5 Apr, 2022 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
Il documento di presentazione di questa apertura riguarda «materiali per la formazione dei quadri» ed è tratto da «Potere operaio», dicembre 1971.
Parte Prima. Che cos’è Potere operaio
Dentro qualsiasi livello organizzativo di Potere operaio deve essere interamente presente la proposta
politica che noi rappresentiamo, il programma politico che noi portiamo avanti. Dovremmo dire che
siamo, o meglio che rappresentiamo, lo sviluppo e la crisi dell’autonomia operaia, delle lotte di
fabbrica, delle lotte sociali come le abbiamo conosciute in questi anni in Italia. Alla III Conferenza
di organizzazione (Roma, settembre ’71) ci siamo definiti «Potere operaio per il partito per
l’insurrezione per il comunismo». Che cosa vuol dire, oggi, non proporre queste cose in modo
formale e «liturgico» ma affermare l’attualità di queste parole d’ordine? Cioè: che cosa vuol dire
oggi in questa situazione in Italia, dichiarare che il partito è all’ordine del giorno, l’insurrezione è
all’ordine del giorno, il comunismo è all’ordine del giorno? Potere operaio come organizzazione
nazionale data dal ’69, dalle lotte Fiat del ’69, dalla preparazione dell’intervento dei gruppi
rivoluzionari nei contratti e contri i contratti; però come ipotesi politica passata attraverso
esperienze successive («Quaderni rossi», «Classe operaia»), in realtà risale agli inizi degli anni
Sessanta. È utile soffermarsi sulle ipotesi di partenza, per vedere che cosa è cambiato nella
situazione di classe e nei compiti che ne derivano.
«Ricostruzione» e sconfitta di classe
Agli inizi del nostro esperimento politico, l’Italia era alle soglie del centro sinistra, che era un
tentativo di lanciare una fase riformista, un nuovo corso dello sviluppo capitalistico nel paese. In
quegli anni, il rilancio della lotta di classe in Italia si presentava indubbiamente pesante. A partire
dal dopoguerra, dagli anni della ricostruzione, gli operai avevano subìto per tutti gli anni Cinquanta
una sconfitta di classe sistematica, continua, progressiva all’insegna della collaborazione
all’interesse nazionale, di una partecipazione alla ricostruzione, in una parola all’insegna della
politica di collaborazione di classe portata avanti dal Partito comunista e dalle organizzazioni
sindacali. Gli operai, dagli inizi del dopoguerra fino all’inizio degli anni Sessanta, hanno pagato il
costo di tutto. La Repubblica fondata sul lavoro si è costruita alle spalle degli operai, sulla pelle di
milioni di disoccupati, sullo sforzo produttivo intenso e massacrante della classe operaia. All’inizio
degli anni Sessanta , il capitale italiano arriva alle soglie del miracolo, proprio perché gli operai
hanno lavorato come bestie e per quindici anni e hanno lavorato a salari bassissimi. In realtà per i
padroni il «miracolo» c’è sempre stato; la differenza è che ora hanno bisogno – per l’espansione
economica – di «rilanciare la domanda interna» (cioè che gli operai abbiano più soldi da spendere).
Si sono avute negli anni Cinquanta lotte durissime, ma tutte con questa comune caratteristica
disperata e difensiva. Lotte contro i licenziamenti, lotte per l’occupazione delle terre al Sud (con la
prospettiva poi di essere strozzati dallo sviluppo capitalistico dell’agricoltura ), lotte contro la
ristrutturazione: lotte, cioè, tutte di difesa, e dunque di sconfitta, perché se la lotta è difensiva, vuol
dire che il padrone ha in mano l’iniziativa. E per queste lotte l’unica risposta è stato il piombo e i
manganelli di Scelba e di Saragat. Da parte operaia, l’impotenza politica, l’impotenza organizzativa
a combattere queste cose è forte, dato che negli anni che vanno dalla repubblica al ’52–53 il Partito
comunista ha provveduto a smantellare sistematicamente l’organizzazione comunista armata nelle
fabbriche. Il sindacato al tempo stesso si è guardato bene dall’organizzare gli operai – la lotta,
l’insubordinazione operaia – nei punti chiave dello sviluppo, per esempio alla Fiat. Il sindacato si è
guardato bene in questi anni di organizzare gli operai sui loro interessi materiali, sui loro interessi
particolari di classe, ostili all’interesse generale della società italiana – che è poi l’interesse dei
padroni. Interessi ostili, antagonistici a quelli che sono i cosiddetti compiti della ricostruzione, che
poi è ricostruzione del potere capitalistico, dello sfruttamento. Cioè, in tutti gli anni Cinquanta il
sindacato si è guardato bene dallo scatenare delle lotte per innalzare in Italia il costo del lavoro e
mettere così in crisi i piani di sfruttamento.
Progetto riformista, Stato pianificato
Ecco, su questa sconfitta operaia consolidata si chiudono gli anni Cinquanta. All’inizio degli anni
Sessanta però, c’è il segno di una ripresa dell’insubordinazione, di una ripresa dura, forte e violenta
della capacità di lotta degli operai. È proprio in questi anni che i padroni, lo Stato, i settori più
avanzati del capitale italiano lanciano un processo riformistico. È quello che si chiamerà – nel cielo
della politica formale – governo di centro-sinistra, è quello che si chiamerà nei disegni capitalistici
«politica dei redditi». Vuol dire uno Stato nel quale andrà in dissolvenza, passerà in secondo piano
la faccia di Scelba e verrà in primo piano la faccia di La Malfa, Giolitti e Lombardi. Questa scelta
politica di avviare un processo riformistico, vuole dire, addirittura stimolare una ripresa di lotte, il
rilancio di una dinamica salariale, purché questa sia controllata, contenuta, equilibrata, purché
questa dinamica di lotte, questa spinta massiccia, questa richiesta di aumento dei salari, di
trasformazione delle condizioni di lavoro funzioni da fattore propulsivo dello sviluppo, di
espansione dell’economia capitalistica. Sono gli anni in cui i capitalisti in Italia si rendono conto
che è necessario operare un relativo miglioramento della condizione operaia: perché operai con più
soldi significa espansione dei consumi e stimolo alla produzione. I padroni in Italia scoprono la
vecchia politica di Ford, la politica «nuova» di Keynes; la Fiat lancia la vetturetta democratica e lo
Stato le prepara le autostrade, le infrastrutture, per operare questo salto in avanti nello sviluppo
capitalistico in Italia. Ora, a che cosa è dovuto questo tipo di passaggio politico, il centrosinistra e
l’avvio di una esperienza riformista? È dovuto proprio al campanello di allarme di questa ripresa
massiccia della volontà di lotta degli operai, che i capitalisti registrano in Italia. L’insurrezione
proletaria del luglio ’60, i primi «gatti selvaggi» alla Fiat sono la campana d’allarme per i capitalisti
in Italia. E quindi il ceto politico, il ceto capitalistico italiano più avanzato tenta di cambiare le carte
in tavola, di riportare nel paese certi modelli avanzati di sviluppo che sono già stati sperimentati
negli Stati Uniti, a livello di paesi capitalistici avanzati all’interno del mercato mondiale. È un
tentativo di anticipare l’iniziativa operaia, di predisporre gli strumenti politico-istituzionali perché il
capitale abbia una capacità di lettura e di interpretazione dei movimenti di classe e dunque è una
sorta di «preliminare» al riformismo, di «legge quadro» del riformismo. Ecco quindi che il
padronato più moderno e più forte – pubblico e privato – e il personale politico più avveduto di
parte capitalistica si rendono conto di come sia necessario, proprio per mantenere il controllo sulla
forza lavoro, portare avanti una gestione democratica del rapporto di lavoro; far partecipare gli
operai al progetto di sviluppo, incanalare l’insubordinazione operaia rendendola un elemento
dinamico del sistema, superare gli squilibri e le contraddizioni attraverso la programmazione, gli
uffici studi, il piano, superarli attraverso la determinazione di una funzione dello Stato come
cervello capitalistico, non solo come poliziotto; superarli attraverso questa determinazione di una
funzione dello Stato come regolatore dei conflitti tra capitalista e capitalista, e soprattutto tra operai
e capitale. Il ceto capitalistico in Italia tende attraverso questa ristrutturazione generale dello Stato a
superare il rischio sempre in agguato di crisi catastrofiche dell’economia capitalistica, di recessioni
spaventose come quella che era stata conosciuta a livello internazionale nel ’29. Per questo disegno
occorre appunto una nuova struttura dello Stato, ed è quella che si chiama Stato democratico pianificato,
in cui vengono in primo piano non gli strumenti di repressione ma gli strumenti di
controllo, di mediazione, di regolamentazione, viene fuori il sindacato, come struttura di controllo
sugli operai, il sindacato che al tavolo delle trattative dovrebbe stabilire con il governo e i
pianificatori quello che è il tetto, quelli che sono i livelli di richieste operaie compatibili con lo
sviluppo capitalistico; cioè, da parte capitalistica si tenta all’inizio degli anni Sessanta di liquidare
questo elemento irrazionale per i capitalisti e per la logica dello sfruttamento, questo elemento per i
padroni anarchico, insopportabile che è lo sviluppo autonomo della lotta di classe. Per far questo,
non occorre solo una nuova struttura dello Stato, ma anche una classe operaia diversa, strutturata sul
modello degli operai dell’auto americani, sugli operai di Detroit, cioè su una forza lavoro mobile,
sradicata dal posto di lavoro, indistinta, senza attaccamento ai valori professionali, senza alcuna
velleità di gestire la produzione. Si tratta, per i padroni, di distruggere quel tipo di organizzazione
comunista che nelle fabbriche era stata modellata proprio sulla professionalità del lavoro,
sull’attaccamento ai valori professionali – cioè di distruggere un tipo di struttura della classe operaia
che puntava alla gestione, che aveva come obiettivo la gestione della fabbrica e della produzione. In
un primo tempo, di fronte a questo processo enorme di ristrutturazione capitalistica (enorme a
livello internazionale e poi mediati nella situazione specifica con tutte le miserie del caso, ma pur
sempre con questo segno lungimirante) di fronte a questo tipo di disegno in quegli anni l’iniziativa
rivoluzionaria sembrava paralizzata. Cioè, di fronte a questo tipo di contrattacco generale, di
rilancio capitalistico, lo schema della III Internazionale – lo schema classico basato su un’ipotesi di
crollo, di crisi dell’economia capitalistica su cui intervenire portando dentro un programma di
potere capace di egemonizzare l’intera stratificazione proletaria – potremmo dire «tutto il popolo»
intorno alla classe operaia va in crisi. Questo tipo di ipotesi – cioè dell’organizzazione comunista
che impersona le ragioni dello sviluppo contro la crisi capitalistica e che su questo riesce a
egemonizzare realmente la maggioranza del proletariato – questa ipotesi veniva a cadere. I militanti
comunisti, i militanti rivoluzionari in quegli anni non vedevano più la possibilità di giocare su una
crisi «spontanea» e catastrofica del capitalismo come quella che si era data in Russia, come quella
che si era data in Cina; crisi di proporzioni spaventose che arrivavano al punto-limite della guerra
imperialistica. Sembrava di trovarsi di fronte a un capitale potentissimo, imbattibile, che appena
scopriva una sua contraddizione era subito capace di suturarla, di sanarla; cioè che appena una
contraddizione si rivelava – e contraddizioni ce n’erano di formidabili – era capace di spostarla su
un livello più alto, e comunque di riuscire a tamponare le cose in modo che non si desse mai uno
scoppio di violenza tale da compromettere l’equilibrio del potere. E d’altra parte, la vecchia,
tradizionale tematica della III Internazionale – tematica leninista peraltro – dell’organizzazione
comunista che impugna la bandiera della lotta politica come lotta per lo sviluppo estremo della
democrazia; anche questo sembrava ormai uno strumento inservibile perché lo Stato si presentava
come Stato pianificato e democratico, addirittura con caratteristiche «socialiste». La stessa lotta
contro la proprietà privata, che era stata una bandiera formidabile di lotta, per esempio, per il
proletariato russo prima del ’17, sembrava sfuggire di mano come parola d’ordine possibile, perché
la ristrutturazione capitalistica dava sempre più peso alla «mano pubblica», al capitale pubblico,
proprio perché si andava nei paesi guida del capitalismo occidentale a un processo di
«socializzazione» del capitale, e perché – al tempo stesso – gli operai cominciavano a vedere
nell’Unione Sovietica non più una speranza di comunismo, ma il modello di quello che poteva
essere un capitalismo senza padroni (in cui, sì, la proprietà privata era stata abolita ma i rapporti
capitalistici come rapporti di sfruttamento restavano – cioè in cui il dominio e la schiavitù del
lavoro restavano). Anche la lotta contro la proprietà privata sembrava quindi una parola d’ordine
che sfuggiva, che si sgretolava tra le mani. Che fare di fronte a questo quadro di apparente forza del
capitale, a questo apparente trionfo del riformismo?
La questione della rivoluzione nel capitalismo avanzato
Attorno a questi anni – e qui possiamo determinare l’origine di quello che è l’intero sviluppo del
discorso politico di Potere operaio – attorno a questi anni in Italia un gruppo di compagni si applica
a questo tipo di problema: che cosa vuol dire riaprire la possibilità di una strategia rivoluzionaria, di
un programma comunista in un paese di capitalismo avanzato? E proprio gli strumenti del
marxismo venivano rintracciati, trovati, scoperti, gli strumenti che potevano riaprire questa
possibilità. In quegli anni, all’inizio degli anni Sessanta, il panorama – da un lato del pensiero
teorico, dall’altro dell’iniziativa politica marxista in occidente – era desolante. Da un lato c’erano i
riformisti ridotti a un ruolo permanentemente subalterno di fronte alle ideologie più avanzate del
capitale. L’economia keynesiana, il progetto di questo grande stratega del capitalismo, diventava un
orizzonte avanzato per questi teorici del riformismo del movimento operaio. Dall’altra parte c’erano
molti velleitari all’interno dello schieramento marxista, ma – come dire – si presentavano un po’
come una valle di lacrime, stavano lì a piangere sul fatto che la classe operaia era a loro parere
«integrata» perché lottava per i soldi, perché manifestava un fondamentale egoismo e attaccamento
ai temi pratici, materiali di lotta.
Parte Seconda. Il comunismo è all’ordine del giorno
Ecco, l’ipotesi sulla quale si è partiti, e l’ipotesi sulla quale abbiamo poi sviluppato tutta l’iniziativa
di massa degli anni Sessanta, è proprio stata questa: vedere come far funzionare questo egoismo di
massa, questa capacità di lottare sui propri interessi materiali, come interessi contrapposti agli
interessi generali della società; vedere come far leva su questo, su questi comportamenti di lotta per
rimettere in moto il processo rivoluzionario. Il progetto, l’ipotesi politica era questa: esaltare
l’antagonismo tra operaio e padrone che c’è nel rapporto di produzione, cioè dentro la fabbrica, nel
fatto che l’operaio continuamente, in ogni tipo di comportamento tende a rifiutare il lavoro; esaltare
questo tipo di contrapposizione, esaltare l’insubordinazione degli operai dentro la fabbrica, il rifiuto
del comando capitalistico: organizzare la guerra e l’ostilità fra i bisogni materiali, concreti degli
operai e delle ragioni, la logica del piano, dello sviluppo capitalistico, propagandata come «interessi
generali». Si trattava così di lavorare attorno a questa ipotesi: contro questo nuovo progetto di Stato
capitalistico pianificato, contro i nuovi livelli di coordinazione capitalistica a livello internazionale,
contro questa macchina che sembrava lucida e perfetta, senza un punto debole, si trattava di trovare
il punto debole. E questo punto debole era la necessità che il riformismo, che il piano riformistico
aveva – come ogni piano riformistico ha sempre – di fondarsi sul consenso della classe operaia.
Questo era il punto debole, e qui si trattava di battere, cioè si trattava di negare il consenso e
l’adesione degli operai al riformismo. Questa è stata, compagni, la scoperta dell’autonomia.
Autonomia operaia ha significato questo, cioè la coscienza e l’individuazione di questo fatto: che
l’intera storia del capitale, l’intera storia della società capitalistica è in realtà storia operaia. Storia
della classe operaia, delle lotte della classe operaia, e questo lo si può verificare – gli operai di
fabbrica lo toccano con mano: la storia della tecnica è in realtà storia dell’astuzia capitalistica a
strappare informazioni agli operai, cioè la storia della tecnica è storia di questo sforzo continuo dei
capitalisti per spremere più lavoro agli operai: la storia dello Stato capitalistico è storia del tentativo
dei padroni di esercitare un controllo continuo, un controllo totale sulla forza lavoro. La storia della
società capitalistica è storia di una gabbia di dominio costruita attorno al lavoro vivo, attorno alla
forza lavoro, attorno agli operai per spremergli lavoro.
La lotta sul salario
Allora l’ipotesi era proprio questa: contro lo Stato del riformismo e dello sviluppo bisognava negare
il consenso, rifiutare le regole del piano, rifiutare la mediazione del sindacato, spezzare la
programmazione di un rapporto ragionevole fra dinamica dei salari e dinamica della produttività,
cioè spingere in avanti questa variabile salariale, renderla irrazionale, impazzita rispetto alla
razionalità dello sfruttamento capitalistico, cioè spingere in avanti il costo del lavoro fino a mettere
in crisi la programmazione. Questa è stata la scoperta dell’autonomia, delle lotte sul salario, della
possibilità di una lotta economica offensiva degli operai, una lotta economica offensiva che
scardinasse questo nuovo Stato del riformismo, del piano e dello sviluppo. La parola d’ordine che
abbiamo tante volte agitato negli anni Sessanta: più soldi e meno lavoro, era proprio questo:
provocare la crisi capitalistica con una volontà precisa e soggettiva, cioè scagliando contro la
stabilità del capitale l’irriducibilità dei bisogni materiali della classe operaia. L’esperimento che
abbiamo condotto è stato questo: di fronte a un capitale che aveva ridotto al minimo le sue
contraddizioni interne, giocare fino in fondo quella contraddizione principale, irriducibile che
restava in piedi – la contraddizione tra gli operai e il capitale, organizzare questo tipo di
contraddizione a partire dal rapporto di produzione. Ecco, noi abbiamo creduto necessario verificare
questo tipo di ipotesi: cioè quella di scatenare un’ondata di lotte d’attacco su obiettivi economici e
di determinare così le condizioni della crisi capitalistica, cioè di ripristinare in questo modo le
condizioni classiche per un’iniziativa rivoluzionaria propriamente detta – cioè per un’iniziativa
volta alla presa del potere, alla distruzione dello Stato dei capitalisti, all’instaurazione del potere
operaio. C’è di più: autonomia ha significato innanzitutto costruire nella lotta e dentro la lotta,
l’unità politica degli operai. Questo è stato il grande significato della parola d’ordine «aumenti
uguali per tutti», degli obiettivi egualitari: far crescere nel riconoscimento dell’antagonismo tra gli
interessi di classe degli operai e l’interesse dei padroni, la coscienza aperta esplicita soggettiva della
necessità di organizzarsi in modo permanente non contro un singolo padrone ma contro tutti i
padroni, contro lo Stato come rappresentante generale degli interessi dei padroni.
