2 Dic, 2002 | Documenti, Fondo DeriveApprodi
di Sergio Bologna
(Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism, by Steve Wright, Pluto Press, London 2002)
È il risultato della ricerca condotta per una tesi di laurea e come tale è il primo lavoro che affronta una ricostruzione storica del pensiero e della pratica militante dell’operaismo italiano secondo i criteri di analisi critica delle fonti, con il necessario distacco dalle vicende ma anche con una capacità di comprensione, che deriva da un forte sentimento di partecipazione personale e di condivisione delle ragioni dei movimenti rivoluzionari.
È il primo libro di storia sull’operaismo italiano, che interrompe la linea memorialistico-autobiografica dei materiali finora disponibili e la diffusa produzione di giudizi sommari e generalmente liquidatori. Dovendo scegliere un filo conduttore attraverso questa singolare vicenda intellettuale e politica, Wright ha optato per il concetto di “composizione di classe”, riconoscendone in tal modo quel valore che una parte degli operaisti stessi ha avuto difficoltà a riconoscergli, perché lo mettevano in secondo piano, come criterio di pura ricerca empirica, rispetto alla “grande teoria politica” (sullo stato, sul partito, sulla rivoluzione, sulla classe, sul general intellect e così via).
Giustamente Wright sottolinea che il concetto di “composizione di classe” ha uno stretto legame con l’approccio della “conricerca” ed ambedue rimandano ad un modo, caratteristico degli operaisti italiani, di instaurare una collaborazione tra intellettuali e operai o tra intellettuali e proletari in senso lato, fondata su delle ragioni diverse da quelle che hanno caratterizzato il rapporto tra partito e classe nella II, III e IV Internazionale. Gli operaisti italiani non hanno voluto essere “la guida” della classe, non hanno voluto essere ceto politico, non hanno voluto essere un “partitino”, vivendo fino in fondo la contraddizione tra chi esercita teoria politica ed al tempo stesso rifiuta i modelli organizzativi tradizionali.
Chiedendosi perché l’operaismo italiano è rimasto a lungo ignoto nel mondo anglosassone, Wright nota che solo grazie all’opera di alcuni volontari, come Ed Emery, sono state create le condizioni linguistiche perché gli scritti di Negri, di Tronti, di Alquati, di Virno abbiano potuto circolare. A questo probabilmente dobbiamo aggiungere oggi lo straordinario successo di pubblico di “Empire” di Toni Negri e Michael Hardt.
Il primo capitolo del libro è dedicato ad una breve ricostruzione delle correnti e delle personalità politiche che nel primo dopoguerra, anni ’40 e ’50, in Italia hanno cercato un’alternativa “di sinistra” alla politica del PCI e di Togliatti in particolare. Vengono in luce subito le figure di Morandi e di Raniero Panzieri, fondatore e animatore della rivista “Quaderni Rossi”, nella cui redazione si sono ritrovati per la prima volta tutti i protagonisti della vicenda dell’operaismo italiano.
