76 e il ’77 diventa sempre più stringente; per i collettivi veneti significa rafforzare l’asse con gli organismi milanesi di «Rosso», stabilendo la nuova realtà organizzativa, anche mediante un significativo cambio della testata del giornale:
A sancire la nuova casa comune sarà «Rosso per il potere operaio» il cui primo numero è del novembre 1977, che non a caso apre sul tema dell’Organizzazione nazionale dell’Autonomia. […] Da parte nostra volevamo che i nostri interlocutori intanto condividessero l’idea che il nuovo ciclo di movimento fosse finalmente promosso e organizzato dall’Autonomia; in secondo luogo, che l’organizzazione ventilata fosse legata ad alcuni punti, in primis il radicamento territoriale a garanzia dell’effettiva consistenza di quanti si fossero dichiarati d’accordo col progetto. […] Da questo punto di vista eravamo interessati a parlare solo con chi era espressione di un percorso proprio, radicato, reale e grosso. […] Una prima risposta è stata quindi quella di un patto federativo tra realtà organizzate e radicate sul piano territoriale, capaci di rappresentare in termini qualitativi e quantitativi forme reali di ricomposizione di classe. (pag. 92)
I tempi incalzano, esaltanti e feroci. I veneti attraversano e si lasciano attraversare dal movimento del ’77, intensificando ancora di più il processo di maturazione organizzativo. Dietro l’angolo, però, c’è già il 1978, l’anno del sequestro Moro e di un ulteriore scompaginamento di qualsiasi illusione di un ordinato e progressivo accumulo di forza dell’autonomia operaia. Rammenta Piero Despali:
Anch’io ricordo bene che come militante dei collettivi veneti non mi sfuggì la portata di quell’operazione militare. Nonostante che del ’77 non avessero capito un cazzo, che fossero ancora legati alla grande fabbrica già ristrutturata e che si fossero mossi in assoluta autonomia imponendoci dall’alto la loro decisione, pensai che questa volta era diverso, e che a fare la differenza era proprio la potenza militare espressa in via Fani; questa stessa potenza – era il mio timore – avrebbe potuto funzionare come un ipoteca del loro progetto politico rispetto a tutto. A maggior ragione l’urgenza di aprire una battaglia politica per contrastarla. […] La nostra risposta era obbligata e non bastava dire che il nostro nemico era lo Stato. Dovevamo rispondere anche alle Br affrontando di petto taluni aspetti della nostra proposta alternativa, in primis quello dell’Organizzazione che non c’era. Se prima di Moro i tempi che avevamo preso in considerazione erano più o meno lunghi, adesso bisognava accelerare. È in questa ottica che va letto l’articolo di Toni sul partito dell’Autonomia nel numero di «Rosso per il potere operaio» di Maggio. Si tratta di un accorato appello a mettere mano al Partito. (pagg. 98–99)
Molto lucida la lettura degli effetti del dopo Moro e della “geometrica potenza” di via Fani dentro al movimento: nasce la categoria politico-sociologica della tifoseria.
Il tifoso è quello che si affascina, che non ragiona più sugli effetti perché non ha il problema di andare il giorno dopo a costruire qualcosa di politicamente utile, ragiona in forma astratta […] Dietro la sua ombra puoi scorgere in controluce quello che smanetta al computer, parla di tutto, se ne sta a casa sua, non ha alcun rapporto con la realtà. (pag. 103)
I Collettivi intanto, sperimentano livelli sempre più alti di illegalità, fino ad arrivare alla “critica delle armi”. Questi passaggi sono però tutti interni ai livelli organizzativi, alle campagne, alle scadenze di movimento, e non giungeranno mai all’uso dell’omicidio come “propaganda armata”. Le “notti dei fuochi” con la riappropriazione manu militari di pezzi di territorio e il sanzionamento di massa di precisi obiettivi politici, resteranno esempi importanti nel panorama nazionale.
Si arriva così al 1979, alla stagione del sette aprile – e alle inchieste successive, con la pesca “a strascico” praticata con larghezza dagli inquirenti dentro al movimento. Il teorema Calogero postula l’esistenza di un’assurda cupola unitaria che ha eterodiretto tutti i fermenti rivoluzionari in Italia, dal ’69 ad allora. La costruzione giuridica manicomiale giungerà all’indicazione di Negri come telefonista delle BR.