L’autonomia operaia
Autonomia è stata quindi, sulla base di questo tipo di disegno politico, inchiodare il capitale alla
crisi, cioè costringerlo all’arresto dello sviluppo, cioè costringerlo a dichiararsi incapace di
un’iniziativa riformista, a dichiarare il blocco dell’iniziativa politica, a rifiutare di assecondare le
richieste operaie; e quindi ha significato costringere i padroni e lo Stato a mostrarsi come dominio,
come violenza aperta contro gli operai. In questo senso, la lotta autonoma ha determinato lo
stabilirsi di una situazione politica in cui saltano le mistificazioni del riformismo in cui proprio a
fronte della crisi per come è – un’operazione di violenza aperta, di impoverimento, di attacco alle
condizioni materiali della classe operaia e di tutto il proletariato – di fronte a questo, di fronte alla
faccia aperta, brutale della crisi si creano le condizioni per una crescita di coscienza di classe, a
livello di massa – cioè per una crescita della coscienza della necessità di distruggere il potere
capitalistico, di prendere tutto il potere; cioè di distruggere la schiavitù del lavoro salariato, il
sistema capitalistico come sistema del lavoro e delle merci. Ecco, questo è stato il nostro percorso
dentro il movimento negli anni Sessanta, dalle lotte Fiat del ’62 alla grande ripresa di lotte operaie,
di lotte sociali, studentesche , proletarie cominciata nel ’68 con Valdagno, con le lotte dei proletari
del sud con Battipaglia, poi la lotta Fiat del ’69, poi l’autunno caldo. È inutile soffermarsi ora su
queste scadenze; quello che interessa qui rilevare è che attraverso queste tappe del movimento, il
filo rosso del nostro discorso politico è stato questo. E in questo senso noi crediamo, compagni, che
questo tipo di ipotesi politica sia stata già, in embrione – con tutti i limiti che aveva – un programma
comunista. Cioè se – come dice questa frase di Marx che ci piace molto, che è stato uno slogan
della nostra III Conferenza d’organizzazione: «il comunismo è il movimento reale che distrugge lo
stato delle cose presenti» – ecco, noi crediamo che il nostro (il nostro come gruppo che ha
interpretato queste cose, ma soprattutto come manifesto politico di massa delle lotte degli operai),
sia stato effettivamente un programma comunista. Cioè noi crediamo che dentro i contenuti espliciti
delle lotte operaie degli anni Sessanta, dentro a questa esperienza dell’autonomia, sia corsa una
ipotesi, un programma, sia corso un progetto, un manifesto politico comunista. Se è vero che il
comunismo lo intendiamo – come lo intende Marx – come distruzione del lavoro salariato, come
distruzione della necessità di lavorare per vivere, ecco, dire attualità del comunismo significa
scoprire questa richiesta di comunismo dentro i comportamenti degli operai e dei proletari, dentro la
lotta contro il lavoro che ha caratterizzato le lotte di fabbrica le lotte sociali degli anni Sessanta in
Italia. Ecco che cosa significa, compagni, attualità del comunismo. Noi crediamo che al livello
attuale di sviluppo delle forze produttive il sistema capitalistico sia innanzitutto una macchina
infernale per «fare lavoro», cioè si lavora per creare necessità di lavoro, perché – nella sua fase
estrema – il capitalismo diventa veramente costrizione al lavoro, puro dominio, puro comando sul
lavoro, puro controllo sulla forza lavoro. E allora per questo, compagni, la lotta contro il lavoro, il
rifiuto del lavoro si è caratterizzato come un programma comunista che poi si è articolato in una
serie di programmi determinati, concreti, nelle lotte operaie degli anni Sessanta. Lotta contro la
partecipazione, contro il tentativo di corresponsabilizzare gli operai allo sfruttamento, la lotta contro
il tempo di lavoro, contro la mistificazione capitalistica di diversi valori del lavoro (che in realtà
serve per dividere politicamente gli operai), la lotta contro l’aggancio fra salario e produttività:
ecco, tutti questi sono stati formidabili contenuti rivoluzionari delle lotte con un bilancio largamente
positivo, cioè potevamo dire, alla chiusura dell’autunno caldo del ’69, che questa ipotesi che
avevamo lanciato era stata in larga parte verificata.
Parte Terza. Il partito è all’ordine del giorno
Perché veramente gli operai uscivano dalle lotte con una formidabile unità di classe, perché
veramente si usciva dalle lotte contrattuali con una serie di avanguardie politiche nate nelle
fabbriche, con una serie di nuclei di organizzazione, con elementi significativi di organizzazione
rivoluzionaria. Cioè, possiamo dire che gli operai sono usciti da questa fase, da questa ondata, da
questo grande ciclo di lotte con una consapevolezza generale, possiamo dire che si è imposto il
bisogno operaio del partito e della rivoluzione, e che al tempo stesso la crisi capitalistica è stata
determinata, provocata dall’attacco operaio. Ma è proprio per questo che a partire da questo tipo di
verifica, fin dalla fine dell’autunno caldo, possiamo dire, e sempre in modo più preciso, più
articolato in tutto il ’70, e poi in questi mesi, in questi anni, abbiamo voluto imporre una svolta
radicale al nostro lavoro, allo stesso stile del nostro lavoro, alla nostra proposta politica. Svolta
radicale che secondo noi era necessaria, ed è più tanto necessaria oggi, perché l’andamento della
situazione di classe in Italia conferma questa necessità, e noi crediamo che esercitare un ruolo di
avanguardia significhi proprio riuscire a interpretare queste necessità di discontinuità, di salto, di
forzatura, di riqualificazione, di rinnovamento del discorso. Questo significa anche attraversare le
fasi di isolamento, di battaglia politica nel movimento; il problema è che quello che accettiamo è un
isolamento positivo, non l’isolamento dei ritardatari, ma semmai di quelli che anticipano le scelte
alle quali poi va costretto l’intero movimento. Ecco, se la crisi capitalistica è dunque data, di fronte
all’accelerarsi di questa crisi (l’inflazione, l’attacco al salario reale, l’attacco all’occupazione, la
violenza aperta contro le avanguardie delle lotte, contro i nuclei di organizzazione rivoluzionaria,
l’iniziativa di repressione giudiziaria – tutto il quadro politico che si è andato sviluppando in Italia a
partire dall’estate del ’70, dal «decretone» in poi – ) Potere operaio rappresenta un tipo di proposta
politica: è la proposta della necessità del passaggio dall’autonomia all’organizzazione, dalla lotta
sul terreno economico-rivendicativo, a una lotta apertamente politica sul terreno del potere. E
questo noi crediamo che sia imposto dalla natura, dalle caratteristiche, dalla materialità della crisi.
Voglio dire: dalla volontà di mantenere – nella crisi – il punto di vista operaio dell’offensiva. È
necessario a questo punto dire che cosa intendiamo per crisi capitalistica. Molti compagni, anche
all’interno del movimento, anche all’interno della «sinistra di classe», negano che la situazione
attuale si configuri come crisi capitalistica; ma lo negano perché in realtà hanno una visione
contabile della crisi, e perché continuamente la paragonano con vecchi schemi, che hanno in testa ‚
cioè negano questa qualità nuova della crisi come crisi provocata dalle lotte operaie, e continuano a
immaginarsela come una ripetizione del ’29, come una crisi catastrofica, e allora stanno lì a spiare
le tabelle di «Mondo economico» e del «Sole 24 ore» per vedere nell’oggettività del tessuto
produttivo italiano quali sono i settori in crisi, se sono i tessili, se sono i gommai. Stanno lì a
stabilire se la crisi è sovrastrutturale o strutturale; tutte cose interessanti, utilissime, ma di
«contorno» rispetto al nocciolo del discorso politico che va fatto. Questi compagni – che sono forse
la maggioranza delle organizzazioni della sinistra di classe –, vedono davvero la crisi come dissesto,
come bancarotta, noi affermiamo invece il concetto di crisi come blocco dell’iniziativa capitalistica.
Crisi è la necessità a cui è inchiodato il capitale, e al tempo stesso la volontà politica di parte
capitalistica di bloccare, di arrestare lo sviluppo, di pagare questo scotto pur di riprendere il
controllo e il dominio sulla classe operaia e sull’intera società, pur di portare avanti un processo di
«normalizzazione» sociale; quindi crisi è necessità e volontà politica di bloccare lo sviluppo, di
bloccare il riformismo come capacità di assecondare le richieste operaie. Allora in questo senso noi
diciamo apertamente compagni, proprio noi che dentro le lotte di classe e dentro le lotte di fabbrica
siamo cresciuti e che anche per questo ci chiamiamo Potere operaio, che la crisi è inevitabilmente
crisi della lotta di fabbrica, crisi dell’autonomia operaia, crisi della spontaneità della lotta operaia;
proprio perché la crisi è il colpo specifico piazzato dal nemico di classe, proprio perché è la risposta
specifica al progetto rivoluzionario che noi portiamo avanti, proprio perché è la capacità di rendere
vana, di svuotare di contenuto, di spuntare quest’arma formidabile che abbiamo conosciuto negli
anni dello sviluppo, quest’arma formidabile contro lo sviluppo, che era la lotta offensiva che ha
procurato tanti guai e tanti danni al padrone.
Crisi e compiti rivoluzionari dei comunisti
Ecco, la crisi è fondamentalmente questo: il disegno politico di parte padronale che passa per tutte
le articolazioni dello Stato, il disegno politico di costringere la lotta operaia sulla difensiva, di
addomesticare la spontaneità operaia. Quando l’attacco padronale, il ricatto sul posto di lavoro
riduce la spontaneità operaia a preghiera, a richiesta di lavoro, quando riduce la lotta operaia a
richiesta di essere sfruttati, di avere un posto da sfruttati; quando il padrone porta l’attacco a questo
livello, o il terreno di lotta si sposta interamente, oppure passa la sconfitta di classe. Quando il
padrone è disposto a rinunciare all’espansione, allo sviluppo, cioè non tiene più al primo posto le
ragioni della produttività e lo sviluppo della produzione, ma prima di tutto mira a riprendere il
controllo, cioè a riconquistare e ripristinare le condizioni generali di dominio, proprio quando
assume soggettivamente la crisi che gli operai gli hanno imposto e la usa come arma politica;
quando il padrone è lui che blocca la produzione, è lui che ferma le catene di montaggio che mette
gli operai in cassa integrazione, che licenzia, che chiude la fabbrica – di fronte a questo tipo di
contrattacco, il ricatto e l’arma del salario sulla quale noi ci siamo misurati diventa un’arma
spuntata; gli obiettivi dell’autonomia non funzionano più (infatti, provate ad andare ai cancelli delle
fabbriche a riproporre quello che è stato il grande movimento dell’autonomia del ’68–69 senza farvi
portatori di una proposta di sbocco politico e di nuovi strumenti di lotta: la vostra proposta non
riesce a «mordere», a orientare la volontà di lotta degli operai). E non si tratta, come crede
qualcuno, di escogitare degli obiettivi più belli: noi crediamo che gli obiettivi della lotta autonoma
degli anni ’68–69 siano stati degli obiettivi formidabili di unificazione di classe e di attacco contro il
padrone. Il problema non è questo; il problema è che è il rapporto di forza tra padrone e operai che
viene a mancare. Il problema è che oggi la lotta di fabbrica non ha più il coltello dalla parte del
manico, e qui va innestata la riqualificazione dell’iniziativa organizzativa.
Appropriazione e salario politico
Perciò il che fare è proprio questo, come mantenere l’offensiva e impedire al padrone di riprendere
l’iniziativa: questo è il punto intorno al quale si muove interamente la proposta di Potere operaio.
Su questo siamo anche apertamente polemici nei confronti dei teorici della continuità, cioè di tutti
quei compagni che pensano che il processo rivoluzionario sia una specie di autostrada rettilinea. Su
questi temi noi oggi vogliamo caratterizzare la nostra proposta politica, questo crediamo sia un
compito nei confronti dell’intero movimento rivoluzionario di classe. Nel numero scorso del
giornale, abbiamo spiegato perché riteniamo che fare questo discorso sulla continuità sia un errore
molto grosso; ci sembra che i compagni che lo portano avanti, come negli anni Sessanta non
avevano capito il rapporto autonomia-sviluppo, come hanno tardato troppo tempo a capire – e lo
hanno capito solo adesso, così in ritardo – che nello sviluppo la spontaneità operaia, la lotta
economica degli operai sui propri interessi materiali era un fatto formidabilmente sovversivo e
rivoluzionario – così oggi non capiscono i compiti nuovi proposti dalla crisi: un nuovo livello
strategico della lotta. Non capiscono che, nella crisi, bisogna assumere questo fatto: la lotta di
fabbrica come tale, il terreno rivendicativo non scava più la fossa al padrone. Allora, noi crediamo
che dire le cose che diciamo oggi significhi fare delle cose significative, mettere in piedi esperienze
di lotta di nuovo tipo, rischiare la praticabilità di questo discorso politico; cioè noi crediamo che –
se il compito dei rivoluzionari nella fase dello sviluppo capitalistico era promuovere l’autonomia,
organizzare lotte e scioperi, fermate di reparto, comitati di base– oggi, certo, tutto questo va
perseguito, va fatto ovunque sia possibile; però oggi nella crisi, si tratta anche di impostare e di
realizzare con i tempi che la crisi impone un salto di livello della lotta politica, della lotta
rivoluzionaria.
Parte Quarta. L’insurrezione è all’ordine del giorno
Cioè, se contro lo Stato del piano, del riformismo, dello sviluppo, l’arma che proponevamo era la
lotta dura e l’obiettivo del salario – oggi, contro lo Stato della crisi, della distruzione delle
avanguardie rivoluzionarie, contro lo Stato che è veramente la libertà della violenza capitalistica,
l’arma adeguata diventa l’organizzazione di partito, l’organizzazione del processo insurrezionale e
quindi l’attualità della parola d’ordine del «Partito dell’insurrezione», che noi portiamo avanti.
Cioè, se contro il padrone proponevamo la lotta dura, se contro lo sviluppo proponevamo
l’autonomia, oggi proponiamo contro lo Stato il partito, e contro la crisi il processo insurrezionale.
Ora, noi crediamo che si presenti intero alle forze rivoluzionarie il dilemma classico, tradizionale:
sconfitta di classe o rivoluzione. Crediamo cioè che non sia possibile prevedere una situazione di
stagnazione a tempo indeterminato dell’iniziativa capitalistica e dell’iniziativa operaia. Non andrà
così. O passano la ristrutturazione, le riforme – cioè passa la sconfitta operaia o si avvia quel
processo di lungo periodo che è la lotta armata, o ci si comincia a muovere sulla direttrice di marcia
dell’insurrezione. Ora, noi crediamo che questo tipo di discorso significhi innanzitutto una nuova
pratica di massa da proporre al movimento, delle lotte da costruire: per questo parliamo di scadenze.
Cioè, noi crediamo per esempio che oggi dobbiamo andare oltre quell’obiettivo che avevamo
nel ’68–69, di costruire nelle lotte l’unità degli operai su un pacchetto di obiettivi, e proporci invece
l’unificazione di tutti i proletari, cioè degli operai di fabbrica come dei disoccupati, come dei
proletari del sud, cioè l’unificazione di questa figura proletaria complessiva che chiamiamo operaio-massa.
Noi crediamo che possa oggi darsi un programma di unificazione di tutti i proletari su un
livello di scontro di potere.
L’insurrezione
Questo terreno noi lo chiamiamo salario politico (termine forse non immediatamente comprensibile,
ma non è questo che conta: quando diciamo salario politico diciamo fondamentalmente capacità dei
proletari di liberarsi dal ricatto del lavoro, cioè potere di non essere costretti a lottare per il lavoro).
Salario politico per noi significa tutto un ventaglio di iniziative che si può portare avanti, significa
organizzare la rivolta e la violenza dei proletari del sud per il salario garantito, significa organizzare
la lotta e la violenza dei disoccupati della metropoli sullo stesso obiettivo del salario garantito,
significa organizzare la pratica dell’appropriazione della ricchezza sociale come capacità di sfuggire
al ricatto del lavoro per avere il potere e la libertà di non doversi massacrare di straordinari perché
non si hanno i soldi per tirare avanti. Questo tipo di indicazione che chiamiamo salario politico, che
si può articolare appunto nell’organizzazione di questi momenti di violenza nel Sud sul salario
garantito, sull’organizzazione di questa pratica dell’appropriazione nelle metropoli del nord e nelle
grandi fabbriche, ha questo significato: di esprimere il rifiuto della lotta difensiva. Una lotta non per
il lavoro ma per il reddito, per il reddito sganciato dal lavoro, significa rifiuto da parte dei proletari
della partecipazione. Significa questa volta, rifiuto operaio di partecipare alla crisi dei padroni.
Come durante le lotte del ’68–70 gli operai hanno rifiutato la partecipazione allo sviluppo dei
padroni; come allora veniva rifiutato questo aggancio fra salario e produttività, veniva rifiutata
questa regola capitalistica che dice: «certo più soldi, ma più lavoro», questa regola capitalistica
secondo cui la produttività e il «monte salari» sono legati e crescono con un parametro uniforme.
Ecco, la lotta contro il lavoro e l’autonomia dentro la fabbrica ha significato rompere questo tipo di
rapporto, ha significato chiedere più salario sulla base dei propri bisogni e non delle esigenze
produttive del capitale. Oggi il problema è dunque, di fronte alla crisi, di fronte all’attacco
all’occupazione, riuscire a sganciare il legame fra lavoro e reddito; impostare una lotta generale sul
reddito; cominciare a praticare un livello di appropriazione, di riappropriazione della ricchezza
sociale che gli operai – quelli che lavorano e anche quelli che il capitale ha condannato al non
lavoro – hanno prodotto. Programma di appropriazione è riprendersi questa ricchezza che è stata
estorta; e ci sono tutta una serie di terreni di lotta – sui trasporti, sulle case, sulle mense (sui
supermarket ce ne sono meno per ora) – che i proletari già cominciano a praticare per avere il potere
di lavorare di meno, di non accettare questo ricatto capitalistico che viene portato in termini di crisi.