Il capitolo successivo è di notevole rilievo, perché espone con molta chiarezza il quadro teorico fondamentale dell’operaismo italiano attraverso una lettura intelligente degli scritti di Mario Tronti su fabbrica e società, pubblicati nei “Quaderni Rossi”. Sono scritti che innovano il marxismo del Novecento, attraverso una rilettura/reinterpretazione del II libro de “Il Capitale” di Marx, riuscendo a introdurre elementi di grande originalità (Tronti’s discoveries). Tronti pone i “fondamentali” dell’operaismo. Lo stesso concetto di “composizione di classe” non è che un tentativo di tradurre in pratica alcuni concetti che Tronti per primo ha esplicitato. Aver capito appieno l’importanza e il significato degli scritti di Tronti in quel periodo dà a Steve Wright la chiave di lettura giusta per ricostruire la storia dell’operaismo italiano. Al tempo stesso Wright coglie la “novità” dei “Quaderni rossi” e la “scossa” che questa pubblicazione impone al movimento operaio italiano per risvegliarlo dalla crisi che lo aveva colpito, anche sul piano intellettuale, dopo le sconfitte dei primi Anni 50. Questa “novità” è rappresentata dall’ ”inchiesta operaia”. Da dove bisogna ripartire? Dalla conoscenza della classe operaia, della “nuova” classe operaia, anzi dalla comprensione delle mentalità delle nuove generazioni, di quelle che avevano difeso la democrazia dai rigurgiti neo-fascisti, scontrandosi in piazza con la polizia nel luglio del 1960. La figura centrale dell’ ”inchiesta operaia” (cioé dell’approccio marxiano, anche in questo caso) è Romano Alquati, che mette a punto la metodologia della “conricerca” assieme a Romolo Gobbi e Gianfranco Faina (un nome che non compare nel libro di Wright ma che ha avuto un’enorme importanza in questa primissima fase dell’operaismo italiano). Faina era un docente di storia dell’Università di Genova, (la città epicentro dei moti di piazza del luglio 60 che hanno bloccato l’esperimento neo-autoritario del Governo Tambroni), prenderà parte all’esperienza di “classe operaia” ma non a quella di Potere Operaio, negli Anni 70 avrà dei rapporti anche con gruppi di origine anarchica che praticavano forme di lotta armata, verrà rinchiuso in carcere e morirà di cancro in carcere nel 1981 (v. il ricordo pubblicato su “Primo Maggio”, n. 19/20, inverno 1983/84 da Rinaldo Manstretta e Pierpaolo Poggio). Al contributo di Alquati, in questa fase che precede la nascita dell’operaismo vero e proprio, Wright dedica le pp. 46–58 del suo volume, mentre le pagine precedenti (41–46) sono dedicate al contributo di Panzieri. Il quale aveva aperto nuovi orizzonti teorici con la rilettura del I Libro del Capitale e quindi aveva focalizzato il suo ragionamento sul rapporto tra classe operaia e innovazione tecnologica (“il problema delle macchine”), traendone conclusioni di forte critica alla cultura sindacale della CGIL per la sua subalterna accettazione dello sviluppo capitalistico. Panzieri pone un problema che avrà importanti sviluppi nei “Quaderni rossi” e dopo: è possibile una sociologia del lavoro e dell’industria che non sia al servizio dell’innovazione tecnologica ma al servizio delle lotte operaie? Com’è noto, da questa sollecitazione di Panzieri nasce un modo di fare sociologia diverso, che sarà di riferimento ad alcuni dei maggiori sociologi italiani (Rieser, Mottura, Paci ed altri) presenti allora nella redazione dei “Quaderni rossi”.
Perché Panzieri rompe con tutti quelli che successivamente daranno vita a “classe operaia”, la rivista con cui nasce l’operaismo italiano? Perchè Tronti, Negri, Alquati escono da “Quaderni rossi”? Steve Wright dà una risposta sfumata a questo interrogativo ma quel poco che dice corrisponde alla realtà: il progetto politico di Panzieri era quello di produrre una svolta “all’interno” del movimento operaio, della CGIL, del PSI (dove era stato membro del Comitato Centrale) e del PCI. Il progetto degli altri era quello di sperimentare un nuovo modo di fare politica con la classe operaia, di creare un nuovo movimento che aprisse l’èra post-comunista. Qui la figura ed il ruolo di Toni Negri diventano centrali, decisive. Nessuno come lui aveva la “volontà” di buttarsi in un’impresa del genere, anche se egli in tutti i modi cercò di convincere Panzieri e Rieser che la sua era la strada giusta (la rottura definitiva, nei primi di settembre del 1963, si consumò a casa mia a Milano, anzi, più che una casa era una stanza dell’appartamento che dividevo con altri due compagni del gruppo dei “Quaderni rossi”). Scegliere o meno di collocarsi dentro la tradizione del movimento operaio significava anche condividere o meno certe forme di lotta selvaggia in fabbrica o violente di piazza, come quelle che scossero Torino nell’estate del 1962, conosciute come gli “scontri di Piazza Statuto”, dove gli operai diedero anche l’assalto alla sede di un sindacato accusato di schierarsi dalla parte del padronato.
