Potere Operaio n°47–48
Potere Operaio del lunedì n°13
Potere Operaio del lunedì n°19
Potere Operaio del lunedì n°22
Potere Operaio del lunedì n°39
Potere Operaio del lunedì n°45
Riappropriazione e salario garantito
Da «Rivolta di classe. Giornale dell’autonomia romana»
Di nuovo nella crisi si fa avanti il ricatto del lavoro come condizione per un’efficace politica dei redditi.
Cassa integrazione e rivalutazione della contingenza si fondono come un unico strumento di ricatto e controllo sul comportamento operaio.
La cassa integrazione ha una sua ragione d’essere alla luce della crisi petrolifera e della scelta inflazionistica operata dai governi occidentali: è vero che il mercato dell’auto va a rilento in tutto il mondo, ma è altrettanto vero che attraverso quest’arma Agnelli cerca di conquistarsi:
1) il sostegno statale alla sua produzione (la messa in crisi del settore); 2) una larga fetta dei 5000 miliardi decisi dallo Stato per ospedali, trasporti, case; 3) una mobilità del lavoro che gli permetta di ristrutturare come e quando gli pare.
La rivalutazione della contingenza serve a calmierare le esigenze salariali espresse dai lavoratori. Serve a ridare fiducia al sindacato della tregua sociale e dei decreti fiscali. Serve a riaprire in maniera controllata il credito per gli investimenti e a indirizzare la domanda di questo programmato afflusso di denari in mano operaia.
Serve soprattutto a vietare che si riapra in modo virulento la lotta aziendale che assumerebbe immediatamente il punto di riferimento per tutta una serie di forze sociali, dai disoccupati ai proletari agli studenti. Come Autonomia operaia organizzata individuiamo nella ripresa generalizzata delle lotte aziendali il dato politico centrale di questa fase dello scontro di classe, nella rottura reale cioè della tregua sociale in atto da due anni. Per questo mobilitiamo tutte le nostre forze a sostegno delle forme di riappropriazione e autoriduzione che sono andate sviluppandosi e centralizzandosi in questi ultimi a partire dalla fabbrica. Sappiamo bene che per il sindacato del Nord è stato un modo come un altro di recuperare quello che aveva già espresso il movimento oltre a interpretare quel massimalismo risorgente nei momenti di massima crisi nei partiti parlamentari (non a caso il maggior appoggio alla «disobbedienza civile» viene dalla Cisl), ma questa lotta è fonte di grandi contraddizioni nella struttura sindacale che ne vieta l’estensione sul territorio nazionale perché non arriva più a controllarla e non sa bene come si concluderà. Questo terreno va percorso anche se c’è il pericolo che il sindacato indirizzi questa lotta per fini riformisti, riforma dei trasporti, del sistema tariffario ecc.; il terreno per il sindacato non è dei più facili quando è entrata nella coscienza operaia la possibilità di fare a meno della contrattazione per una lotta che si identifica immediatamente con l’obiettivo. Rifiuto di pagare gli aumenti dei trasporti, riduzione al 50 per cento delle bollette della luce ma anche e contemporaneamente trasporti gratis e luce a 8 lire Kw/h (come la pagano Agnelli, Pirelli, Monti, Pesenti) e autoriduzione delle bollette gas, telefono, Tv, del fitto di casa e ancora: occupazione delle case sfitte, spesa politica nei supermercati. Non ci può essere separazione tra questi momenti perché allora si cadrebbe nella trappola sindacale con quel gradualismo anticipatore di grosse sconfitte politiche per tutto il movimento. Questa è la tendenza. Lo hanno dimostrato le lotte iniziate a Roma due anni fa sull’autoriduzione delle bollette della luce e del telefono, che sono state il supporto a quel grande movimento di occupazione di case dell’inverno del 1974; lo dimostrano oggi di fronte a un attacco senza limiti alle condizioni di vita dei lavoratori, gli episodi di spesa politica, di scovamento di depositi di pasta, olio, zucchero ecc. La riappropriazione è un livello più alto di lotta che senza la continuità delle iniziative in fabbrica contro le qualifiche, l’orario, l’ambiente, il salario differito ci immette in uno scontro prematuro con lo Stato con il relativo passaggio dal terreno d’attacco a quello di difesa. Praticare il terreno della riappropriazione significa intanto realizzare un dato sostanziale del programma del salario garantito: legare cioè intorno agli interessi e ai bisogni della classe operaia interessi più generali delle masse sfruttate – disoccupati, sottoccupati, massaie, giovani, sottoproletari – su cui fa facile presa l’ideologia piccolo borghese con i suoi miti d’ordine soprattutto nei momenti più cruciali per il capitale. Il salario, nel momento in cui è minacciato anche agli operai delle grandi aziende, è rimettere al centro dello scontro politico la fabbrica e la direzione operaia. Il ricatto del lavoro esercitato dai padroni con la cassa integrazione generalizzata, con la minaccia dei licenziamenti, ripropone per gli operai un terreno su cui finora sono stati sempre sconfitti. La difesa del lavoro è la risposta con cui il sindacato, sposando il terreno scelto dal padrone, è riuscito a svolgere i momenti alti del movimento, a ristrutturarli, a integrarli. Non è questo il momento. Lo sa bene anche il sindacato quando accetta i 24 giorni di sospensione invece dei 31 voluti da Agnelli ma poi è costretto a lottare poiché oggi lo scontro è sempre più politico. Padroni e sindacato hanno davanti agli occhi lo spettro di Mirafiori, la formidabile indicazione di occupazione delle fabbriche, sabotaggio della produzione, neutralizzazione dei capi.
