Pubblichiamo qui uno stralcio della conversazione di Franco Piperno con Claudio Dionesalviche Machina ha anticipato in vista della prossima uscita del primo deivolumi che tratteranno le “Autonomie” meridionali edito da DeriveApprodi nella collana “Gli Autonomi”.
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Come mai le insorgenze meridionali, che pure nel corso della storia antica e recente ci sono state, non hanno dato luogo a fenomeni di espansione dell’autonomia amministrativa e politica? Le rivolte e le rivoluzioni a Sud, dal Seicento fino a quelle del Novecento, sono sempre state segnate da sommovimenti violenti e spontanei che, però, nel giro di un pugno di giorni o di mesi sono rientrate nell’alveo dei dispositivi di potere locale (aristocrazia locale, baronie, latifondisti, galantuomini, luogotenenti e classe politica). Esemplare è la questione della terra: le lotte e i sacrifici contadini nell’Ottocento e nel Novecento hanno prodotto la riforma agraria che, purtroppo, è confluita, da una parte, in nuova emigrazione negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso: la terra senza mezzi non poteva essere lavorata, dall’altra nella Cassa per il Mezzogiorno.
Queste azioni non hanno dato vita a processi costituenti per motivazioni analoghe a quelle dei giorni nostri: si può transitare da una fase feudale o preborghese, a una fase borghese o capitalista, purché si abbia un’accumulazione originaria che lo permetta. La mafia, la ’ndrangheta e in misura minore la camorra, sono l’espressione di questi tentativi di avere quell’accumulazione originaria che ha permesso loro di diventare borghesi. È chiaro che si tratta di tentativi criminali, ma rimangono del tutto autentici. Sono stato per qualche tempo in Germania, a Colonia, dove ho potuto constatare da vicino i livelli di penetrazione delle famiglie meridionali in quei territori, alcune delle quali segnate da origini ’ndranghetiste. I servizi forniti da questo segmento di popolazione, che è il retroterra consensuale della criminalità organizzata, sono spesso tra i migliori servizi che ci siano a disposizione. In un ristorante a Colonia, gestito dalla ’ndrangheta, puoi star sicuro di gustare una pizza migliore di quella preparata in un locale gestito dal prete. Non ce l’ho coi preti. Voglio solo indicarli come termini di paragone, come modello di un comportamento conforme alle leggi. La difficoltà che lo Stato italiano incontra a eliminare questa forma organizzata di criminalità è dovuta al fatto che essa raccoglie un’esigenza di modernità, per quanto paradossale sia. La struttura della criminalità si basa su relazioni premoderne o preborghesi. In Calabria è basata molto sulle relazioni familiari o parafamiliari che ovviamente sono pressoché impermeabili rispetto alla legge. È molto difficile, da noi, tradire un parente. Al di là degli aspetti penali, è un aspetto morale: non tradisci tuo fratello o tuo cugino. Questo è un elemento di forza, permette alla criminalità di operare come una borghesia nella sua fase iniziale. In altri termini, i criminali ci sono dappertutto, ma gli ’ndranghetisti non si limitano a fare i criminali. Loro interpretano un bisogno che è quello dell’arricchitevi, un bisogno che introduce il mercato capitalistico. E lo soddisfano, non avendo a disposizione né le banche né lo Stato, nell’unico modo possibile, che peraltro è il modo nel quale è avvenuto in Inghilterra o in Francia, cioè l’accumulazione originale in termini di violenza e appropriazione. È significativo che siamo alla sesta legge eccezionale per il Sud, a partire dalla legge Pica, che è del 1864. Pica era un deputato. È interessante che la sua legge non sia stata applicata alla Sicilia, ma solo al continente. La mancata applicazione in quel territorio è dovuta al fatto che la mafia siciliana aveva davvero aiutato Garibaldi a scacciare i Borbone dalla Sicilia. Non era avvenuto lo stesso sul continente, dove all’epoca non c’era una criminalità organizzata come quella siciliana. La mafia calabrese era magari anche d’origine massonica, però legata ai paesi, cioè non si trattava di un’organizzazione regionale. Ogni paese aveva questo nucleo d’ordine: in paesi come San Giovanni in Fiore, perduti nella Sila, chi assicurava anche una vita conforme a delle regole erano gli stessi che saranno poi considerati criminali. In 150 anni non si è stati capaci di affrontare questo problema, se non «alla Gratteri», quindi mediante retate di 300 persone e processi chiamati formalmente «maxiprocessi», nei quali si perde la responsabilità individuale. Ma è impossibile esaminare la responsabilità di 400 persone nello stesso processo! È significativo quel che mi ha raccontato Giuliano Vassalli, che da giovane è stato uno studente di Alfredo Rocco, il legislatore, quello del codice penale. Quando Rocco preparò il codice, che in parte è ancora quello vigente, si rifiutò di introdurre la figura del pentito che era già presente nella legislazione inglese, perché sosteneva che questo avrebbe comportato l’uso dei sentimenti più bassi dell’essere umano, quindi una forma di corruzione morale. Lo stesso Rocco, sebbene fosse legislatore fascista, si rifiutò anche di concepire i processi in massa, perché anch’egli era convinto che la responsabilità penale potesse essere solo individuale. Cito questi aspetti non per rendere un omaggio a Rocco, ma solo per sottolineare quanto il problema della criminalità nel Sud, che è uno degli aspetti dell’identità deformata, sia un problema sociale, non di ordine pubblico. Quando il Meridione è stato gettato nel mercato, a livello di questo processo d’arricchimento l’unica resistenza è venuta dalle organizzazioni criminali che non sono criminali nel senso estenuato. In ogni città ci sono dei criminali, ma quando parliamo della ’ndrangheta è verosimile e corretto paragonarla alla massoneria, piuttosto che alla frantumata delinquenza che uno incontra a Firenze o a Torino. Sempre a proposito di insorgenze, una delle ultime forme di ribellione è stata quella dell’Autonomia o forse è più calzante parlare di «autonomie».
E che lettura ne dai?
Per quanto riguarda l’autonomia propriamente detta, e io la intendo nel fenomeno che ha nel ’77 il suo aspetto più significativo e ricco, io non vivevo nel Sud. Era un periodo – spiega – in cui insegnavo a Milano e abitavo a Roma. Quindi il mio rapporto con l’Autonomia era soprattutto attraverso una rivista che si chiamava «Metropoli».
Quella collaborazione ti costò cara perché una sua espressione, «geometrica potenza», riferita alle Brigate rosse, spinse la Digos a suonare al suo citofono.
Sì, è divertente perché io avrei compreso le misure contro di me se si fosse trattato di un premio letterario. Essendo un po’ dannunziana come frase, avrei potuto capire che un giudice educato dalla tradizione italiana potesse avercela con me per quell’aspetto becero, invece per via di quella frasetta mi hanno accusato di aver commesso 20 omicidi e 15 rapine. È significativo l’episodio che mi è accaduto in Francia dove avevo provato a rifugiarmi e sono stato catturato. I giudici romani hanno chiesto la mia estradizione. Nel corso dei riti giudiziari legati a questa richiesta, il procuratore francese mi ha interrogato per vedere se io fossi disposto a rientrare in Italia senza opporre alcuna resistenza legale. Il Pm francese mi ha declamato tutti i capi d’accusa formulati contro di me dalla magistratura italiana. Oltre ai presunti reati di omicidio e un numero sterminato di rapine, c’era pure «intralcio al traffico», perché in effetti quando si rapina una banca magari si parcheggia la macchina vicino alla banca da rapinare e questo gesto costituisce intralcio per la circolazione stradale. Quando il procuratore mi ha chiesto se io mi riconoscessi colpevole di qualcosa, io ho risposto di sì. Il mio legale era una persona straordinaria. Si chiamava Kejiman, un vecchio avvocato antifascista che aveva fatto la Resistenza. Impressionato dalla mia risposta affermativa alla domanda del procuratore, è balzato in piedi e mi ha detto: «Ma che fai, Franco?». Allora il Pm lo ha ammonito: «Avvocato, lei stia seduto altrimenti la allontano dall’aula». Poi si è rivolto verso di me: «Allora, si riconosce colpevole di qualcosa?». Rispondo: «Sì». E lui: «Di quali reati?». Risposi: «Intralcio al traffico». A quel punto il procuratore si è incazzato e mi ha rispedito in cella.
Al di là delle vicissitudini individuali di quel periodo storico, rimane il problema di definire l’essenza e i contorni dell’Autonomia di quegli anni. Possiamo dunque parlare di una forma unica o è più adeguato intenderla nel senso delle variegate forme di autonomia diffusa?
Nell’autonomia operaia italiana degli anni Settanta possiamo individuare diversi aspetti. Ce n’era uno disperato e rancoroso. La dimensione insurrezionale, che aveva avuto l’Italia a partire dal ’68, si era chiusa con la crisi del petrolio all’inizio degli anni Settanta. Prima del periodo tra il ’72 e il ’73, gli operai controllavano letteralmente la fabbrica, tanto è vero che l’assenteismo si attestava intorno al 25 per cento a Mirafiori; una situazione del genere si era verificata solo nel biennio rosso, ai primi del Novecento. Da quando è cominciata la crisi del petrolio, che ha avuto un’origine americana, l’assenteismo si è ridotto al 5 per cento. Agnelli ha iniziato a licenziare. La sua sarebbe stata un’azione inconcepibile fino alla crisi petrolifera, prima della quale gli operai praticavano l’assenteismo ma il padrone non osava licenziare perché era diventato un problema di ordine pubblico. Quindi nel ’77 è evidente una sconfitta operaia nelle fabbriche. Tutto dipendeva infatti dai rapporti di forza. Senza la possibilità di prendere il comando in fabbrica, è saltata tutta l’intelaiatura che ruotava attorno all’antagonismo operaio. Tant’è vero che la lotta si è spostata di più sulla questione abitativa: a Torino, per esempio, il terreno di scontro diventava il non pagare l’affitto oppure occupare le case, ma comunque si allontanava dalla fabbrica. E non per cattiveria, ma perché, come dimostrava quella manifestazione dei 40mila «capetti» nell’ottobre 1980, erano cambiati i rapporti di forza. Dunque il ’77 ha espresso un elemento di disperazione che è stato tradotto dalla proposta di rendere armata la lotta: una proposta minoritaria, però apertamente offerta da gruppi di compagni che intendevano trasformare il conflitto in uno scontro armato. È stata una scelta di evidente fallimento. Un conto infatti era praticare delle azioni armate, come per esempio punire i capireparto che multavano gli operai perché si riposavano oppure sanzionare il proprietario delle case che sgomberava intere famiglie, altro era trasformare il conflitto in uno scontro armato. Son due cose diverse. Mettendola sul piano dello scontro armato, avevi già perduto. Non c’era alcuna proporzione tra quello che potevano fare i compagni del movimento e quello che facevano 100mila carabinieri, 200mila agenti di polizia. Ecco, in questo aspetto vedo un elemento di disperazione che ovviamente, come in tutte le cose vere, ha avuto pure un grande fascino, anche dal punto di vista meramente estetico, riflesso nelle cose che si scrivevano, nel teatro. Dunque c’era un elemento di rancore; non di invidia bensì di odio sociale. E questo aspetto è finito col perire per primo negli anni successivi. C’è infine anche una prospettiva di riflessione teorica in cui la parola autonomia vuol dire sostanzialmente la fine della lunga egemonia delle associazioni partitiche e sindacali di sinistra in Europa. Non hanno aspettato la caduta del muro gli operai italiani, o comunque i quadri che avevano lottato, per dichiarare fallita l’Unione Sovietica. L’esperienza del socialismo reale in Italia era già caduta negli anni Settanta, quando il Pci rappresentava uno dei dispositivi di repressione dello Stato italiano.
Riportiamo di seguito un post di Machina che trascrive alcune pagine dell’edizione di Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, scritto nel 1972 da Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini. Varie sono state le edizioni stampate (in foto riportiamo la copertina della prima edizione) mentre il testo fa riferimento all’edizione del 2007 per i tipi di Ombre Corte.
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Per continuare a riflettere sulla frattura interna che segna la storia del paese e interrogare le ragioni storiche e politiche del «sottosviluppo» e della razzializzazione del Mezzogiorno italiano, il testo di Luciano Ferrari Bravo che qui proponiamo è un classico irrinunciabile. Nell’introdurre Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, scritto nel 1972 insieme ad Alessandro Serafini (ripubblicato da ombre corte nel 2007) [1], guarda all’intervento dello Stato nelle regioni del Sud tra gli anni Cinquanta e Sessanta e propone il «governo del sottosviluppo», o meglio del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo, come chiave interpretativa del divario tra il Nord e i molti e diversi Sud d’Italia.
Lo scritto, che pone in termini nuovi la «questione meridionale», offre un punto di vista irriducibilmente antagonista che spiazza l’ideologia «riformistico-repressiva» del meridionalismo classico e dell’integrazione del Mezzogiorno affidata «alla forza dei rapporti di produzione “moderni”». Per questa sua natura, ha fornito un’importante fonte di ispirazione alle lotte per il cambiamento sociale negli anni Settanta, al Nord come al Sud (si veda in proposito il Primo Volume sull’Autonomia meridionale, in uscita per Derive Approdi), e continua a offrire importanti spunti critici per leggere il presente; per decifrare ad esempio il governo del sottosviluppo nel Piano nazionale di rinascita e resilienza (Pnrr).