Piero Despali si farà 13 anni da latitante. Giacomo sei anni in carcere. Con loro tanti altri quadri e militanti. Con malinconica franchezza, i due narratori ricordano che più delle provocazioni calogeriane, ebbe un effetto lacerante la tragedia di Thiene – tre giovani militanti dei collettivi uccisi dall’esplosione accidentale di un ordigno che doveva servire nella campagna di risposta agli arresti del 7 aprile, con il tragico corollario del suicidio in carcere di un quarto militante, Lorenzo Bortoli, due mesi dopo. Il decennio Settanta si chiude nelle condizioni di massima durezza immaginabili.
La stagione di caccia di Calogero sarà lunga e fagociterà storie, vite, militanza in tutta Italia, come una schiacciasassi. Gli ultimi processi si concluderanno alla fine degli anni ’80. Gli autonomi veneti si ritroveranno in carcere a confrontarsi con due passaggi, anche umanamente, laceranti: da una parte l’egemonia delle BR che cercano di trasformare il carcere in un proprio fronte di organizzazione; dall’altro lo sviluppo del movimento della dissociazione, tanto più lacerante e pericoloso, perché coinvolgente nomi che avevano rappresentato molto nella storia dell’autonomia. Tra questi settori e i giudici inizia un dialogo, che diventerà sempre più gravido di conseguenze:
Se vuoi, e per semplificare al massimo, mentre per noi restava valido l’assunto comunista dello “Stato si abbatte e non si cambia”, per loro, invece, da nemico assoluto lo Stato diventava un soggetto con cui potevi tranquillamente dialogare, il che comportava la messa in mora di ogni forma di lotta armata finalizzata per l’appunto alla sua distruzione. È il motivo per cui questi stessi compagni pensavano di poter spiegare al giudice – istruttore, inquirente o giudicante, poco importa – le buone ragioni dell’Autonomia contrapposte alle cattive ragioni delle BR. Ritenevano di poter convincere i giudici della loro diversità che pensavano abissale per cui, a partire da queste considerazioni, il trattamento conseguente avrebbe dovuto essere diversificato (pag. 144)
Avviato il dialogo con i magistrati “illuminati”, elaborati alcuni documenti politici che dovevano fare da spartiacque, iniziò la formazione delle “aree omogenee” dentro le carceri. Il processo della dissociazione era pienamente avviato e si concluderà con la legge 34 del 1987.
Ma io, e con me gli altri compagni dei Collettivi, da chi avrei dovuto dissociarmi? Noi avevamo sempre dato battaglia ai compagni delle BR condannandone le degenerazioni nel mentre si davano, ma la nostra era una battaglia politica, mentre questa della dissociazione, di politico non aveva nulla perché a condurre il gioco era lo Stato, quello Stato che i compagni, che la dissociazione avevano promosso, dicevano di aver sempre combattuto. Noi la battaglia processuale l’abbiamo condotta avendo sempre di mira le lotte fuori dal carcere. Questi compagni avevano preferito l’autoreferenzialità, vestendo i panni di un ceto politico separato, con il «Il Manifesto» come megafono e il dialogo con le istituzioni come il loro impegno precipuo. Comunque sia, il mondo carcerario si dividerà presto nei due emisferi dei dissociati e degli irriducibili, per cui il dilemma di stare con gli uni o con gli altri sarà il rovello di chi, preso atto che tertium non datur, si trovava costretto a navigare, come dice il poeta, in acque perigliose e a guardarsi le spalle dagli uni e dagli altri […] Chi eravamo? Non potendo ricondurre la mia esistenza di carcerato al concetto di dissociato, pentito, irriducibile brigatista, per quanto mi riguarda avevo optato per il sintagma nominale “prigioniero politico comunista” (pagg. 145–146)
Sono anni di rotture umane, di disgregazione di una comunità politica e carceraria che per lungo tempo segnerà le vite di chi attraversò quelle esperienze laceranti. La storia dei Collettivi finisce più o meno in questa temperie infuocata. Nasce il Movimento Comunista Veneto (articolazione territoriale di una proposta nazionale mai decollata) e anche la narrazione dei due fratelli protagonisti della storia, si interrompe, non senza qualche necessario elemento di bilancio.