Questo si propone al movimento nella sua generalizzazione. No al ricatto del lavoro, no alla cassa integrazione.
Abbiamo gli strumenti per attaccare, per prenderci il salario garantito, per affrontare con continuità il nostro diritto di classe al rifiuto del lavoro salariato.
ROSSO n.15
giornale dentro il movimento
prima parte
SOMMARIO
- Le giornate d’aprile
- Il terrorismo di Stato: l’altra faccia della crisi
- ROMA – Sono autonomi? Sparate a vista
- TORINO-FIAT – Agnelli inaugura la “città ghetto”
- MILANO-STATALE – La consegna è: “restaurare il dominio del sapere”
- IL PCI: non è qui, è… di guardia alla … “democrazia”
- IL SINDACATO: dove non arriva la polizia arriva la … “polizia operaia”
- I GRUPPI: il “nostro” estremismo, il “vostro” opportunismo e il “loro” opportunismo ( risposta a LC e PDUP )
- Il terrorismo di Stato ha un obiettivo: l’autonomia operaia
- Il nuovo modo di fare la … repressione
- CASO GIROTTO: a colpi di spia
- CASO VALENTINI: la “libertà di delazione”
- CASO LEVATI: la “delazione di classe”
- GERMANIA – Perchè tanta paura della R.A.F.?
- La nostra tortura è meglio: non lascia tracce
- Sartre va a trovare Bader. E dichiara …
- Dopo Lorenz: un lungo week-end di terrore
- U.S.A. – L’FBI ha un progetto: controllare tutti, o ucciderli
- Illegalità delle lotte fonte del diritto
- E se non fossero tutti fascisti
- Cronologia
- ROMA – Il Policlinico è rosso. Imprigionatelo!
- DANIELE PIFANO – Usa ” scavalcare le richieste sindacali ” …
- Una lettera dal carcere
- Dopo Argelato: scrivono i compagni svizzeri
- FABRIZIO CERUSO – “Per i padroni siamo tutti delinquenti”
- Parla il padre
- Parlano i compagni di Tivoli
- BRUNO VALLI – Un “mitra assurdo” ?
- L’agguato di Firenze
- Processo Ognibene: la parola all’imputato
seconda parte
Il nostro estremismo, il vostro opportunismo e il loro riformismo
Da «Rosso contro la repressione»
(risposta a Lc e Pdup) Una tesi accomuna Lotta continua e il Pdup nella condanna dell’estremismo: gli «autonomi» sono politicamente «sprovveduti», l’estremismo si riproduce «nonostante la debolezza» sconcertante della linea politica. Le conclusioni dell’articolo di Lc vengono tratte sulla base di una sorta di identikit teorico degli estremisti facendoli passare (questa forse è la difesa cui ammicca Lc) per «deboli di mente». In sintesi secondo Lc esistono due tendenze: una moralistico-religiosa-romantica, vedi Br, l’altra cinico-strumentalista secondo le versioni scolastiche di Machiavelli; in questo senso «militaristi» e «libertari giovanilisti», dalle femministe ai Nap, tendono a formare sì organizzazioni diverse ma derivano, sul piano teorico, da una di queste tendenze o da un insieme di entrambe. Miniati, per il Pdup, neppure, s’avventura nel ginepraio e se la sbriga con «sprovveduti». È noioso rispondere a questa accozzaglia di stupidità politica legata indissolubilmente a vizi demagogici che tendono ad annullare persino i fatti più noti. Se qualche risposta va data è solo perché questo approccio «teorico» (si fa per dire) alla questione mira palesemente a due scopi: primo, evitare il dibattito buttandolo in caricatura, irridendo le componenti (alcune soltanto e le più vecchie e note) confluite nell’organizzazione autonoma e tuttora esistenti con fisionomia propria; così si prendono i classici due piccioni: fingere di difendere o di giustificare l’inafferrabile «fenomeno sociale» e denunciare il corrispondente sbocco politico.