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Poniamo immediatamente, in sede preliminare, alcune questioni generali di impostazione. In primo luogo se esista oggi, alle soglie degli anni Settanta, una realtà del Mezzogiorno – un «oggetto», se si vuole, della questione meridionale [2] – che sia omogeneo a quello sotteso non soltanto al dibattito (alle molteplici linee interpretative della dinamica del Sud concresciute ormai da un secolo) ma soprattutto a quell’iniziativa statuale che si sviluppa a partire dagli anni Cinquanta – e che costituisce il termine a quo del nostro discorso. In secondo luogo e in caso di risposta negativa, se sia corretto «imputare» il nuovo assetto meridionale a quell’iniziativa, se sia legittimo assumere, come elemento acquisito a grandi linee, un generale rapporto di «causalità» tra quella e questo. Infine, in caso positivo, quali siano le qualificazioni specifiche che, quanto meno in prima approssimazione, vanno attribuite alle «scelte» del ’50, e dunque al rapporto attivo e reale tra quelle scelte e lo sviluppo successivo.
«Dopo vent’anni di sviluppo economico nazionale, di intervento straordinario e di emigrazione, il Mezzogiorno è profondamente diverso da quello che era all’indomani della seconda guerra mondiale». Così, se è vero che sulla gravità del problema meridionale esiste oggi «concordanza di giudizi, finalmente raggiunta dopo oltre un secolo di vita unitaria del paese» [3] – come sostiene uno dei massimi meridionalisti italiani – è vero anche, paradossalmente, che questa concordanza formale (ma in questo senso essa è probabilmente sempre esistita) sopraggiunge quando tutti i termini tradizionali, secolari appunto, del problema sono divenuti qualitativamente diversi.
Cos’è dunque mutato nel Sud? Proprio le scadenze che maturano nel passaggio agli anni Settanta (in particolare, l’apprestamento del nuovo piano economico nazionale, l’approvazione della nuova legge di rifinanziamento dell’intervento straordinario) vengono fornendo la necessaria base analitica per uno sguardo d’insieme [4]. Ma, per quello che ora ci interessa, il quadro è già sufficientemente delineato, e un’elementare operazione di «sovrapposizione» a quello di vent’anni or sono ci può consentire un inizio di risposta al primo quesito che ci si è posti. Diamo dapprima uno sguardo ai dati «strutturali» più rilevanti: una espansione del reddito che lo ha condotto quasi a triplicarsi in vent’anni, con un aumento annuo medio del 5 per cento; una struttura dell’occupazione per settori che ha visto quella extra agricola aumentare del 60 per cento (da 2,5 a 4 milioni); un incremento della produzione agricola del 2,8 per cento annuo che, calcolata per addetto, raggiunge, a causa dell’esodo, il 5 per cento; l’esistenza ormai consolidata di alcune aree variamente industrializzate su tutto il territorio meridionale e di un sistema di «incentivi» e di strumenti istituzionali per guidarne l’ulteriore espansione; l’acquisizione di un’ampia rete infrastrutturale – acquedotti, strade, bonifiche e irrigazioni, servizi civili – che per alcuni aspetti, in particolare per effetto della viabilità stradale, ha effettivamente «rivoluzionato» il paesaggio sociale meridionale [5]. A cosa si potrebbe arrivare, continuando questo schizzo? All’apologetica di una presunta fine della questione meridionale per estinzione pura e semplice dell’arretratezza, del sottosviluppo che l’ha determinata? [6] No certamente. Non soltanto è vero che a ognuna delle serie di dati all’attivo corrispondono serie di dati al passivo, che alle «luci» corrispondono le «ombre»: tra quelli ricordati è sufficiente annotare che l’aumento dell’occupazione extra agricola nel ventennio si compone per la metà di occupazione nei servizi (di cui il 14 per cento per la P.A.), ben il 31 per cento nell’edilizia e il 13 per cento soltanto in attività industriali manifatturiere; ma soprattutto che, qualsiasi riduzione si operi dei tradizionali orientamenti in tema di questione meridionale – vuoi a un’impostazione perequativa in termini di indici di reddito (consumi privati e pubblici, vita civile, modernizzazione di strutture sociali ecc.) vuoi, più modernamente, alla necessità di dar luogo nel Sud a un autonomo meccanismo di sviluppo (uno sviluppo self-sustaining) – essa sembra mantenere tutte le proprie ragioni. Il divario tra Nord e Sud è cresciuto anziché diminuire: l’arretratezza relativa si è perciò approfondita; mentre nessun autonomo processo di sviluppo sembra a tutt’oggi concretamente individuabile[7].
Tuttavia, il permanere di tale situazione di «dipendenza», in presenza però, questa volta, di un insieme di fatti istituzionali e di processi economici strutturali di grande rilievo accumulatisi proprio in questo ventennio, consente alla riflessione più avvertita di cogliere, magari da opposti punti di vista, alcuni elementi qualitativamente nuovi, tali da spostare l’intera trama della questione meridionale.
Il primo è il passaggio dell’economia e dell’intera società meridionale da un rapporto di «separazione» a uno di «integrazione» rispetto al complesso dell’economia nazionale (ed internazionale). Integrazione non significa costituirsi nel Sud di una struttura economica identica o simile a quella settentrionale; al contrario, come essa si è venuta realizzando, nella prima fase del processo, principalmente sul fondamento materiale più «subordinato» possibile, cioè mediante il contributo delle migrazioni interne all’approvvigionamento di forza-lavoro per lo sviluppo, così, nella vicenda successiva e, prevedibilmente, in quella futura, essa procede continuando a riferirsi alle risorse economiche e politiche del Sud in quanto area sottosviluppata – all’arretratezza come risorsa dello sviluppo. Su questa base, allora, integrazione significa, in primo luogo, il progressivo trascorrere del rapporto tra Nord e Sud, tra sviluppo e sottosviluppo, da rapporto esterno – per il quale, magari scorrettamente, ma significativamente è stato tanto spesso evocato il fantasma della rapina coloniale – a rapporto interno allo sviluppo: in questo senso, al di là dell’unificazione politico-amministrativa ormai secolare, al di là dell’unificazione del «mercato», l’interiorizzazione della funzione del Sud nello sviluppo realizzatasi in maniera sempre più definitiva in questi vent’anni vuole rappresentare l’avvenuta unificazione «capitalistica» del paese nel suo senso più proprio di dominio totalizzante di uno specifico rapporto sociale e politico; e, in secondo luogo, significa la sempre maggior irrilevanza, sia in termini di interpretazione del fenomeno che di intervento su di esso, del rapporto «dualistico» in quanto tale, tra le due parti del paese, rispetto alla crescente internazionalizzazione della vita economica (e non solo economica) per aree più vaste, nei confronti delle quali una depressione come quella meridionale si rappresenta non come «lato» di un rapporto duale ma semmai come «angolo» attardato, accanto ad altri, di un sistema economico più largo e, appunto, integrato. Elementi sociologici, e in definitiva politici, si intrecciano necessariamente, entro il punto di vista illustrato, con quelli strettamente economici: ecco così, da un lato, l’accentuazione dei fenomeni di rottura di vecchie barriere, a livello della società civile, tra le due parti del paese – circolazione di modelli di «consumo» con relativi effetti di dimostrazione e via dicendo –; e la rilevazione, dall’altro – che è costitutiva in questo tipo di giudizio, – del formarsi, all’interno dell’area meridionale, delle condizioni concrete per una fuoriuscita definitiva dallo stato di arretratezza stagnante – il processo di take-off è effettivamente iniziato nel Mezzogiorno, a partire dal 1950 (e basti per ora accennare al doppio rapporto che lega proprio l’alleggerimento della «sovrappopolazione» meridionale alla ristrutturazione dell’agricoltura e all’assorbimento di forza-lavoro nei settori extra agricoli in loco)[8].
In secondo luogo, dunque, proprio in concomitanza di questo processo di integrazione – processo, si badi, che è avvenuto sì grazie al funzionamento complessivo del Sud come sacca di riserva di manodopera, ma si è prodotto per mezzo di una serie di interventi materiali, in primo luogo, come vedremo, attraverso l’intervento dello Stato a dotare il Sud di infrastrutture, a incidere sull’assetto dei rapporti agrari, a delineare in maniera ormai irreversibile i punti d’attacco dell’industrializzazione meridionale –, il «dualismo», anzi la vera e propria contrapposizione frontale tra aree sviluppate e aree del sottosviluppo si sono fatti interni al Sud – si sono piantati come caratteristica oggi dominante dell’intera situazione meridionale. Il Mezzogiorno come area complessivamente omogenea nella sua arretratezza (salvo ridottissime zone senza rilievo generale) non esiste veramente più[9].
Processo di integrazione capitalistica; «nuova geografia» del Mezzogiorno: l’acquisizione di questi soli elementi consente già una risposta alla prima domanda. Si tratta infatti dei dati costitutivi ultimi del «problema» meridionale – le «due Italie»; la depressione complessiva del Sud in uno stadio anteriore le possibilità stesse del decollo. Mutati questi, il «senso» stesso della riproposizione della questione, nella sua fisionomia tradizionale, storicamente consolidata, deve mutare – ammesso che essa possa ancora essere legittimamente riproposta. Ma se questo è vero, se le grandi linee generali che definiscono, eventualmente, i «nuovi termini» della questione meridionale sono quelle indicate, anche il secondo quesito può già ricevere, liminarmente, una risposta positiva. Una «imputazione» allo stato di questo tipo di risultati è possibile, ed è del resto pacifica, per la semplice ragione che tutti i principali passaggi materiali e storici che conducono a quelle trasformazioni e le caratterizzano – dislocazione del ruolo dell’agricoltura meridionale e nuovo paesaggio agricolo; struttura polarizzata dell’industrializzazione meridionale e via dicendo – hanno costituito via via oggetto specifico dell’intervento. Il ’50 è termine a quo del «decollo» capitalistico del Mezzogiorno e lo è di una nuova fase storica d’intervento da parte dello Stato – è pacifico che questa non è una mera coincidenza cronologica. Certo, ciò non significa assolutamente che sia possibile proiettare all’indietro chissà quale perfetta consapevolezza degli esiti storicamente accertabili del processo, né che sia possibile assumere, a priori, una perfetta coincidenza tra questi esiti e i «progetti» politici che quell’intervento hanno via via sostenuto[10]. E non è neppure necessario: il grado di rispondenza tra gli uni e gli altri è appunto il problema della ricerca, che va assunto in tutta la sua apertura (e in tutta la sua dialetticità: poiché anche il non-intervento, e ogni forma negativa o inefficace di esso, configura un’ipotesi di «imputazione» all’interno di una forma di Stato che si definisce complessivamente come Stato «responsabile»)[11].
Come qualificare, infine (è il nostro ultimo quesito) questa «svolta» del ’50, ed in particolare il ruolo centrale dello Stato che in essa si evidenzia? Questo ulteriore avvicinamento al nucleo tematico fondamentale della ricerca deve servire non tanto a un’inutile anticipazione dei suoi eventuali risultati, quanto a definire i termini generali, anche metodologici, d’impostazione.
Ruolo dello Stato, s’è detto. Esso si presenta senz’altro, a partire dal ’50 per la prima volta, come soggetto di definizione della globalità del problema meridionale, di determinazione di un progetto generale di sviluppo, di costruzione e gestione del relativo processo. Si presenta, in una parola, come Stato-piano. Pianificazione e sottosviluppo: la complementarietà di questi due termini appare intuitiva, e suffragata empiricamente e storicamente dal «trattamento» dell’arretratezza a livello mondiale[12]. Tanta è la «ovvietà» del rapporto che esso si rappresenta dapprima come esclusivo, biunivoco: lo sviluppo è qui l’orizzonte e lo scopo stesso del processo; esso è presente dapprima solo negativamente, come assenza non più sopportabile – al limite, la sua conquista sopprime il rapporto: l’«uscita» dal sottosviluppo può rendere inutile il piano[13]. Questa ideologia iniziale, così importante praticamente sul piano mondiale, sebbene dura a morire, oggi non regge più. La «forma» dello Stato-piano è man mano divenuta – entro «istituzioni politiche» e costellazioni di valori diverse, è appena il caso di dirlo – la forma generale dello Stato contemporaneo, anche e soprattutto laddove lo sviluppo «c’è». L’interesse del «caso italiano» è proprio questo[14], pur con tutte le cautele ed i limiti a ogni disinvolta generalizzazione che derivano appunto dalla sua particolarità di cumulare, entro un rapporto che si vuole «dualistico», la dinamica dello sviluppo e quella dell’arretratezza: che in un’area relativamente ristretta e in un arco di tempo limitato è possibile seguire il passaggio dello Stato, come Stato-piano, da un rapporto «esclusivo» col sottosviluppo a una dimensione complessiva: dal sottosviluppo allo sviluppo, o meglio, come vedremo, al governo del loro rapporto. E all’interno di questa vicenda ogni ideologia che immagini ancora lo sviluppo come spontaneità del processo deve necessariamente venir meno, come, corrispettivamente, deve cadere ogni nostalgia di un’«economia» separata dallo Stato.