E al tempo stesso, appropriarsi in fabbrica dei propri obiettivi, senza contrattazione e subito. Ecco,
compagni, questo vuol dire nuova pratica di massa contro la crisi. Si tratta di esemplificare questo
discorso, di fare delle esperienze, di raccogliere non in una continuità indefinita di episodi di lotta
che si sfilacciano ogni giorno, ma di raccogliere intorno a certe scadenze organizzate, decise
centralmente, in cui verificare una capacità di organizzazione, una capacità per esempio, di
muoversi a livello nazionale. Questo significa anche nuova pratica dell’azione organizzata, nuovo
stile di organizzazione; perché a questo livello il problema non è più stimolare in punti significativi
il comportamento spontaneo degli operai, il problema è quello di avere una capacità in proprio –
come organizzazione – di guidare e di forzare le lotte di massa verso lo sbocco insurrezionale.
Questo è quello che noi chiamiamo agire da partito, comportarsi da partito; scegliere un terreno di
lotta proprio del partito rivoluzionario pur non ritenendoci oggi, al livello attuale di organizzazione,
il partito rivoluzionario, perché ci rendiamo conto che una soglia organizzativa di partito può
determinarsi solo sulla base di una fase di lotte significative sul terreno della crisi, che si riveli
capace di riunificare su questo nuovo terreno più avanzato, l’enorme patrimonio di quadri politici,
di militanti che si sono formati nelle lotte di questi anni. Agire da partito è scegliere di praticare
questo tipo di terreno di iniziativa. Non ci riteniamo né ci autodefiniamo ora partito perché
riteniamo che la qualità specifica del partito sia quella di essere in grado nel presente non solo di
avviare il processo insurrezionale, di muoversi sulla direttrice di marcia dell’insurrezione, ma di
riaprire direttamente in termini risolutivi una vertenza di potere con lo Stato. Però, questo non
significa che non scegliamo questo tipo di terreno come terreno qualitativo sul quale ci muoviamo.
Questa è dunque la tematica che noi crediamo debba passare nel movimento: se salario e lotta dura
era il binomio e la parola d’ordine nella fase dell’autonomia, salario politico e lotta per il potere (e
quindi processo insurrezionale, lotta armata – che è un processo a lungo periodo ma che va avviato,
reso possibile, e verso il quale il movimento va forzato) deve essere oggi la parola d’ordine da dare
al movimento. Una parola d’ordine, che non sia enunciazione di linea, ma che sia sostenuta da una
capacità di organizzare sistematicamente delle scadenze, dei momenti di scontro, di rottura, che
facciano fare dei passi in avanti al movimento. Gli esempi sono tanti, e ne scegliamo uno. Pensate,
compagni, che cosa significa passare da un’occupazione generalizzata di massa delle case alla
capacità di difesa complessiva del quartiere proletario, di difesa militare contro l’attacco della
polizia. Pensate che cosa significa passare da esplosioni spontanee di rivolta proletaria come quelle
che conosciamo ogni giorno nei paesi del sud, a una capacità di coordinamento, e quindi anche a
una violenza non spontanea di massa, ma a una violenza preordinata, precostituita, guidata, diretta.
Capite che cosa significa questo in termini organizzativi. Noi pensiamo che verso questo tipo di
processo, verso questo tipo di scadenza vada diretto l’intero movimento e pensiamo però che
rispetto a questo e ai ritardi enormi che gli altri gruppi manifestano noi dobbiamo rappresentare
proprio questa urgenza imposta dalla situazione, e quindi anche una grossa capacità di
esemplificazione. Altrimenti, compagni, il discorso sul partito è un discorso vuoto, di costruzione
dell’organizzazione mattone su mattone. È la lotta contro lo Stato la specificità del partito, la
funzione dell’organizzazione rivoluzionaria. La differenza tra l’organizzazione rivoluzionaria di
partito degli operai e dei proletari e un’organizzazione generica, di movimento dentro le lotte non è
ovviamente quella di avere qualche bandierina in più nella «carta geografica» dell’organizzazione,
ma è fondamentalmente la capacità di muoversi al livello dei compiti reali che il movimento ha di
fronte. Noi, su questo discorso vogliamo misurarci, vogliamo essere portatori di questa parola
d’ordine dell’offensiva. È normale, che all’interno di un movimento rivoluzionario, nelle fasi di
crisi e di contrattacco padronale, compaiono anche delle posizioni che non esitiamo a definire di
attendismo e di opportunismo. Molti compagni credono che quando il padrone, quando lo Stato
attacca, bisogna ritirarsi e proteggere i livelli organizzativi che si detengono. Ora, noi crediamo che
non sia così, crediamo che nessuna organizzazione che si dica rivoluzionaria potrebbe sopravvivere
come tale, con un minimo di credibilità politica, come organizzazione rivoluzionaria dopo aver
mancato a questo appuntamento, a questa verifica della capacità di sperimentare forme significative
di lotta sul terreno del potere, sul terreno dello scontro con lo Stato della crisi. Tutto questo è ancora
un progetto, però crediamo che questo tipo di sperimentazione vada fatta, che rispetto a questi tempi
il problema non sia tirarsi indietro, e che sia necessario invece giocare fino in fondo le proprie
capacità di organizzazione attorno a questo tipo di indicazione politica, a questi compiti di
avanguardia, e intorno alla costruzione di alcune scadenze significative di scontro che poi possano
valere non come piatta esemplarità ma come riferimento d’avanguardia per l’intero movimento.
6 Apr, 2022 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali tra operaismo e autonomia organizzata
Il documento di presentazione, «La grafica di potere operaio», è di Giovanni
Anceschi.
La grafica di Potere operaio
Giovanni Anceschi
All’inizio del 1967 Anne Preiss, una ragazza franco-algerina che era stata mia compagna di corso
alla Hochschule für Gestaltung di Ulm e con la quale (e con altri) avevo fondato il locale gruppo Sds
(per intenderci, quello di Rudi Dutschke), una volta rientrata in Algeria mi aveva invitato a
condividere con lei, presso la Societé nationale du pétrole algérien (Sonatrach), la direzione del
Sérvice fabrication. Così si chiamava l’ufficio che presiedeva alla realizzazione di tutti gli artefatti
comunicativi necessari al funzionamento dell’industria petrolifera (12.000 addetti). Subito un
progetto enorme, e nel Terzo Mondo!
E così presiediamo alla realizzazione di un completo programma di immagine coordinata
dell’azienda (tutto il materiale tipografico, colorazione dei veicoli, divise del personale delle
stazioni di servizio, exhibition design, stampa e advertising internazionale), ma veniamo prestati
anche ad altre istituzioni: progettiamo i francobolli per il Ministero dell’industria e dell’energia,
progettiamo una «mostra-packaging» serigrafica inaugurata contemporaneamente in sette città
algerine per la Société nationale des pâtes alimentaires, collaboriamo all’immagine dell’Université
d’Alger ecc. ecc.
Ad Algeri si vive lo straordinario clima dell’affermazione dell’indipendenza in una capitale di rango
internazionale, dove il primo sabato sera si partecipa alla festa commemorativa della rivoluzione
presso l’Ambasciata sovietica, la settimana dopo si va alla proiezione del film Il distaccamento
femminile all’Ambasciata cinese, e la settimana dopo all’Ambasciata cubana si va a vedere la
mostra della grafica di pubblica utilità (con Félix Beltrán). Ma quella dopo ancora ci si va forse a
ubriacare al party dell’Ambasciata Usa. Un’atmosfera un po’da Casablanca, dove ti capita di
scoprire che il simpatico amico giornalista inglese che ti gira per casa viene espulso perché è del
Sis.
Con Anne Preiss e Jean-Marie Boeglin, con la «pied rouge» Joëlle Labruyère e Jean-Jacques Deluz,
con Susie, con Bernard ecc. seguiamo con l’orecchio incollato al transistor la radiocronaca da Parigi
degli événements del ’68.
Algeri era una sorta di zona franca, un territorio amichevole per i militanti dei movimenti di
liberazione africani che ci venivano a passare qualche periodo di «vacanza» lontano dalle linee. Si
facevano incontri straordinari: ho conosciuto, fa gli altri, Amilcar Cabral del Paigc (Guinea Bissau e
Capo Verde). È diventato un mio caro amico Johnny Makatini dell’Anc, Sudafrica: il ministro degli
Esteri di Nelson Mandela. Del resto, per la rivista dell’Anc intitolata «Sechaba» (Zagaglia) Anne
Preiss aveva disegnato l’emblema della testata. Ricordo anche un omone gigantesco, un certo
Robert (che forse di cognome faceva Mugabe) dello Zapu, cioè del movimento di liberazione dello
Zimbabwe (che allora si chiamava Rhodesia). Ma il ricordo più vivido è una lunga conversazione
sulle prospettive delle lotte di liberazione con Agostinho Neto, del Frelimo (Mozambico). Sono
rimasto abbagliato dalla sua straordinaria nobiltà d’animo, dalla sua impregiudicata chiarezza
ideologica e dalla sua profondità intellettuale. Tanto che ne era nato il progetto di spostarmi in
Mozambico, ma poi non se ne fece niente.
Questo lungo prologo per dire che, in qualche modo, ero preparato per i passi successivi che si
svolgono alla fine del 1969, quando l’esperienza algerina si va concludendo e allora, invitato da
Giulio Carlo Argan e Filiberto Menna, lascio l’Algeria e mi trasferisco a Roma a insegnare «basic
design» e «design della comunicazione» al Corso superiore di disegno industriale e comunicazioni
visive che diventerà poi l’Isia.
E l’esperienza politica prosegue perché a Roma ritrovo Nanni Balestrini (compagno di scorrerie
avanguardistiche e anticipatrici, lui nella poesia elettronica e io nella grafica programmata
sull’Almanacco Bompiani). Nanni mi introduce in Potere operaio e mi fa conoscere Toni Negri,
Franco Piperno e Oreste Scalzone. Potop sta affrontando una grande svolta di organizzazione in
quanto sta diventando un fenomeno nazionale, per cui bisogna generare uno strumento di
interconnessione e propaganda. Infatti stanno decidendo di far uscire «il giornale» e mi
propongono di progettarlo.
Con il «compagno anarchico» Fabio Bonzi, il quale scova in una vecchia tipografia un grosso
carattere bold condensed (per non dire elongated), molto pesante e aggressivo ma anche molto
industriale, cioè operaio, inventiamo la testata. E invece io, l’ulmiano, il designer, disegno il sistema
grafico (cioè la gabbia e la formula degli ingredienti) sul tecnigrafo dello studio Mid durante una
mia puntata a Milano.
I compagni di Po parlavano di «giornale» perché puntavano a uno strumento quotidiano di
informazione sulle lotte. E infatti Potere operaio andò nelle edicole, ma rimase sempre soltanto
settimanale fino alla conclusione dell’esperienza. Per questa «voglia di quotidiano» la rivista
prenderà la forma di un fascicolo di sei pagine di grandissimo formato, come erano i giornali
d’allora.
E la formula è piuttosto innovativa, di ispirazione molto sistemica e funzionalista (o forse oggi si
direbbe user oriented): sotto la testata, sei colonne di testo in carattere graziato (readable) tutte
dello stesso corpo, attraversate da titoli in carattere senza grazie (della famiglia dei Grotesk e
quindi legible) tutti nel medesimo grande corpo. Nessuna gerarchizzazione e varietà seduttiva dei
caratteri: l’idea (anzi l’ideologia, vivaddio) era che non fosse etico manipolare e pilotare
l’attenzione del lettore. La composizione nasceva da sola, attribuendo un valore omogeneo a tutte
le notizie. Spettava alla mente del lettore costruirsi le proprie gerarchie valoriali. È in un certo
senso innegabile che questa concezione progettuale influenzerà la formula grafica dei giornali del
movimento da allora in poi, in particolare la straordinariamente matura prima versione de «il
manifesto» disegnata da Giuseppe Trevisani.
Ma vi sono ancora due connotati tecnico-formali che saranno determinanti per la generazione
dell’immagine inconfondibile di Potere operaio. In primo luogo quello che possiamo chiamare il
trasformarsi di un errore in carattere stilistico: bisogna sapere che in quella fase tecnologica i
giornali cominciano a essere stampati in offset e non più in rotativa. E, soprattutto, che appaiono le
prime titolatrici. Basandosi sul principio fotografico che supera la corposità vincolante del piombo,
queste consentono di comporre strisciate di testo dove l’ampiezza della spaziatura fra le lettere e
fra le parole è totalmente libera, non solo nel senso che si possono fare spaziature enormi, ma
soprattutto che si possono fare spaziature ridottissime fra i caratteri. E dunque, allo scopo di
evitare una sgranatura del testo nociva per la leggibilità, io scrissi sul disegno progettuale la
specifica «compresso» per indicare come dovevano essere composti i fototitoli. Al che i tecnici
della tipografia presero la parola tipica della terminologia tedesca, ma non usuale in italiano,
troppo sul serio e accostarono le aste e le curve dei caratteri in modo estremo, fino talvolta alla
sovrapposizione. La formula è stata poi da altri imitata ed esagerata, il che produceva un effetto
formale di rude e di improvvisato: ecco nato uno stile di grafica militante!
Il secondo connotato riguarda il trattamento del testo: vi sono due modalità principali di disporre
le righe del testo: a blocchetto (o a pacchetto), e a bandiera. Io decisi di utilizzare la sottoversione
chiamata «a bandierina», per designare una bandiera a destra che però non interrompe la riga alla
fine delle parole, come avviene nella poesia, ma la interrompe tenendo conto della sillabazione,
inserendo un trattino di congiunzione. Questa versione ha di nuovo una fondamentale superiorità
funzionale rispetto all’altra perché comporta che gli spazi che separano le parole siano costanti, il
che favorisce potentemente la lettura. Ma produce anche sulla destra della colonna un gradevole
effetto di sfrangiatura, di irregolarità.
La composizione a blocchetto o giustificata – come si dice – ridistribuisce negli spazi fra le parole lo
spazio che avanzerebbe sino alla fine della larghezza della colonna: una larghezza che si chiama
giustezza. Il che rischia molto spesso di produrre spaziature spropositate che bucano e
frammentano la texture. Inestetiche e nocive. Va detto che in Germania quella che noi chiamiamo
bandierina e che loro chiamano offener Satz (composizione aperta) era ed è del tutto usuale, a
partire dalla Bibbia di Gutenberg, In Italia, da Bodoni in poi, è sempre prevalsa invece
l’impaginazione simmetrica e giustificata anche a destra.
Ma un’altra cosa che bisogna sapere è che i testi lunghi (non i titoli) venivano in quella fase di
transizione ancora composti a caldo con la linotype. E la linotype è portatrice di un’ideologia
assolutamente e rigidamente bodoniana, veicola cioè un’estetica simmetrica e giustificatrice. Nella
tastiera della linotype esiste un tastone che viene battuto dal compositore alla fine della riga; il
gesto scatena contemporaneamente l’andata a capo e la giustificazione automatica. Cioè, il
piombo fuso si distribuisce equamente in tutti gli spazi fra parole. E gli operatori sono totalmente e
assolutamente abituati a compiere quel gesto. Per cui, volendo ottenere l’effetto bandierina, prima
di tutto bisogna escludere l’accoppiamento degli automatismi, ma poi bisogna costringere il
compositore a prestare una particolare attenzione alla sillabazione.
E allora… E allora, poiché – come dicevo – io ero impegnato in uno scomodo nomadismo pendolare
fra Roma e Milano e non potevo stare tutto il tempo in tipografia, un Nanni Balestrini – fedele alla
linea? No, ma certamente fedele alle consegne progettuali – si appollaiava proprio alle spalle del
compagno compositore e al momento giusto gli soffiava nell’orecchio: «A capo… a capo… a capo…
a capo…».
6 Apr, 2022 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali tra operaismo e autonomia organizzata
Il documento di presentazione, «L’operaismo messo in pratica. Storia di Potere
operaio», è di Diego Giachetti.
L’operaismo messo in pratica Storia di Potere operaio Diego Giachetti
A strappare l’organizzazione politica Potere operaio dell’oblio in cui sembrava essere precipitata
nella seconda metà degli anni Settanta, contribuì l’azione penale intrapresa il 7 aprile 1979 contro i
suoi principali dirigenti, accusati di essere il «comitato» direttivo di tutti i gruppi, Brigate rosse in
primis, che praticavano la lotta armata. Accusa inverosimile, come poi si dimostrò, ma intanto gli
arrestati si fecero qualche annetto di carcere. Quell’evento ha imposto la successiva storytelling del
gruppo in due modi: ha dato spazio e risalto, dopo le vicende giudiziarie, alla memorialistica dei
protagonisti e alle ricostruzioni da pubblico ministero; ha imprigionato la ricostruzione dei fatti in
un paradigma già fissato e solo da riconfermare scegliendo, tra la documentazione possibile, solo
quella favorevole alla narrazione precostituita. Non è questa la via scelta da Marco Scavino nel
libro Potere operaio. La storia. La teoria, (vol. I, Roma, Derive Approdi, 2018) che, invece di
«legare» la storia di questa organizzazione al «letto di Procuste», le ridà piena libertà, strappandola
dal senso comune dell’odierno presentismo dove ciò che è noto non corrisponde al conosciuto.
Quando si vuole ricostruire «da un punto di vista storico le vicende di una formazione politica, non
ci si può che attenere a quanto essa all’epoca dichiarò, scrisse e fece», precisa l’autore in una nota.
La storia del gruppo si articola lungo tre indirizzi di ricerca: il rapporto col costrutto teorico e
politico dell’operaismo, così come si configura negli anni Sessanta; il tentativo di sciogliere il nodo
della rivoluzione nelle società a capitalismo avanzato nel secondo dopoguerra; il ruolo di Potere
operaio nella genesi della lotta armata. Che in Potere operaio, come in molti altri gruppi della
sinistra extraparlamentare, nei primi anni Settanta si sia discusso di uso della forza, di insurrezione,
di rivoluzione, è innegabile, soprattutto nel clima e nelle circostanze date dai primi anni Settanta.
Tuttavia, Potere operaio non fece mai la scelta organizzativa di passare alla lotta armata, come
fecero altre formazioni quali le Brigate rosse e i Gruppi di azione partigiana. A trattenerlo dal
compiere quella scelta, vi era l’impostazione di fondo secondo la quale l’eventuale sviluppo della
lotta armata doveva avvenire in un rapporto diretto con la crescita di lotte di massa, col maturare
della consapevolezza della necessità della rottura rivoluzionaria tra larghi strati delle classi
subordinate.