Il terzo capitolo è dedicato interamente all’analisi degli scritti di Tronti e Alquati nella rivista “classe operaia” ed alle discussioni, alle polemiche che questi scritti hanno suscitato. Manca invece una storia della rivista in tutte le sue sfaccettature, manca in maniera evidente un’analisi del ruolo e del contributo di Toni Negri, manca una messa in rilievo dell’internazionalismo degli operaisti italiani, quindi della formazione dell’idea dell’operaio multinazionale, manca l’intensificazione dei rapporti con la sinistra di classe americana, dove Ferruccio Gambino svolse un ruolo fondamentale. Tutti aspetti che in seguito caratterizzeranno fortemente l’azione e soprattutto la presa della metodologia operaista presso il movimento studentesco del ’68, i comitati di base del ’68/’69 e i movimenti degli Anni 70. Ne viene fuori un operaismo ridotto a poche tematiche, sia pure essenziali.
Essenziale indubbiamente fu la svolta che Tronti impresse al suo stesso pensiero con l’articolo di fondo del n. 1 di “classe operaia” intitolato “Lenin in Inghilterra”. Questo articolo apriva la fase “forte” dell’operaismo e al tempo stesso poneva le premesse per la sua prima crisi, che si concluse con una nuova rottura, la chiusura della rivista due anni dopo e l’ingresso (o il ritorno) di personalità di rilievo, come Tronti stesso, Asor Rosa e Rita Di Leo nel PCI. Quell’articolo riportava in campo la tematica del partito (chiamata allora la tematica della “tattica”) e richiamava i militanti a misurarsi con la politica istituzionale. D’altro lato si arricchiva lo strumentario teorico con il paradigma della “società-fabbrica”. Romano Alquati e altri, in particolare i compagni che agivano nelle città con forte presenza operaia (Milano, Torino, Porto Marghera), cercavano di capire le dinamiche dei movimenti della classe operaia, per anticipare i momenti di rivolta, di sciopero, e poterli collegare tra loro. Gli operaisti si sentivano al servizio della “ricomposizione di classe”. “classe operaia” non solo fu uno straordinario laboratorio di idee ma mise in moto nelle città in cui c’erano dei militanti attivi una serie di esperienze politiche di avanguardia che si diffusero in molti ambienti. A Milano nel 1964 i volantini di “classe operaia” nelle fabbriche (si coprivano con azioni di intervento politico al primo turno anche 15 grandi fabbriche simultaneamente, tra Milano, Sesto San Giovanni ed altre zone dell’Hinterland!) contribuivano a far partire lotte improvvise all’Innocenti, fabbrica di motoleggere e di automobili, con cortei operai che invadevano la città. Il movimento studentesco di Trento, l’Università fondata nel 1965 che sarà uno degli epicentri della lotta degli studenti nel 1968, conoscerà Jimmy Boggs grazie a “classe operaia” in un’assemblea-dibattito entusiasmante (ricordo la faccia felice di Jimmy che mi abbracciava dopo l’entusiastica accoglienza che riservarono a lui ed a Grace Lee gli studenti), il gruppo di giovani filosofi dell’Università di Milano, allievi di Enzo Paci (Nanni Filippini, Giairo Daghini, Paolo Gambazzi, Guido Neri, Paolo Caruso) e di psicologi allievi di Cesare Musatti (Renato Rozzi) avranno stretti rapporti con “classe operaia”. L’operaismo esercitava per le sue posizioni innovative un forte fascino su tanti giovani intellettuali già prima del ’68. Oppure gli architetti, gli urbanisti e gli studiosi del territorio che introdurranno nella loro disciplina le tematiche dell’operaismo, come Alberto Magnaghi, di Torino, che sarà segretario generale di Potere operaio nel 1971, e tanti altri. Quando chiude, nel 1966, “classe operaia” ha già formato un nucleo di “nuovi” militanti della generazione più giovane che svolgeranno un ruolo decisivo