Ciò che però importa, ora, non è tanto seguire la direzione della vicenda, che è sufficientemente chiara, in tutta l’articolazione dei suoi passaggi. Al di là di una ricostruzione conchiusa, inadeguata oltretutto a un processo come quello dello sviluppo meridionale che si presenta oggi di nuovo palesemente in una fase di passaggio, ciò che qui interessa è fissare il senso e la funzione rispettiva dei termini generali dell’analisi, sul terreno, se si vuole, della «scienza politica» – per quel che ci riguarda, sul terreno di una definizione politica di sviluppo e sottosviluppo e di una definizione politica di piano. Tale è il punto di vista che assumiamo: definiamo, allora, lo sviluppo come nient’altro che un processo di conquista e ridefinizione continue di un rapporto di forza politico tra le classi, il piano come forma necessaria di questo processo a certi livelli di maturità della produzione capitalistica e, d’altra parte, il sottosviluppo, l’arretratezza sì come «disgregazione», ma come disgregazione delle stesse possibilità materiali di un attacco politico proletario al rapporto di classe fondamentale.
Quanto questo approccio – che appunto perciò andava dichiarato preliminarmente – diverga da quello assolutamente dominante nella letteratura dello sviluppo è fin troppo ovvio. «Definiamo lo sviluppo economico come l’incremento nel tempo del prodotto pro capite dei beni materiali» [15]: questa citazione che traiamo a bella posta da un libro, ormai «classico», di Paul Baran, è un tipico punto di partenza che accomuna e costringe sullo stesso terreno scienza «borghese» e scienza «marxista». Questa è costretta a recuperare nella figura di «ragione oggettiva» un criterio di orientamento e di giudizio nello scarto tra sviluppo reale e sviluppo «possibile» (o potenziale), a fondare apertamente sull’ideologia – e su quella più disincarnata dalla reale vicenda della lotta tra le classi – l’intero ragionamento[16]. Quella è condotta a svolgere la sua normale funzione di sostegno teorico-pratico al processo che dovrebbe indagare, onde la vigenza esplicita presso di essa del punto di vista capitalistico per cui l’arretratezza è soltanto la fase «preliminare» dello sviluppo non le impedisce di accuratamente registrare – come mostrano le sue oscillazioni tra livelli di squilibrio «nocivi» e forme di squilibrio «utili» – il complesso e contraddittorio movimento per cui il sottosviluppo è un limite allo sviluppo e per ragioni interne a esso va conquistato all’area dei rapporti direttamente capitalistici, ma insieme costituisce una condizione di rilancio, politica ed economica, che va mantenuta e continuamente ricostituita. Da questo stesso punto di vista, perciò – espressione ideologica, non perciò meno praticamente efficace; «oggetto» da ricostruire con cura «scientifica» per poterlo praticamente rovesciare – il sottosviluppo non è soltanto il «non-ancora» sviluppo, così come voleva già l’«ottimismo» dei classici dell’economia politica che si prolunga, enorme concrescenza mistificata, ben addentro ai nostri giorni; ma non è neppure solo il «prodotto» dello sviluppo, secondo un modo statico, «strutturalista», di leggerne la fisionomia, a torto ritenuto l’ultima parola del marxismo teorico su questo tema[17]. Esso è una funzione dello sviluppo capitalistico: una sua funzione materiale e politica. Ciò che, determinandosi, significa: funzione del processo di socializzazione capitalistica, della progressiva costituzione del «socialismo» del capitale. Sviluppo è infatti quello del potere capitalistico sulla società nel suo insieme, del suo «governo» della società – del suo Stato.
Di qui discende, in maniera lineare, l’ipotesi complessiva sulla scorta della quale intendiamo «leggere» le vicende del Mezzogiorno e del trattamento statale della depressione meridionale a partire dal ’50. Potremmo formularla, in estrema sintesi, così: il «ruolo« del Sud è stato da una parte, negli anni Cinquanta, quello di sede di invenzione, di sperimentazione e di verifica di strumenti istituzionali di piano (di una specifica politica di piano per il sottosviluppo); da un’altra parte, a partire dagli anni Sessanta, quello della definizione di un orizzonte generale di pianificazione, valido per lo sviluppo italiano nel suo insieme, nella determinatezza della sua natura e dei suoi problemi – una funzione di rilancio riformistico e pianificatorio, che diviene permanente in ragione diretta dell’«interiorizzarsi» dell’arretratezza, come tale, entro un modello di sviluppo «integrato».
A un ultimo tema sembra necessario accennare, per concludere questa parte introduttiva. Si tratta dell’ovvia considerazione che ben poco sarebbe comprensibile, delle vicende che intendiamo studiare, fuori del riferimento a quella complessa e attiva ideologia politica costituita dal pensiero «meridionalistico» [18]. Ci toccherà, infatti, più volte di rifarci alle sue varie formulazioni in relazione a singoli passaggi e a specifiche soluzioni, anche istituzionali, che man mano verremo incontrando. Qui sembra però utile tentare, preliminarmente, una definizione complessiva di esso onde fissarlo nella sua specifica veste di ideologia politica dello sviluppo – e nella funzione, che è propria di ogni ideologia di questo tipo, intrinsecamente e necessariamente riformistico-repressiva. È necessario, a questo scopo, e a costo di fare violenza all’effettiva ricchezza e complessità di temi che lo compongono, riferirsi a quelle che appaiono le due sole grandi linee di orientamento meridionalistico presenti dal dopoguerra, a partire dal rinnovamento che questa tradizione di pensiero sperimenta in conseguenza di un «quadro» politico e sociale profondamente mutato.
La prima è quella del meridionalismo comunista[19]. La sua grande stagione pratica è stata quella degli anni dell’immediato dopoguerra, gli anni della prima massiccia costituzione di un’organizzazione, sindacale e politica, di «sinistra» nel Mezzogiorno attorno ai grandi temi della riforma agraria e della rinascita del Sud. Ebbene, è stato appunto in questa grande stagione delle lotte che è venuto fissandosi in maniera irreversibile il ruolo del meridionalismo nella definizione della linea generale della sinistra: è spettato proprio a quest’ultima, in una situazione a prospettive oscure, incerte, di possibilità di rilancio dell’economia italiana (prima della reimmissione nel circuito internazionale e della restaurazione capitalistica degli anni Cinquanta) di prospettare per prima, proprio in quanto posizione meridionalistica, una proposta generale di sviluppo «programmato» – una proposta che legava le prospettive dello sviluppo all’espansione del mercato interno e questo, a sua volta, secondo una impostazione che si vuole chiamare, non importa qui quanto correttamente, «gramsciana» alla riforma agraria e alla rinascita del Mezzogiorno[20]. Ma al di là della formulazione ricevuta in quegli anni, del resto scarsamente modificata in seguito, il senso complessivo di questa linea, e il nesso che si crea al suo interno fra tematica meridionalistica e rivendicazione di un «piano», è del tutto esplicito: il Mezzogiorno è la sintesi degli squilibri, della inefficienza dell’intero sistema; per converso la soluzione della questione meridionale, che solo una democratica programmazione può garantire, è il massimo problema dello sviluppo nazionale, la condizione stessa di una sua dinamica quantitativamente e qualitativamente soddisfacente. Secondo un duro ma, piaccia o meno, realistico giudizio di un avversario, il ruolo pratico di questa posizione non è andato oltre (dopo l’espansione iniziale) quello, del tutto subordinato, di «additare limiti, pericoli, abusi» [21].
Ben altro è stato il rilievo pratico – non del tutto proporzionato alle dimensioni dell’approfondimento «teorico», che si presenta poi, nelle sue formulazioni generalissime, non troppo dissimile da quello appena ricordato, pur vivendo ovviamente secondo intenzioni politiche affatto diverse – dell’altra posizione che chiameremo «democratica» (secondo la discutibile terminologia corrente, usata dall’autore appena citato). È una posizione che si sviluppa, pur nella grande articolazione interna, in due fasi omogenee: dapprima come teorizzazione tecnico-politica, in varie direzioni, dell’intervento straordinario come tale – dagli studi promossi attorno alla Svimez, alle analisi di un Rossi Doria fino a quella Nota aggiuntiva (La Malfa) che costituisce la prima formulazione politica (non meramente analitica o teorica) di una definizione del piano «a componente meridionalistica»[22]; poi, dopo una crisi profonda che questo tipo di progetto subisce nei primissimi anni Sessanta, come riproposta e riqualificazione di una teoria del piano a dimensione meridionalistica che campeggia a tutt’oggi tra le grandi alternative degli anni Settanta.
Questo schema a due fasi, se esatto, è per noi interessante perché risulta in sintonia con la grande periodizzazione su cui è costruita la nostra ipotesi: essa viene dunque, per questa via, a esserne corroborata. Alla sua verifica deve ora aprirsi la ricerca.
Note
[1] Il testo è tratto da L. Ferrari Bravo, Forma dello stato e sottosviluppo, in L. Ferrari Bravo – A. Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano (1975), ombre corte, Verona 2007, pp. 23–31.
[2] Va fatto riferimento alle seguenti opere generali di storia della «questione meridionale», nelle sue dimensioni economico-sociali, politiche, istituzionali, S.F. Romano, Storia della questione meridionale, Palermo 1945; C. Barbagallo, La questione meridionale, Milano 1948; F. Vöchting, Die Italienische Sudfrage, Berlin 1951 (trad. it. La questione meridionale, Napoli 1955); F. Compagna, La questione meridionale, Milano 1963; G. Frisella Vela, Storia ed economia nella questione meridionale, Milano 1966. Sugli svariatissimi aspetti di cui si compone tale questione diamo per acquisite le ampie bibliografie contenute in «Prospettive Meridionali», mensile del Centro democratico di cultura e documentazione, 6–11, giug. – nov. 1962, Bibliografia sul Mezzogiorno (1944–1959), in due volumi e (per la parte che interessa) in A. Fiaccadori, Studi italiani dal 1944 al 1960 sul problema della programmazione economica, «Economia e Storia (Studi in memoria di Mazzei)», 3 (1960), pp. 291–381.
[3] Le due citazioni rispettivamente da M. Rossi Doria, Relazione alla Fiera di Levante di Bari, «Mondo economico», 37, 1970, p. 57 e da P. Saraceno, La Programmazione negli anni ’70, Milano 1970, p. 81. Sul ruolo eminente di questo ultimo nell’ambito del meridionalismo del dopoguerra, sia sul piano «teorico» che «pratico», avremo modo di tornare spesso. La figura del Saraceno comincia a essere oggetto di indagine storica: vedi P. Barucci, Introduzione a P. Saraceno, Ricostruzione e pianificazione 1943–1948, Bari 1969, pp. 5–50.
[4] La stesura del presente scritto, completata nella primavera scorsa, non ha consentito di tener conto in sede analitica degli atti e documenti ricordati nel testo. Si vedano, comunque, il Documento programmatico preliminare dal titolo Elementi per l’impostazione del Piano economico nazionale 1971–75, estratti del quale sono pubblicati in «Mondo economico», Supplemento al n. 33–34 del 1971 (la parte che interessa è contenuta alle pp. xxvii-xxxviii) e, soprattutto, la legge 6 ottobre 1971, n. 853 («G.U.» del 26-10-1971). Chi scrive intende produrre, a parte, un’analisi di entrambi, a conferma, che si presenta largamente possibile, delle ipotesi sviluppate in questa sede.
[5] I dati citati sono tratti dalla Relazione di Saraceno alla Fiera del Levante, «Mondo economico», cit., pp. 51–55. Dello stesso autore vedi inoltre La programmazione, cit., seconda parte.
[6] Un atteggiamento apologetico sembra escluso persino nelle prese di posizione ufficiali di chi ha avuto in questi vent’anni la responsabilità dell’intervento meridionale: significativa a questo proposito la discussione parlamentare su questi temi di svolta della primavera del 1969 e dominata dal tema del «fallimento». Sul significato generalmente strumentale di questa linea fallimentaristica vedi intanto le osservazioni di A. Collidà, L’intervento straordinario: una politica per il trasformismo, «Problemi del socialismo», 44, 1970, pp. 93–130 e Id., «Politica meridionalistica e strumenti d’intervento», in Aa.Vv., Nord-Sud.I nuovi termini di un problema nazionale (a cura del Club Turati e della Fondazione Olivetti), Milano 1970, pp. 3–30.
[7] Vedi, per tutte, le sintetiche valutazioni di A. Campolongo, Mezzogiorno e obiettivi globali, «Moneta e Credito», dic. 1970, pp. 367–380; e, dello stesso autore, il successivo intervento, Il Piano ex post, nella stessa rivista (giugno 1971).