I Collettivi Politici Veneti per il potere operaio, saranno l’organizzazione autonoma più radicata e persistente della storia, insieme ai Comitati autonomi romani: ma con un agire da partito – una tendenza al partito, potremmo dire – più evidente e coerente. I mitici “padovani” erano sempre additati come esempio da seguire nel rigore organizzativo; non si trattava di fissazione organizzativistica, ma di metodo: tutta la produzione di autovalorizzazione proletaria, doveva “costituirsi” in un livello strutturato di contropotere, darsi una forma, una visibilità; e l’autonomia operaia organizzata era lo sforzo interno, a questi movimenti, per elevare l’antagonismo sociale in prospettiva comunista. I collettivi politici – tra mobilità delle forme e sapienti funzioni di accentramento – furono lo strumento utile a svolgere quel ruolo in quella fase.
Solo la forza dell’insediamento e la continuità del metodo, permisero all’autonomia operaia veneta di sopravvivere e ritrovarsi, ancora in piedi, nel decennio successivo. Tra i fallimenti nazionali, lo scompaginamento prodotto dalle inchieste e dalla galera, le grandi sconfitte sociali, solo un organizzazione solida poteva sopravvivere a questo tsunami e, sia pur piena di cerotti e stampelle, l’autonomia veneta resse. Sono ancora disponibili in rete le bellissime immagini amatoriali della manifestazione cittadina a Padova, convocata per l’assassinio di Pietro Greco, nella primavera del 1985. Fu l’occasione della rottura del “coprifuoco” imposto alle manifestazioni di piazza a Padova, fin dall’aprile 1979. Si vedono molti ragazzi e ragazze, in quelle immagini un po’ sgranate, che rivendicano il nome di quel loro fratello maggiore che non conobbero, ammazzato come un cane in un agguato sbirresco – ragazzi che non avevano conosciuto gli anni ’70 ma che avevano scelto di essere lì, in piazza, a raccogliere quelle bandiere, a rivendicare una memoria, a guardare al futuro. Calogero era stato sconfitto.
La storia dei Collettivi politici veneti raccontata dai suoi protagonisti. Il VI volume degli Autonomi ricostruisce, attraverso le voci di Piero e Giacomo Despali, il lungo Sessantotto italiano nel territorio – il Nord Est – che più di altri sarà investito dal mutamento produttivo e politico della Seconda Repubblica
Militante complessivo. Sembrerebbe, di primo acchito, quello «di professione» presentato da Lenin nel Che fare? Eppure, non è la stessa cosa. È un modo di essere del soggetto rivoluzionario nella transizione novecentesca, il salto d’epoca che dal fordismo, e dallo Stato keynesiano, procede verso la società del general intellect. Un militante comunista e combattente, certo, ma del tutto interno al proletariato giovanile, nella sua «grande trasformazione». Organizzatore rigoroso, è vero, ma desideroso di assaporare i Grundrisse di Marx o gli Illuministi. Agitatore davanti ai cancelli delle fabbriche, senz’altro, ma pure e soprattutto nelle piazze libere, ascoltando i Led Zeppelin e progettando un lungo viaggio. Un romano della specie in questione, scomparso troppo presto, per ritrarre fattezze e comportamenti della nuova figura produttiva, dell’intellettualità di massa, usò un’espressione avvincente: hopefulmonsters; in genetica, i mostri pieni di speranza che scandiscono i salti evolutivi. Sfugge ai più, ma la comparsa delle figure ormai fin troppo note del lavoro cognitivo – povero di salario, precario di contratto, ricco di competenze e capacità imprenditoriali – ha un precedente nel militante complessivo degli italici anni Settanta. Mostro pieno di speranza, appunto.
Il libro-intervista a cura di Mimmo Sersante, il VI volume DeriveApprodi dedicato alla storia dell’Autonomia Operaia, ha per protagonisti due militanti complessivi di Padova: due fratelli di origine dalmata, Piero e Giacomo Despali. La loro storia porta con sé e racconta quella dei Collettivi politici veneti, vicenda nata dopo lo scioglimento del gruppo Potere Operaio e conclusa dalla furia repressiva che ha inizio il 7 aprile del 1979. Il volume, composto anche da schede, interviste e documenti, diverte e appassiona chi i fratelli li conosce e li ha frequentati, ma sollecita anche i giovani che da non molto si sono buttati nella mischia. Il racconto è denso e impegnativo, intendiamoci. Eppure c’è ritmo: la forma del dialogo è quella giusta, perché senza polifonia non c’è storia di quegli anni; il ricordo delle gesta, giustamente orgoglioso, non sfugge alla lama dell’autocritica; il dettaglio biografico, che pure compare, è sempre agganciato ai sussulti dell’epoca.