nel ’68 e per tutti gli Anni 70. Molti di essi sono ancora sulla breccia. Quando il gruppo della redazione di “classe operaia” si scioglie, iniziano, per così dire, i preparativi per il ’68. Steve Wright mette in evidenza due aspetti importanti, l’introduzione della tematica dei “tecnici” (che avrà molta presa nelle facoltà scientifiche e nei Politecnici) e la partecipazione di alcuni operaisti italiani al maggio francese, seguita dalla pubblicazione di articoli che offrivano una lettura complessiva della rivolta degli studenti e degli operai di Parigi. L’esperienza francese viene trasmessa e “filtrata” in Italia dagli operaisti. Altre lacune nel libro di Wright riguardano la dinamica che portò all’intervento alla Fiat di Torino nella primavera del 1969. Probabilmente, per ricostruire con precisione questo, che fu un passaggio fondamentale per l’operaismo italiano, anzi, senza dubbio, la sua maggiore vittoria, sarebbe stato necessario avere a disposizione materiali d’archivio difficilmente reperibili, in particolare i volantini che si distribuivano allora nelle fabbriche (questi materiali si trovavano nelle collezioni private dei singoli militanti, ma per la maggior parte sono stati sequestrati e distrutti durante e dopo l’ondata di arresti del 1979). Un ruolo fondamentale ebbero anche i due opuscoli di Linea di massa. Il primo, “Lotte alle Pirelli”, fu scritto sulla base della testimonianza di uno dei fondatori del Comitato di Base della Pirelli di Milano, il compagno Raffaello De Mori, il secondo “Lotte dei tecnici alla Snam Progetti”, il laboratorio di ricerche dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) di San Donato Milanese, fu scritto sulla base delle testimonianze dei tecnici del Comitato di Base (l’ENI è l’industria petrolifera di Stato), che hanno mantenuto una presenza militante sul territorio fino ai nostri giorni. Questi due opuscoli insieme al giornale “La Classe”, il cui primo numero fu diffuso il 1 maggio 1969, un mese prima dello scoppio delle lotte spontanee alla Fiat di Torino (giugno-luglio 1969), rappresentano l’apice della parabola dell’operaismo italiano. Negli anni cruciali per il destino del movimento rivoluzionario in Italia, 1967, 1968, primavera 1969, Milano e il suo Hinterland sono i luoghi dove si incrociano e convivono tutte le esperienze più avanzate, dai gruppi che si ricollegano alla rivoluzione cinese (Edizioni Oriente), alle reti di sostegno alla guerriglia latino-americana in Venezuela, Bolivia, Perù (Centro Frantz Fanon), dalle case editrici e dai centri di ricerca storica (Feltrinelli Editore, Biblioteca G.G. Feltrinelli, Edizioni Avanti!) alle redazioni di riviste d’avanguardia come “Quaderni Piacentini”, dai centri di studio delle culture contadine (Istituto Ernesto de Martino) ai centri di raccolta dei canti popolari (Nuovo Canzoniere Italiano), dalle concentrazioni operaie del ciclo dell’auto (Alfa Romeo, Innocenti, O.M., Pirelli, Magneti Marelli), alle fabbriche chimiche e farmaceutiche (Snia Viscosa, Montecatini, Farmitalia, Carlo Erba), dalle fabbriche della meccanica pesante e della meccanica fine (Siemens, Breda, Falck, T.I.B.B.) ai laboratori dell’industria petrolifera dell’ENI e agli uffici di design industriale e di grafica pubblicitaria dell’Olivetti. Tutti questi luoghi sono stati attraversati o sono stati contaminati dall’operaismo negli Anni 60. Dopo lo scoppio delle lotte Fiat e del ciclo di scioperi del cosiddetto “Autunno Caldo” (giugno-dicembre 1969), non è un caso che proprio a Milano inizino le stragi del terrorismo di stato (12 dicembre 1969, bomba di Piazza Fontana). Qualche settimana prima era stato arrestato Francesco Tolin, direttore responsabile di “Potere Operaio”.