[8] L’insistenza sull’«integrazione» come grande fatto nuovo della vicenda meridionale sta a esempio in A. Graziani, Il Mezzogiorno nell’economia italiana degli ultimi anni, in Aa.Vv., Nord e Sud nell’economia e nella società italiana di oggi (Atti a cura della Fondazione Einaudi), Torino 1968, pp. 23–27. Graziani precisa (a p. 25) che «il vero legame tra Nord e Mezzogiorno nasce nel secondo dopoguerra e appartiene agli anni che vanno dal ’50 a oggi». Tutto ciò non implica affatto la negazione degli elementi dualistici propri della società e dell’economia italiana: lo stesso autore, pur insistendo sull’idea che tali elementi sono in una certa misura ineliminabili in un processo dinamico di sviluppo e anzi in un certo senso identificabile con quello, ne ha tentato la ricostruzione in un modello esplicativo complessivo: Id., Lo sviluppo di un’economia aperta, Napoli 1969. Sulla base di un approccio del tutto diverso, la riproduzione del dualismo, nell’ambito però di un fondamentale processo di integrazione, è idea espressa fin nel titolo da L. Libertini, Integrazione capitalistica e sottosviluppo, Bari 1968. Sul ruolo dell’internazionalizzazione della vita economica come quadro entro cui vanno «letti» fenomeni di depressione interna come quello meridionale, vedi D. Tosi, Forme iniziali di sviluppo e lungo periodo: la formazione di un’economia dualistica, in A. Caracciolo (a cura di), La formazione dell’Italia industriale, Bari 1969, pp. 277 seg., e n. 26. Che il take-off dello sviluppo meridionale, comunque se ne definisca la nozione, prenda avvio effettivamente nel ’50 è giudizio corrente: vedi i recenti: F. Marzano, Un’interpretazione del processo di sviluppo economico dualistico in Italia, Milano 1969, pp. 8 sgg., 38 sgg., 241; L. Cuoco, Il processo di sviluppo di un’area sovrappopolata: il Mezzogiorno d’Italia, Roma 1971, pp. 5–52.
[9] «[…] il processo di sviluppo che per la prima volta nella storia dell’Italia unita ha investito il Mezzogiorno, ha provocato un fenomeno di differenziazione al suo interno, tanto che oggi è impossibile parlare del Sud come di una vasta zona arretrata e omogenea»: Ministero del bilancio e della programmazione economica, Progetto 80 (ed. Libreria Feltrinelli), Milano 1969, p. 57, nota 1.
[10] Un criterio di metodo va pertanto fissato: criterio di misurazione del processo non può essere né l’ideologia come tale – nel nostro caso l’ideologia dello sviluppo di volta in volta formulata a sostegno delle grandi scelte di intervento – né quel cattivo rovesciamento di questo errore metodologico che consiste nell’identificare i risultati del processo, come tali, con la «reale intenzione» di chi, fin dall’inizio, li ha perseguiti. Un esempio di questo secondo orientamento, che è alquanto raro in verità, nella citata Relazione di A. Collidà al Convegno di Venezia.
[11] Una lucida definizione dello Stato «responsabile» (in contrapposizione a quello liberale») in G. Guarino, Efficienza e legittimità dell’azione dello Stato, in Saggi in onore del Centenario della Ragioneria Generale dello Stato, Roma 1969, pp. 27 sgg. Lo stesso fenomeno, sul terreno mistificato dell’odierna teoria generale dello Stato, è colto in altri modi, a esempio, come «forma dello Stato sociale»; vedi su ciò in particolare gli svolgimenti di E. Forsthoff, O. Bachof, Begriff und Wesen des sozialen Rechtsstaates, Berlin 1954, E. Forsthoff, Strukturwandlungen der modernen Demokratie, Berlin 1964.
[12] La letteratura in proposito è sterminata. Vedi su ciò Censis, L’idea dello sviluppo nella letteratura degli ultimi 20 anni. Bibliografia ragionata, Roma 1966. Un’utile rassegna (corredata da una vasta bibliografia) dei principali nodi teorici di essa negli anni Cinquanta (grosso modo la fase in cui si riferisce l’ideologia richiamata) in V. Ajmone Marsan, Recenti contributi all’analisi economica delle aree arretrate, in De Maria (a cura di), Problemi sullo sviluppo delle aree arretrate, Bologna 1960, pp. 3–76.
[13] Cfr. P. Saraceno, Iniziativa privata e azione pubblica nei piani di sviluppo economico, Roma 1959, p. 103 («[…] il piano è lo strumento attraverso il quale i paesi sottosviluppati si propongono di entrare nel mercato capitalistico»), ma già Id., Premesse culturali a una politica di sviluppo economico del Mezzogiorno (Relazione al Convegno Cepes su «Stato e iniziativa privata per lo sviluppo del Mezzogiorno», Palermo, nov. 1955), in Svimez, Il Mezzogiorno nelle ricerche della Svimez 1947–1967, Roma 1968 pp. 237–248.
[14] Vasto è stato l’interesse di singoli studiosi e di istituzioni straniere per il «caso» italiano di sviluppo. Tra i primi, oltre a quello di Vöchting, basti ricordare i nomi di P. Rosenstein Rodan, G. Ackley, H. Chenery, V. Lutz, G. Hildebrand, E. Tosco, G. Schachter, A. Geschenkron, le cui opere saranno indicate via via. Cfr. intanto L. Iraci Fedeli, Gli economisti stranieri sul Mezzogiorno, in A. Parisi, G. Zappa (a cura), Mezzogiorno e politica di piano, Bari 1964, pp. 333–364.
[15] P.A. Baran, Il «surplus» economico e la teoria marxista dello sviluppo, trad. it., Milano 1962, p. 30. Il fuggevole spunto critico del testo sul criterio del «reddito medio pro capite», che è in un certo senso un indice persino ovvio di un livello di sviluppo, non ha nulla a che fare (al contrario ha segno opposto) con impostazioni «pauperistiche»: ad es. U. Melotti, Per un concetto non etnocentrico dello sviluppo e del sottosviluppo, «Terzo Mondo, i, luglio-settembre 1968. Una critica vivace ma non molto approfondita di posizioni similari (in particolare: di posizioni come quelle di Franco Rodano e del «gruppo» della «Rivista Trimestrale»), in L. Iraci, Dall’opulenza al benessere, Torino 1970.
[16] Ideologica è, a nostro avviso, la pretesa di misurare lo sviluppo (e il surplus) potenziale sulla base di una scala di valori alternativi. Cfr. P.A. Baran, Il «surplus» economico e la teoria marxista dello sviluppo, cit., pp. 40 sgg. La categoria di produzione potenziale, anche a livello di sistema, resta per converso centrale in tutta la elaborazione teorica moderna sullo sviluppo. Per un importante tentativo di calcolo, vedi. A.M. Okun, Il prodotto nazionale lordo potenziale: misura e significato, trad. it., in P. Onofri (a cura di), Reddito nazionale e politica economica, Bologna 1971, pp. 169–182.
[17] Un’efficace sintesi di questi temi in J. Freyssinet, Le concept de sous-développement, Paris La Haye 1970 2 (con ampia bibliografia). Sull’«ottimismo» dei classici, A. Gambino, Lo sviluppo economico nella concezione dei classici, in G.U. Papi (a cura di), Teoria e politica dello sviluppo economico, Milano 1954. Una recente famosa variante della teoria dell’arretratezza come presviluppo è quella di W.W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, trad. it., Torino 1962. Una linea di marxismo «statico» è ancora, malgrado tutto, quella di A. Gunder Frank, Capitalismo e sottosviluppo in America Latina, trad. it., Torino 1969, di cui vedi comunque l’aspra polemica con le dominanti teorie sociologiche dello sviluppo in Id., Sociologia dello sviluppo e sottosviluppo della sociologia, trad. it., Milano 1970.
[18] La «questione meridionale», come corpus ideologico-politico, nasce in Italia come riflessione sul brigantaggio. L’estraneità, il rifiuto armato dello Stato da parte degli strati «profondi» del proletariato meridionale producono nel cervello politico borghese un riflesso che, mentre assevera la repressione armata in atto, vuole nel lungo periodo andare alle «cause» del fenomeno – vuole la repressione come momento «interno» del processo. L’arretratezza del Mezzogiorno, in questa visione, sta alla base della ribellione – in atto o potenziale – in quanto insufficienza capitalistica della società civile meridionale: sopravvivenza di rapporti «feudali», grande proprietà assenteista, struttura parassitaria della città e via dicendo. Questa origine va tenuta presente non come curiosità storica, ma in quanto definisce la struttura e il ruolo politici permanenti dell’ideologia meridionalistica, in quanto progetto di una immissione o integrazione del «popolo» nello Stato, affidata alla forza dei rapporti di produzione «moderni». Una limpida rassegna dei temi fondamentali del meridionalismo classico in B. Caiazzi, Introduzione a Nuova Antologia della questione meridionale, Milano 1962, pp. 3–76. Più ricca e meglio impostata l’antologia curata da R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Bari 1961. Sulla figura centrale del meridionalismo classico – il Salvemini – centrale non perché espressiva di tutte le componenti di questa tradizione ma al contrario perché espressiva del passaggio e della crisi di essa a una fase moderna, pur dentro una continuità che è effettiva e sostanziale, vi è ora il lavoro, fondamentale per il punto di vista qui accolto, di G. De Caro, Gaetano Salvemini, Torino 1970.
[19] Per una visione d’insieme è sufficiente il rinvio a G. Amendola, La democrazia nel Mezzogiorno, Roma 1957. Lo svolgimento di questa linea nelle sue varie articolazioni è documentata nella collezione della rivista «Cronache meridionali» (in particolare nei numeri scritti di Chiaromonte, Napolitano, Reichlin, ecc.).
[20] Nell’ambito di un certo tipo di recente revival gauchiste sul problema meridionale, si è spesso insistito sulla tesi di una vera e propria contraddizione tra l’«originaria» impostazione gramsciana – che risale in effetti al periodo «consiliare», cfr. A. Gramsci, L’ordine nuovo 1919–1920, Torino 1955, pp. 22 sgg, e spec. 316–319; il più noto Alcuni temi sulla questione meridionale, apparso in «Stato operaio», gennaio 1930, poi in «Rinascita», febbraio 1945, fu scritto nel ’26, poco prima dell’arresto e del carcere: cfr. R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp. 535 – e la linea del meridionalismo comunista, come poi viene formulata e praticata nel secondo dopoguerra: Togliatti, insomma, che «tradisce» Gramsci. Tra le due posizioni passa, in realtà, la stessa differenza che esiste, in generale, tra il senso complessivo dell’ondata rivoluzionaria internazionale che prolunga il ’17 fin dentro gli anni Venti, e la tematica terzinternazionalista, che si realizza, in occidente, sul terreno dei fronti popolari. Si tratta di un passaggio che non toglie la sostanziale continuità di un movimento il cui dato ultimo unificante è precisamente l’idea di una rivendicazione di «potere» per la classe operaia fondata e resa matura dalla sua capacità (e dal suo «diritto») a risolvere le contraddizioni, i limiti, le insufficienze dello sviluppo capitalistico.
[21] G. Galasso, Vecchi e nuovi orientamenti del pensiero meridionalistico, in Aa.Vv., Nord e Sud nella società, cit., p. 69. Da questo perspicuo saggio di Galasso traiamo lo «schema» accennato nel testo.
[22] La Svimez ha raccolto nel volume Il Mezzogiorno nelle ricerche della Svimez, cit., le espressioni più significative del lavoro teorico da essa suscitato. In appendice vi sono contenute notizie sulla storia dell’istituto e l’elenco completo degli studi e delle pubblicazioni prodotte. Ovvia poi la menzione di M. Rossi Doria, Riforma agraria e azione meridionalistica, Bologna 1956 e Id., Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Bari 1958.
* * *
Luciano Ferrari Bravo (1940–2000) è stato uno dei protagonisti dell’operaismo a partire dai primi anni Sessanta e professore di Storia delle Istituzioni Politiche e di Istituzioni politiche comparate all’Università degli Studi di Padova.
Una anticipazione di Lanfranco Caminiti in previsione dell’uscita del volume sulle autonomie del meridione.
Guerra sociale.
Consideravamo questa, la nostra prassi e il nostro compito. Solo che noi non avevamo una grande esperienza «militare» – e da qualche parte bisognava cominciare.
Ho qualche ricordo dei miei pasticci: la notte prima dell’assemblea di Cosenza, avevamo deciso di fare una piccola «notte dei fuochi».
A me toccò una sede politica a Rosarno, altre piccole cose si sarebbero fatte in provincia di Cosenza, di Reggio, sulla jonica – andai con la mia tanica di benzina, l’innesco e tutto, lasciammo il volantino, e via. Ma sto portone non prendeva fuoco. Facemmo un giro largo, tornammo – niente. non era neanche notte fonda, che poi Rosarno era anche un luogo pattugliatissimo. Al secondo o terzo giro, finalmente appicciò: avevamo fatto il nostro dovere.
L’attentato alla Liquichimica di Saline Joniche fallì la prima sera perché non ci eravamo portati dietro una tronchese per tagliare la rete di protezione; nascondemmo le borse con l’innesco e la benzina sotto un ponticello, pregando che li avremmo ritrovati. La seconda sera andò tutto bene.
Diversi anni dopo incontrai a tavola, a casa di un parente, uno degli addetti alla vigilanza notturna, che avevamo legato e imbavagliato per sistemare le borse che avrebbero bruciato la sala di comando della produzione. Raccontava quella sera – sì, aveva avuto paura – con tranquillità: pensai fosse meglio non dirgli che aveva di fronte proprio l’uomo che gli aveva fatto passare il più brutto quarto d’ora della sua vita, magari mi spaccava i denti.
La mattina dell’attentato alla centrale della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania a Cosenza, l’auto che avevamo rubato non voleva saperne di partire – era tutto pronto, anche il volantino, con la data e la spiega. Ebbi un colpo di culo: continuando a sfregare i contatti che avevamo spellato, scattò la scintilla e l’auto si mise in moto. Poi, andò bene.