Alle origini per andare oltre
In questo primo volume si tratta la storia di Potere operaio a cominciare dalle sue radici, cioè
l’esperienza militante e di ricerca teorica condotta da due riviste: «Quaderni rossi» e «Classe
operaia». Esperienze verso le quali Potere operaio si pone in continuità nell’approccio teorico e
pratico alle lotte operaie, valorizza il tema dell’autonomia della classe, lo stile e le modalità
d’intervento politico di massa; ma è una continuità da cui parte per andare oltre, passare dalla
teoria all’azione politica contingente, rielaborando il bagaglio del precedente operaismo alla luce
dei cambiamenti che avvengono nel ’68 e nel ’69: inattesa la rivolta studentesca, attesa invece
quella operaia, di cui gli operaisti avevano colto i segnali nel quinquennio finale del decennio. In
questo senso, se la metafora è consentita, Potere operaio rappresenta lo spirito dell’operaismo che
si fa «carne», cioè organizzazione politica. Un’incarnazione che ha come riferimento l’esperienza
già in corso delle lotte operaie di Porto Marghera e non solo. Già durante l’estate del ’68 il gruppo
di persone che fa riferimento all’operaismo inizia a riconsiderare il progetto politico complessivo,
introduce alcuni elementi politici e organizzativi destinati ad avere un peso nella futura prossima
storia di Potere operaio. L’organizzazione politica deve essere espressione dell’autonomia di classe,
alle sue lotte e ai contenuti rivendicativi: riduzione delle ore di lavoro a parità di paga, aumenti
salariali uguali per tutti. L’imprevisto del movimento studentesco viene letto come ribellione degli
studenti in quanto forza-lavoro in formazione, in modo da collegare scuola e sviluppo capitalistico
e controbattere alle tesi che lo considerano l’espressione di settori della piccola e media borghesia.
Parallelamente si rielabora il concetto di composizione di classe e si introduce quello di operaio
massa, per indicare i settori di manodopera dequalificata, mobili e intercambiabili della forza
lavoro.
L’anno del potere operaio
Probabilmente decisiva per l’incubazione del gruppo è la lotta operaia che si apre Torino, alla Fiat,
nella primavera del 1969, raccontata dal giornale «La classe» e organizzata anche dall’Assemblea
operai e studenti. È una breve esperienza. Con la ripresa autunnale delle lotte l’Assemblea si
divide. Sul finire del settembre di quell’anno compare il primo numero di «Potere operaio» che si
pone in continuità col giornale «La classe» che aveva cessato le pubblicazioni; poi, nel mese di
novembre, l’uscita del primo numero di «Lotta continua», provoca l’uscita di chi si riconosce in
Potere operaio e di altre componenti minori dall’Assemblea operai e studenti. Secondo i promotori
del giornale, quel ciclo di lotte pone un problema enorme: trovare uno sbocco rivoluzionario, di
presa del potere. Su questo nodo il gruppo consuma la sua parabola politica, sostiene l’autore,
senza venirne a capo. Si pone quindi il tema dell’organizzazione delle lotte, del ruolo che devono
assumere i comitati autonomi sorti in varie fabbriche. Matura la consapevolezza della necessità di
dotarsi di un’organizzazione permanente e coordinata a livello nazionale, per superare la
condizione minoritaria e isolata della singola fabbrica, sottrarre ai sindacati la direzione politica del
movimento e generalizzare lo scontro sociale. Se si pone all’ordine del giorno la questione del
potere, allora è necessario dotarsi di strumenti organizzativi adeguati; in questo senso va
recuperata la lezione del leninismo che non vuole dire riproporre il modello bolscevico di partito. I
primi passi organizzativi consistono nella formalizzazione delle realtà locali, nel reperimento delle
sedi e nella definizione più precisa del quadro militante, tutto al fine di favorire la centralizzazione
delle forze operaie esistenti nei vari comitati politici coi quali Potere operaio spera di costruire
movimenti di classe e dare una base di «massa» al partito. Alcuni incontri tra avanguardie militanti
che si svolgono dopo la firma dei contratti del 1969 indicano, tra lunghe e articolate discussioni,
aperte e pubbliche, il percorso da seguire. È un progetto ambizioso che dovrà tener conto anche
dell’esiguità e eterogeneità delle forze disponibili, sproporzionate rispetto ai compiti prefissati. Il
convegno nazionale, che si tiene a Bologna il 5-6 settembre 1970, a cui partecipano circa
cinquecento persone in rappresentanza di vari organismi autonomi e gruppi locali, decide la
costituzione di un partito basato su una rete di organismi di classe, nella speranza di trovare la via
rivoluzionaria alla presa del potere che le lotte operaie pongano come scadenza a breve termine.
Nell’immediato ritengono si debba ricercare una ricomposizione delle forze politiche dei gruppi
che non sia la semplice sommatoria dei militanti rivoluzionari professionali. In questa prospettiva si
precisa la proposta di confronto politico, per l’eventuale aggregazione, col gruppo del Manifesto,
appena espulso dal Pci. Si stabiliscono contatti e si decide di organizzare assieme un convegno
operaio a Milano il 30-31 gennaio 1971. Vi partecipano 1500 persone in rappresentanza di 76
situazioni operaie organizzate dal Manifesto e 68 situazioni organizzate da Potere operaio. Quasi
subito emerge la sostanziale distanza fra le due organizzazioni nel modo di intendere la politica
rivoluzionaria, di accentuare o meno il tema della lotta contro lo Stato, di prospettare o meno in
tempi brevi una precipitazione dello scontro sociale e su come organizzarsi in fabbrica: aderire e
sostenere il movimento dei delegati e dei consigli, oppure costruire i comitati e le assemblee
autonome? La separazione è consensuale. Potere operaio continua il suo percorso politico che ci
verrà narrato nel secondo volume previsto.
6 Apr, 2022 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali fra operaismo e autonomia organizzata
Il documento di presentazione, «1969: dal movimento ai gruppi (Potere
operaio)», è di Andrea Colombo.
1969: dal movimento ai gruppi (Potere operaio)
Andrea Colombo
Alla fine del luglio ’69 si tiene a Torino il convegno dei comitati e delle avanguardie
operaie. L’obiettivo, dopo il grande ciclo di lotte autonome alla Fiat nella primavera, è di
costruire un’organizzazione rivoluzionaria nazionale. Il convegno è organizzato dal
settimanale «La Classe», in circolazione da maggio, che ha svolto un ruolo determinante
nel coordinare a livello cittadino le lotte dei vari reparti Fiat.
Il progetto unitario però fallisce e le due principali correnti che avevano dato vita
all’assemblea operai-studenti di Torino, centro organizzativo delle lotte autonome nei mesi
precedenti, escono dal convegno divise. Da un lato il gruppo di «La Classe», dall’altro i
militanti del gruppo toscano Il potere operaio e il Movimento studentesco torinese. I
motivi della divisione non sono esenti da personalismi, ma riguardano anche questioni più
sostanziali. «La Classe» punta sul carattere politico degli obiettivi salariali, sulla direzione
operaia dello scontro sociale, sulla lotta contro il lavoro.
Durante l’estate il gruppo di «La Classe» dà vita a Potere operaio, con centri forti a Roma e
nel Veneto, dove confluiscono nel gruppo i quadri che già da anni intervengono negli
stabilimenti di Porto Marghera. Il primo numero del giornale esce in settembre, l’editoriale
è intitolato Da La Classe a Potere operaio e illustra le posizioni del gruppo: «[…] va detto
chiaramente che esiste un salto dal discorso portato avanti con “La Classe” a quello che si
intende impostare con Potere operaio. Non è un salto determinato in astratto, ma
provocato dal livello delle lotte e in primo luogo dalle urgenze d’organizzazione […].
«Diciamolo chiaramente: Agnelli ha scoperto i limiti della “lotta continua”, del blocco della
produzione, benché questa prospettiva lo terrorizzi al punto di fargli perdere la testa […] è
necessario quindi andare oltre la gestione operaia della lotta di fabbrica, oltre
l’organizzazione dell’autonomia, per impostare una direzione operaia sull’imminente, sul
presente e sul futuro ciclo di lotte sociali. Il semplice coordinamento non basta più,
l’unificazione degli obiettivi non è più sufficiente […]. «Che significa direzione operaia su
questo ciclo di lotte? Significa innanzitutto assicurare nei fatti l’egemonia della lotta
operaia sulla lotta studentesca e proletaria.
«La fine dell’autonomia del movimento studentesco, come organizzazione specifica
articolata in varie tendenze (operaista, m‑l, anarchica) è stata decretata proprio
dall’esperienza torinese dell’assemblea permanente operai-studenti […].
«È perfino superfluo dire che Potere operaio rifiuta di presentarsi come organo delle
presenti o ancor più future assemblee operai-studenti, sia per l’assurdità che per la
scorrettezza di un progetto di questo tipo. La battaglia di linea per la creazione di una
direzione operaia del ciclo di lotte è un’altra cosa. Innanzitutto richiede una sede e un
raggio d’intervento dei quadri operai che non sia limitato all’organizzazione della lotta in
fabbrica: ma non è certo una teoria dei quadri che può garantire una direzione politica. È il
problema del rapporto tra autonomia e organizzazione, e il ruolo delle avanguardie di
classe, è il complesso rapporto che lega lotte operaie e lotte di popolo in generale, che va
affrontato […].
«Organizzazione del rifiuto del lavoro, organizzazione politica operaia […] ieri il problema
era quello della lotta continua, oggi il problema è quello della lotta continua e della lotta
organizzata […].
«Perché allora Potere operaio? Non certo per raccogliere una parola d’ordine o una
denominazione dei gruppi minoritari degli anni Sessanta. Al contrario. Potere operaio per
cogliere la dinamica della lotta di massa di classe operaia degli anni Sessanta, per
conquistare questa formidabile spinta all’organizzazione operaia complessiva, da centro la
lotta di massa, per l’organizzazione soggettiva, per pianificare, guidare, dirigere le lotte
operaie di massa […].
«L’urgenza operaia della direzione dello scontro rivoluzionario contro l’organizzazione
capitalistica del lavoro è quindi la chiave di volta per interpretare la nostra assunzione del
grido Potere operaio: come costruzione effettiva dentro la lotta di classe, attraverso la lotta
di massa, della direzione politica, dell’organizzazione operaia della rivoluzione».
«Potere operaio» continuerà a uscire fino allo scioglimento del gruppo, alla fine del ’73,
con scadenza prima quindicinale poi mensile. Nel settembre del ’71, dopo il fallimento di
un progetto di unificazione con il Manifesto, al mensile, ormai esclusivamente di carattere
teorico, viene affiancato un settimanale, «Potere operaio del lunedì», che entrerà
effettivamente in circolazione a partire dal febbraio ’72.
Da: Andrea Colombo, Supplemento a «il manifesto», Dal movimento ai gruppi, Roma, 1986;
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sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali fra operaismo e autonomia organizzata
Il testo che qui proponiamo è estratto da La nefasta utopia di Potere operaio.
Lavoro tecnica movimento nel laboratorio politico del Sessantotto italiano, di
Franco Berardi Bifo, pubblicato da Castelvecchi nel 1998 nella collana
«DeriveApprodi», dalla quale pochi mesi dopo prenderà vita la omonima casa
editrice.
La nefasta utopia di potere operaio
Franco Berardi Bifo
La nefasta utopia di Potere operaio, titolava un commento comparso sul quotidiano «la
Repubblica» firmato da Giorgio Bocca all’inizio del 1979. L’editoriale faceva riferimento a quanto
era avvenuto nel corso degli anni Settanta, più che nella politica italiana, nella mentalità di larghi
settori sociali che avevano messo in discussione, con i loro comportamenti spontanei, il lavoro
salariato e la razionalità produttivistica, fino a contrapporvisi esplicitamente in nome di una
«utopia» nata nel corso dei movimenti di lotta contro il lavoro, per il potere operaio.
Dato che Bocca è sempre stato, onestamente e dichiaratamente, un sostenitore quasi fanatico dei
valori dell’industrialismo e del lavoro, a lui appariva inconcepibile la tesi del rifiuto del lavoro, la
tesi del carattere progressivo del sabotaggio e dell’assenteismo. Perciò, in nome di un realismo
identificato tout court con l’industrialismo, definì utopico il messaggio di Potere operaio. E per
giunta quell’utopia gli appariva nefasta, perché la sua influenza aveva messo in moto processi di
rivolta e di disaffezione al lavoro che avevano contribuito a una destrutturazione dell’ordine
industriale. E questo ordine a Giorgio Bocca appariva naturale e indiscutibile come il succedersi
delle stagioni.
In realtà, per quanto ne so io, direi che mai esperienza fu meno utopica di quella che ebbe la sua
manifestazione nella teoria e nella pratica di Potere operaio. Quel gruppo di intellettuali e di
militanti ebbe sempre a cuore non l’utopia di una società nuova, ma la tendenza profonda iscritta
nei mutevoli eventi della vita sociale dell’ideologia e dell’immaginario collettivo. E la prova sta nel
fatto che la tendenza fondamentale descritta e prefigurata da Potere operaio (la tendenza verso
l’estinzione del lavoro salariato come forma connettiva della società intera) non ha certo smesso di
svilupparsi, contraddittoriamente e con effetti spesso catastrofici, dopo la scomparsa di quel
gruppo che l’aveva esplicitata sul piano politico-intellettuale. Utopica semmai si potrebbe
considerare l’ideologia del progresso ordinato, di governo razionale della società, ovvero di uno
sviluppo sociale senza conflitto. Quest’utopia nasconde la pretesa di una riduzione della
molteplicità dei mondi di vita a un unico principio e la riduzione degli innumerevoli tempi
pulsionali della singolarità a una temporalità unitaria e convenzionale: la temporalità del valore di
scambio. Ma su questo punto teniamo il discorso aperto. Il passaggio al secolo nuovo vede infatti
estendersi il dominio del digitale, nella cui sfera, in effetti, la vita sembra assorbita dalla
generazione convenzionale del codice binario. Poche settimane dopo l’apparizione dell’articolo
intitolato La nefasta utopia di Potere ofteraio, senza che tra i due fatti vi fosse alcun legame di
causalità, la magistratura diede ordine di arrestare un gruppo di intellettuali, professori, studenti e
operai che negli anni tra il 1968 e il 1973 avevano militato nelle file dell’organizzazione denominata
Potere operaio. Quasi contemporaneamente, negli stessi mesi della tarda primavera del 1979, dalla
Fiat di Torino e dall’Alfa Romeo di Arese, giungevano notizie di licenziamenti di decine di operai.
Operai accusati di insubordinazione e di assenteismo; giovani che avevano fatto del rifiuto del
lavoro un codice etico ed esistenziale, ancor più che politico. Il sindacato non si oppose,
considerando il comportamento di quegli operai una colpa perseguibile con il licenziamento. Non
accettavano la regola del salario, dunque non potevano rimanere all’interno della fabbrica, in cui lo
scambio tra tempo di vita e salario funziona come codice di accesso, regola indiscutibile. In realtà i
licenziamenti della primavera ’79 (61, alla Fiat Mirafiori) erano per il padrone la prova generale
dell’offensiva generalizzata contro la classe operaia, l’inizio di un attacco profondo, che aveva come
obiettivo la distruzione della composizione sociale, della cultura di massa prodotta nel corso di un
decennio di lotte autonome. Esattamente un anno dopo, la direzione Fiat comunicò il
licenziamento di 25.000 operai, che non erano più necessari per la produzione. Il sindacato e il
Partito comunista, che non avevano mosso un dito per difendere gli operai assenteisti, reagirono
con una durezza che malcelava l’impotenza. La sconfitta era ormai matura, ed era stata preparata
dal movimento operaio, dal sindacato e dal Pei, non meno che da Agnelli e dalla Confindustria.
Infatti la partita che si era giocata in quegli anni aveva visto, da un lato, una classe operaia ad
altissima composizione autonoma, indisponibile a subire il dominio gerarchico sulla vita sociale
quotidiana e sul proprio mondo di vita, che aveva tradotto in termini di autonomia e di programma
sociale (riduzione generale del tempo di lavoro sociale) l’accresciuta potenza del sistema
produttivo. Dall’altro, un fronte unito a difesa dell’ordine costituito nel quale i governi
democristiani, il padronato, i vertici sindacali e il Partito comunista si erano sorretti a vicenda per
reggere all’urto dei movimenti autonomi. Il movimento operaio, invece di accogliere la pressione
autonoma verso una riduzione del tempo di lavoro, invece di consolidare la cultura antilavorista
(vero fattore di sviluppo tecnologico e produttivo, vero fattore di arricchimento della società
intera), l’aveva demonizzato, e aveva contrapposto una strategia obsoleta e reazionaria, centrata
sulla difesa del posto di lavoro. Questa strategia si rivelò per quello che era – conseguenza di una
arretrata etica del lavoro-nell’autunno del 1980. Claudio Sabattini, dirigente del sindacato
metalmeccanico torinese, ed Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano,
chiamarono gli operai alla lotta a oltranza per difendere il posto di lavoro. Gli operai risposero con
tenacia disperata. Il ceto tecnico-impiegatizio venne allora chiamato a manifestare contro gli
operai, per la ristrutturazione e per il pieno dominio padronale. Quel ceto che, dal ’68 in poi aveva
cominciato a schierarsi dalla parte degli operai, sfilò per le strade di Torino contro l’autonomia
operaia. Gli operai, a cui il Partito comunista e il sindacato avevano sottratto l’arma dell’autonomia
e della riduzione del tempo di lavoro, quegli operai che erano stati costretti a identificarsi nella
forma sociale di forza-lavoro, ed erano stati criminalizzati nella forma di socialità autonoma
creativa, ora venivano decimati dall’offensiva padronale. Negli anni successivi, per tutti i maledetti
anni Ottanta, la classe operaia italiana (ma il discorso non è sostanzialmente dissimile per gli altri
Paesi europei, anche se solo in Italia questa vicenda assume contorni così netti sul piano della
rappresentazione politica), venne sistematicamente de-composta. Il processo di sostituzione del
lavoro umano con automatismi si accelerò freneticamente. Ma questo processo, che era in fondo il
risultato obiettivo della pressione antilavorista operaia, del rifiuto del lavoro e della creatività
tecnico-scientifica, veniva trasformato in un processo di violenza contro la socialità e la cultura
prodotta dai movimenti. Estirpata così la nefasta utopia di Potere operaio, iniziava ad avanzare la
benintenzionata utopia della competizione forsennata: riduzione della massa sociale operaia,
aumento del plusvalore relativo estorto per addetto, estensione dell’area sociale residualizzata,
della disoccupazione prodotta dalla tecnologia. Ciò che l’intelligenza sociale aveva prodotto come
fattore di arricchimento cominciava a essere trasformato in strumento di impoverimento e di
desolazione.
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sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali fra operaismo e autonomia organizzata
[Prologo al n. 50 di «Potere operaio», settembre 1973]
I materiali che proponiamo alla lettura in questo numero di «Potere operaio» (l’ultimo), sono gli
atti del seminario tenuto a Padova dal 28 luglio al 4 agosto.