La storia degli operaisti negli Anni 70 – quando pochi tra loro si definivano ancora “operaisti” – è la storia di un paradosso. Sul piano dell’organizzazione dei movimenti il loro ruolo fu decisamente minoritario. Ma proprio la demonizzazione di “Potere Operaio” e poi dell’Autonomia Operaia da parte dei media permise all’operaismo di sopravvivere a se stesso. Steve Wright coglie giustamente l’intrinseca debolezza teorica e politica di “Potere Operaio”. Il gruppo di militanti, ormai emarginato dalle lotte di fabbrica, gira a vuoto, cercando nuovi punti di riferimento (le lotte dei neri afroamericani, dei disoccupati meridionali) e, non trovandoli, accentua il carattere volontaristico, tardoleninista, della sua azione militante. La rivolta delle donne, che parte dall’interno di “Potere Operaio” e porta alla formazione del primo gruppo femminista italiano, comincia a rendere evidente la crisi dell’organizzazione. A molti anni di distanza si può dire veramente che la fondazione del gruppo politico “Potere Operaio” fu una forzatura (di cui io stesso sono stato responsabile). Essa appare tanto più grave se mettiamo a confronto la povertà di “Potere Operaio” con la ricchezza inesauribile delle esperienze diffuse degli Anni 70, con la creatività e l’ottimismo con cui si cercò di “rovesciare il mondo”, cioè di cambiare il segno delle cose, nelle professioni, nella vita quotidiana. L’organizzazione di base nelle fabbriche, riconosciuta dai sindacati, coinvolse decine di migliaia di operai e impiegati. Le lotte nell’istituzione ospedaliera, nella scuola, nel mondo dei trasporti determinarono un ciclo decennale. Cos’era di fronte a questo l’azione di un piccolo gruppo, che aveva avuto il merito di fecondare lo spirito di rivolta ma che non aveva l’umiltà di riconoscerlo e di sciogliersi dentro questa realtà infinitamente più ricca dei suoi asfittici proclami? A parti alcuni, come me ed altri, che uscirono dopo pochi mesi, fu Toni Negri ad accorgersene per primo, quando riuscì a costruire quel notevole laboratorio di formazione e di trasmissione di idee che si raccolse attorno alla collana “Materiali marxisti” dell’Editore Feltrinelli. Testi come Operai e Stato, Crisi e organizzazione operaia, L’operaio multinazionale ed altri lasciarono il segno. Eppure va riconosciuto anche che “Potere Operaio” marchiò i compagni che ne fecero parte, segnò la loro vita per sempre, lasciò l’impronta di un radicalismo delle idee che nessun’altra esperienza in nessun altro gruppo ha potuto o voluto eguagliare. Fu però un fatto “privato”, il movimento andava avanti per conto suo, senza bisogno degli operaisti. S’instaura quindi una dinamica, che Wright non ha difficoltà a individuare, di formazione di un “ceto politico” come corpo separato. La tematica dell’ ”insurrezione all’ordine del giorno” riporta “Potere Operaio” indietro di 50 anni, con la riproposizione di atteggiamenti “bolscevichi”, che sono la negazione delle premesse stesse dell’operaismo. Se avesse potuto restare il più “a sinistra” dei gruppi extraparlamentari, forse “Potere Operaio” avrebbe saputo ritagliarsi un suo spazio, ma da quando cominciano ad agire i gruppi della cosiddetta “lotta armata”, le Brigate Rosse ed altri, per “Potere Operaio” è finita. “The most valuable lesson on 1960s – the attentive study of working-class behaviour – was to be sacrificed in a greater or lesser degree to political impatience and an increasingly rigid conceptual apparatus” (p. 151).