A una rapina da un gioielliere a Napoli, ci fregò la gentilezza – non stringemmo bene il nastro intorno i suoi polsi e quello si liberò proprio correndo dietro i compagni che intanto erano usciti e provavano a dileguarsi. Lo fermai sparandogli da lontano, con una 6.35 – l’unica arma che mi ero portato dietro – e lo presi al fegato, e quello si accasciò. Ci andò bene a entrambi, e invece andò male ai compagni, perché tutto quel trambusto fece arrivare i «falchi» della polizia, che stazionavano lì vicino, e ne arrestarono due e fu l’inizio della fine.
In un attentato all’Italsider di Taranto, piazzammo del plastico con una miccia lunga su un nastro che ci avevano indicato, ma era proprio all’esterno e ai margini. andammo via e ’sto botto non lo sentivamo – poi ci fu, ma lo sentimmo solo noi. Hai voglia a comunicati – nessuno riusciva a trovare «il danno», ce ne misero di giorni.
A una rapina a Potenza, che avevamo fatto per dare un po’ di soldi a una struttura di compagni della Puglia, mentre scappavamo con la borsa con il malloppo, Fiora mi chiese se avevo trattenuto qualcosa per noi; dissi di sì, anche se non era nei patti – anch’io, fece lei.
A un’irruzione all’Intersind di Palermo, dove rinchiudemmo in una stanza una decina di impiegati e poi trafugammo carte, mi ero messo le lentine a contatto e dei baffi finti, che però non si incollavano bene e mezzo ogni tanto mi cascava e io stavo sempre lì a sistemarlo – ma nessuno descrisse il mio aspetto; dissero solo che «parlavo senza accento», come minimo venivo da Milano, il che un po’ mi divertiva. Però fummo in grado di cooperare per la più bella rapina di quegli anni, l’assalto al Club Mediterranée di Nicotera – con una squadra travestita da carabinieri da terra e una squadra che arrivò in motoscafo dal mare, e svuotammo l’intera cassa e le cassette di scurezza, con una fuga tra le campagne e di nuovo via mare – che ci sarebbe stata bene in un film. Certo l’avevamo fatta con chi «controllava» il territorio – e come altrimenti? facemmo fifty-fifty, come veri gentiluomini.Non eravamo clandestini.
Con quella stessa faccia facevamo assemblee e rapine, riunioni e attentati. in guerra, d’altronde, si combatte a viso aperto
Un lavoro monumentale di circa 900 pagine che uscirà in tre volumi e che oggi vede l’uscita in tutte le librerie del primo volume.
Si tratta della storia quasi sconosciuta dell’Autonomia Meridionale raccontata dai suoi stessi militanti. Una storia avvincente che dimostra come il sud dagli anni Settanta in poi sia stato una fucina di lotte autonome e clamorose che hanno visto lo Stato pronto alla repressione ed alla carcerazione di centinaia di attivisti in prima linea nelle lotte di operai, contadini, proletariato in genere.
Il primo volume edito da Derive ed Approdi è curato da Antonio Bove, medico napoletano del collettivo politico Csoa Officina 99 e dell’area antagonista napoletana e Francesco Festa lucano anch’egli di officina 99 e del movimento no global meridionale.
Il volume è il decimo del lavoro complesso fatto dalla casa editrice sull’autonomia operaia italiana, ed è il primo su quella meridionale. Al primo lavoro hanno partecipato Alfonso Natella, salernitano , che racconta del libro “Vogliamo Tutto” di Nanni Balestrini del quale è stato il protagonista ; Antonio Bove e Francesco Festa con un saggio sulle origini del meridionalismo; Francesco Caruso che parla del Sud ribelle e delle sue origini; Giso Amendola che affronta la questione del rifiuto del lavoro al sud; Claudio Dionesalvi che conversa con Franco Piperno sull’autonomia; Lanfranco Caminiti che parla dei “Primi fuochi di guerriglia” l’unica organizzazione autonoma extra legale del sud e chiudono Antonio Bove e Francesca Festa sulle lotte avvenute a Napoli fra Bagnoli e i contrabbandieri autonomi.
Un volume estremamente interessante ed unico che rompe un luogo comune, spesso esistente anche fra gli stessi attivisti dell’estrema sinistra che al sud non si sia mosso niente in quei favolosi anni 70.
Il giorno 7 Aprile 1979 un’imponente iniziativa giudiziaria mette alla sbarra decine di dirigenti e militanti di un’organizzazione rivoluzionaria contro la quale opinionisti, dirigenti di partito, intellettuali e sindacalisti avevano utilizzato decine di termini dispregiativi, tra cui violenti, terroristi e squadristi, evitando di chiamarli per quello che erano. Autonomi.
Il tribunale del linguaggio aveva emesso la sua sentenza attraverso la demonizzazione mediatica prima della criminalizzazione giudiziaria. E’ anche per questo che la ricostruzione delle vicende legate all‘Autonomia operaia messa in atto dagli autori nella collana “Gli autonomi”, è da considerarsi un’impresa.
Gli autonomi sono stati protagonisti di una stagione controversa e gioiosa del decennio rivoluzionario italiano aperto dal Biennio Rosso. “Vogliamo tutto” è stato il loro programma politico semplice e tragico. Nel Sud Italia della falsa industrializzazione, povero, dissanguato dall’emigrazione e dalla ristrutturazione economica del Dopoguerra, l’autonomia è stata una stagione politica intensa, che ha preso forma in un mosaico di movimenti spontanei che hanno scompaginato i vecchi equilibri della politica partitica, lenta e bigotta.
Questa ricerca che penetra nell’epicentro di quelle battaglie sociali estraendone biografie e personaggi, per portare alla luce la storia sconosciuta e inedita degli anni Settanta al Sud, un insieme di condotte, modi di pensare, pratiche, comportamenti che, con tutti i limiti, hanno provato a farla finita con la “questione meridionale”, e le sue narrazioni assistenzialistiche e parassitarie. In quel Mezzogiorno che si voleva narcotizzato sorsero così collettivi autonomi che diedero vita a lotte e rivendicazioni che hanno segnato un’intera generazione raccolte per la prima volta in questa ricerca per comporre una cartografia di quegli anni, senza la pretesa di essere un «manuale», anzi il fondamento di questo lavoro è proprio la frammentarietà della materia in oggetto e tutti i suoi limiti rappresentano spiragli attraverso i quali guardare a quelle esperienze provando a ridefinirne i contorni.
Questo primo volume, acquistabile in tutte le librerie o direttamente dall’editore (www.deriveapprodi.com) è il primo di una serie da tre libri dedicata al meridione.
Nelle sue pagine si ricostruisce la vicenda storica dell’autonomia a Napoli, dalle lotte operaie del Biennio Rosso alla nascita dei Comitati di Quartiere, esperienza centrale nelle lotte per la casa, le autoriduzioni dei consumi contro il carovita. Il lavoro di ricostruzione storica ricostruisce la nascita e lo sviluppo dei movimenti dei disoccupati, fino allo snodo degli anni Ottanta, segnati dalla repressione giudiziaria e dal terremoto.
Antonio Bove è nato nel 1975 a Napoli, dove vive e lavora come medico. Incontra i movimenti napoletani nel 1994, durante il Movimento Sabotax cui partecipa con il Collettivo di Medicina. Ha fatto parte del collettivo politico del CSOA Officina 99. È tra i fondatori dell’Istituto Italiano per gli Studi Europei di Giugliano (NA) ed ha fatto parte del collettivo redazionale di Metrovie, supplemento napoletano del Manifesto. Suoi articoli sono apparsi su: Il Manifesto, Limes – rivista di geopolitica italiana, Liberazione, Napoli Monitor, Dinamopress. Ha pubblicato “Vai Mo. Storie di rap a Napoli e dintorni.” (Monitor ed., Napoli 2016)
Francesco Antonio Festa, lucano, vive in Irpinia insieme a tre figli e una compagna e si occupa di marketing. Durante gli anni universitari ha scoperto la mlitanza grazie all’attivo politico di Officina99/SKA di Napoli, ha partecipato attivamente al movimento NoGlobal. Ha dato vita ai progetti “Orizzonti Meridiani” ed “Euronomade”. Di formazione storica, ha curato con altri il volume “Briganti o emigranti. Sud e movimenti fra conricerca e studi subalterni”. Ha scritto numerosi articoli sulla storia del Sud Italia, sui movimenti sociali e sui dispositivi di razzializzazione. Scrive sulle pagine culturali de il Manifesto.
Da pochissimi giorni è stato pubblicato il libro:“Gli autonomi – L’Autonomia operaia meridionale”, a cura di Antonio Bove e Francesco Festa. Il volume, edito dalla casa editrice DeriveApprodi, è contrassegnato dal numero romano X, poiché rientra in una collana tematica più generale dedicata alla storia dell’Autonomia operaia, movimento della sinistra extraparlamentare sorto in Italia negli anni Settanta del secolo scorso.
Il lavoro di Bove e Festa documenta in modo inedito e rigoroso le origini, le lotte e lo sviluppo di quest’area politico-culturale nel Mezzogiorno. Tanti e tali sono i materiali raccolti, che i due curatori hanno optato per la pubblicazione di una trilogia, che si concentrerà su tre differenti oggetti d’indagine. La prima parte è dedicata a Napoli e alla storia dell’autonomia proletaria meridionale nella città più popolosa del Sud. Ne parliamo con Francesco Festa.
Cos’era l’Autonomia operaia? È stato un laboratorio politico-culturale. Faccio un esempio per rendere l’idea. Potenza, che è la città da cui provengo, nell’immaginario comune è il capoluogo di una regione ritenuta dai più una terra pacificata. Grazie al nostro lavoro, abbiamo documentato il fatto che negli anni ‘70 e ‘80, ben ventimila lotti abitativi vennero occupati grazie alle lotte promosse e organizzate dall’Autonomia operaia. Quelle occupazioni costituirono una prospettiva di vita per famiglie povere in una terra immiserita, che si riteneva appannaggio della Democrazia Cristiana. Soprattutto nelle province dell’entroterra, le cosiddette “terre dell’osso” – come le definì Manlio Rossi Doria‑, l’Autonomia ha dato la possibilità di sperare, immaginare, sognare, costruire e disegnare tempo libero.
Possiamo dire che è stato un movimento di liberazione? Sicuramente sì, se si intende la liberazione dal punto di vista del lavoro. Quest’area ha portato avanti nel tempo un rifiuto dell’egemonia culturale del cosiddetto “fabbrichismo”, che albergava in formazioni della sinistra riformista. L’Autonomia parlava anche della possibilità di organizzare il tempo liberoo il divertimento che, in un contesto di oppressione familista come quello del Sud, era tutt’altro che scontato. Non a caso, in questo volume, figurerà anche un intervento di Peppino Impastato, che descriverà l’esperienza di RadioAut. L’Autonomia era una forma mentis, una condotta, un modo di fare. Era il rifiuto del lavoro come fine esistenziale, ma anche il rifiuto dell’egemonia capitalistica, il cui primo nucleo nel Mezzogiorno è infuso nella famiglia, in una mentalità chiusa, controllata da una cappa democristiana e perbenista.
L’Autonomia al Sud fu anche il tentativo di declinare in un’altra forma la questione meridionale? Fu un modo per rompere gli schemi pregressi in cui erano imbrigliati proletari, studenti, disoccupati. Quel laboratorio di idee fu una vera e propria palestra di lotta per moltissimi giovani, che si aggregarono e formarono politicamente nei primi campeggi, che furono occasione di incontro, studio, socialità, divertimento. Lì, tanti ragazzi conobbero per la prima volta l’attivismo politico. L’Autonomia fu anche lotta alle organizzazioni mafiose. Prima menzionavo l’esperienza di Peppino Impastato, ma non è l’unica. Nel nostro lavoro abbiamo ricostruito anche l’esperienza di Africo – comune alle porte di Reggio Calabria- dove i militanti autonomi si armarono per combattere le cosche malavitose, entrando in scontro non solo con la ‘ndrangheta, ma anche con la polizia e lo Stato, colluso con la mafia. Quella fu una delle tante esperienze che espresse la differenza fra il militare nell’entroterra piuttosto che nei grossi centri metropolitani.
Da dove nasce l’idea di questo studio? È un’opera scritta a quattro mani con Antonio Bove, studioso e attivista politico. Abbiamo intrapreso questo percorso due anni fa. Lo rimugginavamo da lungo tempo, forse dal 2004. Pensavamo che sarebbe stato utile ricostruire la storia dei movimenti sociali e dei movimenti di lotta nel Sud. Nella nostra mente risuonava sempre questa sorta di stigma che gravava su Napoli e il Mezzogiorno, realtà ricche di partecipazione, attivismo, movimenti ma su cui si era scritto troppo poco, se non sotto questa sempiterna dicitura di “questione meridionale”. Poi, Lanfranco Caminiti e Sergio Bianchi hanno lanciato con la casa editrice DeriveApprodi questa sorta di saga sulla storia degli Autonomi in Italia. Da quel momento in poi, ci siamo determinati a scrivere un qualcosa che colmasse quell’enorme vuoto di narrazione sull’esperienza e le peculiarità dell’Autonomia nelle nostre terre.