L’avvocato difensore diventa Pubblico Ministero senza neppure cambiare vestito. Secondo scopo: tenere in «comoda» posizione di ignoranza i militanti più giovani entrati nel movimento negli ultimi tempi e che, senza colpa alcuna, ignorano il già lungo travaglio e percorso teorico compiuto dalla nuova sinistra. Non abbiamo bisogno, su questo piano, di dilungarci troppo. Se a qualcuno resta un miserabile margine di onestà intellettuale sa che liquidare le Brigate rosse (anche se la difesa della linea politica di questa organizzazione non ci compete perché non la condividiamo) con «tensioni romantiche e religiose» è addirittura grottesco. Anche un lettore del «Corriere d’Informazione» ormai può, partendo dalla figura più famosa, Curcio, andarsi a documentare sul percorso teorico che ha portato a Br la componente marx-leninista più dignitosa in Italia, passando attraverso il vaglio di esperienze come «università negativa», «lavoro politico», «collettivo politico metropolitano», «sinistra proletaria». Eguagliare Potere operaio a una sbiadita riedizione scolastica di Machiavelli è un modo di giudicare che, francamente, non è facile supporre neppure sulle labbra di Natta (che Fanfani abbia fatto già scuola anche nella estrema sinistra?). Ridurre l’elaborazione del Gruppo Gramsci a opportunismo filo-sindacale dissoltosi poi con un «apparente paradosso», in un «autonomismo filo-militarista… e in un festante giovanilismo libertario», appartiene alla noiosa attitudine che tanto irritava Marx di «appiccicare nozioni» senza nessuna seria analisi. Lotta continua stessa si contraddice perché, guarda caso, fra tante tesi sulla crisi contro cui scontrarsi proprio nei materiali preparatori del congresso aveva scelto come «significative» quelle di Potere operaio e del Gramsci (saremmo felici di poterle leggere!). D’altra parte da Operai e capitale a Crisi e organizzazione operaia l’elaborazione «operaista» non ha ricevuto nessuna contro-argomentazione seria. Per quanto riguarda il Gramsci le tesi sulla crisi e sull’organizzazione, le analisi di fase politica, il nesso stabilito tra lotta di classe e liberazione sono ancora tra le poche cose dignitose che la nuova sinistra ha elaborato. Quindi: o questo dibattito lo si apre, e lo si fa seriamente, oppure gli attacchi assurdi dimostrano solo l’inconsistenza teorica di chi li porta e, molto peggio, dimostrano una consolidata pratica, bassamente calmieratrice che imita, al peggio, i politicanti borghesi più squallidi. Passiamo ora alle cose più importanti, quelle che toccano la pratica politica. L’analisi dell’estremismo fatta da Lc si riduce in sintesi a questo: a) l’estremismo è, prima che fenomeno politico, un fenomeno sociale, come tale esso nasce dalla ribellione immediata, unilaterale e al tempo stesso totale all’organizzazione capitalistica; b) l’estremismo non si riduce alla linea politica ma è un portato della «concezione del mondo» che nasce in questa ribellione sociale «totale» all’organizzazione capitalistica; e) se l’organizzazione attenua il collegamento organico dalla vita sociale, la politica torna a farsi attività separata e a contrapporsi alle spinte nuove che emergono dal movimento.
Queste spinte cercheranno quindi altre espressioni di sé in organizzazioni che teorizzano la ribellione in quanto tale senza saperla trasformare in politica rivoluzionaria. La tesi del Manifesto è molto più schematica e si riduce a questo: la strada è tortuosa (quella della rivoluzione), il movimento è in riflusso, l’analisi «scientifica» ci dice che però la situazione non è disperata. Altri invece si disperano e cercano con la fuga in avanti di testimoniare la presenza rivoluzionaria.