I due capitoli successivi del libro sono dedicati rispettivamente a Toni Negri ed alle sue teorie dell’operaio sociale ed al lavoro della rivista “Primo Maggio”. E’ una scelta curiosa e interessante quella di mettere insieme in un unico percorso politico l’azione militante di un gruppo, quello che faceva capo a Toni Negri ed alla rivista Rosso, che concepiva la propria missione ancora in termini di organizzazione politica (per quanto non separata dal movimento ma intrinseca al movimento stesso) e l’azione di un gruppo che concepiva se stesso come semplice redazione di una rivista. Si tratta di due piani completamente diversi perché all’origine ci sono impostazioni politiche differenti e divergenti. Quanto il lettore riesca a percepirlo leggendo la ricostruzione di Steve Wright, rimane dubbio. Perciò è una scelta che a prima vista sconcerta. Il capitolo su Toni Negri soddisfa bene il bisogno di comprendere cos’era questa “Autonomia Operaia”, sia come forma della politica sia come teoria della rivoluzione. Ma occorre separare bene la fase di incubazione di questa nuova tendenza (1973–75) dalla fase in cui essa si incontra con un movimento “nuovo”, con il primo movimento post-68, con una generazione diversa da quella che si era formata dieci anni prima. La rivista Rosso sta al movimento del ’77 (fu chiamato così dall’anno in cui esplose in Italia per breve durata) quanto “classe operaia” stava al movimento del ’68. A Padova e nel suo Hinterland si forma una nuova struttura organizzativa, in parte dalle ceneri di “Potere Operaio”, in parte da questa nuova generazione di militanti cresciuta dopo il ’68, che si definisce “Autonomia Operaia” ma è formata in gran parte da studenti e proletariato giovanile. Anche se analoghe strutture nascono in altre città, in parte dalle ceneri dei gruppi extraparlamentari, in parte dalle nuove generazioni, quella di Padova (e poi di Mestre-Venezia), malgrado l’incarcerazione di quasi tutti i suoi partecipanti negli anni 1979, 1980 e 1981 (chi non fu arrestato si rifugiò all’estero) rimase la più forte e la più duratura, creando quel tessuto che a tutt’oggi rappresenta una delle realtà più forti del movimento italiano, un movimento che negli anni ha cambiato radicalmente la sua natura, in particolare nel rifiuto della violenza e delle azioni di lotta violenta.
“Primo Maggio” è tutta un’altra storia. E’ vero che fu fondato da alcuni compagni di “Potere Operaio” (Lapo Berti, Franco Gori, Andrea Battinelli, Guido de Masi, io stesso) ma la sua caratteristica fu quella di impiantarsi su una rete di iniziative di autogestione della cultura politica e della formazione “a servizio del movimento”. La libreria Calusca di Primo Moroni a Milano fu la più originale e importante di queste iniziative. Se “Primo Maggio” non si fosse innestato in questa rete, non avrebbe mai esercitato l’influenza che solo oggi le viene riconosciuta. Da questo punto di vista, Steve Wright ha ragione a inserirlo nella tradizione dell’operaismo italiano, anzi, mentre “Primo Maggio” si riconosceva esplicitamente in quella esperienza e ne rivendicava apertamente la continuità, per Negri già nel 1973 l’operaismo era morto, per Negri la storia dell’operaismo si era conclusa con la fine di “classe operaia”. La seconda ragione per la quale “Primo Maggio” fu una rivista che seppe produrre qualcosa di nuovo e di interessante per il futuro, sul piano dell’analisi del capitale finanziario, del welfare state, della storiografia, della composizione di classe, va individuata nella presenza, all’interno della sua redazione, di compagni che provenivano (anche per ragioni di età) da esperienze diverse da quelle dell’operaismo “classico”, come Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Marco Revelli, Christian Marazzi, Marcello Messori. Ma quale era la fondamentale differenza tra “Primo Maggio” e l’Autonomia Operaia, tanto che mi sembra scorretto e fuorviante metterli nello stesso calderone? La differenza di fondo stava nella concezione del proprio ruolo di intellettuali. A noi di “Primo Maggio” interessava cambiare le regole dello statuto delle discipline, interessava innovare il metodo della storiografia, della sociologia, dell’economia, della politologia. Ci sentivamo molto vicini a riviste come “Sapere”, che svolgeva analogo ruolo nei confronti delle discipline scientifiche (la fisica, la medicina ecc.) ma poiché nessuno di noi pensava di essere un nuovo Braudel o un nuovo Einstein o un nuovo Weber, ritenevamo, come i compagni di “Sapere”, che alla fine l’obbiettivo più importante fosse quello di cambiare il “ruolo sociale” del docente universitario, del medico, del fisico, del sociologo, dell’avvocato, dell’architetto. In tal senso andava cambiato anche il ruolo sociale dell’ ”intellettuale politico”, che non doveva essere un nuovo Lenin o un nuovo Robespierre, ma un “prestatore di servizi” al movimento diffuso, in grado di offrire al movimento una migliore comprensione di se stesso, di aprirgli nuovi orizzonti. Nacque così la precoce percezione che il modo di produzione fordista stava esaurendosi per lasciare il posto a un nuovo modo di produzione, per convenzione ormai chiamato “postfordista”, che conteneva in sé sia elementi di liberazione dal lavoro sia elementi di maggiore sfruttamento capitalistico.