Com’è strutturato questo lavoro? L’opera è divisa in tre parti e parla dell’autonomia proletaria meridionale. Il primo volume si concentra su Napoli. In apertura, c’è un intervento di Alfonso Latella, protagonista di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. Dopo l’espulsione dalla FIAT, in cui organizzò il primo sciopero senza sindacati, Latella tornò nella sua Salerno, mantenendo uno spirito autonomo e divenendo punto di riferimento delle lotte operaie e dell’operaismo. Il libro prosegue alternando riflessioni teoriche e racconti, memorie, contributi collettivi. C’è un pezzo scritto da Francesco Caruso, che ricostruisce le radici del Sud Ribelle. Poi, un brano di Giso Amendola che analizza il rapporto tra sviluppo, sottosviluppo e rifiuto del lavoro, partendo da una riflessione sui classici dell’operaismo sul Mezzogiorno. Figurano, inoltre, una conversazione di Claudio Dionesalvi con Franco Piperno e una memoria di Lanfranco Caminiti su Primi fuochi di guerriglia, primo gruppo armato che pose al centro della sua elaborazione e della sua prassi combattente la specificità meridionale. Il contributo più voluminoso è composto da due saggi scritti da me e Bove. Per quanto riguarda gli altri due volumi in uscita – senza disvelare troppo – abbiamo fatto parlare le lotte sui territori e chi gli dava l’infrastruttura organizzativa.
Quando verranno pubblicate le altre parti dell’opera e di cosa parleranno? Il secondo volume si concentrerà sulla Campania e dovrebbe essere pubblicato fra maggio e giugno. Il terzo episodio, invece, sarà incentrato sul Mezzogiorno, con documenti, storie e testimonianze raccolte tra Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia, che, stando al piano editoriale, dovrebbe uscire alla fine del 2022.
Avete fatto un lavoro enorme… È un’opera su cui abbiamo impegnato due anni e mezzo di vita. Vi hanno contribuito tantissimi compagni e compagne. Lo spunto ci è venuto da una riflessione di Lanfranco Caminiti contenuto nell’Orda d’oro di Nanni Balestrini, in cui si parlava per l’appunto di autonomia meridionale. Ci siamo chiesti se questa realtà esistesse realmente. Io e Bove provenivamo da esperienze eredi di quell’area politica, come i centri sociali Officina 99 e lo SKA. Rispetto alle orgini, per un fattore di ricambio generazionale, ci sono stati addentellamenti. Nei movimenti c’era chi, facendo riferimento all’Autonomia, accentuava di più il tema del reddito e del salario, altri hanno provato a strutturare di più il movimento dei disoccupati o il movimento studentesco. Abbiamo riflettuto a lungo sulle caratteristiche di queste esperienze, che avevano una matrice comune, in quanto ispirate ad una massima di Renato Panzieri, che parlava dell’importanza di aprire e tenere aperti i movimenti. Questo è stato il background che abbiamo respirato nell’area in cui abbiamo militato ed è stato il filo rosso che abbiamo tenuto nell’opera.
Come avete riannodato i fili di questa storia? Metodologicamente, ci siamo domandati chi fossero gli Autonomi prima dell’Autonomia nel Mezzogiorno. Perché un conto è parlare dell’organizzazione, in senso stretto, a Roma, Padova, Milano, Bologna, Torino, Genova, un conto al Sud, dove a una prima analisi le esperienze più significative parevano esprimersi soltanto a Napoli, Catania e Potenza. Per estendere la ricerca, abbiamo allargato il campo di riferimento e, via via, raccogliendo contributi, memorie, materiali, sono emerse le caratteristiche di soggettività di compagni che avevano militato in Lotta continua, però si erano spostati nel Coordinamento antinucleare e antimperialista, che è una realtà che ha segnato molto l’esperienza meridionale negli anni ‘80.
Quali furono le radici di classe di quella che definite ‘Autonomia proletaria meridionale’? In termini marxiani, l’ambito politico in cui veniva agito il conflitto col capitale era la fabbrica. La presenza dell’Autonomia operaia era circoscritta ad alcune fabbriche, tutte importanti, come a Bagnoli, a Pomigliano d’Arco, a Giugliano, a Castellammare. Ma il vero pregio dell’Autonomia fu quello di muoversi in una prospettiva più metropolitana, analizzando realtà sociali lasciate ai margini. A partire da questa considerazione, si fece largo una diversa interpretazione del cosiddetto lumpenproletariat, che non era sottoproletariato, ma una realtà composita in cui l’operaio sociale – che oggi chiameremmo ‘precario’, figura emersa della terziarizzione produttiva – era già presente a Napoli dalla fine degli anni ‘70. Chi fa mille lavori per sopravvivere, è un lavoratore che produce sia in termini capitalistici, sia in termini di valorizzazione capitalistica.
Vi furono altre caratteristiche significative? Rispetto ad altre realtà, a Napoli i militanti di quest’area furono prevalentemente marxisti-leninisti. C’era una rivista, Lotta di lunga durata, da cui sono emersi tanti compagni ancora attivi nel sindacato. Queste radici ideologiche definirono Napoli come una sorta di ‘anomalia italiana’, cosa che, tuttavia, non le impedì di partecipare all’area nazionale degli Autonomi.
Che cosa rappresentano esperienze come i centri sociali Officina 99 e il Laboratorio occupato Ska nella ricostruzione di questa storia? La liberazione di questi spazi ha origini molteplici. Sostanzialmente, si tratta di un fatto generazionale. Rispetto agli anni ’70, tanti compagni e compagne si formarono nel movimento studentesco della Pantera. Come dicevo, negli anni ‘80, mentre molti compagni erano finiti in carcere preservando le loro idee, c’erano state le esperienze del Coordinamento antinucleare e antimperialista e dei campeggi politici, che generarono l’amalgama da cui provennero nuovi militanti che andarono poi ad occupare Officina 99, divenuto poi il patrimonio di trasmissione di alcuni metodi di lotta. L’idea era di dare più importanza ai movimenti, pensando che l’accumulo di energie nelle fasi di riflusso potesse tenere aperta la possibilità al cambiamento dei rapporti di forze, anziché farli confluire in tentativi elettorali. “Prima la classe e poi il capitale”, si diceva. Questa cosa si è poi, evoluta in prima il soggettivismo e poi l’oggettivismo.
Cosa intendi? Questa dicotomia la si comprende soltanto a distanza di tempo. Oggi, questo dibattito fra la realtà e il tipo di organizzazione che serve per cambiarla è pressochè inesistente. L’eredità è questa. Nel 1993, il Coordinamento si ruppe. I padovani presero la via della “Carta di Milano”[1], e sostennero poi la fondazione delle Tute bianche[2], compiendo la scelta di fare entrismo nelle istituzioni. Il che segnò la divisione nel movimento dei centri sociali. Sembra una storia confusa, ma se la si legge in termini di soggettività, concetti, grumi teorici, c’è un continuum. Lo stesso movimento della Pantera nacque da quell’humus e a Napoli venne animato da compagni che si riunivano prima al Riot dei Banchi Nuovi. Poi, spostarono il loro baricentro all’università, cavalcando l’onda della Pantera e dando origine ad una nuova stagione di lotta sotto il segno dell’Autonomia.
Nel vostro libro, allora, bisogna leggere anche un tentativo di liberare dalla damnatio memoriae la storia degli Autonomi meridionali? È il nostro auspicio. Speriamo che questo lavoro possa far discutere, fornendo un altro sguardo al Mezzogiorno e alla partecipazione nel sociale e nel civile, inteso come protagonismo di cittadini, abitanti, popolazione. La verità è che sono state condotte moltissime lotte nel Sud, ma si è scritto troppo poco. Forse, è questa l’origine della damnatatio memoriae. Questa trilogia può far parlare della questione meridionale, non nel senso classico del termine, intesa dall’alto, ma spiegandone la complessità.
A quale pubblico vi rivolgete? Parliamo a chiunque voglia conoscere la geografia urbana e i contesti sociali. Su questi temi, ci sono pochissimi volumi, che hanno un taglio prettamente accademico o sociologico, che hanno studiato dall’esterno questa realtà ‑esterno inteso come venuto da fuori- e si interrogano sul fervore napoletano. Può sorprendere, ma l’argomento da noi trattato è stato molto studiato da ricercatori di università anglo-americane. Tuttavia, non si è studiata ciò che è stata la sottrazione, in termini politico-criminali, della società secondo categorizzazioni ben precise.
Quanto è cambiata la Napoli descritta nel libro rispetto a quella attuale? Icasticamente tanto. Le piazze e gli spazi pubblici sono mutati nel tempo. Napoli è un enorme spazio pubblico, nel senso politicizzato del termine. È sempre stato un luogo di incontro, scambio, fermento, vitalità, lotta. Oggi, invece, è uno spazio prevalentemente economico, con esercizi commerciali, boutique, ristoranti, bar in ogni dove. Ambiti che prima erano per lo più circoscritti ad alcune strade o zone – come il Vomero, via Toledo, corso Umberto – adesso hanno invaso l’intera città, ancor più dopo la pandemia. Anche perché i movimenti sociali, oggi, nonostante la loro generosità, fanno fatica a contendere la città, intesa come spazio pubblico, a quest’ondata.
Quando parli di continuum tra passato e presente dell’Autonomia napoletana, a cosa ti riferisci? Quello che si sta facendo in termini di lotte sociali sul lavoro, è stato il vero filo rosso di questa storia. Per tutti gli anni ‘90, la continuità si è espressa nelle lotte dei disoccupati, che sono state importantissime e, per certi versi, uniche nel panorama italiano. Quelle hanno tenuto vivo un retroterra. Le lotte studentesche hanno trovato poi, un altro tipo di catalizzazione e organizzazione. Tuttavia, sarebbe utile ritrovare una discussione comune sulla prospettiva, che è la cosa che manca di più in questa fase storica.
Quale pensi che sia il futuro del pensiero autonomo nel Mezzogiorno? Vive laddove è stato trasmesso e tramandato. A Napoli, sopravvive in alcuni spazi sociali, nonostante la diaspora dell’attivo politico del passato. Non è solo una questione generazionale, ma anche di pratiche. Il pensiero dell’Autonomia ha invaso, in alcuni momenti, anche il programma di Rifondazione Comunista o di organizzazioni marxiste-leniniste, a partire dall’idea che la classe e i proletari si dotassero di una propria organizzazione autonoma. Questa autorganizzazione può essere fattore produttivo e organizzativo delle risorse pubbliche, facendo diventare comune l’eredità del pensiero operaista e autonomo. Bisognerebbe ragionare al di là della propria soggettività per raggiungere questo obiettivo.
[1] Documento stilato dall’assemblea nazionale dei centri sociali riunitasi nel Settembre del 1998 al Centro sociale “Leoncavallo” di Milano. Per approfondire, si rimanda al seguente link: http://www.ecn.org/leoncavallo/26set98/
di Lanfranco Caminiti - uno stralcio dal volume X “L’autonomia operaia meridionale”
Ci restava l’interrogativo su «quale processo» andasse costruito – non fummo in grado di rispondere.
Le uniche, provvisorie, forme organizzate al Sud dell’Autonomia meridionale furono l’assemblea calabrese dell’autunno del 1976 a Cosenza e l’assemblea meridionale del gennaio 1978 a Palermo, dove c’erano veramente tutti. Soprattutto, le uniche stabili forme di organizzazione al Sud erano una miriade di strutture politiche sul territorio – circoli, associazioni, comitati, gruppi di amici, o legami tribali tra vecchi compagni.
Pensavamo che il nostro compito fosse quello di intessere la trama di questo ordito: persino all’assemblea nazionale di Bologna, del settembre 1977, dove Fiora intervenne per il Sud, convocammo tutti i compagni meridionali presenti a vederci in una sede «separata», e questo facemmo, all’università in un’aula a semicerchio.
Il Sud è una cosa «a parte» e l’Autonomia meridionale è una cosa «a parte»: vedete di capirlo.
Tutto quello che noi facevamo, Fiora, io e gli altri, era andare su e giù per il Sud – la statale Jonica 106, la Basentana, la Tirrenica, l’Autostrada del sole, con un vecchio scassone Anglia a diesel che schiattò, come un fedele cavallo che aveva sempre lavorato senza mai lamentarsi, in un qualche raccordo di autostrada; e poi, con una meravigliosa DS Pallas Citroen, a gas, verde brillante con il tettuccio avana, la più bella auto che io abbia mai avuto, che sfracassai andando da Cosenza verso Reggio Calabria all’altezza di Sant’Elia sulla strada ghiacciata, ribaltandomi più volte e uscendone carponi, mentre stava a pancia in su con le ruote all’aria come un qualunque scarafaggio, indenne.
Ero indistruttibile. E comunque non era niente male muoversi tra una riunione e l’altra sulla costiera amalfitana o scendere al tramonto tra Maratea e Diamante o incontrarsi di notte alle luci di quel mostro di Bagnoli visto da Bacoli, non era niente male fermarsi nelle trattorie dei Quartieri spagnoli a discutere di comunismo e polpo e salsicce coi friarielli oppure prendere freddo e acqua sulla Basentana per stampare l’infinito numero zero ma, dopo, azzannare le salsicce lucane di cinghiale.
Foto recuperata dal web – aspettiamo maggiori info e dettagli
Abbiamo intervistato Francesco Festa che ha curato insieme ad Antonio Bove il lavoro di ricerca sulla storia, sui protagonisti e sulle forme dell’Autonomia meridionale, oggi esce il primo volume dei tre edito da Derive e Approdi.