Proviamo a individuare alcuni punti singolari, che orientano e muovono la lettura.
Il territorio. Un Mao non dogmatico insegna ai padovani che la spazio non è già dato, statico. È piuttosto dinamico, ha a che fare con la fabbrica che si fa società, con la produzione che diviene coestensiva alla riproduzione. Non stupisce, allora, che il territorio sia in primo luogo quello dei pendolari, la merce forza-lavoro, sia essa in formazione o già impiegata, che si muove e circola. Non è Mao, ma è Marx ovviamente, quello acuminato dell’operaismo dei “Quaderni rossi” e di “Classe operaia”, quello che ha il nome di Toni Negri e dell’Istituto di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Il gioco del go, però, indica che il territorio va strappato, occupato. È nel territorio che si fa la «base rossa», il contropotere, ovvero un dualismo di potere permanente, che non ambisce alla presa del Palazzo d’Inverno. È nel territorio che il nuovo soggetto proletario – scolarizzato, ostile alla fatica salariata, intraprendente – si compone e fa della sua esistenza, del suo desiderio di conoscenza, trama offensiva.
La muta. Il combattente non è un clandestino, e nemmeno un «tifoso». Ha sempre in mente l’adagio di Lukács – da Lenin sempre ispirato: «per lottare efficacemente contro la borghesia, occorre variare di continuo le armi legali e illegali e spesso utilizzarle contemporaneamente nelle stesse questioni». Non si tratta di eroi romantici, né di monaci della III Internazionale: meglio pensare ai lupi. Il massimo teorico della sovranità statale, ovvero Thomas Hobbes, definirebbe le mute di lupi «sistemi irregolari». Cosa intendeva il misantropo? Il federalismo contro lo Stato, l’uso collettivo della forza contro il Leviatano. Il mostro biblico, che fa il popolo contro la moltitudine, teme follemente la moltitudine contro il popolo. C’è dunque una lunga tradizione che precede e sollecita gli autonomi veneti, e non solo loro ovviamente (pensiamo a Roma, Milano, Bologna): quella che ritiene regola la seditio e legge il compromesso temporaneo; quella che stringe patti battagliando, ma respinge i contratti e il diritto privato.
Biblioteca. I primi saggi del materialismo, quello razionale e quello storico, Piero e Giacomo li trovano tra i libri degli Istituti tecnici frequentati. Si chiama mobilità sociale. La lotta operaia e il lungo Sessantotto italiano sono in primo luogo questo: «non farò la tua stessa sporca vita», lamentava Claudio Lolli. Rifiuto del lavoro è sì combattimento, ma perché è desiderio di conoscenza, di socialità altra. I fratelli Despali, ed è forse il movimento più bello del racconto, fanno delle loro letture le protagoniste della scena, al pari del picchetto e della mensa autogestita, degli scontri e delle assemblee del 1977. L’operaismo è la scoperta di un Marx sconosciuto, dal Pci e dalla sinistra manomesso e maltrattato. Ed è una chiave per mettere in scacco Francoforte e la sua Scuola. Ma ci sono anche George Jackson e Angela Davis. C’è il Settecento francese che prepara la rivoluzione borghese, c’è la Francia di Foucault e Deleuze. Il militante complessivo scopre mondi, preparando le sue armi.
Essendo una storia dei Collettivi politici, il racconto si ferma con la devastazione repressiva di Calogero e teoremi vari. È vero però che, se c’è un elemento davvero singolare dell’Autonomia veneta, questo è la sua continuità, la capacità di rilanciare l’innovazione politica con la stagione dei centri sociali, col «popolo di Seattle», col movimento dei Forum sociali. È vero pure che interruzione vi fu. Per la repressione, indubbiamente, ma per un problema più rilevante, che ancora ci affligge: quale il rovescio della fabbrica postfordista? Il movimento dell’Autonomia, che anticipa il salto d’epoca, viene dallo stesso superato. I mostri pieni di speranza si fanno recalcitranti alla forma partito, più in generale all’organizzazione, preferendo l’exit alla voice. Problema di ieri, nella transizione in corso; problema di oggi, con la transizione finita da un pezzo e il neoliberalismo, controrivoluzione permanente, che passa di crisi in crisi.