Steve Wright di questa complessa parabola (“Primo Maggio” apre nel 1973 e chiude nel 1986) coglie alcuni aspetti essenziali, in particolare sottolinea il modo caratteristico e originale in cui “Primo Maggio” affrontò il problema della storia e della memoria, anticipando la battaglia su un tema che alcuni anni dopo diventerà esplosivo in seguito all’offensiva del revisionismo storico.
Nell’ultimo capitolo, “The collape of workerism”, Wright prende in considerazione l’atteggiamento verso il movimento del ’77 dei gruppi politici dell’Autonomia Operaia e delle forze intellettuali attorno a “Primo Maggio”. Sembra l’ultimo sforzo di una generazione politica nata negli Anni 60 di tenere il passo degli eventi, con fatica ma, a rileggere quanto scrivemmo allora, con dignità. Gli eventi però correvano troppo e ci travolsero. Nel 1978 il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse cambia completamente il clima all’interno dei gruppi dell’Autonomia Operaia, che si sentono schiacciati tra lo Stato che si riorganizza per rispondere all’attacco terroristico e i gruppi armati che “alzano il tiro”. Nel 1979 Toni Negri e tutti i compagni che avevano fatto parte di “Potere Operaio” fino al 1973 vengono arrestati, altri fuggono all’estero (alcuni si trovano ancora in esilio). Nel 1980, in autunno, la Fiat decide di licenziare in massa, nasce una lotta che ormai è perduta in partenza, uno sciopero che dura 35 giorni e che si conclude con la più cruda e profonda sconfitta operaia in Italia dal 1950. Per capire con quale drammaticità gli operai Fiat vissero umanamente questa sconfitta, basterà dire che nei mesi successivi si registrarono più di un centinaio di casi di suicidio. I militanti dei movimenti arrestati o costretti a fuggire all’estero furono circa 5.000, circa 1.000 quelli che subirono ai processi condanne superiori ai 10 anni di carcere. Invece di soffermarsi su questi eventi, che sono noti e sui quali esiste un’ampia letteratura, Wright preferisce soffermarsi in dettaglio sulla dinamica che ha portato all’ultimo scontro di classe alla Fiat (1978–80), nel paragrafo intitolato “The family Gasparazzo goes to Fiat”. E’ stata anche l’ultima “inchiesta” dell’operaismo condotta alla Fiat.
Nelle sue brevi conclusioni Wright enumera i lati deboli dell’operaismo, che sono forse alla base della sua estinzione come teoria politica del presente: “The first of these consists in its penchant for all-embracing categories that, in seeking to explain everything, too often would clarify very little (…) another of the more obvious weaknessess of Italian workerism …would be a too narrow focus upon what Marx termed the immediate process of production as the essential source of working-class experience and struggle” (p. 225) E il terzo lato debole sarebbe la “political impatience”. Non si può che essere d’accordo con lui, ciononostante è anche vero, come aggiunge in seguito, citando un compagno inglese che “the questions that it posed then, as two decades before, stubbornly refuse to go away” e che, citando un compagno italiano, “the best way to defend workerism today is to go beyond it” (p. 227).