È un lavoro a cui abbiamo dedicato gli ultimi due anni ma è pensato già dagli inizi degli anni 2000 quando militavamo a Officina99 e riflettevamo su che cosa fosse l’autonomia che ci era stata trasmessa, sia in termini teorici che pratici, sia nelle lotte ma anche nella traduzione, di generazione in generazione, fino a noi giovani dell’epoca.
Ci è stata data l’opportunità da Derive e Approdi di indagare che cosa sia stata l’Autonomia meridionale nelle sue diverse accezioni: in questo primo volume parliamo di autonomia operaia meridionale perché ci concentriamo su Napoli, il secondo sarà sulla Campania e il terzo sul Mezzogiorno, dunque Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Ho distinto autonomia operaia meridionale da altri tipi di accezione, perché ad esempio in Calabria si chiamava Autonomia proletaria, oppure Autonomia meridionale, e questo è legato alla composizione di classe e ai rapporti sociali di produzione.
Se l’Autonomia operaia così come l’abbiamo conosciuta, letta e ci è stata trasmessa dai più vecchi, ha vissuto al di fuori delle fabbriche così come a Mirafiori, Milano, Marghera, nel Mezzogiorno non è stato così, proprio perché gli insediamenti industriali non sono stati così forti, quindi c’è stato un altro tipo di traduzione dell’Autonomia all’interno di ciò che è stato poi definito, a metà degli anni 70, l’operaio sociale. Quindi, in particolare a Napoli, il proletario e il sottoproletario urbano metropolitano, quello che si arrabbattava tramite i mille lavoretti, così come veniva icasticamente raffigurato dalla letteratura borghese, era a tutti gli effetti un produttore di valore, di merci ed era inserito nei cicli produttivi della metropoli. L’Autonomia all’interno di uno spazio metropolitano come Napoli è stata soprattutto questo tipo di composizione di classe, vi inseriamo l’autorganizzazione dei contrabbandieri, l’autorganizzazione dei disoccupati, così come è stata l’organizzazione all’interno di piccoli e grandi nuclei industriali dove erano presenti compagni e compagne afferenti a organizzazioni autonome, come Bagnoli dove c’era l’Ital Sider o a Pomigliano con l’Alfa Sud che erano grosse fabbriche, c’era questo tipo di composizione oltre a una composizione di classe afferibile a quello che è stato chiamato l’operaio sociale.
Se avessimo voluto parlare dell’Autonomia operaia organizzata avremmo dovuto restringere il campo a pochi nuclei organizzati all’interno del Mezzogiorno, a Napoli, qualcosa in Sicilia e in Puglia. Il tutto si sarebbe risolto così, invece il metodo di lavoro da cui siamo partiti è stata una considerazione di Lanfranco Caminiti fatta in un pezzo sull’Autonomia meridionale, nell’Orda D’oro, diceva che gli autonomi nel Mezzogiorno esistono ed esistevano al di là dell’Autonomia, quindi siamo andati alla ricerca di un filo rosso che indagasse su questo tipo di condotte, di forma mentis, di comportamenti, quindi se l’Autonomia operaia che abbiamo conosciuto è quella del rifiuto del lavoro, del rifiuto dell’egemonia culturale borghese legata all’idea del lavoro, nel Mezzogiorno non è stata solo la liberazione dal lavoro ma è stata anche la liberazione da alcuni gioghi legati al familismo, alla condizione femminile, alla presenza del blocco storico della DC, nell’entroterra soprattutto, in regioni come Basilicata, Calabria, il giogo forte del connubio politico-criminale tra la politica e le organizzazioni malavitose, è questo il filorosso, il rifiuto dell’egemonia capitalistica nel Mezzogiorno.
Quali specificità possiamo individuare nell’Autonomia meridionale, oltre alla composizione? Quali eventi salienti ne hanno determinato il percorso? E dato questo sguardo particolare nel ritracciare questa storia, quali sono state le fonti da voi utilizzate?
Partiamo dalle fonti. Per il primo volume sono state un po’ di letteratura e di storiografia delle lotte sociali e politiche a Napoli e nel Mezzogiorno, sia di parte, quindi scritte dalle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, sia accademiche classiche. Poi, il materiale autoprodotto dalle realtà della sinistra rivoluzionaria e infine le fonti orali. Quella principale sono state le fonti orali, infatti in questi tre volumi la cosa importante e indispensabile è che si è parlato di quella che viene chiamata storia minore, la storia normalmente è quella che viene fatta dai grossi nomi secondo una metodologia storicista per cui la storia viene fatta dai condottieri, dai vincitori, mentre noi abbiamo dato voce a storie dal basso, a compagni e compagne che ancora oggi stanno sulle barricate e la loro militanza è nata negli anni 70, compagni e compagne che non avrebbero avuto parola e le storie stesse sarebbero cadute nell’oblio.
Quella per esempio di Casimiro Longaretti di Nova Siri, uno degli organizzatori dei due campeggi di lotta antinucleari del 78 e del 79, fatti vicino alla trisaia di Rotondella, il centro di stoccaggio del nucleare, sono momenti importanti all’interno della stagione di lotte antinucleari e ambientaliste, in seguito è nato il coordinamento anti anti conosciuto negli anni 80 e che ha fatto vivere l’Autonomia al di là della repressione e dei compagni in carcere. Casimiro si è politicizzato in quei giorni là, non era inizialmente un militante dell’organizzazione. Abbiamo parlato poi di Basilicata, in particolare di una città come Potenza, solitamente sonnacchiosa, per anni governata dalla DC e ora dalla Lega, dove fra gli anni 70 e 80 vennero occupate 20mila case. Queste storie se non le avessimo raccolte in questi volumi sarebbero cadute nell’oblio.
Quindi ecco la cosa straordinaria, abbiamo fatto parlare prima dell’Autonomia gli autonomi. Nel libro sulla Calabria si parla anche delle rivolte di Reggio, da un punto di vista di termini temporali siamo partiti dal 69, poi abbiamo approfondito le rivolte di Reggio che solitamente si pensano attraversate dai fascisti, ma quella rivolta, durata un intero anno, non era solo questo. Inizialmente era sembrata una lotta provinciale, quasi corporativa, di una città che si ribellava contro una disposizione governativa che prevedeva di spostare il capoluogo di regione a Catanzaro, si è ricostruita anche la storia dell’antimafia ad Africo dove Palamara, che si è poi dovuto trasferire a Roma con tutta la famiglia nei primi anni 70, non fece antimafia pacifica ma impugnò le armi dinanzi ai soprusi, davanti alle prime forme di ‘ndrine, che si andavano organizzandosi, e in quell’occasione fu fatta anche una manifestazione nazionale di sostegno.
In Sicilia invece si darà voce a un compagno di Peppino Impastato, un compagno all’interno di radio Aut, poi eletto in Democrazia Proletaria con Peppino, che parla non solo di quello che si conosce ma anche dei rapporti di forza, qual’era la vita svolta all’interno dei paesini della Sicilia. Tutto questo, a nostro parere, si inquadra nei tentativi di dare una forma di organizzazione all’autonomia al sud. Ci furono anche due assemblee forti, una a Cosenza e una a Palermo dell’Autonomia meridionale, l’organizzazione è stata quella di Lanfranco Caminiti e Fiora Pirri, che non furono solo un tentativo di dare una breve vita a una forma di organizzazione, ma una spinta in temini di gesti esemplari, di forme. Dopo il 7 aprile, tra gli arresti e le perquisizioni, venne perquisita anche l’università di Cosenza con i militari di Dalla Chiesa che la misero a soqquadro, anche questo viene raccontato nella trilogia.
Quali spunti possiamo trarre da questi volumi per l’oggi, sia sul piano dell’agire che sull’analisi di fase?
Sono libri di storia, di memoria, uno degli spunti è quello di stare all’interno di composizioni spurie così come quelle che ha vissuto Napoli e il Mezzogiorno. C’è un pezzo di Alfonso Natella, il protagonista di Vogliamo Tutto che parla anche di Torino e ricostruisce la vita a Torino e la sua esperienza, poi c’è un pezzo teorico Dimenticare il Sud, uno di Francesco Caruso su il Sud Ribelle, uno di Giso Amendola su Sviluppo e Sottosviluppo, una conversazione tra Claudio Dionesalvi e Franco Piperno e poi Lanfranco Caminiti.
Tre quarti del volume riguarda il pezzo su Napoli che si chiama, in dialetto O Gliommero, “Il groviglio”, ossia il fertile groviglio dell’Autonomia napoletana, perchè si tratta di un miscuglio, di una composizione sociale spuria. Non avremo mai a che fare con composizioni che sulla carta sono quelle per cui i rapporti di produzione riescono ad avere un determinato intervento e poi politicizzandosi diventare classe per sé, ma l’importante è stare dentro quel tipo di composizione, con le sue contraddizioni e le sue ambivalenze, cercando di forzare degli elementi autonomi e di autorganizzazione, questo è l’insegnamento.
L’Autonomia oltre ad essere una categoria storica è anche una categoria personale ed è da questo che siamo partiti, da un punto di vista di indagine su quali potessero essere i frammenti di Autonomia non nei centri metropolitani ma nell’entroterra, cosa ben diversa. L’insegnamento è questo, da una parte la composizione di classe è sempre spuria e in secondo luogo bisogna lavorare come una talpa, anche nei periodi di reflusso, di pacificazione, di repressione come potrebbero sembrare questi, in cui tutti sono allineati in un quadro recostituito, ma ci sono dei fermenti su cui lavorare, soprattutto in composizioni spurie, ad esempio a Napoli, ci sono esperienze di sindacalizzazione dal basso che sono molto interessanti, che potrebbero somigliare alle lotte di quelli che negli anni 70 facevano i mille lavoretti o dei disoccupati organizzati, la rivendicazione era il lavoro ma un lavoro che non era caratterizzato da un’idea lavorista, perchè se la pensiamo in questi termini è ovvio che quella non è una lotta riconducibile all’Autonomia operaia, non era rifiuto del lavoro ma era lotta per il lavoro nei termini di lotta per il salario, per il reddito, non di delega o di chiedere elemosina alla DC o a qualche padroncino, al galantuomo come diceva Verga.
Si parlerà anche della Pantera, i volumi arrivano infatti al 93 – 94, fino al scioglimento di anti anti, negli anni 80 i compagni non sono stati con le braccia conserte, ci sono stati campeggi di lotta, le lotte antinucleari, le lotte del coordinamento, quello è stato un lavorio che poi ha portato a fenomeni che all’occasione sono esplosi.
Concludiamo cosi la prefazione: “L’Autonomia esiste anche senza autonomi – scriveva Lanfranco Caminiti – sta a noi incontrarla, proprio come all’inizio degli anni 60 i primi operai fecero al cospetto del migrante meridionale e della rude razza pagana, potendo affermare, davanti alle rivolte di Piazza Statuto, non ce l’aspettavamo ma le abbiamo organizzate.” Se si ha questa tensione ci sono buone speranze.
Pubblichiamo un estratto da Gli autonomi. L’Autonomia operaia meridionale. Parte prima. vol. X
Il film I contrabbandieri di Santa Lucia[1], interpretato da uno straripante Mario Merola è un B‑movie di culto e uno dei più noti fra quelli dedicati al contrabbando di sigarette. Nello stile a metà tra la classica sceneggiata e il «poliziottesco» in voga in quegli anni, la pellicola tratta il tema del conflitto fra la guapparia storica della città e le nuove mafie. Pur nei suoi tratti oleografici il film esce in un periodo di trasformazione profonda della malavita organizzata napoletana, di pari passo con la grande ristrutturazione del capitalismo internazionale del quale la vicenda del contrabbando è una chiave di lettura molto interessante. Il contrabbando è l’attività, fra quelle che hanno storicamente impegnato il proletariato napoletano, che più di tutte ha finito per costituire un elemento iconografico. Vera e propria «industria» sommersa, ha costituito un elemento centrale dell’economia della città, talmente radicato da divenire anche uno stigma, quasi un paradigma del carattere dei napoletani che, pur di non lavorare in maniera «regolare» si sarebbero inventati questa frode alle casse dello Stato.
Nella ricostruzione di parte borghese, inoltre, si sovrappone quasi sempre questa attività a quella della camorra, operando una forzatura che a un’attenta rilettura storica mostra chiaramente il suo carattere parziale. Il ruolo della camorra, infatti, va letto dentro il progressivo trasformarsi dell’economia generale che ovviamente determina anche un cambio di passo nella struttura e nei metodi della malavita ma non riassume l’intera vicenda che è molto più complessa di quella che si pretende di rappresentare attraverso la retorica della legalità, paravento dietro cui si nasconde la materialità di questo fenomeno, la sua funzione nell’economia del proletariato urbano e anche i processi di politicizzazione che al suo interno sono avvenuti.
Per comprendere a fondo la storia del contrabbando e il suo ruolo all’interno dell’economia e della vita sociale, politica e culturale di Napoli occorre guardare all’industrializzazione «monca» rispetto alle promesse di un certo meridionalismo che per decenni ha inseguito il mito dello sviluppo ma non ha mai trasformato Napoli in una vera città industriale[2], innescando trasformazioni della struttura urbana e di quella sociale senza mai toccare le contraddizioni sociali e anzi, sottolineandone i caratteri più controversi.