Nella foto 28/05/1975: scontri a Padova per impedire il comizio del presidente dell’Msi Covelli (via collettivipoliticiveneti)
Le vicende dei collettivi comunisti che animarono il decennio più intenso del secondo Novecento arriva al sesto volume, per i tipi di Deriveapprodi.
La necessità di dissodare il campo vasto del reale spinge ogni intrapresa collettiva a de-scriversi per non diventare oggetto passivo e impotente della esposizione e della classificazione altrui. Da questa premessa muovono Sergio Bianchi e il suo collettivo Deriveapprodi nell’editare il sesto volume de Gli autonomi per narrare, senza compendiare, e documentare criticamente l’organizzazione, la forma e le pratiche politiche del comunismo operaista in Italia. Testi da approfondire in particolare da parte di studiosi e militanti che per ragioni anagrafiche non hanno vissuto quegli anni. Approfondimento ancor più necessario sulla seconda parte degli anni Settanta, anni che una certa storiografia ha definito “anni di piombo” e che non vanno esaltati in una contro-metafora metallurgica come età dell’oro delle lotte sociali. Esaltazione e autoesaltazione che non c’è negli autori – massimi dirigenti dei collettivi politici veneti – Giacomo e Piero Despali che, con Marzio, Stefano, Elisabetta e Sandro, ne affrontano analiticamente tutto il ciclo di militanza.
I collettivi sono parte fondamentale del movimento di trasformazione politica in questo arco temporale: dalla fine dell’organizzazione Potere Operaio con il convegno di Rosolina, i primi di giugno 1973, alla morte accidentale di tre militanti a Thiene, il giorno 11 aprile 1979, neĺla preparazione di un ordigno rudimentale. Movimento che, quindi, non crolla con l’operazione massima nella storia della repressione italiana, gli arresti del 7 aprile 1979, ma nel primo e unico evento tragico interno all’organizzazione che aveva manifestato il fatto che “si era arrivati alla resa dei conti del ciclo di lotte operaie e proletarie degli anni Settanta”, vale a dire con la seconda ondata di arresti l’11 marzo 1980 (pag. 126).
Il libro va letto a ritroso, partendo dalla sezione documentale, che per scelta degli autori e del curatore Mimmo Sersante chiarisce in quattro passaggi chi sono e cosa vogliono i collettivi, un soggetto politico organizzato della classe finalizzato alla rottura traumatica del capitalismo, tanto come modo di produzione quanto come strumento di riproduzione sociale.
Quattro documenti appartenenti al genere letterario del documento politico, genere – come giustamente osservato – sottoposto più di altri all’insidia del tempo, come il soprabito: “lo riponi con cura nell’armadio per tirarlo fuori chi sa quando” (pag. 205). Ma genere infinitamente più acconcio degli atti di un giudice istruttore, di un sostituto procuratore o di una abborracciata commissione bicamerale a descrivere il progetto, la prassi e la temperie in cui questi si inseriscono. I collettivi, dunque, avevano due strutture di direzione complessiva: la commissione fabbriche e la commissione politica, a riprova del fatto che l’intervento di massa e l’intervento militare dovessero essere finalizzati sempre alla ricomposizione di classe.
Nessuna concessione è offerta all’insurrezionalismo, in fondo il punto teorico su cui PotOp si era diviso, ma una lotta di lunga di durata, di movimento e al contempo di posizione, con la costruzione di basi rosse per dispiegare sul territorio un contropotere anche fondato sull’illegalità diffusa. E nessuna concessione nemmeno all’omicidio politico, sintomo dell’autismo delle principali formazioni lottarmatiste passate dall’attacco al cuore dello Stato alla giustizia sommaria (pag. 240). Risultano evidenti i principali riferimenti politici dei collettivi: il maoismo e il leninismo, che vengono approfonditi con specifiche schede (pagg. 196–200). Riferimenti molto tradizionali salvo nella scelta di aver agito da partito senza il sostegno di un partito (pag. 28).