Tutto ciò è dannoso ma è anche causato dall’insufficiente linea di demarcazione che si riscontra a volte fra comportamento della sinistra riformista e responsabili del sistema, oppure è causato da insufficiente tensione ideale e «democratica» nella vita delle organizzazioni. Prima cosa da notare, né l’una né l’altra tesi entrano nel merito della discussione a proposito della linea politica degli estremisti.
Il risultato che si vuole conseguire: la dimostrazione che gli estremisti organizzati sono una inutile scoria politica, viene presupposto, affermando cioè che l’estremismo è un prodotto sociale e politico prima che organizzativo. Della linea politica, quindi, si può non discutere, perché la ragione del suo affermarsi non risiede in essa ma nella società e nel movimento politico. Sarebbe come dire: dato che la ribellione trova la sua origine nelle condizioni sociali del proletariato e non nel marxismo, il marxismo è talmente irrilevante che non vale la pena discuterne. Vogliamo dire che proprio ciò che deve dimostrare: il fatto che tra estremismo come fenomeno sociale ed estremismo politico organizzato esista un nesso soltanto casuale o comunque riduttivo, proprio questo Lotta continua non lo dimostra. Il Pdup si attesta invece sull’invenzione delle tesi politiche attribuite all’avversario: «chi è convinto che nella fabbrica, nella scuola, nel quartiere, la partita sia ormai chiusa» (sic!) e, improvvisando una «psicologia della sconfitta», cerca di motivare l’estremismo con la «sfiducia» nella lotta di massa maturata in questa fase di relativo riflusso. È persino patetica l’onnipotenza infantile di Miniati che crede davvero che tutti condividano le sue analisi! Su questo torneremo poi. Veniamo adesso, dopo averne criticato il «sotterfugio» fondamentale, alle «analisi» di Lotta continua. L’estremismo, originato da una ribellione sociale immediata e totale all’organizzazione capitalistica, viene poi ridotto alla contraddizione maoista tra vecchio e nuovo. È chiaro il tentativo: primo, diluire l’estremismo in una definizione del fenomeno a livello sociale in modo da farne cogliere, in sostanza, semplicemente il dato di ribellione proletaria alla Gasparazzo; secondo, collocare questa ansia di ribellione in una dimensione che va al di là delle determinazioni di classe: il vecchio e il nuovo. È evidente la sciocchezza: l’«estremismo», in quanto tale, è un fenomeno politico, le «ragioni sociali» della sua esistenza sono individuate anche da Lotta continua, seppur confusamente, e sono quelle stesse che, al livello del comportamento immediato, spiegano il rifiuto, l’estraneità al lavoro, l’estraneità all’insieme dell’organizzazione sociale della produzione e della riproduzione capitalistica. L’estremismo è la veste politica del frutto (non «eterno» – compagni di Lc – e neanche eterno rispetto all’esistenza del proletariato) di una composizione di classe determinata (l’operaio appendice della macchina, l’operaio comune, l’operaio che guarda e regola, posto prima «accanto» al processo produttivo, e il proletario diffusosi ormai su tutto l’arco sociale, l’essere reale cioè della previsione marxiana). In quanto veste «politica» esso è «idealmente» e lo è parzialmente nella pratica, la connessione di questi elementi di attacco anticapitalistico organizzati nelle loro espressioni di avanguardia. Da questo punto di vista però l’estremismo non è più il nuovo contro il vecchio, non è un generico «fenomeno sociale», ma è un programma politico e di organizzazione il cui riferimento è la pratica di lotta rivoluzionaria proletaria esistente. Più semplicemente; le origini sociali dell’estremismo individuate da Lc sono in realtà le origini «sociali» della lotta di classe rivoluzionaria, e non le «origini» del «nuovo»; l’estremismo è non solo parola ma fatto politico organizzato che a queste origini si richiama e che da esse trae alimento, esso si pone quindi non come «nuovo», ma come l’essere rivoluzionario della classe in opposizione al suo essere riformista. L’indiretta conferma di tutto ciò è data da Lc stessa che per addurre le «ragioni sociali» dell’estremismo non fa che riprendere le «ragioni sociali» della rivoluzione; «bisogni presenti nella classe operaia nella ribellione al dispotismo sotto padrone, nella contrapposizione alla vecchia politica revisionista…». «Ragioni sociali» che non siano queste sono in realtà le opposte «ragioni sociali» che spiegano la presenza riformista e, oggi, quella dei gruppi. In realtà quindi