La necessità di organizzare una settimana di discussione e di studi intorno ai problemi più urgenti
dell’organizzazione rivoluzionaria in Italia, derivava direttamente dai risultati insufficienti del
convegno nazionale di maggio di Potere operaio. Lo stesso convegno non si era prestato come sede
per un dibattito chiaro, il che, del resto, era prevedibile. Da lungo tempo l’organizzazione era
paralizzata da una forte diversificazione, esistente all’interno, tra posizioni non più dialettiche. Il
seminario ebbe luogo quindi nella misura in cui permetteva il rilancio di un dibattito politico fuori
dal patriottismo di gruppo e dalle convenzioni burocratiche di tali organizzazioni. È inoltre un
discorso «interno» ai compagni che in seguito non si sono più riconosciuti in Potere operaio,
probabilmente per questo limitato. Tuttavia esso ha suscitato l’interesse dei compagni delle
assemblee e dei comitati autonomi che hanno partecipato attivamente alla discussione. Dopo il
seminario dalla discussione si è passati a scelte più concrete, da un lato l’uscita in massa da Potere
operaio delle situazioni operaie più significative (Porto Marghera, Fatme di Roma, Pordenone ecc.)
dall’altro il potenziamento dei livelli organizzati dell’autonomia con la piena adesione e l’impegno
quotidiano nel lavoro politico delle assemblee e dei comitati.
Forse per questo alcune cose dette in queste pagine possono sembrare superate e probabilmente lo
sono. Una cosa comunque resta utile ed importante, ed è il fatto che questa discussione pur nei
suoi limiti non è la testimonianza di una rissa tra gruppetti o personaggi, ma la cosciente
autocritica di un gruppo che ha avuto una funzione determinante nello sviluppo della lotta
rivoluzionaria di questi anni. In questo senso pensiamo che possa rappresentare un esempio
salutare per gran parte del movimento.
[Editoriale di «Potere operaio», n. 50, settembre 1973]
Ricominciare da capo non significa tornare indietro
Perché usciamo dal gruppo
Perché scegliamo l’Autonomia organizzata
Non torniamo indietro andiamo avanti
Perché ricominciamo daccapo dopo dieci anni da quella piazza Statuto, mai abbastanza
maledetta da padroni e riformisti, che è stata il nostro congresso di fondazione? Perché
crediamo oggi fondamentale una radicale campagna di rettifica di linea e di dissoluzione
della «struttura di gruppo», una vera e propria rivoluzione culturale nell’ambito della
organizzazione della sinistra rivoluzionaria? Perché e come riproponiamo il tema
dell’organizzazione di classe, dopo questi dieci anni di crescita del movimento e alcuni
momenti di egemonia sul movimento rivoluzionario complessivo? Quali sono le prime
scadenze, i primi elementi di programma e le forme di organizzazione che una fase di
chiarimento, di dibattito e di lotta politica ha enucleato e sulla quale dobbiamo provarci?
Autonomia operaia e rifiuto del lavoro sono la forma e il contenuto del formidabile salto in
avanti che, da piazza Statuto a corso Traiano, da via Tibaldi al 11 marzo ’72, dalle prime
azioni di lotta armata al marzo ’73 di Mirafiori, la classe operaia, e l’intero movimento
rivoluzionario del proletariato sotto la sua direzione, hanno compiuto. Ma autonomia
operaia e rifiuto del lavoro non sono mai riusciti a trovare una mediazione organizzativa
che non fosse momentanea e spontanea. Ogni tentativo organizzativo ha al contrario scisso
e separato questi termini complementari: questa scissione è stata il fondamento
dell’opportunismo di destra e di sinistra. L’opportunismo di destra ha esaltato l’autonomia,
rinnegando i contenuti materiali di cui questa si nutriva: al rifiuto del lavoro, agli obiettivi
comunisti di appropriazione ha di nuovo sostituito l’orizzonte socialista della
contrattazione istituzionale, la cosiddetta autonomia del politico e un conseguente
programma di più equa ripartizione dei redditi. L’opportunismo di sinistra ha
istericamente esaltato la volontà di rottura e di scontro delle avanguardie del rifiuto del
lavoro, disperdendo tuttavia nel delirio gauchista ogni capacità di interpretare il
movimento di massa, cedendo alla tentazione di un terrorismo senza principi, preda perciò
di nuovo dell’iniziativa provocatoria dei livelli istituzionali del capitale. Sul piano politico,
sia l’opportunismo di destra che quello di sinistra sono quindi necessariamente scivolati in
una pratica burocratica, delegata, tardocomunista: i gruppi sono oggi extraparlamentari
solo di nome, in realtà tutte le loro scadenze hanno finito con l’essere parlamentari e
istituzionali e ogni loro struttura ha finito per ripetere i modelli obsoleti della
rappresentanza politica, della delega, della tradizione terzinternazionalista. Migliaia di
compagni sono stati costretti a una piccola e meschina pratica minoritaria laddove poche
decine di operai, negli anni Sessanta, legati alle masse, ogni giorno rinnovando la scoperta
del rifiuto del lavoro, erano riusciti a formare l’avanguardia maggioritaria del proletariato,
a imporre un salto in avanti qualitativo, fondamentale e irreversibile, ai comportamenti
operai e alle lotte. Solo una direzione operaia, diretta e immediata, può oggi ricongiungere
autonomia e rifiuto del lavoro. La direzione operaia si esercita prima di tutto nel
mantenimento dei livelli di potere raggiunti nel rapporto tra operai e capitale. Livelli di
potere che si chiamano assenteismo, sabotaggio, rifiuto di tutte le forme incentivanti e
nocive del lavoro, soldi; che si chiamano capacità di lotta contro la crisi e contro lo
sviluppo, contro ogni forma del comando capitalistico; che si chiamano rifiuto di ogni
forma di contrattazione e di partecipazione, di ogni tentativo istituzionale, sindacale o
partitico, di controllo dell’autonomia. Ma tutto ciò non basta. La direzione operaia non si
svolge oggi solamente sul terreno dei rapporti di forza fra operai e capitale. Essa affronta
anche i problemi della seconda fase: i problemi cioè del rapporto classe-partito. I livelli di
potere che l’autonomia operaia sa tenere in fabbrica e nella società tendono
necessariamente a trasformarsi in livelli di attacco. La coscienza di massa del potere
operaio si traduce in forza soggettiva e in iniziativa di avanguardia. Il rifiuto della
contrattazione si trasforma in comportamento di appropriazione. La lotta contro gli infiniti
tentativi padronali di repressione si sviluppa in capacità di sostenere e dirigere primi
momenti di lotta armata anticapitalistica. Il tempo è maturo perché questa seconda fase sia
percorsa interamente dalle forze di massa autonome della classe operaia. Operai e capitale,
classe e partito; autonomia e rifiuto del lavoro, appropriazione e militarizzazione; questi
sono i temi su cui si prova la maturità della direzione di classe operaia. Il loro legame è
dialettico, e cioè unitario e articolato: solo una direzione operaia centralizzata può
dominare questa articolazione e imporre questa unità. Ciò significa che la parola d’ordine
della centralizzazione, maturata attraverso l’esperienza dei gruppi, non è da noi
abbandonata. Ma si tratta di dare carne e sangue a quella che è stata una parola d’ordine
puramente ideologica. È per questo che, di fronte al fallimento necessario dei gruppi, la
fusione materiale del potenziale di direzione può darsi solo alla base, solo dentro
l’autonomia operaia. La centralizzazione, il partito, non sono dei miti, non sono la
soluzione delegata del problema della direzione collettiva del proletariato: sono invece un
processo di lotte e di organizzazione, vissuto ogni giorno, nel difficile cammino della
formazione organizzativa del programma. Il nostro problema non è altro che quello di
congiungere in modo corretto, e quindi efficace, la compatta autonomia della classe
operaia e i movimenti della sua avanguardia. La classe operaia si fa partito attraverso la
centralizzazione dei propri movimenti. Questo processo di partito può essere anticipato
solo attraverso la centralizzazione di base, pratica e non ideologica, attuata nella
concentrazione di una forza di massa e di un’iniziativa di attacco. È per questo che la
centralizzazione che proponiamo e cominciamo a mettere in atto per noi stessi si presenta
come forza espansiva, come struttura espansiva, che raccoglie per esaltare (e non per
illanguidire, come avviene nei gruppi) ogni iniziativa proletaria contro il lavoro. Ciò
nondimeno questa centralizzazione è un fatto reale: è fusione di volontà soggettiva, è
capace di battere la ciclicità delle lotte dominate dal sindacato e dal padrone, per imporre
sempre l’iniziativa di attacco. Ma quello che deve essere chiaro è di nuovo questo: che la
mediazione teorica, l’articolazione pratica, la centralizzazione decisionale di attacco contro
la ciclicità del movimento, noi non le riconosciamo a nessun meccanismo delegato, non le
poniamo dentro a nessuna divisione del lavoro, non le fissiamo in nessuna struttura
verticale. Se un partito operaio adeguato all’attuale composizione politica della classe
operaia, e cioè impiantato sull’esperienza che le lotte e il rifiuto del lavoro hanno
determinato nella classe operaia, deve nascere, esso nascerà solo dalla diretta capacità
operaia di appropriarsi prima di tutto della propria organizzazione.
L’Autonomia organizzata
Prime esperienze dell’autonomia organizzata, nelle grandi fabbriche e sul terreno sociale,
sono date. Un primo processo di organizzazione nazionale di queste emergenze
dell’autonomia è cominciato. Noi riconosciamo in questo primo processo un’indicazione
organizzativa valida e quindi una sede di lavoro politico. Noi riteniamo che l’inserimento di
quadri esterni nel lavoro politico delle assemblee e dei comitati autonomi debba portare a
una fusione completa, e che questo sia importantissimo per la costruzione di una capacità
generale di direzione e di egemonia politica sul movimento da parte degli operai
d’avanguardia. Il processo dell’autonomia organizzata va ulteriormente spinto in avanti,
accelerato dentro le scadenze di lotta e di organizzazione che l’autonomia si dà. La
campagna di massa per l’affermazione della direzione operaia sul movimento, per la
dissoluzione di ogni esternità o delega organizzativa va immediatamente sviluppata. Nella
formidabile continuità del movimento italiano abbiamo la possibilità di usare la crisi dei
gruppi come momento positivo per l’allargamento della concezione e dell’organizzazione
della gestione autonoma del potere operaio: questa possibilità non dobbiamo perderla! Se
organizzazione operaia è organizzazione dell’organizzazione, se lotte e organizzazione
operaia in termini di gestione, di potere, sono la stessa cosa, il processo di partito è
interamente un processo di lotte. Oggi a noi spetta di vedere assieme la soluzione iniziale
del problema dell’organizzazione, così come siamo venuti affrontandolo, e il progetto di
riaprire la lotta per l’organizzazione. La scadenza è vicina. Il riformismo tenta
disperatamente di stabilizzarsi: ma tutto ci dimostra come il tentativo sia vano. Il problema
non è di sapere se il riformismo riuscirà a passare oppure no: questo problema lo abbiamo
risolto con le lotte degli anni Sessanta, dimostrando la definitiva sconfitta storica di ogni
proposta di accompagnare lo sviluppo dello sfruttamento al consenso della classe operaia.
Il problema è di sapere se la sconfitta del riformismo troverà la classe operaia pronta a
gestire il processo rivoluzionario della presa del potere e dell’instaurazione del comunismo.
È questa l’ultima scadenza che ci interessa. Il nostro sforzo organizzativo è quindi volto alla
preparazione di questo momento, attraverso un esercizio continuo del potere operaio nelle
fabbriche e nella società, insieme causa della crisi capitalistica e processo di organizzazione
operaia per il comunismo. Le lotte che stanno aprendosi, sul salario contro gli effetti
repressivi dell’inflazione, contro il lavoro sull’orario e la giornata lavorativa, queste lotte ci
impegnano a svilupparle in questo senso radicale, come prefigurazione dello sbocco
rivoluzionario. Lotte e organizzazione sono tutt’uno perché vincere e sviluppare
l’organizzazione comunista della società è tutt’uno. Questo è l’ultimo numero di «Potere
operaio». La crescita della direzione operaia delle lotte e dell’organizzazione ha dissolto le
istanze organizzative dei gruppi. Parte dei compagni che oggi sottoscrivono quest’ultimo
numero di «Potere operaio» ne hanno vissuto l’intera esperienza. E non la rinnegano. I
gruppi, interpretando in maniera sbagliata un problema vero, quello cioè
dell’omogeneizzazione nazionale dell’intervento, hanno permesso a noi tutti di crescere
nella coscienza di classe e nella disciplina dell’organizzazione. Ma ora i compagni debbono
di nuovo, come sempre hanno fatto, confrontare gli esiti della loro esperienza alle esigenze
dell’organizzazione operaia e al processo della sua crescita: con determinazione, senza
timidezza, senza rimorsi, ognuno deve decidere da che parte stare. Noi abbiamo scelto
l’autonomia organizzata e la direzione operaia. Se gli altri compagni intendono continuare
a gridare lo slogan «potere operaio» si rallegrino, anche noi continueremo a farlo: qui non
ci sono maggioranze o minoranze, la nostra esperienza riconosce questi rapporti di
comando e di disciplina solo alla e nei confronti della direzione operaia. Potere operaio,
dunque, ma – e in questo siamo settari – solo nella forma e nei tempi riconosciuti e guidati
dall’autonomia operaia organizzata.
Abbiamo rifiutato il gruppo e la sua logica per essere nel movimento reale per essere
nell’Autonomia organizzata.
6 Apr, 2022 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali fra operaismo e autonomia organizzata
COMUNISMO E ORGANIZZAZIONE: PAROLA D’ ORDINE CHE DOMINERÀ GLI ANNI ’70
Comunismo e organizzazione
- 1 COMUNISMO COME PROGRAMMA Compagni, il Comunismo è il nostro programma.
Le forze produttive si ribellano alle condizioni della produzione: il lavoro è sempre di più
una condanna. Ogni sua necessità oggettiva viene meno, l’urgenza di liberare le enormi
possibilità delle forze produttive, che soggiacciono allo sfruttamento capitalistico, si è
imposta come compito immediato. Il Comunismo è il progetto di distruggere il lavoro
come espropriazione quotidiana di ogni energia umana, come forma di organizzazione
della società, come fondamento di legittimità dell’autorità. Una enorme base materiale è
stata accumulata dal lavoro umano durante secoli di sfruttamento; contro il lavoro vivo
questa massa materiale è usata dalla mano armata del capitale e del suo Stato. Rompiamo
questa necessità del capitale, riappropriamoci di quanto ci è stato tolto, usiamo intera la
nostra forza di operai e di sfruttati nell’organizzare la nostra volontà di rivoluzione!
1.2 RIFIUTO DEL LAVORO CONTRO APPARENZA DEL VALORE Premuti da questo nuovo,
sempre più incalzante esprimersi della coscienza operaia dello sfruttamento e della
necessità del comunismo, i padroni resistono – come sempre – alternando crisi e sviluppo,
repressione e riforme. Riforme e repressione oggi si presentano in una proposta di
ristrutturazione che vuole l’uso della schiavitù salariale per lo sviluppo produttivo dentro
un ordinamento ricalcato sul «valore del lavoro», come legge esclusiva dell’organizzazione
produttiva e sociale. L’esclusività con cui i padroni intendono muoversi su questo terreno
comporta una forte tensione riformista contro tutte quelle specie di sfruttamento che non
possono raggrupparsi sotto la legge del valore: contro la rendita parassitaria, contro tutte
le disfunzioni improduttive che impediscono di regolare in modo pianificato il rapporto di
sfruttamento a livello sociale. Coll’imporre la legge del valore come legge della società
intera, il capitale cerca di legittimare il proprio sviluppo, di mostrarsi un giusto legislatore e
garante di un potere che le lotte operaie gli vengono contestando. Ma la legge del valore è
la legge dello sfruttamento. L’ «equo sfruttamento» che l’estensione illimitata del dominio
della legge del valore dovrebbe stabilire fra i lavoratori, è l’eguaglianza apparente che esiste
fra gli sfruttati da un unico padrone: il capitale come potenza impersonale e astratta, i
padroni come suoi funzionari tutti intesi all’opera senza fine di accrescere la ricchezza
produttiva e a stravolgerla in comando sugli operai. Il problema degli operai non è quello
di sapersi uguali nella miseria dello sfruttamento ma di abolire lo sfruttamento e il
comando del capitale. Agli operai non interessa un nuovo imbroglio, una «giustizia»
astratta e mostruosa, – a ciascuno secondo il lavoro – astratto e mostruoso il dominio del
capitale: nel suo comando la regola dell’equità può solo presentarsi come rinnovata
funzione dello sfruttamento. Agli operai le lotte hanno mostrato che non c’è più alcuna
misura tra lavoro e capitale che non sia misura del comando, della necessità dei padroni di
comandare perché il capitale possa riprodursi come figura del loro potere. All’operaio-massa,
intercambiabile nelle sue funzioni produttive, soggetto all’orribile ricatto di dover
accettare comunque il comando del padrone solo per godere della «libertà» di vivere come
vuole il padrone, schiavo del capitale dentro la fabbrica e nella società dominata dalla
volontà e dal puzzo del padrone, nessuno può più raccontare che il lavoro è un valore e che
l’«uguaglianza» capitalistica è giusta. Distruggiamo questa apparenza del valore,
riappropriamoci del comando sulla ricchezza sociale prodotta, opponiamo la forza operaia
al capitale! Una nuova epoca della lotta di classe si è aperta: dobbiamo osare viverla! Nella
situazione di sempre maggiore sfruttamento che la legge del valore determina, nelle lotte
che gli operai hanno condotto e conducono tra gli anni ’60 e gli anni ’70, gli operai hanno
lanciato contro l’apparenza mistificata del valore il rifiuto del lavoro! Rifiuto del lavoro
significa prima di tutto rifiuto operaio di accettare il lavoro come sistema di fabbrica, di
legarsi a ogni forma di partecipazione (da quella brutale del cottimo a quelle raffinate della
cogestione produttiva); significa – in secondo luogo – rifiuto da parte degli operai di
vedersi non solo collocati nello sporco sistema di fabbrica, ma anche nello sporco sistema
dello sviluppo, all’interno del progetto capitalistico di subordinare la società alla legge del
valore e dello sfruttamento. Ma soprattutto, rifiuto del lavoro significa comprendere che –
al di là del mondo del lavoro salariato, della legge del valore, del dominio capitalistico che
stravolge la capacità dell’uomo di produrre ricchezza nella costrizione a produrre valore
(che cioè costringe l’attività umana a farsi lavoro, cioè produzione di valore e di plusvalore)
– esiste, e già si scopre nei comportamenti dell’autonomia operaia, la possibilità di creare
un mondo nuovo che rinneghi la barbarie dell’oppressione, della povertà e dell’ignoranza e
che sia costruito sull’affinamento dell’operatività operaia, della capacità di produrre
ricchezza (beni utili) e non merci, valore, capitale, dell’invenzione e di una intelligenza
liberata dalla subordinazione alle necessità della produzione e della scienzacapitalistica.
Gli operai non vogliono subordinare se stessi ad una nuova figura dell’organizzazione
capitalistica del lavoro – più avanzata, più raffinata, più astratta – : il processo di
valorizzazione si è mangiato il lavoro vivo senza dare speranza di riscatto e di alternativa.