La parte più memorialistica non lascia spazio ad alcun dettaglio inutile al fine di ricostruire la generazione di rivoluzionari di mestiere che agiva in quegli anni nel padovano, nel vicentino, nel rodigino e nel pordenonese. Trattandosi di un movimento generazionale, non casualmente, resta sullo sfondo la vicenda di Porto Marghera, dove sussistevano una classe dirigente protagonista delle lotte operaie fin dal ’68, come Augusto Finzi, e una specificità nell’organizzazione politica dal Comitato autonomo del Petrolchimico disarticolatosi col finire di PotOp e in cui la ricostruzione dell’intervento in fabbrica fu più intergenerazionale tra quadri di fabbrica già esperti, come Armando Penzo e Franco Bellotto, avvicinati dalle nuove leve. In tale contesto tutto diviene più complicato, alla luce del ruolo svolto dallo Stato con le sue partecipazioni statali, il quale esercitava il comando della produzione, in particolare chimica e navalmeccanica.
Il tratto distintivo dell’organizzazione è dato dalla sua composizione sociale, costituita dalla figura dell’operaio sociale in tutte le sue declinazioni: i proletari e sottoproletari inseriti nella filiera della fabbrica diffusa, gli studenti medi di formazione tecnica, gli universitari che, a migliaia, approcciano per la prima volta la formazione tra Magistero, Psicologia e, ovviamente, Scienze politiche, base rossa per antonomasia. Sono i fratelli minori e più fortunati dell’operaio massa, protagonista di Vogliamo tutto, che dalla campagna veneta marciano divisi per colpire uniti la territorializzazione della valorizzazione del capitale che si esprime nella moltiplicazione delle fabbriche, delle banche e delle sedi universitarie. Per rispondere a questa ristrutturazione bisognava costruire una “nuova alleanza” tra i consigli di fabbrica, da controllare da dentro e da fuori da un lato e, dall’altro lato, tra collettivi territoriali in lotta contro il carovita, per il diritto all’abitare e all’acculturamento.
E una nuova leva di statali e parastatali attratti nel ciclo di produzione dei servizi pubblici dalle riforme del compromesso di attuazione costituzionale: in ferrovia, all’Enel, negli ospedali, nelle scuole.
Il radicamento fortissimo sul territorio è croce e delizia (pag.89), poiché permette di svolgere un ruolo anticipatore sul movimento del ’77, di avere la testa del corteo di Bologna nel giugno di quell’anno, ma rende i collettivi oggettivamente marginali l’anno seguente con il sequestro Moro. Gli autori non l’esplicitano fino in fondo, ma da quel momento il ruolo del collettivo di via dei Volsci, da un lato, e del collettivo della nascitura rivista Metropoli dall’altro, diventa preponderante per il movimento comunista antagonista. Torna, così, il processo mai maturato del partito dell’operaio sociale nazionale che riunificasse il barelliere del policlinico dal forte accento romano al contoterzista dell’alta padovana, ma che non poteva nascere dalla nuova fase come giustapposizione di esperienze locali.
Colpisce nella ricostruzione il tratto di cultura politica dei fratelli Despali, vale a dire la critica al revisionismo del Pci fino dalla svolta di Salerno. La valutazione netta sul trentennio precedente della più numerosa organizzazione dell’Occidente non consentiva alla loro impresa politica di rivolgersi a plasmare il “vero” partito comunista, proprio perché l’autenticità del progetto rivoluzionario era venuta meno non già col berlinguerismo, ma con la fine della Resistenza.
Sono davvero molti gli argomenti analizzati nell’opera, che non dà l’idea di essere stata scritta come pagina di “storia dei vinti”. Volendo ascrivere al pensiero benjaminiano i fratelli Despali, sembra abbiano chiaro che la socialdemocrazia ha spezzato il nervo della classe facendole disapprendere l’odio e la volontà del sacrificio, “poiché entrambi si alimentano all’immagine degli avi asserviti e non all’ideale dei liberi nipoti”.
Da non perdere il libro dei fratelli Giacomo e Piero Despali sulla storia dei Collettivi politici veneti per il potere operaio, edito da Derive/Approdi
L’oblio della memoria è un virus forse ancora più letale di Covid-19, perché “uccide” nella mente degli umani la Storia e l’esperienza che essa trasmette nel tempo, rendendo tutto un futile eterno presente. Lo stato presente delle cose. E, così, anche il futuro scolora in una reiterazione dell’esistente, privo d’ideali e di utopie, considerati sogni irrealizzabili e dunque fuorvianti. Questo virus non è estraneo alla nazione italiana, al nostro carattere nazional-popolare, anzi è una maledetta costante dell’italianità. Dimentichiamo facilmente eventi, crimini, responsabilità, colpe. Il perdonismo è poi il fratello gemello dell’oblio della memoria. Vi sono però eccezioni importanti, ce ne sono state anche in passato per merito di opere storiografiche in controtendenza e di figure intellettuali degne di questo nome. Anche se la Storia, si sa, la fanno i vincitori. Ma non sempre. Un’opera per tutte vale la pena di citare: “Proletari senza rivoluzione”di Renzo del Carria. Una sorta di “enciclopedia” cult che riscrive la Storia, appunto, delle lotte popolari e proletarie dall’Unità d’Italia al 1975, data fatidica perché segna effettivamente un passaggio epocale, forse non da tutti riconosciuto come tale. Per saperne di più consiglio di leggere un romanzo recente di valore “La scuola cattolica” di Edoardo Albinati.