questo dibattito sull’estremismo è condotto per ora a colpi di frasi vaghe e sbagliate. D’altra parte cosa attendersi da chi scivola sempre di più verso l’opportunismo? Per rimanere alla sola linea politica e in maniera «ultraschematica» (rimandiamo alle nostre pubblicazioni e ai nostri documenti i compagni di Lc e del Pdup) ricordiamo alcuni tratti della riflessione dell’autonomia: a) – il carattere strutturale della crisi e, insieme, il suo carattere di novità storica rispetto alle crisi precedenti dell’intero assetto capitalistico è, fondato nella composizione di classe, il ribaltamento dei rapporti di forza tra operai, proletari e capitale; b) – questo carattere della crisi, fondato nella composizione di classe più compiutamente estranea al lavoro, chiede, dal rifiuto del lavoro all’appropriazione, dalla crescente risposta al terrorismo delle multinazionali e dei loro Stati, il comunismo come programma politico; c) – il carattere della fase storica si esprime nella crisi ed esige quindi un livello d’organizzazione che si ponga direttamente sul terreno della «costruzione del comunismo»; il che significa il compiuto ribaltamento della tattica e dell’organizzazione leninista: dalla forza operaia alle contraddizioni intercapitalistiche, e non viceversa; l’unità di classe come sviluppo delle sue contraddizioni interne e non la politica delle alleanze; l’organizzazione come proiezione del potere operaio non come condizione esterna di questo potere; il programma come rovesciamento del «modo dell’attività» non come «sviluppo»; infine l’unità oggi data tra scopo della lotta di classe e liberazione dell’individuo sociale totalmente sviluppato; d) – l’inevitabilità, nei paesi capitalisticamente sviluppati, dell’assunzione dei compiti di produzione e ordine da parte del movimento operaio riformista poiché l’unica classe capace di dare forza sufficiente alla macchina capitalistica è comunque, data la composizione, quella proletaria non ancora sviluppata a classe per sé, a classe che autodetermina le condizioni della sua realizzazione (cioè della sua negazione); e) – è a partire da questa comprensione del movimento nei suoi caratteri strategici che oggi articoliamo la nostra proposta sulle 35 ore e il salario garantito, sull’attacco alla produzione, sull’appropriazione, sull’attacco ai riformisti come gestori della crisi e della repressione in prima persona. Come rispondono a queste tesi, non ovviamente nella forma schematica prima utilizzata, i neo-riformisti della triplice? Finora abbiamo solo sentito vaneggiamenti da «tutti a casa»: la crisi è prolungata (scientifica la definizione!) ma l’organizzazione non può porsi il compito immediato della rivoluzione proletaria bensì lavorare o a battere il golpe vero… o abbattere il golpe strisciante di un blocco reazionario con la DC alla testa… o a lottare contro la normalizzazione… o a esultare e a prepararsi a nuovi compiti nel caso che si verifichino «i profondi cambiamenti» che introdurrebbe la vittoria delle sinistre… Il tutto condito da iniziative di referendum portate avanti con meno coraggio di quanto non dimostrino i radicali.
Controprova?
Atteggiamento balbettante sulle 35 ore, condanna di ogni episodio di attacco alla produzione, condanna o silenzio sull’appropriazione, ecc. ecc. Il Pdup poi, canta la stessa canzone, solo in termini istituzionali (sindacati, partiti di sinistra, parlamento, enti locali), quindi siamo al peggio. Che dire?
Che prima del processo all’estremismo questi signori capiscano che non si può lavorare su trenta «ipotesi» o previsioni perché trenta «ipotesi» chiedono trenta diverse soluzioni tattiche.
Che i caratteri generali della fase storica non si definiscono con qualche vago aggettivo e che, comunque, una organizzazione comunista non nasce dentro una determinata composizione di classe e una «crisi storica» per evolversi in un imprevedibile futuro, in organizzazione che è funzione del potere operaio per il comunismo. Se oggi, e per tutta la durata prevedibile della crisi come fa capire Lc il programma comunista non è maturo, l’organizzazione che si costruisce solo in modo idealistico può essere domani adatta ai compiti propriamente rivoluzionari?
Logico sarebbe allora stare a casa e aspettare che maturino le nespole. Infine, a proposito di linea di massa, cosa ci dicono lorsignori sulle 35 ore, il salario garantito e le forme di lotta per conquistare questi livelli essenziali a una risposta di classe alla crisi e alle sue dimensioni?