Solo la distruzione del lavoro incorporato al capitale può liberare, solo il rifiuto è la
condizione di un mondo liberato. Il rifiuto di farsi merce, che esprima in se un programma
di dittatura che imponga l’abolizione del lavoro salariato, che distrugga il rapporto fra
lavoro e diritto all’esistenza. Nella lotta gli operai hanno già opposto il rifiuto del lavoro
all’apparenza del dominio capitalistico! Su questa via dobbiamo marciare!
1.3 PROSPETTIVA SOCIALISTA DEL CAPITALISMO Nella misura in cui ogni alternativa di
semplice uso della ricchezza capitalistica accumulata, di semplice diversificazione delle
ragioni e delle modalità di gestione è venuta meno, il socialismo, il modello di
organizzazione sociale e produttiva realizzata in URSS e nei paesi del blocco «sovietico»,
ha finito di essere, nella coscienza operaia, un’indicazione positiva per la lotta
rivoluzionaria. L’esperienza del socialismo realizzato, che pure aveva determinato una
formidabile spinta rivoluzionaria, si è man mano mostrata come esperienza di una
sconfitta. Certo, la coscienza operaia non perde di vista il significato di una forma di
organizzazione della produzione che – come nel socialismo realizzato – ha determinato
posizioni di egemonia della forza-lavoro nella società; ma sa anche che questa alternativa di
gestione del capitale sociale ha bloccato il cammino della classe operaia verso il
comunismo. Sa soprattutto che il capitalismo avanzato vede oggi, nei paesi del socialismo
realizzato non l’avversario ma il complice nella realizzazione di forme più alte di
sfruttamento sulla classe operaia internazionale. Dentro la mostruosa apparenza
dell’eguaglianza di tutti sotto l’uniforme e assoluto dominio dell’astratta «giustizia» della
legge del valore come legge finalmente perfetta dell’equo sfruttamento, dentro l’utopia
socialista dell’equo processo delle mansioni, il capitale ha realizzato il suo sogno di una
società fatta di soli operai, una società sotto il potere reale del capitale ma senza classe
formale dei capitalisti, con il capitalismo nel rapporto di produzione e il socialismo nel
modo di produzione e di scambio. Contro i padroni unificati nella forma unificata del
capitale sociale e contro la prospettiva di gestione «socialista» dello sfruttamento
capitalistico, si muove dunque la lotta operaia. La riunificazione delle lotte operaie in tutti i
paesi dell’occidente e del «campo socialista» è un fatto, i militanti rivoluzionari che hanno
verificato il tradimento della loro lotta anticapitalistica nei paesi del socialismo realizzato si
ricompongono man mano nel fronte proletario e nel nuovo progetto rivoluzionario. 1.4
DALLA LOTTA SUL SALARIO ALLA LOTTA PER IL POTERE Da quando i padroni hanno
scoperto – dopo la grande crisi del ’29 la lotta operaia come motore dello sviluppo; da
quando è stato chiaro che il controllo sulla dinamica della variabile salariale o la rottura di
questo controllo erano il terreno di scontro fra capacità capitalistica di garantire stabilità e
sviluppo e capacità operaia di squilibrare il sistema – da allora l’instabilità del sistema del
capitale è stata ricercata ed ottenuta, nei paesi a capitalismo avanzato, dall’attacco operaio
sul salario, contro lo sviluppo. ln questo ciclo di lotte operaie e del conseguente sviluppo
capitalistico, il movimento operaio in generale, e comunista nella fattispecie, è stato man
mano emarginato a partire dalle punte più avanzate dell’organizzazione capitalistica della
società. Le lolle degli anni ’60 in Europa e in Italia si iscrivono ancora in questo ciclo
complessivo di lotte operaie: ma esse hanno avuto il significato di rompere la possibilità
capitalistica di ingabbiare le lotte stesse nelle politiche di controllo dei salari. Il Capitale è
stato sconfitto sullo stesso terreno che a «livello internazionale aveva scelto – a partire dal
New Deal – come terreno di contenimento e di repressione: la politica dei redditi, la
programmazione, il contenimento della spinta operaia attraverso istituzioni di controllo
elastico nei movimenti di classe operaia (le organizzazioni del movimento operaio, e in
particolare il sindacato, come diretta articolazione del Piano capitalistico). Nella nuova
situazione che le lotte hanno determinato il capitale punta oggi direttamente sul livello
statuale, sul potere politico che detiene sullo sviluppo, come momento fondamentale di
contrattacco nei confronti delle lotte operaie. La sua possibilità di sopravvivenza è oggi
tutta giocata su questo piano: di qui la violenza con cui esso si presenta nello scontro, la
necessitò che sempre lo rincorre di affrontare e dibattere in uno scontro frontale la classe
operaia. Di qui la completa e definitiva riassunzione del Livello economico (lo sviluppo
capitalistico) dentro il livello statuale (in gestione politica complessiva dello sfruttamento).
La classe operaia ha scoperto questa situazione nuova del capitale nel corso delle lotte che
seguono il passaggio agli anni 70. Dalla lotta sul salario l’obbiettivo della lotta contro lo
Stato viene fuori imposto dalla continuità stessa dell’attacco: la scoperta operaia del nuovo
livello dello scontro, la messa a fuoco del problema del potere politico come questione
all’ordine del giorno, è sempre più nitida e precisa. A questo punto il passaggio
all’organizzazione si pone come risposta al bisogno determinato della classe operaia di
mantenere contro l’attacco dello Stato le vittorie salariali strappate in fabbrica; come
risposta al bisogno operaio di progettare il comunismo: distruzione del lavoro salariato e
liberazione delle forze produttive dalle condizioni della produzione, liberazione della
capacità di produrre ricchezza colla costrizione a produrre valore, liberazione della
costrizione a farsi lavoro. Il terreno della lotta sul salario è quello che la classe operaia ha
percorso spontaneamente quando il capitale ha tentato l’operazione di contenimento della
forza operaia a questo livello. Il terreno della lotta per il potere non può essere percorso
dalla spontaneità, sia pure dalla più alta. Quell’organizzazione, un’organizzazione che sia
l’opposto equivalente della violenza organizzata dello Stato, diviene l’elemento decisivo.
Cogliere questo passaggio, organizzare negli anni ’70 un ciclo di lotte sul terreno del potere
politico, individuare delle scadenze di costruzione del Partito, fissare dei tempi entro i
quali si deve dare una risposta al bisogno operaio d’organizzazione, è l’obiettivo
fondamentale delle avanguardie operaie.
1.5 POTERE OPERAIO E I COMPITI DELL’ORGANIZZAZIONE
Organizzare il Partito, aprire la battaglia politica per l’unificazione entro una sola
organizzazione delle avanguardie degli anni ’60, affermare una corretta via nel passaggio
dal processo di aggregazione di unità d’azione al processo di unificazione di queste
avanguardie, definire le scadenze di lotta di massa dentro il progetto strategico di un nuovo
ciclo di lotte per l’organizzazione, riformulare il programma politico per gli anni ’70,
propagandare il programma comunista di potere come programma alla portata
dell’organizzazione rivoluzionaria degli operai e dei proletari: questi sono i compiti che
oggi le avanguardie rivoluzionarie hanno di fronte. Questi sono i compiti che i compagni di
POTERE OPERAIO intendono assolvere.
POTERE OPERAIO ha posto nel Convegno di Firenze, (9–11 gennaio ‘70) l’urgenza del
progetto di costruzione del Partito, a partire dal bisogno operaio di organizzazione così
come era venuto definendosi dentro le grandiose vittorie dell’autunno rosso e il
conseguente esaurirsi del terreno del salario come terreno percorribile in termini esclusivi
dall’autonomia operaia; nel Convegno di Bologna (5–6 settembre ‘70) ha cominciato a
definire il terreno politico, le scadenze e le forme intermedie di crescita
dell’organizzazione, e soprattutto ha identificato l’urgenza capitalistica dello scontro a cui
la classe operaia deve dare, violentemente, raccogliendovi attorno l’intera forza del
proletariato, la risposta che merita; oggi, POTERE OPERAIO, pone alle avanguardie
l’urgenza della discussione: e della pratica sul programma comunista di potere e
sull’organizzazione politica per la conquista del potere.
COMUNISMO E ORGANIZZAZIONE: PAROLA D’ ORDINE CHE DOMINERÀ GLI
ANNI ’70
8 Apr, 2022 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali fra operaismo e autonomia organizzata
Pubblichiamo un testo sui rapporti tra Potere operaio e il Manifesto nel corso
del biennio 1970–71 tratto dalla tesi di laurea di Cinzia Zennoni dal titolo:
Potere operaio: dalla teoria dell’insurrezione di massa all’organizzazione
dell’avanguardia rivoluzionaria, Parma 2001.
I comitati politici e l’incontro/scontro con il Manifesto
Anche la campagna contro il «decretone», un decreto-legge presentato dal governo Colombo
nell’agosto 1970, che prevedeva disposizioni di carattere tributario e quindi un aggravamento del
carico fiscale, trovò concordi Manifesto e Potere operaio, oltre all’ostruzionismo condotto in
Parlamento dai deputati del Psiup e alle richieste di radicali modifiche da parte del Pci[1].
Fu in quel periodo che Potere operaio gettò le basi del maggior sforzo aggregativo compiuto
durante l’arco della sua esistenza politica. Sempre mantenendosi all’interno di una prospettiva che
collocava la questione organizzativa tra gli obiettivi di primaria importanza, Potere operaio
riconosceva che:
tale progetto va fondato riferendosi all’area politica, alle avanguardie che le lotte degli
anni ’60 hanno determinato. Potere operaio si ritiene una componente importante di questo
percorso storico, ma non ritiene di rappresentare – ovviamente – né la totalità delle
avanguardie rivoluzionarie organizzate, né la totalità del movimento[2].
Nella fase di passaggio che si voleva inaugurare, dai gruppi al partito, il problema diveniva quindi
quello dell’aggregazione, del superamento della frammentazione che aveva caratterizzato gli
anni ’60 e del settarismo più volte dimostrato dalle forze organizzate del movimento. Potere
operaio notava alcuni segnali positivi provenire in particolare da due gruppi della nuova sinistra:
Lotta continua e il Manifesto. Per quanto riguarda il primo, Potere operaio osservava che:
ci sembra avviato un processo di superamento di quella ambigua definizione organizzativa
(«Lotta continua è l’organizzazione rivoluzionaria» / Lotta continua è il movimento), di quella
chiusura settaria nei confronti delle forze organizzate della sinistra operaia, alla quale faceva
riscontro una acritica e trionfalistica subordinazione nei confronti del movimento, dei
comportamenti spontanei delle masse, caratteri – questi – deteriori e sterili che hanno a
nostro giudizio portato i compagni di «Lotta continua» a sostituire la teoria
dell’organizzazione con la tecnica dell’organizzazione[3].
Tuttavia, in questa prima fase le rispettive differenze nel modo di concepire il processo
organizzativo (come unità «dal basso», nelle lotte per Lotta continua, come aggregazione delle
avanguardie, di nuclei organizzati e di gruppi nella loro interezza per Potere operaio) non furono
superate.
Migliori risultati diede all’inizio la collaborazione con il Manifesto. Di esso si faceva notare che:
I compagni del manifesto – dai quali ci distinguono origini teoriche, storia soggettiva e
percorso politico anche profondamente diversi – dimostrano nei confronti dell’aggregazione
un atteggiamento aperto, stimolante e fruttuoso di esperienze comuni e di chiarimenti non
superficiali[4].
Il tentativo di intraprendere un percorso comune era stato avviato agli inizi del settembre 1970,
all’epoca del II convegno nazionale di Potere operaio, svoltosi a Bologna, il 5-6 settembre 1970,
occasione nella quale il gruppo lanciò una nuova iniziativa: costruire i «comitati politici». La ripresa
delle lotte alla Fiat, nella primavera del 1970, aveva evidenziato l’urgenza del problema
organizzativo. La diversità fra la linea sindacale, centrata attorno all’obiettivo della trasformazione
del premio di produzione semestrale in quattordicesima mensilità, cioè in quota fissa annuale, non
più legato all’andamento produttivo dell’azienda, e quella di Potere operaio, che chiedeva la
categoria unica, iniziando con la 2ª per tutti, rese consapevole il gruppo della necessità di inserire
la lotta per il salario slegato dalla mansione all’interno di quella sindacale, per le oggettive
difficoltà di generalizzare i livelli organizzativi raggiunti[5]. Occorreva quindi superare la fase di
«autonomia» delle lotte e costruire strutture organizzate in grado di porsi come alternativa politica
alla gestione sindacale, ai consigli dei delegati, e, nello stesso tempo, darsi una direzione unificata,
che ponesse fine alla frammentazione e creasse una rete di quadri militanti «in grado di piegare il
movimento alle indicazioni strategiche che l’organizzazione interpreta»[6].
I comitati politici (di fabbrica, di quartiere, di scuola) avrebbero dovuto essere, nelle intenzioni di
Potere operaio, momenti intermedi d’organizzazione tra il partito e il movimento, organismi di
unificazione delle avanguardie e di direzione delle lotte di massa. Tuttavia essi non avrebbero agito
autonomamente, bensì dovevano «qualificarsi entro un programma politico complessivo, ma
soprattutto entro un programma di azione e di gestione dello scontro a livello nazionale»[7]. Poi si
specificò meglio da dove sarebbe derivata la linea politica dei comitati: «essi sono una proposta
precisa di Potere operaio e si coordinano a livello nazionale entro scadenze, obiettivi, progetti di
azione dentro la direzione complessiva di Potere operaio»[8].
La proposta dei comitati politici fu accolta e ribadita dai militanti del Manifesto al convegno
nazionale operaio, svoltosi a Milano il 30-31 gennaio 1971, promosso dal Manifesto stesso e
organizzato assieme a Potere operaio. Innanzitutto, come venne intesa la struttura del «comitato
politico» al convegno? Secondo la definizione di Massimo Serafini, militante del Manifesto, esso
era un organo di collegamento permanente delle avanguardie reali presenti in una certa
fabbrica, in un certo quartiere, in una certa zona, che esprima dunque una concreta
situazione di lotta e si sforzi di dirigerla secondo una piattaforma precisa e una precisa
prospettiva. Non è dunque un comitato di base […]. Ma non è neppure l’istanza di base del
nuovo partito in formazione […]. Se riusciremo a costruire una rete estesa di questi
organismi, di cui le masse sentono realmente il bisogno, cominceremo ad avere una
struttura che può proporsi una gestione non episodica della lotta e costruire il movimento
[corsivo mio] secondo scadenze e linee definite[9].
Per Alberto Magnaghi, di Potere operaio, i comitati politici erano «strutture intermedie verso la
costruzione del Partito, momenti intermedi tra partito e movimento di massa, che risolvono
insieme il complesso problema dell’unità delle “avanguardie interne” e dell’unificazione dei gruppi
organizzati»[10]. Infine, nella formula riassuntiva contenuta nella mozione conclusiva del
convegno, essi erano definiti come
strumenti di organizzazione permanente delle avanguardie presenti nella fabbrica, nel
quartiere, nella zona, come strumenti di collegamento di tutte le situazioni territoriali che
attorno a essi si collocano: organismi cioè capaci di esprimere una concreta situazione di
lotta, di farle superare i limiti aziendali e locali, di darle una dimensione politica , di inserirla
in una comune strategia.
I Comitati politici possono così rappresentare non solo uno strumento di intervento
immediato, ma anche il terreno su cui è possibile cominciare a costruire […]
quell’aggregazione politica e quel nucleo organizzativo che sono premessa per la costruzione
del nuovo partito rivoluzionario[11].
Già da queste definizioni emergono alcune delle differenze di prospettiva esistenti tra i militanti dei
due gruppi, delle quali essi erano consapevoli. Prima di procedere all’esame dei punti di contrasto,
diretta conseguenza di concezioni strategiche diverse, alcuni dati. Alla conferenza erano
rappresentate 76 situazioni operaie organizzate dal Manifesto e 68 organizzate da Potere operaio.
Essa nasceva dalla volontà di «trovare con gli altri gruppi una convergenza politica non episodica su
una piattaforma di lotta capace di collegare fra loro le avanguardie operaie, di generalizzare
l’esperienza compiuta dalle punte del movimento in questi mesi…»[12]. Già a partire dal mese di
ottobre era stata avviata una forma di collaborazione tra i due gruppi nelle diverse sedi e
all’interno delle prime esperienze di comitati politici operai e territoriali, come quelli della Fiat di
Torino, della Petrolchimica e della Chatillon di Porto Marghera, della Fatme di Roma e si era posto il
problema del rapporto tra comitato politico, progetto di partito e strutture sindacali. L’obiettivo era
per entrambi la realizzazione di un punto di riferimento credibile, alternativo rispetto alla sinistra
tradizionale, ma l’ordine delle priorità era invertito. Per Potere operaio prima veniva il momento
organizzativo, poi il movimento. Occorreva concentrarsi sul primo termine affinché il livello
raggiunto dallo scontro di classe uscisse da una condizione rivendicativa e «parasindacale» ed
avesse uno sbocco politico. Il Manifesto sosteneva invece la necessità di radicarsi all’interno di
situazioni reali di lotta, contribuire a svilupparle, collegandole ad altre, operare nel movimento per
rafforzarlo e dargli maggior coesione.
Per questo il Manifesto propose la creazione di un giornale quotidiano che informasse, fornisse
elementi di direzione al movimento, per giungere, solo dopo un lungo percorso, alla formazione di
un partito rivoluzionario di massa. Potere operaio condivideva l’idea del giornale, ma non
intendendolo come l’espressione di un gruppo, bensì come lo specchio fedele del processo di
realizzazione dei comitati politici, gestito nella sua impostazione da un momento di
centralizzazione degli stessi, ancora da realizzare e per il quale era urgente impegnarsi. Il primo
numero del quotidiano uscì il 28 aprile 1971, in aggiunta a «il manifesto» rivista mensile, poi
bimestrale, esistente dal giugno 1969, e fu effettivamente espressione della linea di un gruppo
man mano che il progetto di un’iniziativa comune naufragava.
Al di là del dibattito sugli strumenti organizzativi, le differenze si concentravano attorno ai tempi e
alle modalità di un possibile esito rivoluzionario. Nel Manifesto si nota maggior cautela e
attenzione per il momento presente, timore che il velleitarismo e toni trionfalistici potessero
nuocere a un’effettiva capacità di direzione delle masse. Inoltre, nelle analisi del gruppo era
centrale il contesto di fabbrica, l’organizzazione capillare reparto per reparto attorno a una
piattaforma precisa (abolizione del cottimo e delle qualifiche, orario di lavoro, ambiente di lavoro)
e questo lo portava a criticare lo spostamento d’interesse delle altre formazioni della sinistra
rivoluzionaria verso la pratica della «socializzazione» delle lotte e il progressivo abbandono del
terreno di fabbrica. La linea politica del Manifesto puntava allo
sviluppo di organismi autonomi e unitari, gestiti dal basso, della classe operaia, politici e
sindacali insieme, i consigli, che si coordinavano per settore e per zona in funzione delle
proprie lotte, dandosi anche strumenti di contrattazione e all’interno dei quali si forma e
opera una avanguardia politica complessiva[13].