Per concludere questa recensione che, forzatamente, oltre che una recensione è una testimonianza, diremo che il merito maggiore del libro è l’aver capito lo spirito (e la lettera) degli scritti dell’operaismo, compito non facile per uno straniero. Non minore è il merito di aver saputo collocare questi scritti in rapporto con gli eventi che li avevano determinati, ed infine – cosa per cui tutti gli operaisti dovrebbero essere grati a Wright – di aver riconosciuto lo spessore, la complessità dei ragionamenti, spezzando in tal modo una tradizione dove l’operaismo o era preso a calci o era idealizzato, senza entrare nel merito delle sue ragioni. Ovviamente le lacune sono molte, riguardano soprattutto il contesto sociale e politico, ma ciò è giustificabile perché di quella ricchissima articolazione di esperienze del movimento in Italia, negli Anni 70, ben poco è rimasto come testimonianza scritta e quel che è rimasto o pecca di eccessivo soggettivismo o di eccessivo schematismo. I libri di storia sugli Anni 70 in Italia mancano, mentre abbondano le deformazioni e su tutto incombe la versione ufficiale che sono stati solo “anni di piombo”. Né Steve Wright ha potuto utilizzare le circa 50 testimonianze che gli operaisti degli Anni 60 hanno rilasciato a dei giovani studiosi, militanti dei movimenti del nuovo millennio, allievi di Romano Alquati. Un fatto curioso e singolare, che ha stupito gli stessi, se si pensa che ci sono tra noi persone che da decenni non si parlavano o non avevano più alcun rapporto personale, nemmeno sul piano umano, tanto divergenti sono stati i percorsi individuali. Ed un bel giorno del 2000 accettano di riconoscersi in una comune tradizione, senza rinnegare il passato, pur criticando le proprie esperienze. Questo volume, “Futuro Anteriore. Dai ’ ”Quaderni rossi“ ‘ ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano”, a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero, pubblicato dalle edizioni DeriveApprodi nel febbraio 2002, con allegato CD Rom delle interviste, meriterebbe una recensione, se lo spazio- di cui già troppo ho abusato – lo permettesse. E’ un caso se gli stessi autori di questo volume sono oggi tra quelli che maggiormente contribuiscono alla formazione dei giovani dei “nuovi movimenti” partiti da Seattle e da Genova (v. il sito www.conricerca.it)? Il seme dell’operaismo quindi può essere ancora fecondo, proprio nel momento in cui – vendetta della storia! – collassa la Fiat, distrutta da un management incapace e irresponsabile, inaridita da una forza-lavoro passiva e subalterna, complice una Sinistra politica e sindacale che ha condiviso le scelte strategiche del padronato italiano, limitandosi a ricavarne qualche utile per sé, complici i governi di centro-sinistra che hanno spinto al massimo la finanziarizzazione dell’economia. La Fiat uscì piena di energie innovative dopo dieci anni di conflittualità operaia (1969–1980), dopo ventidue anni di pace sociale (1980–2002) ne esce a pezzi. (Non erano stati gli operaisti a dire che la lotta operaia accelera lo sviluppo capitalistico?)
Concludo con un interrogativo, che interessa coloro, se ci saranno, che in futuro riprenderanno in mano la storia dell’operaismo. E’ possibile applicare la categoria della continuità a questo movimento? La categoria della continuità non fa parte del modo tradizionale di fare storia? Non è propria della storia delle dinastie, dei partiti? Ma chi si è messo fuori sin dall’inizio da una prospettiva di partito, chi ha considerato la rivoluzione come una linfa piuttosto che un evento, ha diritto alla continuità, deve subirla? Forse l’esplorazione sui metodi della storiografia, sul mestiere dello storico, iniziata con “Primo Maggio”, ripresa negli Anni 90 con “Altre Ragioni” e poi con LUMHI (Libera Università di Milano e del suo Hinterland) – progetto soffocato sul nascere ma oggi forse destinato a risorgere nel nuovo clima politico italiano – non è ancora conclusa.