Rare sono, dunque, le opere che contrastano seriamente la sindrome dell’amnesia, gettando luce su eventi e periodi che meritano di essere studiati e ricordati, in quanto hanno molto da insegnare ai posteri. E oggi ne scopriamo in libreria, quasi per caso, una di queste: “Gli autonomi. Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio”, dei fratelli Giacomo e Piero Despali, edita da Derive/Approdi. Un libro prezioso per diverse ragioni. In primo luogo perché ripercorre con sguardo critico gli “anni di fuoco” o “di piombo” – come si preferisce chiamarli – che hanno caratterizzato l’ultima fase del secolo scorso, nella quale la Guerra Fredda era all’epilogo. E il globo appariva attraversato da conflitti, lotte, rivolte, stragi, imperi emergenti e altri che stavano per crollare. In Italia, poi, si svolgeva una sorta di “guerra a bassa intensità”, intesa come articolazione specifica e di “teatro” del più vasto conflitto geopolitico mondiale in corso.
In tal contesto, il libro narra l’esperienza politica di una sezione fondamentale di quell’arcipelago di organizzazioni sovversive conosciuto come “Autonomia Operaia organizzata”. Esperienza rivoluzionaria a pieno titolo che ha egemonizzato i movimenti di lotta degli anni ’70 e ’80. Al centro del racconto – fatto in forma dialogica dai due protagonisti, Giacomo e Piero (ecco un altro pregio del libro)- ci sono i Collettivi politici veneti per il potere operaio. Una struttura di militanti comunisti concentrata prevalentemente nel Nord-Est, con quartier generale a Padova, ma anche con significative proiezioni nazionali, in Lombardia, a Roma e Napoli.
Come, quando, dove e perché si costituisce questa organizzazione, ce lo dicono attraverso una suggestiva conversazione i due leader. Si capisce subito che vita privata e azione politica hanno rappresentato un binomio indissolubile nella loro biografia, carne e sangue del loro essere-nel-mondo. Uniti da un legame di fratellanza, da ideali e da una meta comuni, ma anche differenziati da temperamenti personali e da riferimenti culturali e teorici non identici, Giacomo e Piero hanno dominato tutta la vicenda dei Collettivi, dalla fondazione nel ’74-’75 originata dalle ceneri di Potere Operaio ai giorni nostri. Alla base di questa scelta c’è innanzi tutto – è bene sottolinearlo – un’adesione forte al marxismo e al comunismo, non intesi tuttavia in maniera dogmatica e fideistica, come invece accadeva per altre formazioni rivoluzionarie di quel periodo. Nel loro bagaglio teorico figurano certamente Karl Marx (soprattutto quello dei Grundrisse), Lenin, un certo Mao e la Resistenza, ma anche la Scuola di Francoforte, Adorno e Marcuse, Fanon, Paul Sweezy, ma soprattutto i Quaderni Rossi, con Raniero Panzieri, Mario Tronti, ecc. Insomma, quel gruppo d’intellettuali-militanti di matrice socialista che, mediante l’inchiesta operaia, stava ristudiando la fabbrica tayloristica, il nuovo corso del neocapitalismo, la figura dell’operaio-massa in qualità di soggetto potenzialmente rivoluzionario. Tutto ciò in alternativa allo storicismo revisionista del PCI su cui si fondava la doppiezza togliattiana della “via italiana al socialismo”. In altre parole, l’ossatura del marxismo critico degli anni ’60. Più tardi si aggiungerà la figura centrale di Antonio Negri, il “cattivo maestro” per eccellenza secondo i media ufficiali. Quali gli atout che decretano il successo maturato dai Collettivi nel biennio ’76-’77? Lo spiegano con chiarezza Piero e Giacomo Despali.