È questa la chiave di lettura attraverso cui leggere la trasformazione della camorra napoletana, da fenomeno malavitoso locale a elemento di primo piano dell’economia, al centro di relazioni internazionali e legami politici e imprenditoriali, proprio a partire dall’inizio degli anni Settanta, in concomitanza con il declino delle politiche di sviluppo del sud e dello stanziamento di fondi pubblici. All’interno di questo processo che solo formalmente, o nelle pie intenzioni dei meridionalisti più onesti, poteva costituire un elemento di riscatto per la città, una grande parte della popolazione cittadina, da quei processi espulsa o da essi mai interessata, ha costruito una propria struttura economica di cui il contrabbando è stato l’elemento sicuramente più importante, arrivando a fatturare migliaia di miliardi di lire. I libri contabili del ras Michele Zaza, sequestrati in un’operazione di polizia, svelano l’entità degli affari ammontanti nel ’77 a circa 5000 tonnellate annue, per un fatturato di circa 150 miliardi di lire, una struttura di tipo industriale che arrivava a contare fino a 50.000 «impiegati»[3].
Sono, questi, i numeri di un’impresa al culmine del suo periodo d’oro, fiorito tra il ’73 e il ’74, quando l’attività perde definitivamente il carattere originario, crescendo fino a diventare «la Fiat di Napoli» e arrivando a superare il volume di vendite del Monopolio di Stato.
Iniziato nel Dopoguerra, con la presenza delle truppe americane in città, in quartieri della zona orientale con una forte presenza operaia come S. Giovanni a Teduccio e Barra, il contrabbando non era in origine un’attività di esclusivo appannaggio della criminalità organizzata, come spesso viene raccontato e l’identificazione tout court con quel mondo è una narrazione delle classi dominanti[4].
Negli anni Sessanta Napoli assunse un ruolo centrale in questa attività, grazie alla sua posizione nel Mediterraneo, resa cruciale dalla chiusura del porto franco di Tangeri e lo spostamento dei depositi di sigarette sulle coste della Jugoslavia e dell’Albania o in territori «neutrali» come la Grecia e la Turchia, dove il commercio dipendeva da contrattazioni delegate a intermediari in contatto con le multinazionali. La presenza di capimafia siciliani in domicilio coatto a Napoli all’inizio degli anni Settanta produrrà una metamorfosi della vecchia malavita locale, con la quale alcuni capi camorra già impegnati nel settore verranno affiliati a Cosa Nostra, avviando un processo di evoluzione della «vecchia camorra». È proprio grazie a questo passaggio che il contrabbando passa a un modello imprenditoriale mafioso, incredibilmente più redditizio e feroce di cui negli anni Settanta le organizzazioni criminali locali assumono il controllo totale, trasformandolo in un’industria sulla cui struttura si svilupperà il business del narcotraffico.
In questa trasformazione è leggibile anche la metamorfosi della figura del contrabbandiere che da «lavoratore autonomo» diventa dipendente dei gruppi criminali che investono nell’acquisto della merce all’ingrosso, distribuendola poi a strutture cooperative costituite da gruppi di proprietari associati dei motoscafi, scafisti «professionisti», celebrati da canzoni e pellicole cinematografiche per gli epici inseguimenti con la Guardia di Finanza attraverso il Golfo, capi paranza che mediante un walkie talkie dirigono le operazioni di sbarco da terra dove marinai addetti allo scarico della merce provvedono al trasporto in luoghi sicuri e successivamente alla distribuzione a una rete di commercianti al dettaglio, dei quali è un’icona Sofia Loren nei panni di Adelina in Ieri, oggi e domani[5].
Il boom del contrabbando si verifica fra il 1970 e il 1973, quando un esercito di manodopera trova in questa attività la propria fonte di sostentamento e proprio le azioni di contrasto delle istituzioni, in realtà, in assenza di politiche economiche e sociali in grado di intervenire sulla difficile situazione sociale napoletana, forniscono un notevole impulso allo sviluppo di forme nuove di organizzazione del fenomeno operate dalla camorra. A tale proposito è utile considerare quello che accade con la Legge 359 del 14 agosto ’74, quando si estende la territorialità da sei a dodici miglia dalla costa. Prima di questa legge le navi che trasportavano le sigarette potevano arrivare, nelle acque internazionali, a una distanza che permetteva anche a gruppi di proletari autorganizzati di raggiungerle con piccole imbarcazioni. Con la Legge 359 cambia tutto, sono ben altri gli scafi necessari a raggiungere i carichi al largo e solo i mafiosi possono investire tanto, così quel commercio diventa un affare monopolizzato dai clan marsigliesi.
La vera svolta, la ristrutturazione capitalista del contrabbando è questa. L’attività si incrementa, negli anni successivi, in seguito all’allentamento della pressione poliziesca, sostenuta dalla Legge 724 del 1975 che depenalizza l’attività, una risposta dello Stato alle lotte sociali che puntava a consentire uno sfogo alla rabbia popolare, in mancanza di investimenti nel welfare. Anche Valenzi, sindaco del Pci, si espresse pubblicamente per un allentamento della pressione delle forze dell’ordine. Dopo il 1975, in concomitanza con la crescita del potere delle organizzazioni criminali si scatena una guerra fra i clan marsigliesi e la mafia siciliana per il controllo di questo ricco settore commerciale che va incontro a una ristrutturazione dentro la quale si inserisce il fiorente mercato degli stupefacenti che comincia a prendere spazio utilizzando proprio i canali distributivi della rete del contrabbando. Dal 1979 la pressione della Polizia ricomincia a diventare alta e solo le organizzazioni camorristiche, che dispongono di capitali e mezzi possono affrontare quella guerra con lo Stato che i piccoli contrabbandieri non possono sostenere[6]. In quel periodo la città viene investita dai primi scontri della guerra fra la camorra urbana e quella legata a Raffaele Cutolo che prova a monopolizzare il settore imponendo ai contrabbandieri una «tassa» sul fatturato.
I proletari fino ad allora impegnati nell’attività si trovano quindi sospesi fra lo Stato e la malavita che da sponde apparentemente opposte richiedono sottomissione, disciplina ed estrazione di plusvalore. In questa morsa fra la repressione statale e l’espansione della malavita organizzata nascono, dall’incontro con alcuni militanti politici attivi nei quartieri popolari della città, forme di soggettivazione che provarono a sottrarsi al binomio Stato/camorra, come il Collettivo autonomo contrabbandieri, nato a Forcella nel 1974, che annuncia una delle sue prime uscite pubbliche all’Università Federico II, con un volantino su cui si scrive:
Il contrabbando a Napoli permette a 50.000 famiglie di sopravvivere a stento. Da poco meno di un anno, oltre a chiudere i posti di lavoro, lo Stato e la Finanza hanno dichiarato guerra al contrabbando. Ci sparano addosso quando usciamo con i motoscafi blu. Il contrabbando non si tocca! Fino a quando non ci daranno un altro mezzo per vivere. Dobbiamo organizzarci ed essere uniti per difendere il nostro diritto alla vita. Riunione di tutti i contrabbandieri napoletani. Giovedì 15 alle ore 10 davanti all’Università di Scienze di via Mezzocannone 16 di fronte al Cinema Astra. Collettivo autonomo contrabbandieri[7].
Il collettivo lo fondarono alcuni compagni del Vomero che facevano i contrabbandieri. In quel periodo erano molti i comunisti napoletani che vivevano da «illegali» e quella esperienza, quindi, non nacque da «avanguardie esterne» ma all’interno del loro mondo. Tra il ’72 e il ’74 furono molte le trasformazioni della città che colpirono il proletariato napoletano per il quale le attività «illegali» avevano un ruolo importante. È chiaro che di fronte a quegli attacchi i compagni sentissero l’esigenza di organizzarsi. Quel collettivo è vissuto poco perché ha subito una repressione pazzesca, appena venne fuori la notizia quasi tutti i compagni furono arrestati ma è un errore analizzarne la portata politica solo alla luce della sua «durata». Noi spesso abbiamo un’idea retrò nei confronti di questi fenomeni, pensiamo che le strutture di movimento che nascono per un’esigenza debbano avere la stessa vita di un collettivo politico o di un partito ma non è così. La storia dei movimenti che nascono nei territori è quella che è, le strutture di movimento spontanee come questo collettivo possono anche durare poco ma quella che sopravvive è l’idea di fondo. Quello che resta è la valenza politica dell’illegalità organizzata e il suo ingresso dentro il processo rivoluzionario, la fine dell’idea di sottoproletariato come elemento marginale anche nel ragionamento dei compagni.
Il collettivo dura poco in termini temporali ma le lotte del colera nascono da lì, da un percorso politico che si era avviato in seno al proletariato e al sottoproletariato urbano che si organizza dentro la crisi. Bisogna, quindi, sempre rintracciare dentro queste vicende, gli elementi politici di base, le aperture sulle quali cambia il corso degli eventi storici più che la durata della singola esperienza. Nella vicenda dei contrabbandieri è possibile leggere molto delle contraddizioni che avvenivano a Napoli in quegli anni. Nel ’73, con il colera, lo Stato avvia una guerra ai proletari della città attaccandone il sostentamento economico che consisteva nella vendita per strada di generi alimentari, fra cui le cozze. La guerra al contrabbando è dello stesso segno. Dopo la Legge 359 i compagni fino a quel momento avevano avuto un ruolo importante in quel mondo, gli operai licenziati si mettevano insieme per comprare una barca ma dopo questa legge cambia tutto e finisce la struttura cooperativa dal basso che, pur senza teorizzazioni, era la modalità su cui era organizzata quell’attività. Alla fine il contrabbando muore per interessi diversi, una volta che si sono strutturati quei canali commerciali è più conveniente trasformarlo in circuito di droga e armi. Quella non è una vicenda di scontro fra mafiosi e Stato, anzi, è la storia di trasformazione in senso capitalista di un settore dell’economia dentro cui c’erano molti compagni e dentro quelle vicende va letta la storia del collettivo autonomo di contrabbandieri che nasce per lottare contro quell’aggressione del capitalismo alla vita dei proletari. La trasformazione imposta dal Capitale pesa sui territori perché distrugge strutture sociali ed economiche che si reggevano su quello. È lo Stato che le distrugge, attaccando i proletari del centro storico nella materialità delle loro fonti di sostentamento[8].
Note
[1]I contrabbandieri di S. Lucia, regia di A. Brescia, con M. Merola e A. Sabato. Prod. Atlas, Italia 1979.
[2] G. Mazzocchi – A. Villani (a cura di), Sulla città, oggi. La periferia metropolitana. Nodi e risposte, Franco Angeli, Milano 2004.
[3] F. Barbagallo, Il potere della camorra, Einaudi, Torino 1999.
[4] Si veda L. Manunza, Geografie dell’informe. Le nuove frontiere della globalizzazione. Etnografie da Tangeri, Napoli e Istanbul, Ombre Corte, Verona 2016.
[5]Ieri, oggi e domani, regia di V. De Sica, con M. Mastroianni e S. Loren, Prod. C. Ponti, 1963.
[6] I. Sales, La camorra, le camorre, Editori Riuniti, Roma 1988.
[7] Volantino del Collettivo Autonomo Contrabbandieri, 1974.
Ancora una anticipazione del racconto di uno dei protagonisti del volume X sull’autonomia operaia meridionale
“Piazza Medaglie d’Oro era il punto in cui confluivano, in maniera abbastanza disordinata, compagni di vario genere. Molti di loro provenivano da gruppi organizzati, come i compagni di Po, che a Napoli non aveva mai avuto un grande radicamento, o Lc. La piazza era un luogo che diventava centro di organizzazione informale della politica, in cui venivano costruite le mobilitazioni, soprattutto quelle antifasciste che in quegli anni erano uno degli elementi caratteristici della lotta a Napoli. Il Vomero era uno degli snodi più forti della presenza fascista a Napoli e mantenere quella piazza era fondamentale. Da quel posto sono partite nel corso de- gli anni una serie di azioni nelle quali le appartenenze alle organizzazioni sfumavano, non c’era una vera differenziazione. Anche buona parte dei compagni che avevano attraversato a vario titolo Lc, si aggregavano sempre di più nella pratica dell’antifascismo militante sulla base di ragionamenti che partivano dalla discussione che stava attraversando tutto il movimento sull’uso della violenza, a partire da quello che era successo nel ’73 in Cile. Da quel dibattito si aprì una grande discussione che covava in realtà sotto le ceneri da tempo, soprattutto fra i compagni inseriti nel servizio d’ordine di Lc. L’uso della forza e della violenza di massa era un tema da sempre sotto traccia, tanto è vero che tutti i nostri ragionamenti venivano poi arricchiti e quasi anticipati da alcuni episodi. Penso alla risposta di massa alla strage di Brescia che a Napoli fu enorme e trovò addirittura impreparati i servizi d’ordine delle varie organizzazioni. La gente che scese in piazza il giorno della manifestazione era molto più «attrezzata» e disposta allo scontro di quanto lo fossimo noi e si era dotata autonomamente di «materiali», in quella che fu un’azione antifascista di massa incredibile. Le strutture organizzate dovevano rincorrere quasi la gente che assaltava le sedi come quella della Cisnal a via de Gasperi dove, mentre provavamo a salire per le scale del palazzo vedevamo il mobilio degli uffici volare dalle finestre. Tra quella gente che ci aveva preceduto c’era di tutto, antifascisti di ogni provenienza. La violenza e la forza che il movimento era in grado di esprimere si manifestava davanti ai nostri occhi…”
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