Il gruppo inizialmente aveva riconosciuto nei consigli dei delegati tali strutture, in quanto
rappresentanza diretta e unitaria della classe operaia. Per questo Potere operaio, fortemente ostile
ai consigli, non aveva risparmiato in passato toni polemici nei confronti del Manifesto[14]. Per
Potere operaio i consigli dei delegati non potevano essere intesi semplicemente come organismi
aziendali, bensì possedevano anche una valenza politica:
per il sindacato il Consiglio è uno strumento non solo per la gestione della lotta a livello
aziendale, ma per far gestire concretamente alle rappresentanze operaie […] tutto il percorso
del progetto riformistico di rilancio dello sviluppo, dalla ristrutturazione tecnologica alle
riforme[15].
Perciò si contestava la «velleità ideologica» di coloro che (e chiara era l’allusione al gruppo del
Manifesto) pensavano di farne un «futuro organismo di democrazia operaia al cui interno le
avanguardie rivoluzionarie decidono l’azione di lotta strappandone la gestione al sindacato»[16].
La struttura dei comitati politici doveva quindi porsi, secondo Potere operaio, come un progetto
politico radicalmente alternativo a quello dei consigli, agire sì al loro interno, ma già come presenza
organizzata, forte di una sua identità esterna e indipendente rispetto a quella sede di scontro
politico.
Mutati i tempi e forzati dalla necessità di trovare termini di accordo, anche il Manifesto abbandonò
la speranza di utilizzare i consigli dei delegati per una gestione alternativa della lotta,
constatandone il progressivo coinvolgimento in area sindacale e la rinuncia da parte dei gruppi
rivoluzionari a battersi all’interno di essi per condizionarne la linea. Solo allora, con l’assunzione del
progetto di costruzione dei comitati politici da parte del Manifesto, si crearono i presupposti di
un’esperienza di lavoro comune con Potere operaio.
Questa svolta politica incontrò forti perplessità all’interno della «base» del Manifesto:
l’organizzazione unitaria del convegno venne descritta come «operazione di vertice», in cui la
maggior parte dei militanti non era stata coinvolta. Inoltre si riteneva affrettato il giudizio sui
delegati e sui consigli, come se per reagire a una debole influenza sul movimento fosse necessario
assumere la funzione d’avanguardia. I commenti su Potere operaio non furono certo più benevoli:
accelerazioni strategiche, salti in avanti non stupivano in un gruppo le cui analisi si ritenevano
schematiche e riduttive e al quale si pensava di aver concesso troppo, pur di salvare un terreno
minimo di azione comune[17].
Potere operaio dal canto suo riteneva secondario il lavoro di base e invece essenziale fornire una
risposta politica «generale» come punto di riferimento per le lotte. Il partito rivoluzionario avrebbe
rappresentato l’uscita dal livello dell’autonomia e il passaggio allo scontro politico con lo Stato. Per
questo gli interventi dei militanti di Potere operaio insistevano sull’urgenza di trovare un momento
di centralizzazione nazionale, con funzioni di coordinamento, direzione e unificazione dell’attività
dei comitati politici. Questi venivano a costituire un momento intermedio tra movimento e
organizzazione complessiva, con l’accento spostato sulla «prospettiva di giungere […] alla creazione
di un organismo di collegamento e di direzione politica»[18].
Troppe ambiguità su numerose questioni ostacolarono i tentativi di collaborazione. Il
riconoscimento della necessità dell’aggregazione politica non bastò al superamento delle
reciproche diffidenze. Potere operaio iniziò col porre la discriminante dell’uso della violenza, come
criterio di distinzione tra «opportunisti» e «rivoluzionari»[19]. In seguito prese le distanze dalla
scelta del Manifesto di «ripiegare su linee interne, su una fase lunga di crescita organizzativa del
gruppo, di consolidamento prudente del processo aggregativo, di estensione e allargamento
dell’area rivoluzionaria»[20]. Potere operaio lo riteneva un atteggiamento troppo cauto e
attendista, conseguenza di premesse sbagliate. Per giungere a uno scontro di potere non era
necessario esercitare già da prima un’egemonia dentro il proletariato, poiché la si sarebbe
conquistata nel corso della lotta stessa.
Per quanto riguarda il Manifesto, in quel periodo esso era effettivamente impegnato a tracciare un
bilancio di due anni di attività e a darsi una definizione organizzativa e politica più precisa. Il
documento[21] che lo riporta riferisce un giudizio fallimentare in merito al proposito di «costruire,
nel breve periodo, con un processo di aggregazione reale tra forze diverse, un punto di riferimento
alternativo capace di invertire la disgregazione in atto nella nuova sinistra e di aprire una crisi nelle
organizzazioni riformiste e nel loro rapporto con le masse»[22]. Una delle ragioni del fallimento di
tale progetto era individuata nell’atteggiamento settario dei gruppi della sinistra
extraparlamentare, nel loro progressivo chiudersi in un lavoro di «autocostruzione organizzativa e
ideologica», nel loro isolarsi dalle reali avanguardie di movimento, in particolare dalle avanguardie
operaie. Questo era il punto nodale della questione. Per rispondere alla domanda di quei militanti
che chiedevano giustificazione del ritardo con cui la linea del convegno di Milano veniva applicata,
il Manifesto scriveva:
I gruppi extraparlamentari hanno opposto un rifiuto a quella proposta, o, dopo averla
accettata, come Potere operaio, l’hanno radicalmente stravolta, separandola dal suo terreno
specifico – lo scontro sociale, la fabbrica, le avanguardie reali. Lo hanno fatto non solo e non
tanto per errori di linea e per generico settarismo: ma per nascondere a se stessi e agli altri
un dato di fatto che li costringerebbe all’autocritica e al realismo, cioè il loro peso irrilevante
all’interno delle fabbriche non solo rispetto alla generalità dei lavoratori, ma rispetto alle
avanguardie di lotta. È più semplice inventare dei comitati politici esterni, o agire come
gruppi di studenti che si autodefiniscono «i proletari», o far passare tre operai organizzati
come l’avanguardia, che conquistare e organizzare l’avanguardia reale[23].
Per il Manifesto fondamentale rimaneva la lotta di fabbrica, punto di partenza per qualsiasi
intervento in ambito sociale. Esso criticava la ricerca di «nuovi vergini terreni di esercitazione nelle
lotte sociali» o di «una rapida e generica politicizzazione nello scontro con lo Stato»[24]. Il gruppo
proseguiva nel tentativo di costruire strutture politiche autonome, che agissero all’interno dei
consigli dei delegati per far maturare lentamente la coscienza di una linea diversa, nel contesto
concreto della lotta.
Potere operaio si spostava invece decisamente sul terreno delle lotte sociali. Il titolo di un
editoriale apparso su «Potere operaio» a fine aprile 1971 è emblematico di questa tendenza: «La
scadenza è nel partito. La guerriglia di fabbrica è troppo e troppo poco»[xxv]. Il gruppo riteneva
che si stesse attraversando una fase storica di crisi del sistema capitalistico, indotta dalle lotte del
biennio trascorso: il blocco degli investimenti, la chiusura di cantieri edili, di fabbriche tessili, di
numerose piccole e medie industrie, il ricorso alla cassa integrazione, alle serrate, alle sospensioni
nelle grandi fabbriche ne erano alcuni aspetti. In questo contesto le lotte operaie in fabbrica non
sarebbero state sufficienti ad affrontare la controffensiva capitalistica. Lo scontro doveva ampliarsi,
diventare lotta per il «potere», contro lo Stato, coinvolgere l’intero proletariato attorno
all’obiettivo del «salario politico». I comitati politici rimanevano validi come ipotesi organizzativa
da concretizzare, sebbene ciascun gruppo secondo una propria direzione.
Note [1] Il decretone fu definitivamente approvato dal Senato il 15 dicembre 1970. [2] Alle
avanguardie per il partito, p. 82. [3] Ivi, p. 87. [4] Ivi, pp. 85-86. [5] Si apre lo scontro diretto contro
lo Stato, «Potere operaio», 30 maggio-6 giugno 1970. [6] Il comunismo della classe operaia,
«Potere operaio», n. 28, 11-18 luglio 1970. [7] Potere operaio – Convegno nazionale – Bologna 5-
6/9/1970. Bozza di relazione introduttiva generale, in Archivio Storico della Nuova Sinistra Marco
Pezzi, Bologna. Fondo Marco Pezzi. Documento ciclostilato. [8] Ivi, p. 7. [9] Massimo Serafini,
Relazione al Convegno operaio. Milano 30-31 gennaio 1971, «il manifesto», a. II, n.1-2, gennaiofebbraio
1971, p. 33. [10] Verso il Partito! Comitati politici, «Potere operaio», n. 37, 5-19 marzo
1971, pp. 5-6. [11] Ivi, p. 10. Mozione conclusiva. [11] Convegno operaio, «il manifesto», a. II, n. 1-
2, gennaio-febbraio 1971. Introduzione. [12] Massimo Serafini, art. cit., p. 32. [13] Risposta
socialista alle lotte d’autunno, «Potere operaio», n. 13, 28 febbraio 1970. [14] Alle avanguardie per
il partito, cit., pp. 79-80. [15] Ibidem. [16] Cfr. Sottovalutazione dei Consigli?, «il manifesto», n.1-2,
cit., pp. 38-39. [17] Mozione conclusiva, art. cit. [18] Discorso sugli strumenti, «Potere operaio», n.
37, 5-19 marzo 1971, p. 12. [19] Puntualmente i compagni del Manifesto, «Potere operaio», n. 38-
39, 17 aprile-1 maggio 1971, p. 19. [20] Piattaforma per un movimento politico organizzato, «il
manifesto», n. 3-4, primavera-estate 1971, pp. 3-25. [21] Ivi, p. 4. [22] Ivi, p. 13. [23] Ivi, p. 12. [24]
«Potere operaio», n. 38-39, 17 aprile-1 maggio 1971.
8 Apr, 2022 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali fra operaismo e autonomia organizzata
un testo di Cinzia Zennoni che tratta la teorizzazione delle «basi rosse» in Potere operaio
Agli inizi del 1972, Potere operaio avanzò una nuova proposta organizzativa: la realizzazione di
«basi rosse», intese come «la forma specifica dell’organizzazione di massa della lotta degli anni
Settanta, in una fase politica in cui il problema è forzare il movimento, a partire dal terreno
dell’appropriazione, verso lo sbocco insurrezionale»[1]. I nuovi organismi, che avrebbero dovuto
sostituire il vecchio progetto dei Comitati politici (ora ritenuti inadeguati ai compiti che la mutata
situazione imponeva), si inserivano all’interno del progetto insurrezionale, dove la capacità di
direzione del movimento di massa diveniva non più solo politica, ma politico-militare. Già a partire
dal convegno di Roma del settembre 1971, Potere operaio aveva fatto una precisa scelta di campo.
È a fronte della risposta capitalistica classica in termini di crisi, che per il movimento si danno
– a nostro avviso – due possibili vie di risposta: la via istituzionale e la via insurrezionale.
Molti compagni imboccano la prima via, e questa conduce ai contratti e alle elezioni come
sbocchi e scadenze istituzionali, alla difesa del posto di lavoro in fabbrica e alla lotta per la
democrazia nella società, a una logica frontista. Noi pensiamo di rappresentare la seconda
via, e questo vuol dire privilegiamento di una tematica antiistituzionale, della parola d’ordine
dell’organizzazione, della violenza proletaria, […] dell’appropriazione come passaggio di
massa verso il terreno della lotta armata[2].
Si trattava ora di approntare gli strumenti necessari alla concretizzazione del progetto. Nella
convinzione che «lo Stato non cadrà da solo, come un dente cariato, né si sfalderà d’un colpo» e
che nel processo insurrezionale «lo Stato va invece sfaldato, disorganizzato con un attacco
sistematico contro le istituzioni»[3], Potere operaio poneva come prioritaria la questione della
«militarizzazione delle avanguardie» da realizzarsi all’interno della «base rossa», non da intendersi
come «braccio armato» o servizio d’ordine con funzione militare specifica rispetto
all’organizzazione politica, ma come organismo di unità delle avanguardie con compiti di azione
contemporaneamente politica e militare[4].
Il progetto di una «guerra civile rivoluzionaria» richiedeva l’esercizio di una forte egemonia sul
movimento e la capacità di imprimere una direzione specifica alle lotte. In questo stava la difficoltà,
poiché, come giustamente Potere operaio rilevava, all’interno del movimento si era venuta a
creare una polarizzazione tra due posizioni: da un lato si proponeva
la difesa dell’occupazione; la radicalizzazione delle piattaforme sindacali; il consolidamento
dell’autonomia; la costruzione dell’organizzazione mattone su mattone, per la via lunga del
«radicamento graduale fra le masse»; il rafforzamento degli organismi dell’autonomia, il
rifiuto di assumere l’iniziativa sul terreno della violenza; la difesa contro la repressione;
dall’altro
il salario garantito come programma radicale di unificazione dei proletari contro lo Stato; […]
la creazione nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, di organismi di massa di direzione
della lotta, di esercizio pratico di potere sovversivo, di organizzazione dello scontro (le basi
rosse del potere operaio e proletario); […] la costruzione di un’organizzazione politicomilitare
per organizzare la guerra civile rivoluzionaria […] che sia capace – non di inseguire il
movimento – ma di muoversi «da partito»: cioè che sia in grado di anticipare, di promuovere
i comportamenti delle masse, del movimento[5].
La realizzazione del partito dell’insurrezione richiedeva la capacità di stabilire un «programma»,
cioè di fissare alcuni obiettivi politici e momenti generali di scontro attorno ai quali far convergere
il consenso di strati della classe operaia e di settori del movimento. L’obiettivo del salario politico,
in primo luogo esemplificato dalla richiesta di reddito garantito per tutti e «sganciato dal lavoro»,
poteva rappresentare la formula riassuntiva «dell’intero ventaglio dei bisogni, degli interessi
proletari».
Tuttavia la questione del programma si poneva contemporaneamente a quella delle forme di lotta,
degli strumenti d’organizzazione della guerra civile. Potere operaio si opponeva a una duplice
prospettiva: sia a una concezione organizzativa tipica delle formazioni terroristiche, incentrata
attorno alla lotta e alla propaganda armata da parte di nuclei d’avanguardia clandestina, dalla cui
aggregazione sarebbe poi derivato il partito rivoluzionario, sia a una struttura organizzata su due
livelli, in cui il partito fosse legale e a esso si affiancasse una struttura militare di carattere
subalterno. A tali ipotesi si preferiva quella di un’organizzazione politica, insieme d’avanguardia e di
massa, già immediatamente strutturata per le necessità dello scontro militare, dove la violenza
preordinata d’avanguardia potesse fondersi con la violenza di massa del movimento. La «base
rossa», in quanto «organismo di massa capace di direzione politica sul movimento», avrebbe
dovuto rappresentare la struttura intermedia di raccordo tra i due momenti di esercizio della
violenza rivoluzionaria[6], all’interno di un «progetto complessivo di militarizzazione del
movimento proletario e delle sue avanguardie»[7]. Il partito si affermava quindi in una forma fluida
e dinamica:
Vi è solo uno spazio di partito che di volta in volta si costruisce come possibilità di
insurrezione, che si afferma dentro gli organismi di massa a direzione operaia predisposti alla
lotta […] Gli organismi di massa a direzione operaia sono la forma attuale del partito.[8]
Premesso che di «basi rosse» non risulta ne siano state costituite in nessun luogo[9], attorno alla
proposta della loro realizzazione si svolse, dall’1 al 3 giugno 1972, il convegno dei quadri dirigenti
di Potere operaio (erano presenti circa 250 delegati di tutte le sezioni). Partendo dall’analisi della
composizione sociale dei militanti dell’organizzazione[10], il convegno esordiva con l’affermare:
va sviluppata all’interno delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria una profonda
autocritica che coinvolga la stessa composizione politica (oggi impoverita di energie operaie
di lotta) delle organizzazioni, che riapra la campagna di reclutamento di massa di quadri
politici operai e assicuri perciò che la parola d’ordine della direzione operaia non sia semplice
fumisteria[11].
Si era alla vigilia delle lotte d’autunno per il rinnovo del contratto dei chimici, degli edili e,
soprattutto, dei metalmeccanici. Potere operaio cercò di inserirsi nel contesto delle agitazioni
operaie precisando meglio la propria posizione. La sensazione di aver allentato il legame con la
classe operaia (che ora andava organizzandosi autonomamente, al di fuori delle direttive dei
gruppi, in collettivi, comitati, assemblee) era forte. Per questo si ribadiva l’urgenza di riproporre la
questione della «direzione operaia del movimento». Si affermava perentoriamente che
il soggetto indivisibile della lotta rivoluzionaria è la classe operaia […] non l’individualità (o il
coraggio e l’eroismo) dei singoli quadri. La soggettività rivoluzionaria non è in nessun caso
individualità singola, individualismo. È sempre e soltanto comportamento di massa[12].
Il partito dell’insurrezione avrebbe potuto costituirsi solo attraverso l’affermarsi di una volontà
radicale di scontro all’interno degli organismi di massa e di movimento nati nel corso delle recenti
lotte. Potere operaio si proponeva di promuoverne lo sviluppo e il collegamento sul piano
nazionale, cosciente che «una proposta di conferenza dei comitati e delle assemblee operaie e
proletarie non va vista come iniziativa di un gruppo, ma come l’espressione di un bisogno reale da
parte di questi organismi stessi»[13].
Con l’espressione «organismi di massa» Potere operaio non intendeva riferirsi solo alle nuove
realtà organizzative di quell’area di movimento che si definiva come «autonomia operaia
organizzata»[14], ma anche al progetto delle «basi rosse». Esso doveva legare il problema della
militarizzazione alla lotta di massa e alla «dimensione metropolitana» del contesto insurrezionale,
proprio in virtù della natura politico-militare che tali organismi avrebbero avuto e della loro
prevista diffusione sul territorio. Inoltre la «base rossa» (sempre a livello di dibattito teorico,
perché sul piano pratico non si concretizzò nulla) avrebbe permesso di risolvere la questione della
«centralizzazione» del movimento, cioè «l’emancipazione di momenti centrali di direzione operaia
sugli organismi di massa»[15].