In primis, un’attenzione particolare verso quella che definivano la “nuova composizione di classe”, ossia l’insieme degli attori sociali che, a partire da condizioni e bisogni materiali e non da afflati ideologici, avrebbero potuto potenzialmente incarnare un percorso rivoluzionario all’interno di un Paese a capitalismo ormai avanzato come l’Italia. La strategia politica dell’organizzazione doveva quindi basarsi sulla ricomposizione delle nuove figure proletarie prodotte dalla ristrutturazione capitalistica della grande fabbrica: studenti-lavoratori, disoccupati, cassintegrati, lavoratori in nero, ecc. E’ la nuova soggettività dell’ “operaio sociale” che sostituisce in parte quella dell’operaio-massa ormai in declino e anima la fabbrica diffusa sul territorio. Una categoria, nel frattempo teorizzata dal professor Antonio Negri. Del resto, la struttura produttiva del Veneto, fondata sulle Pmi, si attagliava perfettamente a questa analisi di stampo sociologico. In altre parole, a quella che i nostri autori chiamano la “lettura della nuova composizione di classe”. Di conseguenza, obiettivo strategico dell’agire politico dei Collettivi non poteva che essere la costruzione d’istituti di contropotere territorialeattraverso la costituzione di vere e proprie “basi rosse”.
Sul piano organizzativo, un simile impianto teorico-politico si è tradotto in una forma articolata comprendente comitati, coordinamenti di zona, gruppi sociali, collettivi, che hanno avuto la capacità di radicarsi a Padova, nell’Università e negli istituti superiori, ma soprattutto nei paesi circostanti e in alcune fabbriche. Altra intuizione felice del gruppo dirigente dei Collettivi, che ha contribuito non poco al successo di cui si parlava, è stata l’adozione di una modalità operativa innovativa: agire per “campagne”. All’interno delle quali prevedere anche quelli che la stampa del tempo stigmatizzava come “fuochi diffusi”, ossia attentati mirati e collegati in sinergia dialettica con le lotte di massa che si dispiegavano contro il carovita, gli straordinari, il lavoro nero, la violenza dei fascisti, per gli aumenti salariali, le autoriduzioni delle bollette e delle tariffe, per la conquista di spazi di socializzazione alternativa, ecc. Insomma, per l’autovalorizzazione proletaria a discapito della valorizzazione del capitale, come la definiva il “cattivo maestro” Negri. Il tema della violenza, dunque, entra di prepotenza nella storia dei Collettivi, dato che nel frattempo stava crescendo d’intensità il ruolo delle organizzazioni comuniste combattenti, specialmente le BR. E i fratelli Despali lo affrontano senza infingimenti, spiegando motivazioni e differenze con il comportamento di questi gruppi.
“L’uso della forza, traduzione sul terreno della pratica contingente della lotta armata la cui validità sul piano strategico non era messa in discussione, la commisuravamo a questo progetto d’intervento territoriale e la sua legittimazione poteva venire solo dalle strutture e non da fonti autoritative esterne – scrive Piero – Senza questa premessa, la lotta armata avrebbe potuto svilupparsi solo avvitandosi su se stessa, come di fatto avvenne con le BR dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro”. Purtroppo, dopo l’ascesa interviene puntualmente il declino, sempre, che arriva il 7 aprile 1979 a opera del pm Calogero. Il magistrato, sull’onda del clima nazionale, lancia una massiccia operazione anti Collettivi nel Veneto con molti arresti. Intanto, la repressione ha cominciato a colpire pesantemente in tutto il Paese dopo il sequestro Moro. Il Movimento del ’77, che riempiva piazze e strade delle città, con scontri e manifestazioni, perde colpi e avvia la sua fase di disintegrazione. I Collettivi subiscono il colpo, ma resistono e, dopo un po’, si riorganizzano.
Che accade nei primi anni ’80? Se volete saperlo, cari lettori, leggete il libro. Noi ci fermiamo qua, non possiamo svelare tutto… Una cosa, però, possiamo dirla senza tema di smentita. Questo lavoro – che presenta anche una ricca appendice di documenti dell’epoca e interviste ad altri militanti – deve essere considerato legittimamente, per spessore e verità storica messi in campo, il capitolo finale di “Proletari senza rivoluzione”di Renzo del Carria.
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