L’organizzazione rivoluzionaria avrebbe dovuto conquistare l’adesione delle avanguardie operaie
più significative, per raggiungere una capacità di direzione politica sulle situazioni di lotta. Per far
questo occorreva
battere con urgenza l’inefficacia delle assemblee al comando, il loro corporativismo, la loro
disarticolazione, la mancanza (che spesso in esse si rivela) di collegamenti, di disegno politico
generale e di disciplina; e insieme dobbiamo battere la presunzione dei gruppetti alla
direzione del movimento, il loro settarismo, l’inefficacia nello stringere un rapporto con le
masse, le alternative cervellotiche fra lotta di lunga durata e terrorismo[16].
All’interno di Potere operaio era iniziata una seria autocritica sui limiti organizzativi dei gruppi, la
quale si stava orientando in una duplice direzione: da un lato si mirava alla realizzazione del tanto
ambìto partito dell’insurrezione, momento supremo di centralizzazione delle situazioni
rivoluzionarie, sovrastante gruppi e organismi di massa; dall’altro si guardava con interesse ai
fenomeni di autorganizzazione di base, sorti in fabbrica e sul territorio, che rivendicavano la
propria autonomia rispetto a qualunque pretesa egemonizzante dei gruppi o delle organizzazioni
del movimento operaio. Da qui prese avvio la crisi progressiva delle strutture di Potere operaio.
Note [1] Come si pone oggi il problema dell’unità, «Potere operaio», n. 46, febbraio 1972, p. 36. [2]
Terroristi noi, opportunisti loro?, «Potere operaio», n. 46, cit., p. 35. [3] Ibidem. Nell’articolo sopra
citato il processo insurrezionale è definito come «processo di lungo periodo». Altrove invece si
affermerà: «Il peggior momento di opportunismo che oggi emerge nel movimento è quello che
vede […] il processo organizzativo come un continuo, e l’insurrezione diluirsi quindi in guerra di
lunga durata». (Preparare l’insurrezione, «Potere operaio», n. 49, 30 giugno 1972). La duplice
indicazione è dovuta alla compresenza all’interno di Potere operaio di due differenti percorsi di
analisi, che, almeno su questo punto, troveranno una formula d’intesa al successivo convegno di
Rosolina. [4] Come si pone oggi il problema dell’unità, art. cit. [5] Proletari, è la guerra di classe!,
«Potere operaio», n. 47-48, 20 maggio-20 giugno 1972, p. 4. [6] Ivi, p. 34. [7] Ibidem. [8] Preparare
l’insurrezione, art. cit. [9] G. Palombarini, 7 aprile: il processo e la storia, Arsenale Cooperativa
Editrice, Venezia 1982, p. 88. [10] A tal proposito Giorgio Bocca scrive: «Se badiamo alla estrazione
sociale e alla professione del gruppo dirigente troviamo che i professori e gli studenti destinati alla
docenza sono la grande maggioranza […]. Sono professori a Padova Negri, Ferrari Bravo, Gambino,
Serafini, la Del Re, Sergio Bologna; insegnano in altre università Piro, Piperno, Magnaghi,
Galimberti; Vesce è preside di scuola media; sono insegnanti, almeno sulla carta, Scalzone e il
Marongiu e lo Zagato; sono medici il Pancino e la Di Rocco; studenti Benvegnù e Sturaro;
professore pure il Bianchini; quanto agli operai Sborgiò, Finzi e Mander saranno autodidatti ma
hanno linguaggio da professori e in più intelligenza pratica. Fa caso a sé Mario Dalmaviva
assicuratore e pubblicitario, di grandi iniziative, intelligente ma di non frequenti letture». (G. Bocca,
Il caso 7 aprile, Feltrinelli, Milano 1980, p. 44). [11] Preparare l’insurrezione, art. cit. [12] Ibidem.
[13] Il convegno di Potere operaio, «Potere operaio del lunedì», n. 14, 18 giugno 1972. [14] Per una
trattazione più specifica del tema dell’autonomia operaia, vedi un mio testo di prossima
pubblicazione su «Machina». [15] Preparare l’insurrezione, art. cit. [16] Ibidem.
8 Apr, 2022 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
sul ”gruppo’’ politico e i suoi giornali fra operaismo e autonomia organizzata
un saggio di Cinzia Zennoni che affronta le Scelte diverse (dal 1972) tra Potere operaio, Lotta continua, Manifesto.
Durante la fase delle lotte contrattuali [del 1972] Potere operaio si trovò isolato rispetto alle scelte di quei gruppi della sinistra extraparlamentare con i quali aveva precedentemente cercato di stabilire momenti di intesa e di azione comune: Lotta continua e il Manifesto.
Per quanto riguarda il primo, i rapporti con Potere operaio si erano progressivamente deteriorati nel corso del 1971, dopo i tentativi di aggregazione o almeno di accordo sulla base della proposta dei Comitati politici, avanzata unitariamente da entrambi, ma poi naufragata per le insormontabili e reciproche divergenze di linea politica. Innanzitutto vi era un diverso modo di concepire il ruolo stesso dei Comitati politici in relazione ai Consigli di fabbrica, le strutture di base del sindacato. Nella «piattaforma di Rimini»[i] (così detta perché fu approvata al convegno del Manifesto tenutosi a Rimini nel novembre 1971), pur nell’affermazione di un totale dissenso rispetto alla strategia sindacale, si osservava:
È una fase nuova della lotta operaia che esige una nuova struttura organizzativa della classe, di cui il sindacato sia una parte e non il tutto. Per questo abbiamo difeso l’autonomia dei Consigli come organismi politici; per questo abbiamo proposto: Comitati politici.
E si aggiungeva:
In primo luogo, perché un Comitato politico nasca sul serio deve raccogliere le avanguardie reali operaie, e questo è del tutto impossibile se esso, prima ancora di esistere, presuppone una scissione dal sindacato. È una prova che hanno già fatto tutti i gruppi[ii].
Il Manifesto era consapevole del fatto che molte avanguardie operaie agivano all’interno dei Consigli di fabbrica. Per tale motivo occorreva esercitare una certa pressione sui Consigli stessi e sui sindacati, per spingerli verso posizioni più avanzate di lotta, anziché prescindere totalmente da essi. I Comitati politici avrebbero dovuto quindi proporsi «come punto di aggregazione di avanguardie che contendono alle burocrazie sindacali la direzione politica dei Consigli dei delegati», imponendo all’interno del sindacato stesso «un dibattito di linea»[iii]. Nel documento si precisava che per avanguardie operaie si intendeva
quello strato di giovani quadri operai che, dentro o fuori dal sindacato, nei Consigli, nei Comitati di base, tra i delegati, hanno effettivamente stimolato e diretto le lotte più avanzate degli ultimi anni[iv].
Questo era il tessuto sociale a cui occorreva far riferimento nel tentativo di organizzare una forza politica capace di rappresentare una vera alternativa rispetto alle strutture del movimento operaio tradizionale. Per riuscire nell’intento il Manifesto aveva lanciato la proposta politica dell’«aggregazione» tra quelle componenti del movimento che non si riconoscevano nelle posizioni dello «schieramento riformista» (così era definito), disposte ad aprire una crisi in esso e nel suo rapporto con le masse, agendo dall’esterno, una volta constatata l’impossibilità di recuperarlo a una linea diversa con una lotta interna e graduale. Da queste premesse era nato il tentativo di accordo con Potere operaio, intrapreso senza l’adeguata valutazione delle differenti prospettive a fronte dei nuovi sviluppi della situazione politica. Ad esempio, sul tema della repressione, Potere operaio riteneva che fossero ormai mature le condizioni per un attacco decisivo allo Stato, vista l’intensità dell’azione repressiva esercitata da quest’ultimo, tramite il ricorso alla magistratura e alle forze
dell’ordine. Il Manifesto invece riteneva necessario un lungo lavoro a livello di massa, per rafforzare il movimento e il consenso di base all’organizzazione rivoluzionaria ancora da costruire. Oppure sul tema dell’occupazione. Per Potere operaio la lotta per la difesa dei livelli d’occupazione era un obiettivo fuorviante in quanto i proletari, occupati o disoccupati, lottavano per il reddito garantito e non per richiedere un posto di lavoro. Il Manifesto partiva da un presupposto totalmente diverso:
La lotta contro il lavoro, che anche noi sosteniamo, è lotta contro l’organizzazione capitalistica del lavoro, e solo un lungo processo […] può portare al superamento del lavoro salariato e, alla fine, del lavoro in quanto tale. Tale superamento esige un diverso e superiore modo di produzione, non la fine della produzione. […] Questa lotta la fanno e la possono fare efficacemente i proletari non in quanto poveri o bisognosi, ma in quanto protagonisti essenziali della produzione. La disoccupazione toglie invece alla classe unità e rende la sua lotta meno incisiva[v].
La distanza tra la linea di Potere operaio e quella del Manifesto emerse con chiarezza in occasione delle manifestazioni del 12 dicembre 1971 e dell’11 marzo 1972, a proposito della necessità o meno del ricorso alla «violenza rivoluzionaria», che nel caso di Potere operaio si traduceva spesso nella ricerca deliberata e programmata di momenti di scontro con le forze dell’ordine (rendendo impossibile distinguere con certezza, da entrambe le parti, il confine tra reazione e provocazione), al fine di verificare la validità della propria linea «insurrezionalista». Ciò provocò l’uscita del Manifesto dal «Comitato contro la strage di Stato», presto seguito dagli altri gruppi che ne facevano parte, lasciando isolato Potere operaio.
Ma la decisione del Manifesto che maggiormente Potere operaio criticò fu quella di partecipare alle elezioni politiche del 7 maggio 1972, con liste proprie, in quanto Potere operaio riteneva la competizione elettorale un terreno perdente per le forze del movimento. All’indomani dell’insuccesso elettorale il Manifesto pubblicò un documento[vi], scritto nel giugno 1972, di sostanziale autocritica ed esame degli eventuali errori compiuti, insieme all’individuazione di nuove prospettive lungo le quali muoversi. Il documento ribadiva la proposta politica avanzata nella piattaforma di Rimini del novembre 1971, ma nello stesso tempo cercava vie d’uscita alla pericolosa situazione di isolamento che si era venuta a creare, attraverso l’elaborazione di una strategia che coniugasse insieme la proposta di un’aggregazione alternativa e quella di un’iniziativa unitaria che coinvolgesse anche le organizzazioni del movimento operaio tradizionale. L’iniziativa era illustrata nei seguenti termini:
Per quanto riguarda le forze, deve restar fermo che il Manifesto non è oggi in grado di garantire l’ampiezza e la qualità del movimento che serve per resistere e preparare la nuova fase offensiva. Gli obiettivi immediati (…) sono realizzabili se si riesce a impegnare su di essi una parte importante delle forze che militano nelle organizzazioni tradizionali. La realizzazione del nostro programma politico non dipende solo dalla capacità di rappresentare un polo di aggregazione alternativa, ma anche dalla capacità di sviluppare una iniziativa unitaria[vii].
La linea unitaria veniva elaborata «contro l’illusorietà della proposta riformista di una nuova maggioranza di governo, contro la vacuità e pericolosità della proposta estremista di uno scontro violento con lo Stato»[viii] .
La distanza da Potere operaio era ormai divenuta incolmabile. Durante la lotta contrattuale iniziata nell’autunno 1972 (ma già da giugno per i chimici), la strategia seguita dai due gruppi fu opposta. Il Manifesto così motivò la propria scelta:
È certo che la nostra linea di fondo non passerà nell’autunno del 1972, né a livello di accordi […] e neppure a livello di piattaforma (perché la linea dei sindacati è ormai ancorata all’asse dell’inquadramento unico) […]. Dopo un chiaro scontro nella fase preparatoria, si presenterà perciò il dilemma fra il dissociarsi dalla lotta che il sindacato, i Consigli, gli stessi lavoratori condurranno, accompagnando la vertenza con una permanente denuncia per raccogliere poi i frutti politici d’una probabile sconfitta, oppure partecipare a una lotta, di cui pure critichiamo l’impostazione e prevediamo il parziale insuccesso, per cercare di assicurare il controllo dal basso e di tenerne fermi i punti più qualificanti. Siamo per questa seconda scelta[ix].
Potere operaio optò invece per il superamento della figura del delegato e per il rifiuto di considerare i Consigli di fabbrica come strumenti efficaci di lotta al servizio degli operai.
Inoltre il Manifesto, all’indomani delle elezioni, avviò una fase di dialogo con i resti del Psiup, guidati da Vittorio Foa e Silvano Miniati[x]. Era una ripresa del tentativo di porsi come primo nucleo di un processo unificante delle forze della nuova sinistra, dopo la sconfitta elettorale che aveva riguardato anche il Psiup. Il gruppo dirigente di quest’ultimo aveva proposto, di fronte ai deludenti risultati, l’immediato autoscioglimento e la confluenza nel Pci. Una parte significativa del partito, circa il 20 per cento, rifiutò questa scelta e, in novembre, a Livorno, fondò il Pdup, insieme a quella parte dell’Mpl che si era opposta a una confluenza nel Psi. Il voto contribuì a sviluppare in alcune organizzazioni della nuova sinistra una tensione verso il coordinamento e l’unità, nel tentativo di arginare la frammentazione e la debolezza che avevano caratterizzato le elezioni precedenti. Il Manifesto e il Pdup sancirono il processo di avvicinamento nel luglio del 1974, unificandosi dopo la convocazione dei rispettivi congressi di scioglimento e dando vita al Pdup per il comunismo.
Per quanto riguarda Lotta continua, a partire dall’autunno del 1972 si posero le premesse per un superamento della fase estremista e militarista sancita dal 3° convegno nazionale tenutosi a Rimini nei primi tre giorni di aprile del 1972, il quale aveva visto un avvicinamento tra le posizioni di Potere operaio e di Lotta continua e la promozione di iniziative comuni. Il processo di revisione iniziò nell’ottobre 1972, con la presentazione, a una riunione del comitato nazionale, di un documento fortemente autocritico rispetto alla linea politica fino ad allora seguita Il primo punto posto in discussione fu quello dei delegati e dei Consigli sindacali. Lotta continua, che aveva sempre sostenuto la necessità di un’organizzazione autonoma degli operai in fabbrica, ora riconosceva nella struttura dei Consigli l’organizzazione di massa degli operai, all’interno della quale occorreva impegnarsi per un serio confronto con le altre componenti di movimento in essa presenti[xi]. Fu la lotta contrattuale dei metalmeccanici a offrire a Lotta continua una via d’uscita da una situazione di progressivo isolamento nella quale l’organizzazione rischiava di chiudersi. Nuclei di Lotta continua presenti in fabbrica iniziarono a impegnarsi all’interno dei Consigli, spesso nel tentativo di condizionarne la linea o rifiutandosi di assoggettarsi alle decisioni prese collettivamente[xii].
Un ulteriore punto di svolta fu un nuovo atteggiamento nei confronti del Pci e in generale del movimento operaio. Le previsioni di Lotta continua circa uno sbocco rivoluzionario immediato non erano più così ottimistiche: si comprendeva come lo «schieramento revisionista» fosse ben lontano dal perdere la propria egemonia sulle masse e come, di conseguenza, fosse necessario porsi il problema di un rapporto, di un confronto con i partiti che lo costituivano. Lotta continua si convinse che la presenza del Pci al governo avrebbe concesso maggior spazio al movimento rivoluzionario e possibilità per un suo rafforzamento. Era necessario dunque sostenere (attraverso un ragionamento
un po’ forzato) la linea del governo delle sinistre, per ottenere un terreno più favorevole allo sviluppo dell’autonomia proletaria
[xiii].
L’ultima questione dibattuta tra la fine del 1972 e gli inizi del 1973 fu quella della trasformazione in partito. Lotta continua abbandonò progressivamente la vecchia tesi dell’organizzazione come espressione del movimento e incominciò a formalizzare le sue strutture.
Formazione teorica e politica dei quadri, elettività dei dirigenti, responsabilità individuale dei singoli compagni in un quadro di disciplina collettiva, divisione dei compiti e specializzazione sono i caposaldi del nuovo corso[xiv].
La precedente concezione di una leadership carismatica fu sostituita da una segreteria nazionale di militanti non operai, obbligata a risiedere a Roma; fu nominato un segretario generale (carica che fu affidata ad Adriano Sofri); furono create a livello nazionale numerose commissioni responsabili di diversi ambiti di intervento. L’originaria impostazione «movimentista» del gruppo fu così sostituita da un apparato precisamente strutturato.
Anche Lotta continua fu interessata dal processo di disgelo che stava coinvolgendo alcune formazioni della nuova sinistra (cui fu invece estraneo Potere operaio, più attratto verso l’area dell’«autonomia»). Pur nel persistere di differenze nelle rispettive posizioni politiche, cominciò a emergere la volontà di agire su un terreno comune, di creare occasioni di mobilitazione unitaria. Lotta continua concluse in questo periodo un patto informale di unità d’azione con il Pdup-Manifesto e con Avanguardia operaia, noto come «la triplice». Ma proprio da parte di Lotta continua vennero le maggiori resistenze a una prospettiva di totale aggregazione. Lotta continua ebbe difficoltà a schierarsi in modo netto con quelle forze della sinistra rivoluzionaria che miravano a costituire una «nuova opposizione» (fiduciosa di poter coinvolgere nel progetto anche una parte della sinistra tradizionale), poiché temeva che una chiusura totale nei confronti della nascente area dell’autonomia operaia avrebbe portato a un indebolimento dell’organizzazione e avrebbe significato il disconoscimento delle proprie origini. Inoltre in Lotta continua era ancora forte la presenza di una componente militarista ed estremista, propensa all’azione diretta e violenta, abituata a praticare gli obiettivi più che a teorizzarli, la quale si oppose al «nuovo corso», e soprattutto a un suo approdo nell’ambito istituzionale. Lotta continua fu costretta a muoversi nello spazio racchiuso tra queste due possibilità, nella difficile ricerca di una propria coerenza di linea[xv].
Note [i] Per un movimento politico organizzato, «il manifesto», a. III, n. 3–4, primavera-estate 1971, pp. 3–25. [ii] Ivi, p. 15. [iii] Ibidem. [iv] Ivi, p. 22. [v] Ivi, p. 11. [vi] Il documento politico del 1972, «il manifesto», settembre 1972, numero speciale, pp. 85–94. [vii] Ivi, p. 90. [viii] Ibidem. [ix] Ivi, p. 94. [x] Cfr. M. Monicelli, L’ultrasinistra in Italia. 1968–1978, Laterza, Roma-Bari 1978. [xi] Per indicazioni più precise circa le tappe di tale processo di revisione vedi L. Bobbio, Storia di Lotta Continua, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 115–144. [xii] Sui limiti dell’azione svolta da Lotta continua all’interno dei Consigli di delegati ivi, pp. 121–122. [xiii] Dubbi sull’esattezza di tale previsione sono espressi da L. Bobbio, op. cit., p. 129. [xiv] Ivi, pp. 129–130. [xv] Ivi, p. 131.